sabato 21 aprile 2007

Prova testimoniale, inammissibile per provare la simulazione del prezzo

La prova per testimoni del prezzo dissimulato di una vendita immobiliare non riguarda un elemento accessorio del contratto, in relazione al quale non opera il divieto di cui all'art. 2722 c.c., ma un elemento essenziale, con conseguente applicabilità delle limitazioni in tema di prova previste da tale disposizione.



Corte di cassazione

Sezioni unite civili

Sentenza 26 marzo 2007, n. 7246

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 27 luglio 1992, I.P. e G.D., A.D., S.D. e R.T., questi ultimi quali eredi di F.D., convenivano in giudizio A.C. ed esponevano:

- che, in base a contratto stipulato il 1° giugno 1990, i coniugi F.D. e I.P. avevano promesso di vendere ad A.C., che aveva promesso di acquistare, l'appartamento sito in Bracciano, via Odescalchi n. 13, piano quarto, al prezzo di lire 121.974.651;

- che detto prezzo avrebbe dovuto essere, per una parte, corrisposto dalla C. mediante accollo di due mutui fondiari, gravanti rispettivamente sull'immobile oggetto del contratto (per lire 28.902.836) e su altro immobile di proprietà dei promittenti venditori (per lire 80.757.918);

- che, stipulato il 27 giugno 1990 il contratto di vendita, la compratrice si era accollato il solo mutuo gravante sull'immobile oggetto del contratto, ed aveva corrisposto le rate di entrambi i mutui fino al giugno 1991, omettendo però di pagare le successive rate semestrali del mutuo gravante sull'altro immobile;

- che, richiesta dell'adempimento dagli eredi di F.D., nel frattempo deceduto, A.C. aveva rifiutato il pagamento;

- che la compratrice era decaduta dal beneficio del termine ai sensi dell'art. 1186 c.c. e, pertanto, essi attori avevano diritto alla corresponsione della parte residua del prezzo effettivamente convenuto, pari a lire 69.894.225;

- che, su ricorso di essi attori, il Presidente del Tribunale li aveva, con ordinanza del 17 giugno 1992, autorizzati ad eseguire sequestro conservativo sui beni di A.C. fino alla concorrenza di lire 70.000.000, imponendo cauzione di lire 20.000.000;

- che il sequestro era stato eseguito mediante trascrizione, eseguita il 17 luglio 1992, del provvedimento sui registri immobiliari.

Sulla base di tali premesse, gli attori chiedevano: la convalida del sequestro conservativo concEsso in loro favore con l'ordinanza del 19 giugno 1992; l'accertamento che il prezzo di vendita dell'immobile sopra indicato era pari a lire 121.974.651; l'accertamento dell'inadempimento della convenuta alla obbligazione di pagamento della somma di lire 69.894.225, quale parte residua del prezzo; la condanna della convenuta al pagamento della somma di lire 69.894.225, quale parte residua del prezzo, ed al risarcimento dei danni dipendenti dall'inadempimento, "da quantificare in corso di giudizio, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi come per legge".

La convenuta si costituiva deducendo:

- che in base ad accordi fra le parti del contratto preliminare del 1° giugno 1990 il prezzo della vendita dell'immobile che ne costituiva l'oggetto era stato parzialmente ridotto e che, pertanto, essa A.C. avrebbe pagato le rate del mutuo gravante sull'immobile oggetto della vendita e si sarebbe accollata le rate del mutuo dell'altro immobile appartenente ai venditori fino alla concorrenza di lire 30.000.000;

- che tale accordo era stato solo in parte trasfuso nel contratto di vendita del 27 giugno 1990, in cui le parti avevano dichiarato, a fini tributari, un prezzo pari a lire 41.000.000, da corrispondersi in parte mediante il solo accollo del mutuo gravante sull'immobile oggetto del contratto;

- che, pertanto, l'esatto contenuto dell'accordo era solo quello risultante dall'atto pubblico di vendita, essendo, ormai, inefficaci, sul punto, le pattuizioni contenute nel contratto preliminare;

- che, pertanto, il sequestro conservativo non avrebbe potuto essere concesso, attesa l'inesistenza del credito vantato dagli attori.

Con sentenza in data 11 marzo 1998 il tribunale di Roma accoglieva le domande degli attori.

A.C. proponeva appello, che veniva rigettato dalla Corte di appello di Roma con sentenza in data 20 novembre 2001.

I giudici di secondo grado ritenevano che infondatamente l'appellante si lamentava del fatto che il tribunale di Roma avesse dato ingresso alle prove testimoniali offerte sulla differente entità del prezzo effettivamente pattuito fra le parti (rispetto a quello risultante dall'atto pubblico) sui rilievi che: in tema di simulazione relativa la prova per testi fra le parti è consentita solo per far valere l'illiceità del negozio dissimulato; e che - trattandosi di negozio che richiedeva la forma scritta per la validità - la prova testimoniale avrebbe richiesto la dimostrazione della perdita incolpevole del documento (ex art. 2725 c.c.); il primo giudice aveva, invece, richiamato erroneamente la disposizione dell'art. 2724, n. 1, c.c., attribuendo fra l'altro valore di principio di prova scritta al contratto preliminare, che era stato superato dalle pattuizioni consacrate nell'atto pubblico.

La decisione di primo grado, infatti, era conforme alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo la quale la prova, per testimoni o presunzioni, della simulazione del prezzo della vendita immobiliare non incontra, tra le parti, i limiti dettati dall'art. 1417 c.c., né contrasta con il divieto posto dall'art. 2722. La pattuizione di celare una parte del prezzo non è equiparabile, infatti, per mancanza di una propria autonomia strutturale o funzionale, all'ipotesi di dissimulazione del contratto, che conserva inalterati i suoi elementi di validità, inerenti al documento di cui si assume la falsificazione. Alla inefficacia della pattuizione apparente, concernente il prezzo, può dunque ovviarsi con una prova che ha scopo e natura semplicemente integrativa del contratto, e può risultare anche da deposizioni testimoniali o presunzioni.

Presunzioni bene ricavabili anche dal tenore del preliminare, quando non risultIno, fra questo e la data del definitivo, fatti che abbiano alterato in maniera sensibile gli interessi delle parti composti nel contratto.

Contro tale decisione ha proposto ricorso per cassazione A.C., con cinque motivi, illustratati da memoria.

Resistono con controricorso G.D., A.D., S.D., R.T.

La causa è stata rimessa alle Sezioni unite in ordine al contrasto esistente in giurisprudenza in ordine alla possibilità di provare per testimoni la simulazione del prezzo della vendita.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente ribadisce la tesi secondo la quale la prova per testimoni del prezzo effettivamente pattuito non poteva essere ammessa in considerazione del disposto dell'art. 2722 c.c.

La sentenza impugnata si è rifatta alla giurisprudenza meno recente di questa Suprema Corte.

Si è, in proposito, affermato che, allorquando l'accordo simulatorio investe solo uno degli elementi del contratto (quale è il prezzo di una vendita immobiliare), per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, il contratto simulato non perde la sua connotazione peculiare, ma conserva inalterati gli altri suoi elementi - ad eccezione di quello interessato dalla simulazione - con la conseguenza che, non essendo il contratto in tali termini simulato né nullo né annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti, gli elementi negoziali interessati dalla simulazione possono essere sostituiti o integrati con quelli effettivamente voluti dai contraenti. Pertanto, la prova per testimoni del prezzo effettivo della vendita, versato o ancora da corrispondere, non incontra, tra alienante e acquirente, i limiti dettati dall'art. 1417 c.c. in tema di simulazione, in contrasto con il divieto posto dall'art. 2722 c.c., in quanto la pattuizione di celare una parte del prezzo non può essere equiparata, per mancanza di una propria autonomia strutturale, all'ipotesi di dissimulazione del contratto, così che la prova relativa ha scopo e materia semplicemente integrativa e può pertanto risultare anche da deposizioni testimoniali (sent. 24 aprile 1996, n. 3857; 23 gennaio 1988, n. 526).

In altra occasione si è più genericamente affermato che il requisito di forma è adempiuto ove sussista nel contratto simulato o in quello dissimulato, in considerazione della sostanziale validità del contratto (sent. 9 luglio 1987, n. 5975).

