martedì 11 settembre 2007

Il difensore non può estendere all'estero l'investigazione

In relazione alla inutilizzabilità delle investigazioni difensive deve rilevarsi che la stessa discende dai principi generali del codice di procedura penale e, pur non essendo esplicitamente affermato che il difensore non può recarsi all'estero a svolgere dette investigazioni, discende dall'ordinamento tale divieto, essendo evidente che, ai fini dell'utilizzabilità di atti compiuti all'estero, per tutte le parti processuali, deve essere esperita la procedura prevista dal codice in materia di rogatorie. Poichè non è prevista la possibilità per il difensore di ricorrere alla rogatoria all'estero, ne discende che tale tipo di atto non è esperibile dal difensore mediante la disciplina prevista dall'art. 391 bis c.p.p. ed egli ha l'obbligo di passare attraverso la richiesta al P.M. o al GIP, affinchè costoro attivino la procedura della rogatoria internazionale. D'altronde, tramite le indagini difensive non è esperibile ogni tipo di atto" il legislatore ha limitato l'oggetto delle indagini all'assunzione di dichiarazioni, alla richiesta di documentazione, all'accesso ai luoghi, ma ad esempio non ha previsto la possibilità di effettuare accertamenti tecnici irripetibili, in relazione ai quali il difensore ha l'obbligo di inoltrare richiesta al P.M..



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I PENALE

Sentenza 19 giugno 2007, n. 23967

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Il Tribunale del riesame di Trieste accoglieva parzialmente l'appello presentato avverso l'ordinanza del GIP della stessa città che aveva rigettato la richiesta di revoca delle misure cautelari in relazione ai reati di associazione a delinquere, riduzione in schiavitù, e contro il patrimonio. Rilevava che il procedimento aveva ad oggetto una vasta e complessa indagine condotta dalla DDA su un gruppo criminale che sfruttava soggetti di età minore, sottratti alle famiglie, privati della libertà personale e indotti a commettere furti. L'indagine aveva coinvolto famiglie provenienti da una zona delimitata della Bulgaria, appartenenti alla etnia rom. Le principali fonti di accusa erano costituite dalle dichiarazioni di A. S., che, dopo aver svelato alla P.G. l'esistenza di tali traffici, era stato utilizzato come infiltrato nell'organizzazione, dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, da documentazione acquisita in Bulgaria e dall'acquisizione degli atti relativi ai vari procedimenti incardinati in varie parti d'Italia, relativi ai reati contro il patrimonio commessi dai minori. Successivamente erano state acquisite le dichiarazioni di una minore, vittima dei reati, Z.G., che aveva trovato il coraggio di ribellarsi a coloro che la sfruttavano. Riteneva il Tribunale del riesame, che dalle dichiarazioni raccolte emergesse con evidenza la sussistenza del delitto di riduzione in schiavitù previsto dall'art. 600 c.p. sia per il metodo di reclutamento, addestramento e sfruttamento, sia per lo stato di soggezione continua in cui erano tenuti detti minori.

Rilevava ancora che i risultati delle investigazioni difensive prodotte, consistenti in dichiarazioni raccolte in Bulgaria dal difensore, fossero del tutto inutilizzabili perchè prive del crisma di legalità che ogni attività all'estero deve avere e cioè dell'uso dello strumento della rogatoria internazionale; inoltre le persone escusse erano tutte anche indagate nel presente procedimento, mentre il difensore si era limitato a chiedere loro se erano sotto processo, ricevendone risposta negativa, e procedendo alle domande senza il rispetto dell'art. 391 bis c.p.p., comma 5.

Tanto premesso il Tribunale rilevava che non sussistevano i gravi indizi del reato di riduzione in schiavitù, qualora fosse risultato che le vittime erano maggiorenni, mentre sussistevano per tutti gli altri . In particolare K. e P. da un lato e M. e Z. dall'altro risultavano essere custodi delle minorenni sfruttate, risultavano essere entrati insieme nel territorio italiano, pur non avendo tra loro alcun vincolo parentale, risultavano essere coloro che andavano a ritirare le minori, quando venivano fermate in occasione dei furti, e, infine, erano stati riconosciuti dal collaboratore S.. Quanto alle esigenze cautelari rilevava che sussistevano tutte quelle individuate dal GIP, cioè sia il pericolo per l'acquisizione della prova, visto lo stato di soggezione delle vittime, sia il pericolo di fuga, sia il pericolo di recidiva specifica. Contro la decisione presentavano ricorso tutti gli indagati e deducevano:

- erronea applicazione della norma sostanziale di cui all'art. 600 c.p., avendo ritenuto che qualora le vittime del reato fossero provatamente minorenni il reato sussisteva, mentre se erano maggiorenni non sussisteva; la minore età della vittima era solo un'aggravante del reato e non ne era un elemento costitutivo, per cui l'argomentazione utilizzata determinava la manifesta illogicità della decisione;

