martedì 22 maggio 2007

Sindaco, competente per scelte programmatiche, gestione tecnico operativa spetta al dirigente, in materia di rifiuti




al Sindaco competono le scelte programmatiche fondamentali in materia di rifiuti e l'adozione di provvedimenti di delega di funzioni; la gestione amministrativa del settore ed ogni ulteriore problema di carattere tecnico-operativo spetta al dirigente comunale.


al Sindaco compete, pure, di porre in essere i necessari atti di indirizzo e di mettere il delegato in condizione di adeguatamente operare; tali doverosi incombenti sono stati pretermessi come risulta dal testo del provvedimento impugnato. Nè è invocabile, nel caso in esame, il principio secondo il quale il controllo dell'organo elettivo e di governo è limitato alla verifica del corretto svolgimento degli obiettivi di programmazione generale perché una tale programmazione non è stata effettuata; né è applicabile la regola secondo la quale il Sindaco non deve interferire ed invadere le sfere di competenza dei delegati che, nei compiti di gestione loro affidati, operano in piena autonomia.









UDIENZA PUBBLICA DEL 21/02/2007
SENTENZA N. 00593 /2007
REG. GENERALE n. 034203/2006


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.:


Dott. PAPA ENRICO PRESIDENTE
1.Dott.CORDOVA AGOSTINO CONSIGLIERE REGISTRO GENERALE
2.Dott.SQUASSONI CLAUDIA
3.Dott.LOMBARDI ALFREDO MARIA
4.Dott.AMOROSO GIOVANNI


ha pronunciato la seguente


SENTENZA


sul ricorso proposto da :
1) xx avverso SENTENZA del 26/05/2006
TRIB. SEZ. DIST. di PAVULLO NEL FRIGNANO


visti gli atti, la sentenza ed il ricorso

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere SQUASSONI CLAUDIA
Udito il Procuratore Generale in persona del dott. G. Passacantando
che ha concluso per il rigetto del ricorso
Udito, per la parte civile, l'Avv. ///
Udit /difensor Avv. ///


MOTIVI DELLA DECISIONE


Con sentenza 26 maggio 2006, il Tribunale di Modena ha ritenuto xx responsabile del reato previsto dall'art.51 c.2 DLvo 22/1997 (per avere, nella sua qualità di Sindaco di Fiumalbo, lasciato in stato di abbandono, in modo incontrollato e senza autorizzazione, rifiuti urbani solidi in una area di proprietà del Comune) e lo ha condannato alla pena di giustizia.


A sostegno di tale conclusione, il Giudice ha ritenuto provato i fatti enucleati nel capo di imputazione e, cioè, che, nonostante varie diffide da parte dell'Arpa, l'imputato continuasse a tollerare il mantenimento dei rifiuti, provenienti dallo scarto quotidiano dei cittadini, su un sito senza cautele ed in assenza di provvedimenti autorizzatori o di ordinanze contingibili ed urgenti .Secondo quanto riferito da un teste, le modalità di gestione dei rifiuti erano state concordate tra il Sindaco ed il responsabile dell' aera tecnica.


Il Giudice non ha ritenuto non applicabile la scriminante di cui all'art.51 cp e ininfluente, ai fini di un esonero dalla responsabilità penale del Sindaco, una delega di funzioni in materia non avendo l'imputato compiuto i necessari atti di indirizzo né avendo messo l'ufficio delegato in condizione di operare adeguatamente.


Per l'annullamento della sentenza, l'imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo difetto di motivazione e violazione di legge, in particolare, rilevando:
=che il Giudice non ha considerato la L.142/1990 che distingue, all'interno degli Enti locali, "i poteri di indirizzo e di controllo", che incombono al Sindaco, e l'attività di "gestione amministrativa" che spetta ai dirigenti;
=che, in presenza di una apposita delega per la gestione dei rifiuti, non poteva rispondere delle eventuali violazioni commesse dal dirigente;

=che aveva adottato gli atti amministrativi necessari per fornire il paese di discarica realizzando una isola ecologica destinata alla raccolta dei rifiuti del territorio comunale (che è stata ultimata con ritardo per fatti a lui non imputabili);
= che il suo comportamento deve ritenersi scriminato per la causa di giustificazione dell'adempimento del dovere.


Le censure non sono meritevoli di accoglimento.


Il punto fondamentale della difesa dello imputato si incentra nella presenza di una valida delega di funzioni al dirigente comunale che, a suo dire, lo esonerava da responsabilità penali per le eventuali violazioni commesse dal preposto.


A sostegno del suo assunto, l'imputato cita l'art.107 D.L.vo 267/2000 (testo unico delle leggi sullo ordinamento degli enti locali) ,nel quale si compendiano le disposizioni dell'art.51 L.142/1990, che distingue tra poteri di indirizzo e di controllo politico- amministrativo (demandati agli organi di governo degli enti locali) e compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica (attribuiti ai dirigenti).


E' corretta la prospettazione che, in base a tale divisione, al Sindaco competevano le scelte programmatiche fondamentali in materia di rifiuti e l'adozione di provvedimenti di delega di funzioni; la gestione amministrativa del settore ed ogni ulteriore problema di carattere tecnico-operativo spettava al dirigente comunale.


Tuttavia, l'imputato dimentica come al Sindaco competesse, pure, di porre in essere i necessari atti di indirizzo e di mettere il delegato in condizione di adeguatamente operare; tali doverosi incombenti sono stati pretermessi come risulta dal testo del provvedimento impugnato. Nè è invocabile, nel caso in esame, il principio secondo il quale il controllo dell'organo elettivo e di governo è limitato alla verifica del corretto svolgimento degli obiettivi di programmazione generale perché una tale programmazione non è stata effettuata; né è applicabile la regola secondo la quale il Sindaco non deve interferire ed invadere le sfere di competenza dei delegati che, nei compiti di gestione loro affidati, operano in piena autonomia.


Ciò in quanto l'imputato era pienamente consapevole che lo smaltimento dei rifiuti nel suo territorio avveniva in violazione della legge ed era stato diffidato dalla Arpa dal mantenere la illecita situazione; inoltre, risulta che le modalità di gestione del sito erano state concordate dal Sindaco con il responsabile della area tecnica.


In tale contesto, è chiaro che la situazione antigiuridica non dipendeva dalla attività del preposto (che, comunque, essendo nota all'imputato imponeva un suo intervento per garantire il rispetto della legge con la riassunzione della originaria funzione delegata) ; la abusiva gestione dei rifiuti è stata direttamente disposta dal Sindaco.


La prospettata "necessità ineluttabile" di fare fronte allo smaltimento dei rifiuti, in attesa della realizzazione di una stazione ecologica, avrebbe dovuto essere risolta non violando la legge ,ma con la emanazione di ordinanze contingibili ed urgenti. L'art.13 D. L.vo 22/1997 era lo strumento che l'ordinamento riconosceva all'imputato come scriminante per la non rigorosa osservanza della legislazione in materia ; l'ordinanza avrebbe dovuto consentire forme straordinarie di smaltimento nel rispetto di misure precauzionali volte a tutela della ambiente e della salute.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Roma, 12 febbraio 2007

DIA, opposizione del confinante


La tutela dei terzi, che si oppongono ad intervento edilizio assentito a seguito di d.i.a., ha sempre presentato profili teorici problematici.

Secondo un orientamento, la d.i.a costituisce un atto soggettivamente ed oggettivamente privato che, in presenza di determinate condizioni e all’esito di una fattispecie a formazione complessa, attribuisce al privato una legittimazione ex lege allo svolgimento di una determinata attività, che sarebbe così liberalizzata.

Colui che si oppone all'intervento autorizzato tramite d.i.a., una volta decorso il termine senza l'esercizio del potere inibitorio, e nella persistenza del generale potere repressivo degli abusi edilizi, sarebbe legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-rifiuto, che pertanto non potrebbe avere come riferimento il potere inibitorio dell'Amministrazione - essendo decorso il relativo termine, con la conseguenza che il giudice non potrebbe costringere l'Amministrazione a esercitare un potere da cui è decaduta - bensì il generale potere sanzionatorio (Cons. Stato, IV, 22 luglio 2005, n. 3916).

Secondo altre tesi, la d.i.a. si tradurrebbe direttamente nell'autorizzazione implicita all'effettuazione dell'attività in virtù di una valutazione legale tipica, con la conseguenza che i terzi potrebbero agire innanzi al giudice per chiedere l'adempimento delle prestazioni che la p.a. avrebbe omesso di svolgere (T.A.R. Lombardia, Brescia, 1 giugno 2001, n. 397), o l'annullamento della determinazione formatasi in forma tacita (in tal senso: implicitamente, Cons. Stato, VI, 10 giugno 2003 n. 3265 e, espressamente, V, 20 gennaio 2003 n. 172; T.A.R. Veneto, sez. II, 20 giugno 2003, n. 3405) o comunque per contestare la realizzabilità dell'intervento (Cons. Stato, VI, 16 marzo 2005 n. 1093).

Secondo ulteriore orientamento il terzo sarebbe legittimato (entro il termine di decadenza) all'instaurazione di un giudizio di cognizione, tendente ad ottenere l'accertamento della insussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge per la legittima intrapresa dei lavori a seguito di d.i.a.( TAR Liguria; I, 22 gennaio 2003 n. 113 e TAR Abruzzo, Sez. Pescara, 23 gennaio 2003 n. 197).

Il Collegio ritiene che il ricorso proposto direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. sia ammissibile.

La d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione dell’attività, come da molti sostenuto, ma rappresenta una semplificazione procedimentale, che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo a seguito del decorso di un termine (30 giorni) dalla presentazione della denuncia; la liberalizzazione di determinate attività economiche è cosa diversa e presuppone che non sia necessaria la formazione di un titolo abilitativo.

Nel caso della d.i.a., con il decorso del termine si forma una autorizzazione implicita di natura provvedimentale, che può essere contestata dal terzo entro l’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, decorrenti dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a..

Il ricorso avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. ha, quindi, ad oggetto non il mancato esercizio dei poteri sanzionatori o di autotutela dell’amministrazione, ma direttamente l’assentibilità, o meno, dell’intervento.