Da tale orientamento, che non incontra il favore di una parte rilevante della dottrina, si è di recente distaccata la sentenza di questa Suprema Corte in data 19 marzo 2004, n. 5539, la quale ha così motivato:

«Per una corretta impostazione del problema è opportuno prendere le mosse dal disposto dell'art. 2722 c.c. Tale norma esclude che tra le parti si possa dare per testimoni la prova di un patto aggiunto o contrario al contenuto di un documento, ove si alleghi che la stipulazione del patto sia stata anteriore o contemporanea alla redazione del documento medesimo. Al pari che in tutte le altre disposizioni sui limiti della prova testimoniale, traspare qui un certo grado di ragionevole diffidenza del legislatore nei riguardi di un tale genere di prova, soprattutto quando essa sia volta a sormontare risultanze assai meno controvertibili quali quelle documentali. Chiaro, cioè, l'intento di impedire che rapporti giuridici tra le parti, quando documentalmente provati, possano essere alterati da prove per testi, appunto perché queste non offrono la stessa garanzia di veridicità di quella documentale e perché non è logico presumere che, una volta scelta la via della documentazione degli accordi contrattuali tra esse intercorsi, le parti ne abbiano affidato la modifica ad intese meramente verbali. Sicché ben si comprende anche la ragione del superamento del suindicato limite alla prova testimoniale quando, nei casi specificamente contemplati dal successivo art. 2724, quella negativa presunzione possa invece essere superata.

Il limite alla prova testimoniale di cui si sta discutendo, per le ragioni che vi sono sottese, è quindi destinato ad operare in qualsiasi caso si sostenga esservi una divaricazione tra il contenuto di un contratto, formalmente consacrato in un documento, ed una diversa pattuizione, ugualmente pregna di contenuto negoziale, che nel documento medesimo non sia riportata e di cui, tuttavia, si assuma esservi stata una stipulazione anteriore o contemporanea.

Il fenomeno della simulazione contrattuale, sia essa assoluta o relativa, non esaurisce l'area di possibile applicazione di detto art. 2722, ma sicuramente ne occupa una larga parte. Ed, infatti, nel disciplinare ex professo i limiti della prova testimoniale della simulazione, il legislatore non ha dettato una disposizione in sé compiuta ed autosufficiente, ma si è unicamente preoccupato di chiarire, nell'art. 1417 c.c., che quella prova è ammessa senza limiti tanto nel caso di domanda proposta da creditori o da terzi quanto nell'ipotesi in cui, essendo proposta dalle parti, la domanda sia volta a far valere l'illiceità del contratto dissimUlato. I limiti cui il citato art. 1417 allude - e che consente di superare solo nelle suddette particolari situazioni - sono, ovviamente, quelli dettati dagli artt. 2721 e segg., ed in particolare quelli già sopra richiamati a proposito dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento.

Stando così le cose, quando la prova tra le parti della simulazione di un contratto documentale non riguardi l'illiceità del contratto dissimulato, è evidente che essa incontra i suaccennati limiti di prova (vedi anche, in tal senso, Cass. n. 16021 del 2002 e n. 4073 del 1992). Ma appare difficile negare che tali limiti operino anche in presenza di una simulazione soltanto parziale, ogni qual volta questa si traduca nell'allegazione di un accordo ulteriore e diverso da quello risultante dal contratto, comunque destinato a modificare l'assetto degli interessi negoziali riportato nel documento sottoscritto dalle parti. Né certo sarebbe ragionevole sostenere che la clausola di determinazione del prezzo non abbia rilevanza centrale nell'economia degli interessi regolati mediante un contratto di compravendita.

D'altronde, affermare che la pattuizione con cui le parti convengano un prezzo diverso da quello indicato nel documento contrattuale da esse sottoscritto non integrerebbe gli estremi di una vera e propria simulazione, avendo scopo meramente integrativo, non risolve in alcun modo il problema. Se anche così fosse, infatti, resterebbe comunque difficilmente eludibile il rilievo per cui una tale pattuizione si pone in contrasto con il contenuto di un documento contrattuale contestualmente stipulato e, come tale, ricade nella previsione dell'art. 2722 c.c.

La differenza che l'orientamento giurisprudenziale qui non condiviso introduce - tra la prova della simulazione, soggetta agli anzidetti limiti legali, e la prova di patti meramente integrativi del contratto, che detti limiti non incontrerebbe perché quei patti difetterebbero di una propria autonomia strutturale o funzionale - non sembra perciò trovare un sufficiente appiglio: né nella lettera del citato art. 2722, che si riferisce ai "patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento", e quindi anche a quelli di carattere integrativo se essi contengano elementi nuovi o contrastanti con quelli documentati; né nella già richiamata ratio legis, che evidentemente abbraccia ogni ipotesi nella quale si pretenda di dare, per mezzo di testimoni, la prova di obblighi o diritti di portata diversa da quanto risulta da accordi consacrati in un documento e perciò dotati di un grado di certezza non superabile con quel genere di prova».

Ritiene il collegio di condividere tale più recente orientamento.

Va, in proposito, osservato che il fatto che il contratto simulato non sia nullo o annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti non giustifica la conclusione che il contratto dissimulato, il quale è destinato ad avere effetto tra le parti, non debba avere i requisiti di forma necessari per la validità dello stesso, secondo quanto espressamente stabilito dall'art. 1414, secondo comma, c.c.

Né si potrebbe sostenere che il requisito di forma sarebbe soddisfatto dal negozio simulato (come sembra sostenere la sent. 9 luglio 1987, n. 5975).

Una tesi analoga era stata sostenuta questa Suprema Corte anche in tema di interposizione fittizia, ma è stata successivamente abbandonata (cfr. sent. 22 aprile 1986, n. 2816; 22 novembre 1979, n. 6074), in base alla considerazione che l'interposizione deve risultare anch'essa da un patto rivestito della forma solenne.

Né, con riferimento specifico al problema della prova del prezzo, si potrebbe sostenere che la prova per testimoni sarebbe destinata soltanto ad integrare soltanto un elemento negoziale per il quale il requisito di forma è soddisfatto dal contratto simulato.

È facile osservare che il prezzo è un elemento essenziale della vendita, per cui anch'esso deve risultare per iscritto e per intero quando per tale contratto è prevista la forma scritta ad substantiam, non essendo sufficiente che quest'ultima sussista in relazione alla manifestazione di volontà di vendere e di acquistare.

In altri termini, la prova per testimoni del prezzo dissimulato di una vendita immobiliare non riguarda un elemento accessorio del contratto, in relazione al quale non opera il divieto di cui all'art. 2722 c.c., ma un elemento essenziale, con conseguente applicabilità delle limitazioni in tema di prova previste da tale disposizione.

Alla luce delle considerazioni svolte, il primo motivo del ricorso va accolto, con assorbimento degli altri motivi, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che provvederà anche in ordine alle speSe del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso; dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Risparmio energetico e cappotto, non commutabilità ai fini del calcolo della superficie

Va precisato che l’art.4, comma 3, del Decreto ministeriale delle Infrastrutture e dei Trasporti 27 luglio 2005, al fine di agevolare l’attuazione delle norme sul risparmio energetico e per migliorare la qualità degli edifici, ha previsto la non commutabilità, ai fini del calcolo della superficie utile lorda , dello spessore delle strutture verticali idonee a migliorare l’isolamento termico degli edifici per la parte superiore a 30 cm. di spessore, fino ad un massimo di ulteriori 25 cm.

A tale riguardo, l’art.2, commi 6 e 7 dello stesso D.M., nel prevedere l’obbligo per i Comuni di adeguare i propri strumenti urbanistici per migliorare lo sfruttamento delle radiazioni solari quale fonte di calore, attraverso indicazioni in ordine all’orientamento dei fabbricati ed alla utilizzazione di elementi di tamponatura delle facciate di notevole spessore, ha stabilito lo scorporo dal calcolo dei volumi massimi previsti nelle diverse zone urbanistiche, degli spessori di tali elementi di tamponatura nelle parti eccedenti i 30 cm., fino ad un massimo di 25 cm.