- mancanza di motivazione in relazione ai singoli capi di imputazione, soprattutto in relazione ai furti, essendosi limitata l'ordinanza a motivare sulla sussistenza dell'associazione a delinquere;

- mancata assunzione di una prova costituita dalla prova documentale della maggiore età delle presunte sfruttate, e dalla prova documentale della sussistenza di precisi legami familiari tra gli accusati, infatti K. e P. sarebbero madre e figlio e così M. e Z.;

- inosservanza di norme processuali, per aver dichiarato inutilizzabili i risultati delle investigazioni difensive, mentre l'art. 391 bis c.p.p. non poneva alcuna preclusione allo svolgimento di attività difensiva all'estero, la certificazione del difensore che l'atto era conforme al contenuto delle dichiarazioni acquisite faceva fede fino a querela di falso, non era previsto per i difensori l'accesso alla procedura della rogatoria, la mancanza di sanzioni per dichiarazioni mendaci nulla toglieva alla storicità dell'atto, non corrispondeva al vero che non si erano rispettate le formalità di cui all'art. 391 bis c.p.p., comma 5;

travisamento del fatto per aver ritenuto che già in relazione ad altre posizioni processuali era stato ravvisato il delitto associativo e nell'aver omesso di verificare in relazione ai singoli indagati se sussistevano i gravi indizi di colpevolezza, mancando completamente i riscontri costituiti dalle dichiarazioni delle presunte persone offese. La Corte ritiene che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili.

In relazione alla inutilizzabilità delle investigazioni difensive deve rilevarsi che la stessa discende dai principi generali del codice di procedura penale e, pur non essendo esplicitamente affermato che il difensore non può recarsi all'estero a svolgere dette investigazioni, discende dall'ordinamento tale divieto, essendo evidente che, ai fini dell'utilizzabilità di atti compiuti all'estero, per tutte le parti processuali, deve essere esperita la procedura prevista dal codice in materia di rogatorie. Poichè non è prevista la possibilità per il difensore di ricorrere alla rogatoria all'estero, ne discende che tale tipo di atto non è esperibile dal difensore mediante la disciplina prevista dall'art. 391 bis c.p.p. ed egli ha l'obbligo di passare attraverso la richiesta al P.M. o al GIP, affinchè costoro attivino la procedura della rogatoria internazionale. D'altronde, tramite le indagini difensive non è esperibile ogni tipo di atto" il legislatore ha limitato l'oggetto delle indagini all'assunzione di dichiarazioni, alla richiesta di documentazione, all'accesso ai luoghi, ma ad esempio non ha previsto la possibilità di effettuare accertamenti tecnici irripetibili, in relazione ai quali il difensore ha l'obbligo di inoltrare richiesta al P.M..

Gli altri motivi di ricorso contestano la ricostruzione degli elementi di fatto operata dal Tribunale del riesame e pertanto non sono consentiti in sede di legittimità. La contestazione inerente all'età delle persone offese è contraddittoria in quanto da un lato si considera errato il ragionamento effettuato dal Tribunale di considerare l'età delle persone offese scriminante, e dall'altro si chiede di valutare che anche altre persone offese sono maggiorenni.

In realtà l'ordinanza non si limita ad affermare che il reato sussiste solo nei confronti di persone minori, ma afferma che in caso di minorenni il reato risulta provato dalle modalità di sottrazione alle famiglie, dall'utilizzo per commettere furti con la garanzia dell'impunità, circostanze che nell'ipotesi di maggiorenni e nel caso che non siano provate attività di violenza fisica e psichica, impediscono di confermare i gravi indizi posti alla base della misura cautelare. Quanto alle prove dell'esistenza di legami familiari tra gli indagati si tratta di questioni di fatto che l'ordinanza ha escluso e pertanto non può essere ripresentata in sede di legittimità.

Infine contrariamente a quanto affermato nei motivi di ricorso i gravi indizi di reato a carico degli attuali indagati non sono individuati con un richiamo per relationem a un'ordinanza riguardanti altri indagati, ma tramite l'individuazione di precise fonti di prova, quali le dichiarazioni ed i riconoscimenti effettuati da S., i risultati delle intercettazioni e le dichiarazioni di una delle vittime e su tali elementi i motivi di ricorso sono aspecifici.

I ricorrenti devono essere condannati in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 500,00 alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 500,00 alla Cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi a cura della Cancelleria, copia del provvedimento al Direttore dell'Istituto Penitenziario ai sensi dell'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.


Così deciso in Roma, il 29 maggio 2007.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2007

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