Un sostegno in favore della diretta impugnazione della d.i.a.. è stato fornito dal legislatore, che ha modificato l’art. 19, della legge n. 241/90 (con l’art. 3 del D.L. 14 marzo 2005 n. 35, convertito dalla L. 14 maggio 2005 n. 80), prevedendo in relazione alla d.i.a.. il potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. Se è ammesso l’annullamento di ufficio, parimenti, e tanto più, deve essere consentita l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo.

Tale disposizione, pur non essendo temporalmente applicabile alla fattispecie in esame, può essere letta come riconoscimento da parte del legislatore della natura provvedimentale del titolo abilitativo che si forma in seguito ad una d.i.a..

Nello stesso senso sembrerebbe essersi orientato il legislatore già in precedenza: nel T.U. edilizia l'applicabilità degli artt. 38 (interventi eseguiti in base a permesso annullato) e 39 (annullamento del permesso di costruire da parte della Regione) è stata estesa anche agli interventi di cui all'art. 22, comma 3, assoggettati a d.i.a..

Resta fermo che la tutela del terzo controinteressato rispetto ad una d.i.a. non può essere certo costretta negli angusti limiti dell’eventuale esercizio del potere di autotutela da parte della p.a..

Come per qualsiasi atto amministrativo illegittimo, mentre il potere di autotutela dell’amministrazione è subordinato a determinati limiti, oggi codificati dall’art. 21-nonies della legge n. 241/90, alcun limite incontra l’intervento del giudice, diretto solamente ad accertare l’illegittimità dell’atto, e in questo caso del titolo abilitativo formatosi in seguito a d.i.a..

In caso di ricorso avverso la d.i.a. la decisione del giudice non può che travolgere l’assenso (implicito) comunale e gli effetti dell’attività illegittima, che costituiscono il contenuto reale della lite.

Del resto, l’esercizio del potere (anche in via implicita) con effetti favorevoli per il diretto interessato non può mai compromettere diritti e interessi dei terzi e la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 19, comma 5, legge n. 241/90) conferma la piena sindacabilità della d.i.a. e dei suoi effetti da parte del giudice.

Peraltro, queste considerazioni, valide per tutti gli interventi assoggettati a d.i.a., sono ancor di più riferibili alla d.i.a. edilizia, oggetto della presente controversia.

Il T.U. edilizia (d.P.R. n. 380/2001) prevede quali titoli abilitativi in materia edilizia il permesso di costruire e la d.i.a. e stabilisce anche che il confine tra i due titoli non sia fisso: le Regioni possono ampliare o ridurre l'ambito applicativo dei due titoli abilitativi, ferme restando le sanzioni penali (art. 22, comma 4) ed è comunque fatta salva la facoltà dell'interessato di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi assoggettati a d.i.a. (art. 22, comma 7).

Ciò significa che si tratta di titoli abilitativi di analoga natura, che si diversificano per il procedimento da seguire e comporta anche che sarebbe irragionevole, oltre che lesivo dell’effettività della tutela giurisdizionale, ritenere che il terzo controinteressato incontri limiti diversi a seconda del tipo di titolo abilitativo, che può dipendere da una scelta della parte o da una diversa normativa regionale.

E, invece, preferibile ritenere che il formarsi di un determinato titolo abilitativo, o di un altro, non comporti alcun cambiamento sotto il profilo della tutela del terzo e del conseguente intervento del giudice, in alcun modo limitato dalla decadenza del potere di intervento dell’amministrazione.

In definitiva, in caso di intervento assentito a seguito di d.i.a., è ammissibile il ricorso proposto direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi per il decorso del termine di trenta giorni, entro cui l’amministrazione può impedire gli effetti della d.i.a..

4. Chiarita l’ammissibilità del ricorso proposto in primo grado, deve essere verificata la tempestività dello stesso, tenuto conto delle censure mosse con il secondo motivo di appello.

Si è già detto che il termine per impugnare la d.i.a. decorre dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a..

In caso di d.i.a edilizia, infatti, il titolo abilitativo si forma decorsi trenta giorni dalla presentazione della d.i.a. per effetto del mancato esercizio dei poteri dell’amministrazione (art. 23, commi 1 e 6, d.P.R. n. 380/01 e artt. 10 e 11 della L.R. Emilia Romagna n. 31/2002).

Nel caso di specie, tuttavia, si trattava di intervento ricadente in zona paesaggisticamente vincolata e il termine di trenta giorni decorre dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ed ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti (art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380/2001).

Il Tar ha fatto applicazione dell’art. 10, comma 4, della L.R. n. 31/2002, secondo cui il termine di trenta giorni decorre dal rilascio dell’autorizzazione ovvero dall’eventuale decorso del termine per l’esercizio del poteri di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica.

La disposizione non è chiara e deve essere letta, in conformità con la richiamata norma del T.U. edilizia, nel senso che per il decorso del termine deve essere stata rilasciata l’autorizzazione paesaggistica e che l’eventuale annullamento di questa rende priva di effetti la d.i.a..

Ciò premesso, nel caso di specie, il termine per contestare la d.i.a. ha iniziato a decorrere alla scadenza del termine di 30 giorni decorrenti dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (3/5/04) e l’annullamento di tale autorizzazione da parte della Soprintendenza ha sospeso tale termine ma solo fino alla ordinanza cautelare di questa Sezione che in data 5/11/04 ha sospeso l’atto della Soprintendenza.

Essendo pacifica la conoscenza della d.i.a. da parte della ricorrente di primo grado, che ha anche impugnato l’autorizzazione paesaggistica, il ricorso avverso la d.i.a., notificato in data 28/12/2004 è tardivo.

5. In considerazione dei contrasti di giurisprudenza circa le modalità di impugnare la d.i.a. può anche essere concesso alla ricorrente di primo grado l’errore scusabile, ma ciò non muta l’esito del giudizio in quanto il ricorso è infondato nel merito.

Il Tar ha ritenuto che l’intervento in questione non potesse essere assoggettato a d.i.a., ma necessitasse del previo rilascio del permesso di costruire.

L’intervento in questione consistente nella realizzazione di due silos e di apparecchiature finalizzate alla produzione di traversine ferroviarie era, infatti, assoggettato a d.i.a. trattandosi di impianti tecnologici destinati al servizio di edifici ed attrezzature esistenti e che come tali rientrano nell’ipotesi di cui all’art. 8, comma 1, lett. i), della L.R. n. 31/2002.

Tale norma non limita l’applicabilità della d.i.a. alle dimensioni degli impianti da asservire a quelli esistenti e il fatto che si ricada in zona vincolata non muta il titolo abilitativo necessario, ma comporta la necessità della previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica.

Si trattava, quindi, di un intervento assentibile mediante d.i.a..

6. In conclusione, l’appello deve essere accolto e, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso proposto in primo grado.

Ricorrono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio.

P. Q. M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, previa riunione dei ricorsi indicati in epigrafe li accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado.

Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Onorari avvocato,liquidazione giudiziale,riduzione,motivazione



"il giudice che riduca l’ammontare complessivo di diritti ed onorari indicati nella nota prodotta dalle parti, ha l’obbligo d’indicare il criterio di liquidazione adottato, in modo da consentire il controllo di legittimità sulle variazioni effettuate"

Cassazione Sezione lavoro Sentenza 3 aprile 2007 n. ८२९५

Svolgimento del processo

La domanda proposta da Maria M. per il pagamento sia della indennità di disoccupazione agricola per l’anno 1995, in relazione ad un maggior numero di giornate lavorate in luogo di quelle riconosciutele dall’Inps, sia della differenza dell’assegno per il nucleo familiare ad agli accessori del credito, rigettata in primo grado, era accolta dalla Corte d’appello di Salerno con sentenza depositata il 10 settembre 2004.

La Corte territoriale compensava per metà le spese del doppio grado di giudizio, liquidandole, per intero e per ciascun grado, in complessivi euro 516,00, di cui euro 250,00 per onorari, con attribuzione all’avv. Felice A., antistatario.

Di questa sentenza la M. ha domandato la cassazione con ricorso basato su un motivo.

L’Inps ha depositato procura al difensore.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo la ricorrente denuncia, unitamente a vizio di motivazione, violazione e falsa applicazione dell’articolo 91 Cpc, dell’articolo unico della legge 1051/57, della tariffa adottata con delibera del Consiglio Nazionale Forense del 12 giugno 1993 e del 29 settembre 1994, approvata con Dm 585/94, Tabella B), dell’articolo 15 di detto Dm, nonché violazione e falsa applicazione del principio di inderogabilità degli onorari minimi di avvocato di cui all’articolo 24 legge 794/42. Erroneamente il giudice del gravame ha proceduto alla globale determinazione, inferiore a quella esposta nelle note spese, dei diritti di procuratore e dell’onorario di avvocato, così venendo meno all’onere della motivazione in ordine alla eliminazione o riduzione delle voci indicate e non consentendo di verificare alla parte l’accertamento della conformità della liquidazione effettuata a quanto risulta dagli atti, e alle tariffe, in relazione alla inderogabilità dei minimi tariffari. Aggiunge che malgrado la espressa richiesta non era stata riconosciuta la maggiorazione del dieci per cento per rimborso spese generali, ai sensi dell’articolo 15 Dm 5 ottobre 1994.

Il ricorso è fondato.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di liquidazione di spese processuali (v. fra le numerose sentenze, la 13085/06, la 8158/03, la 11483/02, la 5005/99, la 10864/98), il giudice che riduca l’ammontare complessivo di diritti ed onorari indicati nella nota prodotta dalle parti, ha l’obbligo d’indicare il criterio di liquidazione adottato, in modo da consentire il controllo di legittimità sulle variazioni effettuate, attesa l’inderogabilità dei compensi per le prestazioni di avvocato e procuratore sancita dall’articolo 24 legge 794/42.

In presenza di una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, il giudice, infatti, non può limitarsi ad una globale determinazione, in misure inferiori a quelle esposte, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione o della riduzione di voci da lui operata, allo ‑scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e alle tariffe, in relazione all’inderogabilità dei relativi minimi, a nonna del richiamato articolo 24.