Ritiene il Tar Marche con sentenza 30 marzo 2007 n. 448 che, lo scorporo delle cubature cui si è fatto cenno, può trovare immediata applicazione anche prima dell’adeguamento dei piani urbanistici comunali, in quanto la tassatività dei limiti di spessore delle strutture verticali degli edifici non computabili ai fini volumetrici, definiti in sede ministeriale, non consente deroghe in difetto o in eccesso da parte degli strumenti urbanistici comunali, per cui l’operatività delle suddette norme tecniche non può essere subordinata a tale accennato previsto adeguamento del piano regolatore, visto che lo stesso non potrà fare altro che recepirle.


N. 00448/2007 REG.SEN.

N. 00160/2006 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 160 del 2006, proposto da: s.r.l. I, con sede in Porto Sant’Elpidio (AP), in persona del suo rappresentante legale, rappresentato e difeso dagli avv.ti Benedetto Graziosi e Giacomo Graziosi, con domicilio eletto in Ancona, Via Giannelli, 36, presso l’avv. Domenico D'Alessio;

contro

- il COMUNE di SANT’ELPIDIO a MARE (AP), in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Massimo Ortenzi, con domicilio eletto presso la Segreteria del TAR delle Marche in Ancona, Piazza Cavour, 29;
- il RESPONSABILE dell’AREA OPERE PUBBLICHE e GESTIONE del TERRITORIO del COMUNE di SANT’ELPIDIO a MARE, rappresentato e difeso dall'avv. Massimo Ortenzi, con domicilio eletto presso la Segreteria del TAR delle Marche in Ancona, piazza Cavour, 29;

per l'annullamento

del provvedimento n.25618 del 28.1.2005, a firma del Responsabile dell’Area Opere Pubbliche e Gestione del Territorio del Comune di Sant’Elpidio a Mare, con cui è stato ordinato alla società ricorrente di non dare inizio ai lavori edilizi denunciati con Dichiarazione di inizio attività - D.I.A. - a causa della ritenuta insussistenza, nel caso di specie, delle condizioni richieste dalla legge per procedere alla realizzazione delle opere edilizie suddette sulla base di semplice DIA;

…………………..……. nonché per la condanna ………………………

dell’Amministrazione intimata al risarcimento dei danni asseriti subiti dalla società ricorrente per effetto del provvedimento impugnato;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Sant'Elpidio A Mare;

Vista l’ordinanza n.205 del 9 marzo 2006, con cui è stata respinta la domanda di sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento impugnato;

Vista l’ordinanza n. 2925 del 13 giugno 2006, pronunciata dal Consiglio di Stato, Sezione quarta, con cui è stato respinto l’appello proposto avverso la suddetta ordinanza cautelare del TAR Marche;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 10/01/2007, il dott. Galileo Omero Manzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel relativo verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO

Con la presente iniziativa giudiziaria la parte ricorrente si propone la invalidazione del provvedimento indicato in epigrafe con cui il competente dirigente del Comune intimato ha inibito la esecuzione dei lavori edilizi per i quali la società V. aveva presentato una denuncia di inizio attività - DIA -, in quanto, secondo l’Autorità comunale, nel caso di specie non sussistevano le condizioni previste dalla legge per avvalersi del procedimento semplificato della DIA, in primo luogo perché il Comune era sfornito di strumenti urbanistici completi della prevista normativa tecnica in materia di adeguamento termico degli edifici. Pertanto, non era quindi possibile procedere alla certificazione del rispetto di tale normativa da parte del tecnico abilitato che ha asseverato la DIA, senza contare che la DIA presentata dalla società Valmir, secondo gli uffici comunali, era anche sfornita di tutta una serie di documenti indicati nello stesso provvedimento di divieto di dare inizio ai lavori oggetto di gravame che ne precludeva il favorevole esame da parte dell’Amministrazione.

A fondamento dell’impugnativa vengono dedotte censure di violazione dell’art.3, comma 1, lett.c) e degli artt.22 e 23 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dell’art.9 del Regolamento edilizio regionale tipo approvato con D.P.G.R. del 4 settembre 1989, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, comma 4 e 9 del D.M. 27 luglio 2005, recante norme in materia di razionale uso dell’energia e di risparmio energetico e di scorporo dal calcolo delle cubature degli edifici degli spessori di strutture opache verticali, nonché vizio di eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento.

Secondo i difensori di parte ricorrente, l’intervento edilizio oggetto di denuncia di inizio attività di cui si controverte, al contrario di quanto ritenuto dai tecnici comunali, non dà luogo ad alcun incremento di cubatura, poiché si risolve nella realizzazione di opere di manutenzione straordinaria di un edificio preesistente sulle cui facciate è stata prevista la installazione di un rivestimento esterno, costituito da due lamine indissolubilmente legate da un nucleo di materiale sintetico, fissate alle pareti con una struttura leggera in acciaio, al fine di adeguare in tal modo la costruzione alla normativa sull’isolamento termico ed acustico.

Pertanto, con riferimento alla accennata natura e caratteristica delle opere edilizie che la società V. si proponeva di realizzare ed oggetto della denuncia di inizio di attività indirizzata al Comune, le preclusioni addotte dall’Amministrazione per inibire l’avvio dei lavori suddetti, a giudizio dei difensori della parte ricorrente, sono da considerare illegittime e contrarie alle norme invocate, in quanto per effetto della realizzazione del programmato rivestimento dell’edificio di cui si controverte, non si dà luogo alla realizzazione di incrementi di volumetria, come presuntivamente asserito dagli uffici comunali i quali, infatti, per loro espressa ammissione, non sono stati in grado di quantificare tali aumenti di volume asseriti derivanti dalla installazione delle nuove pannellature sulle facciate del preesistente edificio, a conferma della genericità ed illogicità dei motivi addotti dall’Amministrazione a giustificazione del divieto di dare inizio ai lavori oggetto di precedente DIA.

Illegittimo viene considerato anche l’ulteriore motivo ostativo alla piena operatività della DIA addotto dagli organi comunali e consistente nella contestata carenza documentale della denuncia di inizio di attività edilizia, dal momento che la stessa risultava corredata di tutti i documenti richiesti dagli artt.22 e 23 del Testo unico sull’edilizia di cui al D.P.R. n. 380 del 2001 e ritenuti idonei ad asseverare la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio comunale; per cui le carenze documentali segnalate dagli organi comunali a giustificazione dell’intimato divieto di dare inizio ai lavori oggetto di gravame, vengono considerate pretestuose e da ciò il denunciato sviamento nell’operato dell’Amministrazione intimata.

In sede di discussione della istanza cautelare, si è costituito in giudizio l’intimato Comune di Sant’Elpidio a Mare il cui difensore ha negato fondamento agli assunti invalidatori prospettati con il ricorso, evidenziando in particolare che dagli atti progettuali allegati alla DIA presentata dalla società ricorrente, gli uffici comunali hanno rilevato che dalla realizzazione del rivestimento esterno progettato dalla stessa, origina un aumento di cubatura, non derogabile con l’applicazione del D.M. 27 luglio 2005, in quanto per la valorizzazione di tali norme regolamentari si impone il preventivo adeguamento degli strumenti urbanistici comunali che non è stato ancora operato, atteso il poco tempo trascorso dalla entrata in vigore del citato D.M. (agosto 2005) e la data di presentazione della DIA di cui è causa (presentata nel mese di novembre 2005).

Anche per quanto concerne la contestata incompletezza documentale della DIA, il difensore del Comune ritiene le censure di parte ricorrente prive di fondamento, poiché alcuni dei documenti indicati come mancanti, sono necessari per esercitare i poteri comunali di controllo sulla segnalazione di inizio delle attività edilizie oggetto di DIA, la cui mancanza comporta inevitabilmente la immediata inibizione dei lavori programmati, attesa la impossibilità di dare corso ad acquisizioni istruttorie nel breve termine di trenta giorni fissato dalla legge, la cui inutile decorrenza determina la piena efficacia della DIA.

Con ordinanza n. 205 del 9 marzo 2006, il Tribunale ha respinto la domanda di sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento impugnato e tale decisione è stata confermata in sede di appello dal Consiglio di Stato, con ordinanza della Sezione quarta n. 2925 del 13 giugno 2006.

Nella imminenza della pubblica udienza di discussione della causa, i difensori della parte ricorrente hanno depositato, in data 18.12.2006, una memoria conclusionale con la quale hanno diffusamente ribadito i propri argomenti invalidatori dedotti con l’atto introduttivo del giudizio, insistendo per l’accoglimento del ricorso e per la condanna dell’Amministrazione comunale intimata al risarcimento dei danni asseriti sopportati dalla società ricorrente a causa del provvedimento impugnato e quantificati in euro 2.000,00 mensili, dalla data di presentazione della DIA e corrispondenti agli oneri finanziari che la società sopporta per il rimborso del mutuo bancario contratto per l’acquisto del compendio immobiliare interessato dai lavori edilizi di cui si controverte in questa sede che non può essere utilizzato a causa della inibizione alla loro esecuzione intimata con il provvedimento oggetto di gravame.

Anche il patrocinio comunale ha depositato, in data 28.12.2006, apposita memoria con la quale ha a sua volta ribadito le proprie tesi e conclusioni, insistendo per la reiezione del ricorso.

DIRITTO

1) Il ricorso va respinto per i motivi di seguito precisati.

2) Giova premettere in punto di fatto che la presente iniziativa giudiziaria è diretta a far constatare la illegittimità del provvedimento oggetto di gravame con cui il Comune intimato ha inibito la realizzazione, da parte della società ricorrente, di una serie di lavori edilizi per i quali la stessa aveva inoltrato una denuncia di inizio attività - D.I.A. - sul presupposto che per la loro esecuzione non si rendeva necessaria la preventiva acquisizione di un formale permesso di costruire, essendo le opere ascrivibili alla categoria dei lavori di manutenzione straordinaria per i quali l’art.16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, richiede la semplice DIA.

L’Amministrazione ha invece ritenuto di non potere assentire la suddetta DIA per un duplice ordine di motivi e, precisamente, in primo luogo perché, per effetto dei lavori programmati, si veniva a realizzare un incremento di cubatura non consentito sulla base delle vigenti norme urbanistiche e, poi, perché la dichiarazione di inizio lavori presentata al Comune non risultava corredata da tutta la documentazione richiesta dalla legge per consentire agli uffici comunali di verificare la compatibilità urbanistica delle opere oggetto di DIA, come previsto dall’art.23, comma 6, del citato D.P.R. n. 380 del 2001.

2/A) Ciò premesso in punto di fatto e passando all’esame delle censure dedotte con il ricorso, destituite di fondamento debbono essere valutate le censure di parte ricorrente preordinate a confutare gli assunti dell’Amministrazione comunale in ordine alla ritenuta incompletezza documentale della DIA presentata dalla società ricorrente.

A tale riguardo, va tenuto presente che l’art.23 del citato D.P.R. n. 380 del 2001, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, ai fini della regolarità formale della DIA, prevede che la stessa sia accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati, senza tuttavia precisare la tipologia della documentazione da allegare alla DIA, per cui, ai fini della sua individuazione, ritiene il Collegio bisogna fare riferimento, a seconda dei casi, alle caratteristiche degli interventi oggetto di denuncia di inizio di attività.

Infatti, è di tutta evidenza che, dal momento che sulla stessa denuncia i competenti organi comunali sono tenuti a verificare la sussistenza dei presupposti giuridici e tecnici previsti dalla legge per consentire la realizzazione dei lavori e delle opere edilizie segnalate nella DIA, ne consegue la necessità che, ai fini di tale riscontro, la dichiarazione di inizio di attività sia necessariamente completa sotto l’aspetto documentale.

Con riferimento a quanto precisato, dalla ricognizione della motivazione del provvedimento impugnato e, più precisamente, dal riscontro della elencazione dei documenti e dei dati notiziali asseriti non allegati e non indicati nella relazione tecnica presentata a corredo della DIA di cui si controverte, il Collegio ha potuto constatare che, indubbiamente, buona parte degli stessi risultavano effettivamente necessari agli uffici comunali per l’esercizio degli accennati poteri di controllo preventivo previsti dall’art.23 del D.P.R. n. 380 del 2001.

Donde, in mancanza di tali dati, a fronte del breve termine assegnato dalla legge per l’accennato riscontro (30 gg.) che ne impediva l’acquisizione in via istruttoria, ragionevolmente il responsabile del procedimento si è visto costretto ad inibire, nell’immediato, l’avvio dei lavori e delle opere oggetto della DIA, in modo da evitare la loro realizzazione in assenza di controllo, dal momento che, una volta decorso inutilmente il termine suddetto, la società ricorrente avrebbe potuto liberamente dare avvio ai lavori programmati.

Non vi è dubbio, infatti, che per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, ai fini della completezza istruttoria, in sede di asseverazione della conformità urbanistica ed edilizia delle opere oggetto di DIA, bisognava sicuramente indicare gli estremi dei precedenti atti autorizzatori della costruzione interessata dagli interventi manutentivi programmati, come pure allegare il segnalato parere dell’Amministrazione provinciale, visto che l’intervento costruttivo veniva ad interessare un edificio prospiciente una strada provinciale.

Per le stesse ragioni, ritiene il Collegio, che doveva essere allegata alla DIA anche la speciale relazione tecnica prevista dall’art.4, comma 3, del D.M. 27 luglio 2005, in materia di risparmio energetico, visto che l’intervento manutentivo oggetto della denuncia di inizio attività era finalizzato a porre rimedio alle carenze delle preesistenti tamponature esterne dell’edificio, sotto l’aspetto dell’isolamento termico.

Da ciò quindi deriva la infondatezza delle censure di violazione di legge e di eccesso di potere dedotte dalla parte attrice, poiché, a fronte della rilevata incompletezza della documentazione e della relazione allegata alla DIA presentata dalla società ricorrente, l’ordine di non dare inizio ai lavori intimato dal Comune, ritiene il Collegio, costituisse un adempimento doveroso, attesa la necessità di non fare decorrere inutilmente il termine perentorio di 30 giorni fissato dalla legge per la verifica della regolarità della DIA e tenuto altresì presente che, indipendentemente dalla accennata inibizione a dare avvio ai lavori di cui si controverte, alla società ricorrente era comunque consentito di ripresentare la DIA con le modifiche e le integrazioni necessarie per colmare le carenze notiziali e documentali contestate in precedenza dagli uffici comunali, come previsto espressamente dall’art. 23, comma 6 del citato D.P.R. n. 380 del 2001.

2/B) Passando a questo punto ad esaminare le residue censure dedotte con il ricorso e preordinate a sindacare la legittimità dell’ulteriore motivo addotto dal Comune intimato a giustificazione del divieto di dare avvio ai lavori oggetto di DIA, impartito con il provvedimento impugnato, il Collegio le ritiene fondate per i motivi di seguito precisati.

Al riguardo, va osservato che il responsabile del procedimento ha giustificato il divieto suddetto, oltre che per la ritenuta incompletezza della relazione e della documentazione allegata alla denuncia di inizio attività, anche in considerazione della ulteriore circostanza che, per effetto della esecuzione dei lavori oggetto di tale denuncia, si veniva a realizzare un incremento di volumetria del fabbricato interessato da tali lavori di manutenzione, non consentita, dal momento che l’eventuale non valutabilità di tali maggiori cubature derivanti dalla collocazione sulle facciate dell’edificio di pannelli prefabbricati, secondo quanto previsto dall’art.4, comma 3, del Decreto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti 27 luglio 2005, risultava subordinata al preventivo adeguamento al citato D.M. dello strumento urbanistico comunale, in mancanza del quale l’incremento di cubatura che si veniva a realizzare in conseguenza della DIA, non era consentito.

Tale assunto dell’Amministrazione comunale deve essere tuttavia valutato illegittimo, in quanto frutto di una errata interpretazione del quadro normativo di riferimento.

In proposito, va precisato che l’art.4, comma 3, del suddetto Decreto ministeriale, al fine di agevolare l’attuazione delle norme sul risparmio energetico e per migliorare la qualità degli edifici, ha previsto la non commutabilità, ai fini del calcolo della superficie utile lorda di cui all’art.13 del Regolamento edilizio regionale tipo (approvato con D.P.G.R. n. 23 del 14.9.1989), dello spessore delle strutture verticali idonee a migliorare l’isolamento termico degli edifici per la parte superiore a 30 cm. di spessore, fino ad un massimo di ulteriori 25 cm..