Nella specie, il giudice di appello, dopo aver compensato per metà le spese di lite, a fronte delle note specifiche allegate, ove erano state specificate le voci dei diritti e gli onorari, rispettivamente in euro 766,91 e in euro 415,77 per il giudizio di primo grado, e in euro 952,15 e in euro 785,00 per quello di appello, ha liquidato per intero e per ciascun grado euro 516,00, di cui euro 250,00 per onorari, senza,indicare i criteri adottati nella liquìdazione ed i motivi in base ai quali ha ritenuto di escludere, talune voci e comunque di ridurre gli importi richìesti. In tal modo la Corte territoriale non si è attenuta ai principi di diritto innanzi esposti.

Relativamente alla statuizione di liquidazione delle spese processuali la sentenza impugnata deve essere cassata e non ricorrendo le condizioni per decidere nel merito ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., la causa va rinviata, per nuovo esame, alla stessa Corte di appello, in diversa composizione ‑ che uniformandosi al principio di diritto “Il giudice, nel procedere alla liquidazione delle spese processuali sostenute dalla parte vittoriosa, dei diritti di procuratore e degli onorari di di avvocato indicati nella relativa nota specifica, deve dare adeguata motivazione dell’eliminazione o della riduzione dì voci che effettua” ‑, dovrà determinare le competenze di procuratore e gli onorari, che in relazione alle note spese già prodotte dall’appellante, risultino dovuti per l’attività espletata,.

Il giudice di rinvio provvederà, inoltre, sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Salerno, in diversa composizione.

Così deciso in ROma il 23 gennaio 2007.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 3 aprile 2007.

Sequestro

La prima questione, pertanto, che si impone in via pregiudiziale su tutte le altre è quella della ricorribilità per Cassazione del predetto provvedimento; e sul punto vi è un consolidato indirizzo giurisprudenziale di questa Corte (Cassazione pen. sez. 2a, 26.02.2000 n. 679) che, con riferimento specifico ad ordinanze (quale è quella oggi impugnata) riguardanti richieste di dissequestro, ha affermato la regola interpretativa generale secondo la quale, e in forza del principio di tassatività delle impugnazioni (articolo 568 C.p.p.) avverso la decisione del giudice del dibattimento che aveva rigettato l'istanza di restituzione delle cose sequestrate è ammessa esclusivamente l'impugnazione insieme alla sentenza. Il legislatore non lascia dubbi, prevedendo espressamente che "quando non è diversamente stabilito dalla legge, l'impugnazione contro le ordinanze emesse nel corso del dibattimento, può essere proposta, a pena d'inammissibilità, soltanto l'impugnazione avverso le sentenze" (articolo 586, 1, C।p.p.).


E infatti, non sarebbe configurabile la ricorribilità per Cassazione di tale provvedimento in applicazione della disciplina del procedimento camerale prevista dall'articolo 127 C.p.p., in quanto l'articolo 263 C।p.p. - che regola la speciale procedura per la restituzione delle cose sequestrate - rinvia alle forme previste dal predetto articolo 127 soltanto in relazione alla fase delle indagini preliminari e non del giudizio: dove, instaurandosi un pieno contraddittorio, si obiettivizza una "plena cognitio".


Non è neppure esperibile l'incidente d'esecuzione come, impropriamente, è stato considerato in qualche lontana pronuncia della Cassazione in forza di non meglio specificate esigenze di analogia per la salvaguardia sostanziale dei diritti degli interessati in manifesta violazione di legge: perché lo stesso articolo 263 C.p.p. prevede questa procedura solo nell'ipotesi di "sentenza non più soggetta ad impugnazione".


sequestro probatorio – ordinanza del gip di rigetto di istanza volta al dissequestro - appello al tribunale del riesame – conversione in opposizione ex artt. 676 e 667 co. 4 c.p.P.

Trib. del Riesame di Napoli, VIII sez., Pres. Cariello, Est. D’Auria, ord. 23/10/2006, proc. n° 1456/2006 R.I.M.Caut.रेअली




Non comporta inammissibilità dell’impugnazione l’appello al Tribunale del Riesame avverso ordinanza reiettiva di istanza di revoca del sequestro probatorio, bensì esso va convertito, a norma dell’art. 568 co. 5 c.p.p., nell’opposizione innanzi al medesimo Organo Giurisdizionale prevista dagli artt. 676 e 667 co. 4 c.p.p.. Ed invero, nel caso di specie si verte in materia di sequestro probatorio atteso che il sequestro del compendio di bene nella disponibilità degli odierni ricorrenti ha natura probatoria e che mai detti beni sono stati sottoposti a sequestro preventivo ai sensi dell’art. 321 c.p.p., ciò che esclude la possibilità di esperire il mezzo di impugnazione previsto dall’art. 322 bis c.p.p. (così come ribadito dall’ordinanza n° 838 del 18/6/2004 della III sez. penale della Corte di Cassazione nella quale si è affermato che soltanto ...contro l’ordinanza in materia di sequestro preventivo ... è previsto appello al Tribunale del Riesame). D’altra parte, alla stregua del costante e condivisibile insegnamento della giurisprudenza di legittimità, avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di restituzione delle cose sottoposte a sequestro probatorio emesso dal giudice nel corso del giudizio di cognizione ai sensi dell’art 263 co. 1 c.p.p. è possibile esperire l’opposizione prevista per gli incidenti di esecuzione dall’art. 667 co. 4 cui fa rinvio l’art. 676 c.p.p.. Tale mezzo di impugnazione deve infatti essere esteso in via analogica, poichè l’esigenza di tutela sostanziale dei diritti degli interessati deve essere salvaguardata, anche in assenza di una esplicita previsione del legislatore, con la possibilità di proporre successivamente opposizione davanti allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento de plano (cfr. Cass. VI sez. pen., sente. n° 20296 del 24/5/1995). Per tali ragioni va ordinata la trasmissione degli atti della presente procedura di gravame al giudice competente a decidere su tale impugnazione ai sensi degli artt. 676 e 667 co. 4 c.p.p..

mercoledì 16 maggio 2007

Decoro urbano ed estetica, giustificato diniego di sanatoria edilizia


TAR Puglia-Lecce, sez. III, sentenza 06.04.2007 n° 1543


E' legittimo il diniego di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria nel caso in cui le opere realizzate senza titolo autorizzativo ledono l'estetica ed il decoro urbano.

Invero, il giudizio espresso dal Comune sull'opera oggetto della domanda di sanatoria, in ordine alla sua portata lesiva dell'estetica e del decoro dell'ambiente, attiene ad una valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione, censurabile dinanzi al giudice Amministrativo solo ove venisse riscontrata la sussistenza di evidenti e macroscopici vizi di irragionevolezza, incongruenza, illogicità e contraddittorietà che nel caso di specie difettano.

La sentenza, che qui si commenta, si pone tuttavia in evidente contrasto con il prevalente orientamento della giurisprudenza formatosi prima dell'entrata in vigore del T.U. dilizia, secondo la quale "è illegittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia per ragioni meramente estetiche" (cfr. fra tante C.d.S. sez. V, sentenza 4.11.04, n. 7142).



T.A.R.

Puglia - Lecce

Sezione III

Sentenza 6 aprile 2007, n. 1543

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

PER LA PUGLIA - LECCE

TERZA SEZIONE

nelle persone dei Signori:

MARCELLA COLOMBATI Presidente

LUIGI COSTANTINI Consigliere

SILVIO LOMAZZI Ref., relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella Camera di Consiglio del 22 febbraio 2007

Visto il ricorso 133/2006 proposto da:

A. R.

rappresentato e difeso da:

E. S. D.

con domicilio eletto in LECCE

VIA 95° RGT. FANTERIA, 9

contro

COMUNE DI LECCE

in persona del Sindaco pro tempore

rappresentato e difeso da:

LAURA ASTUTO e MARIA LUISA DE SALVO

con domicilio eletto in LECCE

presso il Municipio

e

CONDOMINIO C.

in persona dell'Amministratore pro tempore

rappresentato e difeso da:

PIETRO QUINTO

con domicilio eletto in LECCE

VIA GARIBALDI, 43

per l'annullamento,

previa sospensione, dell'atto n.119784 del 17 novembre 2005, di diniego di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria ex art.36 del D.P.R. n.380 del 2001, di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale, ivi compreso ove occorra della relazione istruttoria del 15 novembre 2005 nonché dell'ordinanza n.198 del 21 marzo 2006, notificata il successivo 29 marzo 2006, impugnata con motivi aggiunti, di rimozione delle opere abusive e di ripristino dello stato dei luoghi.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di:

COMUNE DI LECCE

CONDOMINIO C.

Visti i motivi aggiunti presentati dalla parte ricorrente;

Viste le memorie conclusive depositate dalle parti a sostegno delle rispettive ragioni;

Visti gli atti tutti di causa;

Udito il relatore Ref. Silvio Lomazzi e uditi, altresì, per la parte ricorrente l'Avv. Sticchi Damiani, per la parte controinteressata l'Avv. Antonio Quinto in sostituzione dell'Avv. Pietro Quinto e per l'Amministrazione resistente l'Avv. Astuto;

Rilevato in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

Il Sig. R. ha in locazione in Lecce, alla Via XXXXXX, nell'ambito del condominio C., un locale, di proprietà dei Sigg.ri A. e B., dove gestisce il pub "K.".

Con nota n.12367 del 31 gennaio 2005 l'Amministrazione locale comunicava al menzionato Sig. R. l'avvio del procedimento di rimozione dei pannelli di rivestimento ligneo apposti sulla facciata del locale in assenza di titolo autorizzativo, come accertato con previo sopralluogo del 19 novembre 2004.

Nota di analogo tenore veniva emessa in data 7 giugno 2005 ed indirizzata ai proprietari del locale.

Il 22 luglio 2005 il predetto conduttore, unitamente ai Sigg.ri A. e B., presentava in Comune una domanda volta al conseguimento di un permesso di costruire in sanatoria, ex art.36 del D.P.R. n.380 del 2001, riferito al rivestimento collocato sulla facciata del suindicato locale; ricevuto dall'Amministrazione un preavviso di diniego, ex art.10 bis della Legge n.241 del 1990, l'istante rinnovava la propria domanda in data 28 settembre 2005.