A tale riguardo, l’art.2, commi 6 e 7 dello stesso D.M., nel prevedere l’obbligo per i Comuni di adeguare i propri strumenti urbanistici per migliorare lo sfruttamento delle radiazioni solari quale fonte di calore, attraverso indicazioni in ordine all’orientamento dei fabbricati ed alla utilizzazione di elementi di tamponatura delle facciate di notevole spessore, ha stabilito lo scorporo dal calcolo dei volumi massimi previsti nelle diverse zone urbanistiche, degli spessori di tali elementi di tamponatura nelle parti eccedenti i 30 cm., fino ad un massimo di 25 cm..

Con riferimento a quanto precisato, ritiene tuttavia il Collegio che, al contrario di quanto sostenuto dal Comune intimato, tale scorporo delle cubature cui si è fatto cenno, può trovare immediata applicazione anche prima dell’adeguamento dei piani urbanistici comunali, in quanto la tassatività dei limiti di spessore delle strutture verticali degli edifici non computabili ai fini volumetrici, definiti in sede ministeriale, non consente deroghe in difetto o in eccesso da parte degli strumenti urbanistici comunali, per cui l’operatività delle suddette norme tecniche non può essere subordinata a tale accennato previsto adeguamento del piano regolatore, visto che lo stesso non potrà fare altro che recepirle.

Ciò comporta il riconoscimento della illegittimità del provvedimento impugnato relativamente alla ritenuta inapplicabilità dello scorporo di cubatura previsto dagli artt.2, comma 7 e 4, comma 3 del D.M. 27 luglio 2005, in mancanza dell’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali, per quanto concerne gli interventi edilizi oggetto della DIA presentata dalla società ricorrente la cui esecuzione è stata inibita con il provvedimento impugnato.

3) In conclusione, alla luce di quanto argomentato, il ricorso deve essere tuttavia respinto, poiché il provvedimento impugnato, come si è avuto modo di evidenziare, risulta basato su una pluralità di motivazioni e, quindi, l’avvenuto riconoscimento della validità di una di esse, costituita dalla riscontrata carenza documentale della DIA di cui si controverte, è comunque idonea a sorreggere il dispositivo dello stesso provvedimento oggetto di gravame, nonostante il contestuale avvenuto riconoscimento della invalidità dell’altro motivo addotto a giustificazione del medesimo.

Infatti, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, ai fini della legittimità di un atto amministrativo, nel caso di pluralità di motivi autonomi posti a base dello stesso, la perdurante riconosciuta legittimità ed efficacia di uno di essi, perché non censurato o perché ritenuto esente dai vizi denunciati, è idonea a sorreggere la validità del medesimo ed è di per sé ragione sufficiente per respingere il ricorso (Cons. St., Sez.VI, 17 ottobre 2000, n.5530; C.S.I., 12 febbraio 2004, n.31; TAR Marche, 29 settembre 2000, n.1378; TAR Lazio, Sez. II, 16 gennaio 2003, n.180).

4) Va respinta anche la domanda di risarcimento danni pure avanzata con il ricorso, in quanto, nel processo amministrativo, presupposto ineludibile dell’azione risarcitoria è la sentenza che, a conclusione di un giudizio impugnatorio annullatorio, ha provveduto ad eliminare dal mondo giuridico l’atto al quale la parte ricorrente addebita la responsabilità del danno patrimoniale che assume avere subito e per il quale chiede di essere indennizzato (Cons. St., Ad. Pl., 26 marzo 2003, n.4; Sez. V, 12 agosto 2004, n.5558; TAR Basilicata, 17 ottobre 2003, n.994).

Donde, per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, dal momento che il ricorso in epigrafe, per le ragioni esposte, deve essere respinto e, quindi, il provvedimento impugnato è destinato a conservare piena validità ed efficacia, pur nei limiti sopra precisati per quanto concerne gli altri motivi addotti a sua giustificazione, ne consegue la reiezione della domanda di risarcimento danni avanzata dalla parte ricorrente.

5) In conclusione, il ricorso deve dunque essere respinto, come pure la subordinata domanda di risarcimento danni.

6) Si ravvisano tuttavia valide ragioni per compensare tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale delle Marche respinge il ricorso in epigrafe indicato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Ancona, nella camera di consiglio del giorno 10/01/2007, con l'intervento dei signori:

Luigi Ranalli, Presidente FF

Galileo Omero Manzi, Consigliere, Estensore

Liana Tacchi, Consigliere



sabato 14 aprile 2007

Invalidi civili, procedura assunzione e giurisdizione


TAR Puglia-Bari, sez. II, sentenza 06.03.2007 n° 624

Ritenuto, conformemente alla giurisprudenza giuslavorastica (cfr. Cass. Sez. Unite 27 maggio 1999, n.302) che, in tema di collocamento obbligatorio debbono essere distinti due momenti ben precisi: una prima fase puramente amministrativa, relativa agli accertamenti, circa l'invalidità, atti a verificare la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge, e posti in essere dalla pubblica amministrazione, a fronte dei quali sussistono per il lavoratore esclusivamente interessi legittimi; una seconda fase, conseguenziale alla prima, con la quale, accertate le menomazioni e quindi lo status di invalido, è possibile ravvisare la nascita di diritti soggettivi, comportando detta seconda fase la rilevanza dell'individuo in rapporto diretto con la pubblica amministrazione e la "personalizzazione" della tutela costituzionale di cui all'art. 38, che prevede il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale per ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, e, al quarto e quinto comma, il diritto degli inabili e dei minorati all'educazione e all'avviamento professionale a cui provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato;

nel caso in cui l'invalido agisca per ottenere il diritto alla assunzione, allorché sia conclusa la fase puramente amministrativa degli accertamenti della invalidità e della idoneità di tale invalidità al tipo di lavoro cui si riferisce la chiamata, la controversia spetta all'autorità giudiziaria ordinaria, poiché la causa petendi è costituita dalla violazione di un diritto soggettivo, il diritto all'assunzione (cfr. Cass. SU n. 5806 del 1998; n. 5338 del 1993, ed altre).



T.A.R.

Puglia - Bari

Sezione II

Sentenza 6 marzo 2007, n. 624

N. 624/2007
Reg. Sent.
N.168/2007
Reg. Ric.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA PUGLIA

Sede di Bari - Sezione Seconda

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n.168 del 2007 proposto da F. M. rappresentato e difeso dall’Avv. Angelo Lanno e dall’Avv. Francesca Ferri, presso i quali è elettivamente domiciliato in Bari, Via San Francesco D’Assisi, n.15;

CONTRO

la Azienda Sanitaria Locale BA in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Giovanni Colella, elettivamente domiciliata in Bari, alla Lungomare Starita, n.6;

per l’annullamento

  1. della nota 2017/DG del 24.11.2006 a firma del Direttore Area Gestione del Personale e del Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Locale BA5, con la quale è stato comunicato al ricorrente il giudizio di non idoneità espresso dalla Commissione preposta alla selezione per l’assunzione obbligatoria del personale disabile;

  2. di tutti gli atti collegati e presupposti, tra cui la nota del 3.10.2006, prot.16498/DG; il verbale n.1 del 10.10.2006 della commissione suddetta.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione della Azienda Sanitaria locale BA5;

Viste le memorie depositate dalle parti;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla camera di consiglio del 22.02.2007, il Cons. Doris Durante;

Uditi, l’Avv. Angelo Lanno per il ricorrente, l’Avv. Giovanni Colella per l’azienda sanitaria;

Considerato che alla camera di consiglio fissata per la trattazione della istanza cautelare, il collegio si è riservato di decidere la causa con sentenza in forma abbreviata, dandone comunicazione alle parti;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

FATTO E DIRITTO

Considerato che il ricorrente, invalido civile con invalidità pari al 50%, con idoneità a ricoprire mansioni di carattere esecutivo, veniva chiamato dalla ASL BA/5 – che aveva adottato un piano di assunzione obbligatoria ex l. 68/99, tra cui n.8 commessi, per l’espletamento delle prove attitudinali, onde verificare l’idoneità del medesimo a svolgere le mansioni di commesso;

che la commissione appositamente nominata dalla Azienda con delibera 2.5.06 n.551, al termine di un colloquio attitudinale giudicò tutti i candidati avviati dall’Ufficio Provinciale di Collocamento, “non idonei”,

che il ricorrente ha gravato il giudizio di “non idoneità” per violazione di norme e principi in materia di selezione, nonché per violazione dell’obbligo di motivazione;

che la ASL Provinciale BA (nella quale è incorporata dall’1.1.2007 la ASL BA/5), costituitasi in giudizio, ha eccepito il difetto di giurisdizione di questo Tribunale;