L'Autorità locale, con provvedimento del 17 novembre 2005, richiamando la propria relazione istruttoria del 15 novembre 2005, respingeva la citata richiesta perché l'opera abusiva, consistente nel rivestimento con pannelli lignei a vistose tinteggiature della facciata del locale, in violazione degli artt.95, comma 1 e 99, comma 7 del R.E.C., risultava lesiva dell'estetica e del decoro dell'ambiente circostante e perché l'istanza, riferita a lavori insistenti sulle parti comuni dell'edificio e non connessi con il normale uso degli stessi, era stata formulata senza l'assenso del condominio.

Pertanto il Sig. R. impugnava il cennato atto di diniego, censurandolo per violazione dell'art.1102 c.c. e dell'art.3 della Legge n.241 del 1990 nonché per eccesso di potere sotto i concorrenti profili dell'erronea presupposizione in fatto ed in diritto, della carenza di motivazione e di istruttoria, dell'illogicità ed irragionevolezza dell'azione amministrativa.

Il ricorrente, dopo aver premesso che il menzionato rivestimento ricopre solo in parte cose comuni e che la rimozione dei pannelli determinerebbe il cedimento dell'intera struttura ivi compresi i rivestimenti interni al locale, ha in particolare sostenuto di fare un utilizzo conforme a legge delle parti comuni dell'edificio interessate dal rivestimento in esame e che dunque, per la richiesta di sanatoria, non era necessario acquisire previamente l'assenso del condominio; che inoltre non risulterebbero lesi l'estetica ed il decoro dell'ambiente, atteso che l'opera in argomento si colloca in un contesto di fabbricati di recente fabbricazione e per di più all'interno di un porticato che la renderebbe non immediatamente visibile dalla sede stradale.

L'Autorità pubblica si costituiva in giudizio, deducendo nel merito l'infondatezza del ricorso e chiedendone la reiezione.

L'Amministrazione ha in particolare riaffermato la bontà delle ragioni poste a fondamento del gravato atto di diniego ed ha inoltre fatto presente che è in corso di verifica anche la legittimità dei rivestimenti degli altri locali similari a quello del ricorrente.

Parimenti si costituiva in giudizio il condominio C., in qualità di controinteressato, per il rigetto del ricorso.

In data 21 marzo 2006 il Comune emetteva ordinanza di rimozione delle opere abusive e di ripristino dello stato dei luoghi, rivolta ai proprietari ed al conduttore del locale.

Il Sig. R. impugnava pertanto con motivi aggiunti il cennato atto sanzionatorio, censurandolo per violazione dell'art.7 della Legge n.241 del 1990, per la mancata comunicazione di avvio del relativo procedimento nochè per eccesso di potere, per erronea presupposizione in diritto e per illegittimità derivata dal previo diniego di sanatoria.

Il Soggetto pubblico confermava gli assunti avverso il primo gravame e rilevava di aver provveduto a comunicare l'avvio del procedimento relativo alla suindicata ordinanza, in particolare con la nota del 31 gennaio 2005 indirizzata al ricorrente.

Contro i cennati motivi il condominio altresì ribadiva le osservazioni formulate avverso il ricorso originario, aggiungendo che la comunicazione di avvio del procedimento di rimozione era stata effettuata dall'Amministrazione con la nota del 31 gennaio 2005, che comunque trattavasi di atto vincolato, strettamente consequenziale al previo diniego di sanatoria e che in ogni caso il Comune, ex art.21 octies della Legge n.241 del 1990, aveva dimostrato che l'atto impugnato con motivi aggiunti non avrebbe potuto avere un contenuto diverso.

Nella camera di consiglio dell'8 giugno 2006 il Tribunale, con ordinanza n.647/06, accoglieva l'istanza cautelare riferita all'ordinanza di rimozione.

Con memorie conclusive la parte ricorrente e l'Amministrazione resistente riaffermavano le rispettive ragioni.

Nell'udienza del 22 febbraio 2007 la causa veniva discussa e quindi trattenuta in decisione.

DIRITTO

Il ricorso è infondato e va pertanto respinto nei termini che seguono.

In particolare, con riferimento al diniego di sanatoria, destituito di fondamento risulta il gravame nella parte in cui è indirizzato avverso la ragione di diniego inerente alla valutazione urbanistico-edilizia dell'intervento.

Invero il giudizio espresso dal Comune sull'opera oggetto della domanda di sanatoria, in ordine alla sua portata lesiva dell'estetica e del decoro dell'ambiente, attiene ad una valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione, censurabile nella presente sede solo ove venisse riscontrata la sussistenza di evidenti e macroscopici vizi di irragionevolezza, incongruenza, illogicità e contraddittorietà che nel caso di specie difettano.

Il Comune infatti rileva, come emerge anche dagli atti di causa, che nella sostituzione dei preesistenti serramenti in alluminio e vetro con i nuovi infissi in legno a tinte vivaci (cfr. anche la relazione tecnica al progetto e la documentazione fotografica allegata) risulta alterato il profilo della facciata.

Del resto lo stesso ricorrente ammette (cfr. memorie depositate in data 9 febbraio 2007 a pag.3) che l'allestimento della suddetta facciata appare ictu oculi "alternativo" rispetto al rivestimento marmoreo dell'intero porticato.

Inoltre risulta parimenti dalla documentazione versata agli atti ( tra l'altro nella camera di consiglio dell'8 giugno 2006) che il Comune sta verificando la legittimità dei rivestimenti delle facciate di altri locali similari a quello del ricorrente, intervenendo all'occorrenza per la rimozione degli abusi.

Resta assorbita per difetto di rilevanza la restante censura rivolta avverso l'ulteriore motivo di diniego attinente al mancato richiesto assenso del condominio sull'istanza di sanatoria.

Da rigettare perché infondati sono anche i motivi aggiunti avverso l'ordinanza di rimozione del 21 marzo 2006.

In particolare non sussiste il dedotto vizio di illegittimità derivata, avendo il Collegio ravvisato immune dalle censure dedotte una delle due ragioni su cui si fonda il presupposto diniego di sanatoria.

Neppure può essere condivisa la doglianza inerente alla asserita mancata comunicazione di avvio del procedimento relativo alla predetta ordinanza.

Invero, in disparte il fatto che una comunicazione era stata effettuata sia al conduttore che ai proprietari del locale in argomento, sia pure in epoca antecedente al presupposto diniego di sanatoria, rispettivamente in data 31 gennaio 2005 e 7 giugno 2005, giova far presente, nella prospettiva di una ormai affermatasi interpretazione sostanzialistica della normativa di riferimento, contenuta nella Legge n.241 del 1990, accentuatasi con le recenti modifiche ad essa apportate (cfr. in linea di principio TAR Puglia-Lecce, III, n.4649 del 2006), che l'interessato risultava comunque ben consapevole delle possibili conseguenze repressive della sua condotta, atteso che nelle motivazioni del predetto diniego di sanatoria era prefigurata la rimozione della struttura in pannelli.

E' fatta salva in ogni caso la possibilità per il ricorrente (prospettata dal medesimo nelle memorie depositate il 9 febbraio 2007 a pag.8) di richiedere al Comune di realizzare un intervento di minore impatto sulla facciata del locale.

In considerazione delle questioni trattate sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia-Lecce, Sezione Terza, definitivamente pronunciando, respinge il ricorso n.133/2006 indicato in epigrafe ed i relativi motivi aggiunti.

Compensa le spese di giudizio tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella Camera di Consiglio del 22 febbraio 2007.

Marcella COLOMBATI - Presidente

Silvio LOMAZZI - Estensore

Pubblicato mediante deposito in Segreteria in data 06 aprile 2007.

martedì 15 maggio 2007

Filiazione naturale, prevalenza della legge italiana sulla legge straniera contrastante con l'ordine pubblico internazionale


In tema di capacità di fare il riconoscimento del figlio,
disciplinata - in base alle norme del diritto internazionale privato
(art. 35, secondo comma, della legge 31 maggio 1995, n. 218) - dalla
legge nazionale del genitore, il principio di ordine pubblico
internazionale che riconosce il diritto alla acquisizione
dello "status" di figlio naturale a chiunque sia stato concepito,
indipendentemente dalla natura della relazione tra i genitori,
costituisce un limite generale all'applicazione della legge straniera
(nella specie, egiziana, recepente in materia di "statuto personale"
il diritto islamico) che, attribuendo all'uomo la paternità
unicamente nell'ipotesi in cui il figlio sia stato generato in
un "rapporto lecito", preclude al padre di riconoscere il figlio nato
da una relazione extra matrimoniale. In tal caso, stante la rilevata
contrarietà all'ordine pubblico internazionale della norma straniera
applicabile in base al sistema di diritto internazionale privato,
trova applicazione la corrispondente norma di diritto interno (art.
250 cod. civ.), la quale, in relazione alla capacità del padre di
addivenire al riconoscimento del figlio naturale, si sostituisce
integralmente alla norma straniera, ai sensi dell'art. 16, secondo
comma, della citata legge n. 218 del 1995.

Riferimenti normativi: Legge 31/05/1995 num. 218 art. 16
Legge 31/05/1995 num. 218 art. 17
Legge 31/05/1995 num. 218 art. 35
Costituzione art. 2
Costituzione art. 3
Costituzione art. 30

Massime precedenti Vedi: N. 1951 del 1999 Rv. 523930, N. 2878 del
2005 Rv. 579033, N. 23074 del 2005 Rv. 583900

Sez. 1, Sentenza n. 27592 del 2006

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente -
Dott. MORELLI Mario Rosario - Consigliere -
Dott. BONOMO Massimo - Consigliere -
Dott. GIULIANI Paolo - rel. Consigliere -
Dott. PANZANI Luciano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
R. D. V., elettivamente domiciliata in Roma, Via Città
della Pieve n. 19, presso lo studio degli Avv.ti BOTTIGLIERI Romilda
e MARTINO Claudio che la rappresentano e difendono, anche
disgiuntamente, in forza di procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
E. M. M. A.
- intimato -
avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, sezione per i
minorenni, n. 3387/2004 pronunciata il 4.5.2004 e pubblicata il
19.7.2004;
Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del
25.9.2006 dal Consigliere Dott. GIULIANI Paolo;
Udito il difensore della ricorrente;
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
UCCELLA Fulvio, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso in data 17.10.2001, E. M. M. A.,
premesso di avere intrattenuto nel 1997 una relazione con R.
D. V. dalla quale, il 10.5.1998, era nata la figlia
F., riconosciuta dalla sola madre, chiedeva al Tribunale per i
Minorenni di Roma di dichiarare l'ammissibilità dell'azione per
l'accertamento giudiziale della paternità che intendeva proporre nei
confronti della minore, avendogli la Ramos Davila impedito il
riconoscimento.
Radicatosi il contraddittorio, quest'ultima, dopo avere eccepito che
la domanda proposta dall'E. M. era da qualificare in
termini di istanza ai sensi dell'art. 250 c.c., comma 2, deduceva la
necessità di acquisire la legislazione peruviana ed egiziana in
materia di riconoscimento di figlio naturale, essendo la minore e la
madre cittadine peruviane ed il ricorrente cittadino egiziano.
Acquisita la suddetta documentazione, il Tribunale adito, con
ordinanza in data 23.9.2003, dopo avere affermato che la legislazione
egiziana attribuiva al ricorrente la capacità di effettuare il
riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio, rimetteva la
causa in istruttoria per l'ulteriore corso.
Avverso tale ordinanza, con due distinti atti qualificati come
reclami, proponeva impugnazione la R. .chiedendo che la
Corte di Appello capitolina, in riforma del provvedimento gravato,
assunto sulla base di una erronea interpretazione della legislazione
egiziana in materia, accertasse l'incapacità del ricorrente di
riconoscere la minore, dichiarando, per l'effetto, inammissibile il
ricorso proposto dall'E. M..
Resisteva nel grado quest'ultimo, preliminarmente eccependo
l'inammissibilità dei reclami per essere stati proposti avverso un
provvedimento non definitivo e carente di contenuto decisorio, nonché
oltre il termine di dieci giorni previsto dall'art. 739 c.p.c..
Riuniti i due procedimenti, la Corte territoriale di Roma, nella sua
specializzata composizione per i minorenni, con sentenza in data
4.5/19.7.2004, confermava il provvedimento reso dal primo Giudice,
assumendo:
a) che l'azione esperita dall'E. M dovesse essere
qualificata come azione ex art. 250 c.c., comma 4, diretta ad
ottenere una pronuncia sostitutiva del consenso dell'altro genitore
al fine di procedere al riconoscimento della figlia naturale;
b) che il provvedimento impugnato, seppure denominato "ordinanza" dal
Tribunale minorile, contenesse una statuizione in merito alla
contestata capacità del ricorrente di riconoscere la figlia medesima,
onde tale Giudice aveva, in realtà, emesso una sentenza non
definitiva su una questione preliminare del giudizio;
c) che fossero, quindi, infondate le eccezioni, sollevate
dall'Elgamal Mahamoud, relative alla pretesa inammissibilità delle
impugnazioni esperite dalla Ramos Davila;
d) che, nel merito, non potesse trovare conferma la motivazione che
aveva indotto il Tribunale per i Minorenni a riconoscere la capacità
dello stesso E. M. di effettuare il riconoscimento della
figlia naturale F., dichiaratamente nata da una relazione
adulterina intrattenuta dall'appellato, coniugato con altra donna,
con la R. D., dal momento che il diritto egiziano, applicabile
al fine di valutare la capacità del ricorrente, cittadino di quello
Stato, ai sensi dell'art. 35, comma 2, della L. n. 218 del 1995,
attribuisce all'uomo la paternità unicamente nell'ipotesi in cui il
figlio sia stato generato in un rapporto lecito, non conoscendo la
differenza tra figlio legittimo e figlio naturale ed attribuendo lo
stato di figlio soltanto al primo, non già al secondo;
e) che, tuttavia, si dovesse egualmente giungere all'affermazione di
capacità del ricorrente, nel senso che una norma straniera la quale,
pur applicabile al caso concreto, neghi giuridicità ad una qualunque
specie di filiazione e non attribuisca al padre naturale alcuna
azione per far valere il suo diritto di paternità appunto, contrasta
con l'ordine pubblico internazionale e, segnatamente, con i principi
fondamentali che riguardano la persona nell'ordinamento italiano,
onde la necessità di far capo alla corrispondente norma del diritto
interno (art. 250 c.c.) che, in relazione all'aspetto normativo in
esame (capacità di riconoscimento da parte del ricorrente), si
sostituisce integralmente alla legge straniera ai sensi della già
richiamata L. n. 218 del 1995, art. 16, comma 2.
Avverso tale sentenza, ricorre per Cassazione la R. D.,
deducendo due motivi di gravame ai quali non resiste l'E.
M.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i due motivi sopraindicati, del cui esame congiunto si palesa la
necessità in ragione della stessa illustrazione unitaria che ne ha
fatto la ricorrente, lamenta quest'ultima violazione e falsa
applicazione, sotto più profili, della L. 31 maggio 1995, n. 218,
art. 35, nonché motivazione contraddittoria e comunque assolutamente
insufficiente su un punto decisivo della controversia, in relazione
all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, assumendo:
a) che la disposizione di cui alla richiamata L. n. 218 del 1995,
art. 35, comma 2, là dove prevede che "La capacità del genitore di
fare il riconoscimento è regolata dalla sua legge nazionale", opera
un rinvio generale alla normativa del paese di appartenenza del
soggetto che intende fare il riconoscimento, rinvio che, pertanto,
non incontra il limite dell'ordine pubblico interno, dacché,
altrimenti, il legislatore avrebbe operato una scelta assai
differente, individuando nel diritto italiano, anche per lo
straniero, la norma regolatrice della capacità di fare il
riconoscimento;
b) che evidente, dunque, è la violazione e falsa applicazione della
L. n. 218 del 1995, art. 35, comma 2, a torto ritenuto nella specie
inapplicabile in quanto (erroneamente) ritenuto soggetto al limite
dell'ordine pubblico;
c) che parimenti evidente, sotto questo profilo, è il distinto vizio
di motivazione insufficiente, in quanto l'applicabilità alla
fattispecie del diritto egiziano, doverosa in forza del rinvio
operato dal già menzionato art. 35, è stata viceversa esclusa sol
perché in contrasto con l'ordine pubblico nazionale, laddove giammai
avrebbe potuto costituire un limite all'applicazione dell'unica
normativa che, nella specie, il Giudice italiano era ed è tenuto ad
applicare;
d) che la violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995,
art. 35 menzionato, appare sotto distinto profilo tenuto conto che,
contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, non può
dirsi esistente, nel nostro ordinamento, un principio di ordine
pubblico secondo cui è consentito, sempre e comunque, a chi assuma di
essere padre di taluno di agire in giudizio per conseguire il
relativo riconoscimento;
e) che, in base al diritto vivente, infatti, la legittimazione
all'azione di riconoscimento della paternità non è assoluta, ma è
comunque sempre subordinata ad una verifica che, sempre ed in ogni
caso, ha ad oggetto l'interesse del minore e che, in alcune ipotesi
(art. 251 c.c.), è esclusa del tutto;
f) che, se il legislatore italiano ha fissato limiti non soltanto
riconducibili alla valutazione dell'interesse del minore, ma anche
alla particolare situazione in cui il figlio è nato (il caso dei
figli incestuosi), non può affermarsi l'esistenza, nel nostro
ordinamento, di un principio di ordine pubblico in forza del quale
sia poi consentito eludere, per asserita contrarietà a detto
principio, l'applicazione di una norma di altro ordinamento che, a
propria volta, sulla base di canoni e criteri propri di tale
ordinamento, abbia compiuto una autonoma valutazione ed escluso, per
altra categoria di persone, la possibilità di agire per il
riconoscimento;
g) che, peraltro, il riferimento del nostro ordinamento ai figli
incestuosi sembra, in certo modo, assimilabile alla "relazione
illecita" che, nel diritto egiziano, esclude la possibilità di fare
il riconoscimento;
h) che la decisione impugnata ha, dunque, a torto, ritenuto
sussistente un principio di ordine pubblico nel nostro ordinamento
(secondo cui solo una normativa straniera che consenta il
riconoscimento risulterebbe applicabile), il quale sarebbe di
ostacolo alla diretta applicabilità della legislazione egiziana che
esclude la possibilità di riconoscimento per i figli nati da una
relazione adulterina, laddove il mero richiamo all'ordine pubblico
(nei termini sopra individuati, senza tenere conto del completo
assetto normativo in tema di riconoscimento di figli naturali, come
dianzi richiamato) si palesa affetto altresì dal vizio di
insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia;
i) che la L. n. 218 del 1995, art. 35, comma 2, là dove stabilisce
che la capacità del genitore di fare il riconoscimento è regolata
dalla sua legge nazionale, è una norma speciale la quale deroga a
quella generale e vale contro la mera giurisprudenza, onde, anche se
si potesse affermare che, in linea generale, il diritto di agire per
il riconoscimento di un figlio è, nel nostro ordinamento, un
principio di ordine pubblico, si dovrebbe comunque riconoscere che il
diritto, per uno straniero, di agire ai fini del riconoscimento di un
figlio in Italia è sempre sottomesso alla di lui capacità giuridica,
trattandosi di questione di stato personale per la quale la legge
dello straniero prevale senz'altro su quella italiana e non può,
quindi, produrre effetti contrari all'ordine pubblico che si
evidenzierebbero proprio per il fatto che non statuire secondo la
legge personale contraddice il principio, questo certamente di ordine
pubblico, per cui in materia di stato si segue la legge della persona.
I due motivi non sono fondati.
Per quanto attiene, innanzi tutto, ai profili di doglianza meglio
illustrati sotto le lettere "a", "b", "e" ed "i" che precedono, giova
premettere come la Corte territoriale, con altrettanti apprezzamenti
di per sè incensurati, abbia ritenuto:
a) che "l'azione introdotta da E.M. deve essere
qualificata...come azione ex art. 250 c.c., comma 4, diretta ad
ottenere una pronuncia sostitutiva del consenso dell'altro genitore,
al fine di procedere al riconoscimento del figlio naturale";
b) che "il provvedimento impugnato...contiene una statuizione in
merito alla contestata capacità del ricorrente di riconoscere il
figlio naturale...e pertanto deve essere necessariamente qualificato
come sentenza non definiti va...(avendo) il Tribunale...emesso una
pronuncia (non definitiva appunto) sul merito di una questione
preliminare del giudizio";
c) che, nel merito del gravame, "ai sensi della L. 31 maggio 1995, n.
218, art. 34 (rectius 35) la capacità del genitore di fare il
riconoscimento è regolata dalla sua legge nazionale", (onde), nella
specie, al fine di valutare la capacità del ricorrente, cittadino
egiziano, si deve fare ricorso alla legislazione egiziana". Posto,
dunque, che, sulla base dei riferiti (ed incensurati) apprezzamenti,
è da ritenere (definitivamente) accertato come la materia controversa
risulti attinente "alla contestata capacità" dell'odierno intimato di
effettuare il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio e
come, al riguardo, essendo egli cittadino egiziano, occorra "fare
ricorso alla legislazione egiziana", ai sensi del disposto della L.
31 maggio 1995, n. 218, art. 35, comma 2 ("La capacità del genitore
di fare il riconoscimento è regolata dalla sua legge nazionale"), si
osserva che il citato art. 35 figura compreso nel Capo 4^ ("Rapporti
di famiglia") del Titolo 3^ ("Diritto applicabile") della L. n. 218
del 1995, il quale contiene un Capo 1^ ("Disposizioni generali") in
cui trovasi l'art. 16 che, sotto la rubrica "Ordine pubblico",
recita, al comma 1, "La legge straniera non è applicata se i suoi
effetti sono contrari all'ordine pubblico" e, al comma 2, "In tal
caso si applica la legge richiamata mediante altri criteri di
collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi
normativa. In mancanza si applica la legge italiana". Appare, perciò,
indubitabile che la "disposizione generale" di cui al richiamato art.
16, lungi dal venire "derogata" (così come erroneamente assume
l'odierna ricorrente) dalle disposizioni particolari, del tipo di
quella dettata dal pure menzionato art. 35, contenute nei successivi
capi (dal 2^ all'11) del Titolo 3^ della L. n. 218 del 1995, trova,
invece, diretta ed immediata applicazione a queste ultime, secondo
quanto induce altresì a credere:
a) il fatto che la stessa L. n. 218/1995, attraverso il successivo
art. 17, parimenti compreso nel Capo 1^ del Titolo 3^, impone un
ulteriore limite al funzionamento delle norme di conflitto ed alla
relativa applicazione della legge straniera alle situazioni o ai
rapporti che presentano elementi di internazionalità, rappresentato
dalle "norme di applicazione necessaria" ("È fatta salva la
prevalenza sulle disposizioni che seguono delle norme italiane che,
in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere
applicate nonostante il richiamo alla legge straniera"), le quali,
sulla base dell'elaborazione compiuta al riguardo dalla dottrina,
costituiscono norme di ordine pubblico "interno" che opera come
limite appunto al riconoscimento del diritto straniero per effetto
della funzione sua propria di imporre l'applicazione del diritto
nazionale (distinguendosi dall'ordine pubblico internazionale, che ha
per funzione sua propria, caratteristica e diretta, di limitare il
riconoscimento del diritto straniero, ma è costituito soltanto da
principi informatori) e la cui individuazione (così, ad esempio in
materia di previdenze contributive, fra le quali la tredicesima
mensilità e l'indennità di anzianità; in materia di scioglimento del
matrimonio, L. n. 898 del 1970, ex art. 3, n. 2, lettera "e",; in
materia di adozione, L. n. 184 del 1983, ex art. 37, ora art. 37 bis
a seguito della novella introdotta dalla L. n. 149 del 2001) rende
superflua, in via preliminare, ogni indagine sulla legge straniera