Considerato che a norma dell’art.69, primo comma, d.lgv. 30 marzo 2001, n. 165 “Sono devolute al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art.1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4 (procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni), incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro…”;

che le assunzioni obbligatorie da parte delle amministrazioni pubbliche, aziende ed enti pubblici di cui alla l. 12 marzo 1999, n.68 avvengono per chiamata numerica degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della vigente normativa, previa verifica della compatibilità della invalidità con le mansioni da svolgere;

che la procedura di assunzione mediante selezione da parte della p.a. degli iscritti nelle liste di collocamento non è assimilabile alle procedure concorsuali, atteso che essa sostanzialmente consiste nella mera assunzione diretta di coloro che sono iscritti nelle prime posizioni della graduatoria corrispondenti al numero dei posti indicati nella richiesta di assunzione inoltrata dall’amministrazione;

Ritenuto, quindi, che le relative controversie sono devolute alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, ai sensi dell’art.63, comma 1, d.lgv. 165/2001;

Considerato che la tesi difensiva del ricorrente che sostiene la giurisdizione di questo tribunale, in relazione alla prova selettiva effettuata dalla commissione preposta alla selezione, non ha pregio trattandosi di fase ontologicamente connessa al procedimento di assunzione;

Ritenuto, conformemente alla giurisprudenza giuslavorastica (cfr. Cass. Sez. Unite 27 maggio 1999, n.302) che, in tema di collocamento obbligatorio debbono essere distinti due momenti ben precisi: una prima fase puramente amministrativa, relativa agli accertamenti, circa l'invalidità, atti a verificare la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge, e posti in essere dalla pubblica amministrazione, a fronte dei quali sussistono per il lavoratore esclusivamente interessi legittimi; una seconda fase, conseguenziale alla prima, con la quale, accertate le menomazioni e quindi lo status di invalido, è possibile ravvisare la nascita di diritti soggettivi, comportando detta seconda fase la rilevanza dell'individuo in rapporto diretto con la pubblica amministrazione e la "personalizzazione" della tutela costituzionale di cui all'art. 38, che prevede il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale per ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, e, al quarto e quinto comma, il diritto degli inabili e dei minorati all'educazione e all'avviamento professionale a cui provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato;

che ne consegue che nel caso in cui l'invalido agisca per ottenere il diritto alla assunzione, allorché sia conclusa la fase puramente amministrativa degli accertamenti della invalidità e della idoneità di tale invalidità al tipo di lavoro cui si riferisce la chiamata, la controversia spetta all'autorità giudiziaria ordinaria, poiché la causa petendi è costituita dalla violazione di un diritto soggettivo, il diritto all'assunzione (cfr. Cass. SU n. 5806 del 1998; n. 5338 del 1993, ed altre);

Considerato che il ricorrente ha anche avviato il procedimento di conciliazione prodromico al giudizio avanti il giudice ordinario, al quale spetta valutare anche la legittimità o meno della selezione effettuata dalla commissione;

Ritenuto in conclusione di dichiarare il difetto di giurisdizione, con compensazione di spese e competenze di giudizio;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia - Sezione II, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, dichiara il proprio difetto di giurisdizione.

Compensa spese e competenze di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Bari, nella camera di consiglio del 22.02.2007, con l’intervento dei Magistrati,

Pietro Morea Presidente
Doris Durante Consigliere est.
Giuseppina Adamo Consigliere.

Pubblicata mediante deposito in Segreteria il 6 marzo 2007 (Art. 55, Legge 27 aprile 1982 n. 186).

di Gesuele Bellini

La procedura di assunzione degli invalidi civili iscritti nelle liste di collocamento, mediante selezione da parte della Pubblica Amministrazione, non è assimilabile alle procedure concorsuali e, pertanto, le relative controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario.

Così ha concluso il Tar per la Puglia, Bari, sezione seconda, nella sentenza 6 marzo 2007, n. 624.

La vicenda ha visto coinvolto un soggetto invalido civile al 50% che, dopo aver partecipato alle prove selettive per l’assunzione di otto commessi, presso la locale ASL, è stato giudicato non idoneo.

Il Tar investito della causa – per cui ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione – ha ritenuto che “la procedura di assunzione mediante selezione da parte della p.a. degli iscritti nelle liste di collocamento non è assimilabile alle procedure concorsuali, atteso che essa sostanzialmente consiste nella mera assunzione diretta di coloro che sono iscritti nelle prime posizioni della graduatoria corrispondenti al numero dei posti indicati nella richiesta di assunzione inoltrata dall’amministrazione e, pertanto, le relative controversie sono devolute alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, ai sensi dell’art. 63, comma 1, d.lgv. 165/2001”.

Il Collegio, richiamando conforme giurisprudenza (Cass. Sez. Unite 27 maggio 1999, n. 302) ha affermato che in tema di collocameto obbligatorio, debbono essere distinti due momenti ben precisi:

  1. una prima fase di catattere puramente amministrativa, riguardante l’esame della condizione di invalidità, attraverso la quale si verificano la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge e posti in essere dalla pubblica amministrazione, per cui il lavoratore è titolare esclusivamente interessi legittimi;

  2. una seconda fase, successiva all’accertamento delle menomazioni e quindi al riconoscimento dello status di invalido, che comporta l’esistenza di diritti soggettivi, in cui rileva l'individuo in rapporto diretto con la pubblica amministrazione e la "personalizzazione" della tutela costituzionale, che prevede il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale per ogni cittadino inabile al lavoro, sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, e, pertanto, “il diritto degli inabili e dei minorati all'educazione e all'avviamento professionale a cui provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”.

In questo secondo momento, dunque, secondo il Collegio, essendo la causa petendi costituita dalla violazione di un diritto soggettivo, quale il diritto all'assunzione, la controversia spetta al giudice ordinario (Cass. SU n. 5806 del 1998; Cass. n. 5338 del 1993).


Concessione per l’esercizio della radiodiffusione televisiva, fallimento e decadenza

T.A.R. PUGLIA - SEZIONE LECCE 23.11.2005 N. 5273


In assenza di previsioni normative che circoscrivano rigidamente, sul piano temporale, lo spazio per un utile rilascio dell’autorizzazione predetta, il Ministero può e deve procedere alla dichiarazione di estinzione solo laddove ricorrano elementi che, quanto meno in termini di ragionevole probabilità, facciano escludere l’ipotesi che il giudice del fallimento permetta la continuazione dell’impresa (decorso di un lungo periodo dal fallimento, espliciti provvedimenti negativi, ecc.)


REPUBBLICA ITALIANA

N.5273/2005

Reg.Dec.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.1852

Reg.Ric.

Il Tribunale Amministrativo Regionale

per la Puglia

Sezione Pria di Lecce

ANNO 2005

Composto dai Signori Magistrati:

Aldo Ravalli Presidente

Ettore Manca Componente - relatore

Carlo Dibello Componente

ha pronunziato la seguente:

SENTENZA

in forma semplificata

sul ricorso n. 1852/05 presentato:

- dal Fallimento della N.T.V. S.r.l., in persona del curatore, rappresentato e difeso dall’Avv. Angelo Vantaggiato ed elettivamente domiciliato in Lecce, presso lo studio del difensore, alla via Zanardelli 7;

contro

- il Ministero delle Comunicazioni, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce, presso cui è per legge domiciliato;

- il Direttore Generale per i Servizi di Comunicazione Elettronica e Radiodiffusione presso il Ministero suddetto, non costituito;

per l’annullamento

- del decreto prot. n. 902021 del 17 ottobre 2005 con cui il Direttore Generale per i Servizi di Comunicazione Elettronica e Radiodiffusione disponeva l’estinzione della concessione per l’esercizio della radiodiffusione televisiva già rilasciata alla Società N.T.V. S.r.l.;

- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale.

Visto il ricorso con i relativi allegati.