competente in base al diritto internazionale privato, nel senso,
cioè, che disposizioni imperative interne, le quali sono dirette a
perseguire obiettivi di particolare importanza per lo Stato che le ha
emanate, trovano una loro espressa sfera di applicazione (attraverso
un criterio "unilaterale") alle fattispecie da esse stesse previste
anche quando il rapporto giuridico sul quale incidono è sottoposto ad
un ordinamento straniero, in deroga a quanto stabilito dal criterio
di collegamento "bilaterale" adottato in genere dalle norme di
conflitto, sovrapponendosi ai risultati del funzionamento del diritto
internazionale privato ed al processo di applicazione del diritto
straniero che ne consegue, onde, in presenza di simili fattispecie,
il giudice deve porre in disparte la regola di conflitto competente e
fare spazio alla norma di applicazione necessaria nei limiti che essa
stabilisce, i quali possono essere esplicitati nella norma medesima
oppure risultare dal richiamo di una serie di altre norme del foro
cui viene attribuita la precedenza rispetto al gioco delle medesime
norme di conflitto;
b) il fatto che già il testo dell'art. 31 preleggi, corrispondente
all'attuale L. n. 218 del 1995, art. 16, ed in vigore anteriormente
all'abrogazione, con effetto dal 1.9.1995, di cui al combinato
disposto della stessa L. n. 218 del 1995, artt. 73 e 74, stabiliva,
mediante una previsione "di chiusura" a carattere
evidentemente "generale" siccome relativa a tutte le norme di diritto
internazionale privato all'epoca esistenti, che, "Nonostante le
disposizioni degli articoli precedenti (dal 17 al 30), in nessun caso
le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamenti e gli atti
di qualunque istituzione o ente, o le private disposizioni e
convenzioni possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando
siano contrari all'ordine pubblico o al buon costume";
c) il fatto che anche la dottrina può dirsi concorde nel ritenere che
l'ordine pubblico di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 6, il quale è
quello che tradizionalmente si suole definire come ordine
pubblico "internazionale", per distinguerlo dall'ordine
pubblico "interno" che, nelle fattispecie in cui il rapporto è
soggetto alla legge italiana, costituisce un limite all'autonomia
negoziale dei privati (artt. 1343 e 1418 c.c.), risulti formato da
quell'insieme di principi, desumibili dalla Carta Costituzionale o,
comunque, pur non trovando in essa collocazione, fondanti l'intero
assetto ordinamentale siccome immanenti ai più importanti istituti
giuridici quali risultano dal complesso delle norme inderogabili
provviste del carattere di fondamentalità che le distingue dal più
ampio genere delle norme imperative, tali da caratterizzare
l'atteggiamento dell'ordinamento stesso in un determinato momento
storico e da formare il cardine della struttura etica, sociale ed
economica della comunità nazionale conferendole una ben individuata
ed inconfondibile fisionomia (Cass. 13 dicembre 1999, n. 13928; Cass.
6 dicembre 2002, n. 17349; Cass. 26 novembre 2004, n. 22332; Cass. 7
dicembre 2005, n. 26976; Cass. 23 febbraio 2006, n. 4040), i quali
devono essere rispettati "sempre", anche se il rapporto è sottoposto
ad una legge straniera, costituendo il limite "generale"
all'applicazione di detta legge conseguente al normale funzionamento
delle norme di diritto internazionale privato ed avendo la funzione
di evitare l'inserimento nel diritto interno di valori giuridici,
stranieri appunto, in contrasto con i principi fondamentali del
nostro ordinamento.
Per quanto, poi, attiene all'ulteriore profilo di censura relativo
alla pretesa inesistenza di un principio di ordine pubblico secondo
cui debba ritenersi consentito, sempre e comunque, a chi assuma di
essere padre di taluno di agire in giudizio per conseguire il
relativo riconoscimento e che, nella specie, sarebbe di ostacolo alla
diretta applicabilità della normativa egiziana la quale esclude,
invece, la possibilità di riconoscimento per i figli nati da una
relazione adulterina, laddove solo una normativa straniera che
consenta il riconoscimento medesimo sarebbe applicabile nel nostro
ordinamento, giova premettere come la Corte territoriale, con
apprezzamento di per sè incensurato, abbia ritenuto:
a) che la legislazione egiziana, cui, come si è visto, occorre fare
riferimento al fine di valutare la capacità dell'odierno intimato
(cittadino egiziano appunto) di fare il riconoscimento del figlio
naturale frutto della relazione dallo stesso intrattenuta con la
Ramos Davila, recependo in materia di "statuto personale" (con tale
espressione intendendosi l'insieme di regole che disciplinano la
materia familiare e successoria) il diritto islamico, attribuisce
all'uomo la paternità unicamente nell'ipotesi in cui il figlio sia
stato generato in un rapporto lecito, ovvero nel matrimonio o in
regime di concubinato legale (istituto però abrogato dal 1923), là
dove il riconoscimento poteva essere effettuato nei confronti del
figlio nato dalla schiava;
b) che il diritto egiziano non conosce la differenza tra figlio
legittimo e figlio naturale, riconoscendo lo stato di figlio soltanto
al figlio legittimo;
c) che, alla luce di tali considerazioni, non può essere confermata
la motivazione che ha indotto il Tribunale minorile a riconoscere la
capacità dell'E. di effettuare il riconoscimento della figlia
naturale F., nata pacificamente e dichiaratamente da una
relazione adulterina (e come tale illecita) intrattenuta
dall'appellante - coniugato con altra donna - con la R. D.
Malgrado quest'ultima premessa, detto Giudice ha, tuttavia, ritenuto
che si debba egualmente giungere alla affermazione di capacità
dell'odierno intimato, pur se attraverso un diverso iter
motivazionale ed, in particolare, mediante l'esame della
compatibilità con l'ordine pubblico di una norma straniera in forza
della quale al padre naturale non è riconosciuta alcuna azione per
far valere il suo diritto di paternità, addivenendo, così,
all'accertamento circa "la contrarietà all'ordine pubblico
internazionale della norma straniera applicabile al caso concreto" ed
al consequenziale riconoscimento della necessità di far capo alla
corrispondente norma di diritto interno (art. 250 c.c.) la quale, in
relazione all'aspetto normativo in esame (capacità di riconoscimento
del medesimo intimato), si sostituisce integralmente alla norma
straniera L. n. 218 del 1995, ex art. 6, comma 2.
Una simile conclusione non soggiace alle censure dedotte dalla
ricorrente e merita, invece, di essere pienamente condivisa. Al
riguardo, giova subito notare come questa stessa Corte, chiamata ad
apprezzare, in altra analoga fattispecie, la compatibilità con
l'ordine pubblico internazionale del diritto marocchino e musulmano
che non conoscono l'istituto del riconoscimento del rapporto di
filiazione naturale, abbia, quindi, ritenuto, nella sentenza n. 1951
dell'8 marzo 1999, "che una norma che si ispira ad un rifiuto
assoluto di protezione della filiazione naturale, della quale esclude
ogni rilievo, se non al fine di determinare addirittura una
conseguenza sanzionatoria nei confronti del genitore, non possa
essere inserita nel nostro ordinamento, per contrasto con un
principio di ordine pubblico internazionale italiano, che alla
filiazione naturale assegna comunque rilievo e tutela". Più in
particolare, si è in quella sede precisato che "il nostro ordinamento
riconnette al fatto della procreazione la posizione di figlio ed il
relativo status, a tutela di una fondamentale esigenza della persona"
dalla quale deriva il diritto alla affermazione pubblica di tale
posizione (laddove) l'evoluzione dell'istituto verso la parificazione
con la posizione del figlio legittimo consente di riportare lo stato
di figlio ad un concetto unitario, dentro il quale si specificano le
ulteriori indicazioni di figlio naturale e di figlio legittimo
(onde), se per l'ingresso di una normativa straniera sulla materia
non è certo richiesto che essa riproduca una tale parificazione di
posizioni e di tutela, contrastano tuttavia con i principi
fondamentali che riguardano la persona nel nostro ordinamento le
regole che negano giuridicità ad una qualunque specie di filiazione".
Da simili argomentazioni, ritenute meritevoli di integrale conferma,
il Collegio odierno non stima di doversi discostare, essendo, semmai,
in relazione alle specifiche censure dedotte dall'attuale ricorrente,
opportuno aggiungere:
a) che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il
riconoscimento del figlio naturale minore infrasedicenne, già
riconosciuto da un genitore, costituisce un diritto soggettivo
primario dell'altro genitore, garantito dall'art. 30 Cost., commi 1 e
3, entro i limiti stabiliti dalla legge (art. 250 c.c., comma 4), cui
la Costituzione medesima rinvia, il quale non si pone in termini di
contrapposizione con l'interesse del minore, ma come misura ed
elemento di definizione del medesimo, segnato dal complesso dei
diritti che al minore stesso derivano dal riconoscimento ed, in
particolare, dal diritto di quest'ultimo all'identità personale nella
sua integrale e precisa dimensione, inteso come diritto ad una
genitorialità piena e non dimidiata, onde tale secondo
riconoscimento, là dove vi sia contrapposizione dell'altro genitore
che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato,
anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del
fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa esecutiva in
Italia con la L. 27 maggio 1991, n. 176, solo in presenza di fatti di
importanza proporzionale al valore del diritto sacrificato, ovvero di
motivi, gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare il pericolo di
una seria compromissione dello sviluppo psico - fisico del minore
(Cass. 3 aprile 2003, n. 5115; Cass. 8 agosto 2003, n. 11949; Cass. 3
novembre 2004, n. 21088; Cass. 11 febbraio 2005, n. 2878; Cass. 16
novembre 2005, n. 23074);
b) che il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 494 del 28 novembre
2002 (per l'applicazione della quale, si veda anche Cass. 27 agosto
2003, n. 12536) pronunciata sull'incidente sollevato da questa stessa
Corte mediante l'ordinanza n. 9724 del 4 luglio 2002, ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 278 c.c., comma 1, nella
parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e
della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a
norma dell'art. 251 c.c., comma 1, il riconoscimento dei figli
incestuosi è vietato, là dove detto Giudice, pur non coinvolgendo
tale divieto nell'accoglimento della questione di costituzionalità
secondo i termini precisati, ha, tuttavia, espressamente affermato
che "l'attribuzione dell'azione per la dichiarazione giudiziale di
paternità e maternità naturale ai figli di genitori incestuosi, alla
stessa stregua di quanto spetta ai figli naturali riconoscibili, è
conforme alla classificazione operata dalla Costituzione, (la quale),
come avviene nella stragrande maggioranza degli ordinamenti oggi
vigenti, conosce, all'art. 30, comma 1 e 3, solo due categorie di
figli (ovvero) quelli nati entro e quelli nati fuori del matrimonio,
senza ulteriori distinzioni tra questi ultimi", aggiungendo che "la
Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica
delle persone e dei loro diritti: nella specie, il diritto del
figlio, ove non ricorrano costringenti ragioni contrarie nel suo
stesso interesse, al riconoscimento formale di un proprio status
filiationis, un diritto che, come affermato da questa Corte (sentenza
n. 120 del 2001), è elemento costitutivo dell'identità personale,
protetta, oltre che dagli artt. 7 e 8 della citata Convenzione sui
diritti del fanciullo, dall'art. 2 Cost.";
c) che ancora il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 50 del 10
febbraio 2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.
274 c.c., là dove figurava, al comma 1, la disposizione che ammetteva
l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità
naturale "solo quando concorrono specifiche circostanze tali da farla
apparire giustificata", essendo da sottolineare, al riguardo, come,
nella decisione sopra richiamata, la Corte Costituzionale abbia
espressamente confermato l'opinione di quanti avevano definito il
giudizio di ammissibilità di cui trattasi "un ramo secco
dell'ordinamento che limita il diritto dei figli all'accertamento
della paternità senza più salvaguardare le esigenze del preteso
genitore", rilevando inoltre che "l'intrinseca, manifesta
irragionevolezza della norma (art. 3 Cost.) fa sì che il giudizio di
ammissibilità ex art. 274 c.c., si risolva in un grave ostacolo
all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24 Cost., e
ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti
fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica...".
Da quanto sopra illustrato, è dato, perciò, di ricavare ulteriori
argomenti a sostegno dell'assunto circa l'esistenza, nel nostro
ordinamento, di un principio di ordine pubblico (internazionale) che
riconosce il diritto alla acquisizione dello status di figlio
naturale a chiunque sia stato concepito, indipendentemente dalla
natura della relazione tra i genitori (Cass. 27 febbraio 2002, n.
2907), nel senso esattamente che le stesse limitazioni imposte dal
già citato art. 251 c.c. (nonché dall'art. 253 c.c., a tutela
dei "diritti dei membri della famiglia legittima", secondo il dettato
dell'art. 30 Cost., ultima parte del comma 3) costituiscono delle
previsioni di carattere "eccezionale" rispetto al principio generale,
di segno contrario, che, sulla base di disposizioni di rango
costituzionale (art. 30 Cost., commi 1 e 3), ammette la figura del
riconoscimento quale espressione fondamentale di "tutela giuridica
(dei) figli nati fuori del matrimonio", riconducibile all'art. 2
Cost. ed al principio di uguaglianza, di cui al successivo art. 3, in
termini di pari dignità sociale di tutti i cittadini e di divieto di
differenziazioni legislative basate su condizioni personali e
sociali, laddove, nel diritto egiziano, come si è visto in relazione
al caso di specie, è esattamente un simile riconoscimento "in sè" a
sottostare ad un divieto di carattere "assoluto", non conoscendo tale
diritto "la differenza tra figlio legittimo e figlio naturale" ed
attribuendo esso "lo stato di figlio soltanto al figlio legittimo",
onde, secondo quanto correttamente ritenuto dalla Corte
territoriale, "contrastano...con i principi fondamentali che
riguardano la persona nel nostro ordinamento (ed, in particolare, i
figli, anche se nati fuori del matrimonio) le regole (come appunto
quelle contenute nella legislazione egiziana) che negano giuridicità
ad una qualunque specie di filiazione" che non sia quella legittima.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Nulla è a pronunciare circa la sorte delle spese del giudizio di
cassazione, non avendo l'intimato, in questa sede, ne' resistito ne',
comunque, svolto attività difensiva alcuna.
P.Q.M.
LA CORTE
rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 25 settembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2006