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero intimato.

Visti gli atti della causa.

Designato alla camera di consiglio del 23 novembre 2005 il relatore Dr. Ettore Manca e uditi gli Avv.ti Vantaggiato e Pedone.

Considerato che il ricorso può essere definito in forma semplificata, ai sensi dell’art. 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificato dall’art. 9 della legge 21 luglio 2000, n. 205, poiché manifestamente fondato per le ragioni successivamente indicate.

FATTO E DIRITTO

1.- Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni che di seguito si esporranno.

2.- Deve anzitutto premettersi che:

- la società N.T.V., titolare di concessione per l’esercizio della radiodiffusione televisiva privata in ambito locale, veniva dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Lecce in data 20 giugno 2005;

- il curatore impugna il provvedimento con il quale Ministero delle Comunicazioni disponeva, per conseguenza, l’estinzione di detta concessione ai sensi dell’art. 11, comma 3, lett. d) della delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni n. 78/98 dell’1.12.98.

2.3 Tanto precisato, il Collegio rileva, tuttavia, che la previsione citata ricollega l’effetto caducatorio a due, concorrenti circostanze, quali:

a) la dichiarazione di fallimento;

b) il mancato rilascio dell’autorizzazione alla continuazione in via provvisoria dell’esercizio dell’impresa.

Nel caso in esame, diversamente, il Tribunale autorizzava l’esercizio provvisorio in data 18 ottobre 2005, a distanza, dunque, di meno di quattro mesi dalla dichiarazione di fallimento e di meno di un mese dall’accettazione dell’incarico da parte del curatore.

2.4 Sulla base di quanto fin qui scritto, dunque, il Collegio sottolinea che:

- in assenza di previsioni normative che circoscrivano rigidamente, sul piano temporale, lo spazio per un utile rilascio dell’autorizzazione predetta, il Ministero può e deve procedere alla dichiarazione di estinzione solo laddove ricorrano elementi che, quanto meno in termini di ragionevole probabilità, facciano escludere l’ipotesi che il giudice del fallimento permetta la continuazione dell’impresa (decorso di un lungo periodo dal fallimento, espliciti provvedimenti negativi, ecc.);

- il modesto lasso di tempo trascorso, nel caso di specie, dalla pronuncia del fallimento, non consentiva dunque, peraltro in assenza di qualsiasi preavviso al curatore e al G.D., l’emissione del provvedimento impugnato -d’altronde seguito, già il giorno dopo, dal rilascio dell’autorizzazione in parola.

3.- Il ricorso va, quindi, accolto.

4.- Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in complessivi 2.000 euro, oltre i.v.a. e c.p.a..

p.q.m.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Prima Sezione di Lecce, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso n. 1852/05 indicato in epigrafe e, per l’effetto, annulla il decreto prot. n. 902021 del 17 ottobre 2005 del Direttore Generale per i Servizi di Comunicazione Elettronica e Radiodiffusione del Ministero delle Comunicazioni.

Condanna il Ministero resistente al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese processuali, liquidate in complessivi 2.000 euro, oltre i.v.a. e c.p.a..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Lecce, nella camera di consiglio del 23 novembre 2005.

Aldo Ravalli - Presidente

Ettore Manca – Estensore

Pubblicata mediante deposito

in Segreteria il 23 novembre 2005

Perdita dell'anno scolastico, risarcimento dei danni

Cassazione , sez. III civile, sentenza 20.02.2007 n° 3949

all’accertamento ed alla eventuale liquidazione del risarcimento del danno da mancato guadagno subito dalla vittima, tenendo conto che, benché non sia configurabile un danno da lucro cessante specificamente rapportabile al ritardo (in via eziologica riferibile all’atto illecito produttivo del danno alla persona) nel conseguimento del titolo di studio, di questa circostanza può essere eventualmente tenuto conto nella misura in cui quel ritardo stesso allunga i tempi per svolgere la probabile attività lavorativa (produttiva di reddito) per il cui esercizio il titolo di studio è necessario”.

il danno patrimoniale da lucro cessante, per un soggetto privo di reddito e a cui siano residuati postumi permanenti in conseguenza di un fatto illecito altrui, configura un danno futuro, da valutare con criteri probabilistici, in via presuntiva e con equo apprezzamento del caso concreto. Pertanto, se occorre valutare il lucro cessante di un minore menomato permanentemente, la liquidazione del risarcimento del danno va svolta sulla previsione della sua futura attività lavorativa, in base agli studi compiuti o alle sue inclinazioni, rapportati alla posizione economico-sociale della famiglia, oppure (nel caso in cui quella previsione non possa essere formulata) adottando come parametro di riferimento quello di uno dei genitori, presumendo che il figlio eserciterà la medesima professione del genitore” (V. Cass. 2 ottobre 2003, n. 14678).




Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, sentenza n. 3949/2007

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Sezione terza civile

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

  • Dott. Paolo Vittoria -Presidente-
  • Dott. Antonio Segreto -Consigliere-
  • Dott. Alfonso Amatucci -consigliere-
  • Dott. Angelo Spirito -Rel. Consigliere-
  • Dott. Roberta Vivaldi -Consigliere-

Ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

Sul ricorso proposto da:

N.E., elettivamente domiciliata in Roma via Sardegna 29, presso lo studio dell'avvocato Vasi Giorgio, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato Farina Grazietta, giusta procura speciale a margine del ricorso;

-ricorrente-

Contro

Toro Assicurazioni SpA; B.F.;

-intimati-

Avverso la sentenza n. 202/03 della Corte d'appello di Cagliari – sezione Distaccata di Sassari del 23/05/03, depositata il 03/06/03;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/11/06 dal Consigliere Dott. Angelo Spirito;

Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo Maccarone che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Il tribunale di Nuovo condannò il B. e la Toro S.p.A. al risarcimento del danno da sinistro stradale in favore della N. . La corte di Sassari (per quanto ancora interessa) ha parzialmente accolto l'appello della N.

Quest'ultima propone ora il ricorso per cassazione, svolgendo due motivi. Non si difendono gli intimati. La N. ha anche depositato memoria per l'udienza.

Motivi della decisione

Nei due motivi di ricorso la N. lamenta i vizi della motivazione e la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. [1].

1) – In particolare, il primo motivo censura il punto della sentenza in cui è stata respinta la domanda di risarcimento del danno subito per il mancato conseguimento del risultato scolastico nell'anno in cui s'è verificato il sinistro, nonché quella del risarcimento conseguente alla diminuita capacità lavorativa, accertata dal CTU nella misura del 20% ed incontestata tra le parti.

Il motivo è fondato.

La sentenza impugnata ha respinto le domande in questione nella considerazione che "non sussistono elementi per calcolare una diminuzione reale della specifica capacità di guadagno, che all'epoca l'infortunata non possedeva". Siffatta affermazione non solo è viziata da difetto di motivazione ma, soprattutto, contrasta con il principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui il danno patrimoniale da lucro cessante, per un soggetto privo di reddito e a cui siano residuati postumi permanenti in conseguenza di un fatto illecito altrui, configura un danno futuro, da valutare con criteri probabilistici, in via presuntiva e con equo apprezzamento del caso concreto.

Pertanto, se occorre valutare il lucro cessante di un minore menomato permanentemente, la liquidazione del risarcimento del danno va svolta sulla previsione della sua futura attività lavorativa, in base agli studi compiuti o alle sue inclinazioni, rapportati alla posizione economico-sociale della famiglia, oppure (nel caso in cui quella previsione non possa essere formulata) adottando come parametro di riferimento quello di uno dei genitori,presumendo che il figlio eserciterà la medesima professione del genitore (in tal senso tra le varie, cfr. Cass. 2 ottobre 2003, n. 14678).

La sentenza va dunque , cassata sul punto ed il giudice, adeguandosi al principio di diritto sopra enunciato, dovrà procedere all'accertamento ed alla eventuale liquidazione del risarcimento del danno da mancato guadagno subito dalla vittima, tenendo conto che, benché non sia configurabile un danno da lucro cessante specificamente rapportabile al ritardo (in via eziologia riferibile all'atto illecito produttivo del danno alla persona) nel conseguimento del titolo di studio, di questa circostanza può essere eventualmente tenuto conto nella misura in cui quel ritardo stesso allunga i tempi per svolgere la probabile attività lavorativa (produttiva di reddito) per il cui esercizio il titolo di studio è necessario.