lunedì 14 maggio 2007

Competenza in materia di affidamento condiviso dei figli naturali

Il nodo sulla competenza a decidere in tema di affidamento della prole naturale è stato sciolto a favore del Tribunale per i minorenni, che adesso deciderà anche in ordine alle statuizioni di carattere economico.


Corte Suprema di Cassazione - Sezione I civile - Ordinanza n. 8362/2007
Ritenuto in fatto
Con ricorso in data 16 marzo 2006, M. F. – premesso di avere instaurato nel 1999 una convivenza more uxorio con S.M. e di avere avuto da tale unione un figli A.M., nato il ... e riconosciuto da entrambi i genitori – ha chiesto al Tribunale per i minorenni di Milano, essendo venuta meno la convivenza tra i genitori, di disporre l’affidamento esclusivo del minore ad essa madre, prevedendo le modalità di incontro tra il minore ed il padre, e di stabilire a carico di quest’ultimo in favore del minore un assegno a titolo di mantenimento, da corrispondere mensilmente ad essa ricorrente.
Instauratosi il contraddittorio con il convenuto, il Tribunale per i minorenni di Milano, con decreto depositato in data 15 maggio 2006, ha dichiarato non luogo a provvedere, essendo competente il Tribunale ordinario di Milano. Secondo il Tribunale per i minorenni la legge 8 febbraio 2006 n. 54 prevede una disciplina unitaria che si riferisce all’affidamento dei figli, al diritto di visita nonché al mantenimento e all’assegnazione della casa, non consentendo più la divisione della competenza che, nel vigore della precedente normativa, costringeva i genitori naturali ad adire più istanze giurisdizionali, con evidente dilatazione di tempi o di costi, per le decisioni relative all’affidamento e per quelle relative alle questioni economiche. La nuova legge, prevedendo l’applicazione ai figli naturali delle “disposizioni della presente legge”, si riferirebbe anche alle norme processuali, che presuppongo l’applicazione delle norme di cui all’art. 706 e ss. c.p.c., incompatibili con il procedimento in camera di consiglio dettato dall’art. 38 disp. att. c.c. per il Tribunale%

domenica 13 maggio 2007

Vietati gli assegni post datati a meno che non si tratti di un prestito di danaro erogato in via occasionale ad un amico


Il commerciante non può fare prestiti ai suoi clienti, in quanto ne basta uno per configurare un reato. Secondo la Suprema Corte, che ha confermato la condanna inflitta dalla Corte di Appello di Torino, per incorrere nelle sanzioni previste dalla “Legge bancaria” del 1993 è necessario che l'attività sia svolta nei confronti del pubblico, ovvero “che non si tratti di un prestito di danaro erogato in via occasionale ad un amico”, e “che l'attività finanziaria vietata sia svolta in modo professionale ed abituale”, in quanto ciò che il legislatore intende evitare è che soggetti che non posseggano i requisiti necessari e non possano fornire le garanzie del caso e che, non essendo iscritti negli elenchi, sfuggano ai controlli pubblici, non si inseriscano nel mercato creditizio inquinandolo; per tale motivo a configurare il reato “è sufficiente l'erogazione anche di un solo finanziamento in violazione dell'obbligo di iscrizione negli elenchi di cui agli articoli 106 e 113 del TU 385/93 e che tale finanziamento sia rivolto ad una cerchia anche ristretta di persone”. (24 aprile 2007)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

QUINTA SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.:

Dott. Pizzuti Giuseppe Presidente

1. Dott. Marasca Gennaro Consigliere

2. Dott. Scalera Vito Consigliere

3. Dott. Sandrelli Gian Giacomo Consigliere

4. Dott. Fumo Maurizio Consigliere

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA/ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

1) M. G.

Avverso SENTENZA del 24/01/2006

CORTE APPELLO di TORINO

Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso

Udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere MARASCA GENNARO

Udito il Pubblico Ministero in persona del dottor Giuseppe Febbraio, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione;

La Corte di Cassazione osserva:

M.G. veniva accusato di aver cambiato assegni, normalmente post-datati, e cambiali a clienti dell'esercizio commerciale intestato alla moglie e di avere, quindi, svolto attività di concessione di prestiti e finanziamenti senza essere iscritto nell'apposito elenco tenuto dal Ministero del Tesoro.

Per tale fatto il M. veniva condannato alle pene di giustizia per il reato di cui all'art. 132 comma I del decreto legislativo 1 settembre 1993 n. 385 – c.d. legge bancaria – dal Tribunale di Alessandria, Sezione distaccata di Novi Ligure, con sentenza emessa in data 1 ottobre 2002.

La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 24 gennaio 2006, confermava la decisione di primo grado.

Con il ricorso per cassazione G. M. deduceva i seguenti motivi di impugnazione:

1) Inosservanza ed errata applicazione dell'art. 132 del decretolegislativo 385/93 [1] e mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato sul punto sia perché l'articolo in questione si riferisce a soggetti operanti nel settore finanziario e non in quello commerciale, sia perché l'attività di cambio assegni e cambiali non costituisce erogazione di prestiti o finanziamenti.

2) Inosservanza e/o errata applicazione dell'articolo 132 del decreto legislativo n. 385/93 in relazione all'articolo 530 c.p.p.; difetto dell'elemento materiale e psicologico del reato contestato perché l'attività del M. non era organizzata professionalmente e non era rivolta al pubblico.

Il ricorrente chiedeva l'annullamento della sentenza impugnata.

I motivi posti a sostegno del ricorso sono manifestamente infondati.

L'articolo 132 già citato punisce chiunque eserciti in modo abusivo una attività finanziaria; la norma rinvia all'articolo 106 dello stesso decreto per precisare che cosa si intende per attività finanziaria.

In essa certamente rientra la erogazione di prestiti e finanziamenti, attività tipicamente esercitata da Banche o da istituti finanziari, che viene sottoposta a controlli anche da parte della banca d'Italia e dell'Ufficio Italiano Cambi per il sempre maggiore rilievo che le attività di raccolta del risparmio e di erogazione di finanziamenti assumono nella moderna economia.

Molti Autori hanno anche efficacemente posto in rilievo che scopo di questa disciplina è anche quella di prevenire il riciclaggio di ricchezza di provenienza illecita e che con l'articolo 132 piu' volte citato si attua una tutela anticipata rispetto ai fatti di usura.

In punto di fatto dalle due sentenze di merito si desume che il M. prendeva assegni, anche di importo cospicuo ed anche post-datati, e cambiali dai clienti del supermercato gestito dalla moglie ed in cambio erogava danaro.

Si trattava, quindi, di veri e propri prestiti concessi a clienti dell'esercizio commerciale privi dei mezzi finanziari sufficienti, onde consentire loro di effettuare gli acquisti del caso presso quell'esercizio o presso altri negozi.

Siffatta attività, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, va qualificata correttamente come attività di natura finanziaria, e non certo commerciale, da sottoporre ai necessari controlli.

La mancata iscrizione negli elenchi previsti ha impedito ogni controllo sulla attività finanziaria svolta dal M.

Per integrare il delitto contestato è necessario che l'attività sia svolta nei confronti del pubblico, ovvero che non si tratti di un prestito di danaro erogato in via occasionale ad un amico.

Attività rivolta al pubblico non significa però che essa debba rivolgersi ad una collettività indifferenziata di persone, ben potendosi invece qualificare come pubblico quello costituito da una limitata cerchia di soggetti operanti in un settore determinato (vedi Cass. Pen. 12 febbraio 1999 n. 5118, in Riv. Pen. 1999, 556).

La destinazione al pubblico dell'offerta, invero, non deve essere interpretata in senso quantitativo, ma è sufficiente che lo sia in senso qualitativo e cioè come rivolta ad un numero potenzialmente illimitato di soggetti (vedi Cass. 3 giugno 2003, n. 36051, in Cass. Pen. 2004, 3754).

Nel caso di specie il servizio, complementare alla vendita dei prodotti del supermercato, era rivolto ad un potenziale numero di persone assai elevato, ovvero a tutti i clienti dell'esercizio commerciale gestito dalla moglie del M. e, quindi, non vi può essere alcun dubbio che l'attività finanziaria vietata fosse rivolta al pubblico, tenuto conto che la ratio di siffatta terminologia è quella di escludere dall'area penale il singolo ed occasionale prestito di danaro ad un amico o parente.

E ciò a prescindere dal fatto che dalle sentenze di merito risulta che anche sotto un profilo meramente quantitativo le operazioni di finanziamento svolte dal M. erano notevoli.

Secondo alcuni autori per essere punita l'attività vietata dovrebbe essere svolta professionalmente, requisito che viene richiesto anche da un filone giurisprudenziale (vedi Cass. 4 maggio 2004 n. 31724, in Guida al diritto 2004, 33, 80).

L'impostazione non appare corretta e ciò non solo perché la norma non richiede che l'attività finanziaria vietata sia svolta in modo professionale ed abituale, ma anche perché ciò che il legislatore intende evitare è che soggetti che non posseggano i requisiti necessari e non possano fornire le garanzie del caso e che, non essendo iscritti negli elenchi, sfuggano ai controlli pubblici, non si inseriscano nel mercato creditizio inquinandolo.

A tal fine, escluso l'occasionale prestito concesso a ben determinata persona, è sufficiente che vi sia la disponibilità dell'agente, nota anche ad un pubblico ristretto, a concedere prestiti a chiunque li richieda e che ne sia stato concesso almeno uno perché si possa incorrere nelle sanzioni previste dall'articolo 132 citato.

Insomma, come è stato efficacemente notato, è sufficiente l'erogazione anche di un solo finanziamento in violazione dell'obbligo di iscrizione negli elenchi di cui agli articoli 106 e 113 del TU 385/93 e che tale finanziamento sia rivolto ad una cerchia anche ristretta di persone (così Cass. 14 dicembre 2001, n. 1628, in CED 2004) perché sia ravvisabile il reato contestato.

Precisato in tal modo l'elemento materiale del delitto in discussione, va detto che l'elemento psicologico è costituito dal dolo generico consistente nella consapevolezza di esercitare una attività finanziaria riservata soltanto a persone che, possedendo particolari requisiti di affidabilità e stabilità, siano iscritti negli appositi elenchi e siano sottoposti ai necessari controlli.

E' indubbio che nella condotta del M. , peraltro protrattasi per lungo tempo, sia ravvisabile l'elemento psicologico richiesto.

E' appena il caso di rilevare, infine, che la legge 262/2005, che ha precisato la normativa bancaria, ha riconfermato il delitto in questione ed ha aggiunto un comma che consente la punizione anche di altre categorie di persone che in precedenza erano esenti da pena (si tratta di chi, iscritto nell'elenco generale previsto dall'articolo 106 del TU bancario, ometta di iscriversi nell'elenco speciale previsto dall'articolo 132 comma I del TU eludendo in tal modo l'attività di vigilanza della Banca d'Italia).

Quanto, infine, alla eccepita prescrizione bisogna rilevare che il termine è scaduto nel mese di novembre del 2006 e, quindi, in un momento successivo alla pronuncia della sentenza di secondo grado che è del 24 gennaio 2006.

Dal momento che il ricorso è inammissibile il decorso successivo del termine suddetto non rileva, come precisato dalla ormai costante giurisprudenza di legittimità sul punto.

Per tutte le ragioni esposte, dalle quali emerge la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso, quest'ultimo deve essere dichiarato inammissibile ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento ed a versare la somma, liquidata in via equitativo, in ragione dei motivi dedotti, di €500,00 alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento ed a versare la somma di €500,00 alla Cassa delle ammende.

Così deliberato in Camera di consiglio, in Roma, in data 6 febbraio 2007-04-07

Il Consigliere estensore Il Presidente

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

IL 9 MARZO 2007

Address

Studio Legale avv. Santo De Prezzo Erchie (Brindisi - Italy) via Principe di Napoli, 113
DPR SNT 58E29 L280J - P.I. 00746050749 - phone +39 0831 767493 - mob. +39 347 7619748