2) – Nel secondo motivo la ricorrente – dolendosi del vizio della motivazione e della violazione dell'art. 2059 c.c. – censura la sentenza per avere respinto il suo motivo d'appello in ordine al danno morale (liquidato dal primo giudice in L. 36.740), sulla base della mera affermazione che esso "è stato liquidato in maniera congrua", senza poi di fatto procedere alla relativa liquidazione. Aggiunge che il giudice non ha tenuto conto dei propri rilievi circa il fatto che la liquidazione del danno morale deve tenere conto della diminuita capacità lavorativa e della gravità delle lesioni subite.

Il motivo è infondato, in quanto la sentenza contiene una congrua motivazione in ordine allo specifico punto oggetto di denunzia.

3) – Pertanto, accolto il primo motivo e respinto il secondo, la sentenza deve essere cassata, con rinvio al giudice designato nel dispositivo, il quale provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo, cassa per quanto di ragione la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Cagliari, in diversa composizione, la quale provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Roma, 22 novembre 2006.

L'Estensore Il Presidente

DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 20 FEBBRAIO 2007.

sabato 7 aprile 2007

D.I.A, legittimità del diniego del Comune per carenza di elaborati

La sentenza conferma l'orientamento riguardo la legittimità del diniego del comune sugli effetti della denuncia di inizio de lavori ex art.23 del D.P.R. n. 380 del 2001, nel caso di carenza degli elaborati progettuali



N. 00448/2007 REG.SEN.

N. 00160/2006 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 160 del 2006, proposto da: s.r.l. I. V., con sede in Porto Sant’Elpidio (AP), in persona del suo rappresentante legale, rappresentato e difeso dagli avv.ti Benedetto Graziosi e Giacomo Graziosi, con domicilio eletto in Ancona, Via Giannelli, 36, presso l’avv. Domenico D'Alessio;

contro

- il COMUNE di SANT’ELPIDIO a MARE (AP), in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Massimo Ortenzi, con domicilio eletto presso la Segreteria del TAR delle Marche in Ancona, Piazza Cavour, 29;
- il RESPONSABILE dell’AREA OPERE PUBBLICHE e GESTIONE del TERRITORIO del COMUNE di SANT’ELPIDIO a MARE, rappresentato e difeso dall'avv. Massimo Ortenzi, con domicilio eletto presso la Segreteria del TAR delle Marche in Ancona, piazza Cavour, 29;

per l'annullamento

del provvedimento n.25618 del 28.1.2005, a firma del Responsabile dell’Area Opere Pubbliche e Gestione del Territorio del Comune di Sant’Elpidio a Mare, con cui è stato ordinato alla società ricorrente di non dare inizio ai lavori edilizi denunciati con Dichiarazione di inizio attività - D.I.A. - a causa della ritenuta insussistenza, nel caso di specie, delle condizioni richieste dalla legge per procedere alla realizzazione delle opere edilizie suddette sulla base di semplice DIA;

…………………..……. nonché per la condanna ………………………

dell’Amministrazione intimata al risarcimento dei danni asseriti subiti dalla società ricorrente per effetto del provvedimento impugnato;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Sant'Elpidio A Mare;

Vista l’ordinanza n.205 del 9 marzo 2006, con cui è stata respinta la domanda di sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento impugnato;

Vista l’ordinanza n. 2925 del 13 giugno 2006, pronunciata dal Consiglio di Stato, Sezione quarta, con cui è stato respinto l’appello proposto avverso la suddetta ordinanza cautelare del TAR Marche;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 10/01/2007, il dott. Galileo Omero Manzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel relativo verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO

Con la presente iniziativa giudiziaria la parte ricorrente si propone la invalidazione del provvedimento indicato in epigrafe con cui il competente dirigente del Comune intimato ha inibito la esecuzione dei lavori edilizi per i quali la società V. aveva presentato una denuncia di inizio attività - DIA -, in quanto, secondo l’Autorità comunale, nel caso di specie non sussistevano le condizioni previste dalla legge per avvalersi del procedimento semplificato della DIA, in primo luogo perché il Comune era sfornito di strumenti urbanistici completi della prevista normativa tecnica in materia di adeguamento termico degli edifici. Pertanto, non era quindi possibile procedere alla certificazione del rispetto di tale normativa da parte del tecnico abilitato che ha asseverato la DIA, senza contare che la DIA presentata dalla società Valmir, secondo gli uffici comunali, era anche sfornita di tutta una serie di documenti indicati nello stesso provvedimento di divieto di dare inizio ai lavori oggetto di gravame che ne precludeva il favorevole esame da parte dell’Amministrazione.

A fondamento dell’impugnativa vengono dedotte censure di violazione dell’art.3, comma 1, lett.c) e degli artt.22 e 23 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dell’art.9 del Regolamento edilizio regionale tipo approvato con D.P.G.R. del 4 settembre 1989, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, comma 4 e 9 del D.M. 27 luglio 2005, recante norme in materia di razionale uso dell’energia e di risparmio energetico e di scorporo dal calcolo delle cubature degli edifici degli spessori di strutture opache verticali, nonché vizio di eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento.

Secondo i difensori di parte ricorrente, l’intervento edilizio oggetto di denuncia di inizio attività di cui si controverte, al contrario di quanto ritenuto dai tecnici comunali, non dà luogo ad alcun incremento di cubatura, poiché si risolve nella realizzazione di opere di manutenzione straordinaria di un edificio preesistente sulle cui facciate è stata prevista la installazione di un rivestimento esterno, costituito da due lamine indissolubilmente legate da un nucleo di materiale sintetico, fissate alle pareti con una struttura leggera in acciaio, al fine di adeguare in tal modo la costruzione alla normativa sull’isolamento termico ed acustico.

Pertanto, con riferimento alla accennata natura e caratteristica delle opere edilizie che la società V. si proponeva di realizzare ed oggetto della denuncia di inizio di attività indirizzata al Comune, le preclusioni addotte dall’Amministrazione per inibire l’avvio dei lavori suddetti, a giudizio dei difensori della parte ricorrente, sono da considerare illegittime e contrarie alle norme invocate, in quanto per effetto della realizzazione del programmato rivestimento dell’edificio di cui si controverte, non si dà luogo alla realizzazione di incrementi di volumetria, come presuntivamente asserito dagli uffici comunali i quali, infatti, per loro espressa ammissione, non sono stati in grado di quantificare tali aumenti di volume asseriti derivanti dalla installazione delle nuove pannellature sulle facciate del preesistente edificio, a conferma della genericità ed illogicità dei motivi addotti dall’Amministrazione a giustificazione del divieto di dare inizio ai lavori oggetto di precedente DIA.

Illegittimo viene considerato anche l’ulteriore motivo ostativo alla piena operatività della DIA addotto dagli organi comunali e consistente nella contestata carenza documentale della denuncia di inizio di attività edilizia, dal momento che la stessa risultava corredata di tutti i documenti richiesti dagli artt.22 e 23 del Testo unico sull’edilizia di cui al D.P.R. n. 380 del 2001 e ritenuti idonei ad asseverare la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio comunale; per cui le carenze documentali segnalate dagli organi comunali a giustificazione dell’intimato divieto di dare inizio ai lavori oggetto di gravame, vengono considerate pretestuose e da ciò il denunciato sviamento nell’operato dell’Amministrazione intimata.

In sede di discussione della istanza cautelare, si è costituito in giudizio l’intimato Comune di Sant’Elpidio a Mare il cui difensore ha negato fondamento agli assunti invalidatori prospettati con il ricorso, evidenziando in particolare che dagli atti progettuali allegati alla DIA presentata dalla società ricorrente, gli uffici comunali hanno rilevato che dalla realizzazione del rivestimento esterno progettato dalla stessa, origina un aumento di cubatura, non derogabile con l’applicazione del D.M. 27 luglio 2005, in quanto per la valorizzazione di tali norme regolamentari si impone il preventivo adeguamento degli strumenti urbanistici comunali che non è stato ancora operato, atteso il poco tempo trascorso dalla entrata in vigore del citato D.M. (agosto 2005) e la data di presentazione della DIA di cui è causa (presentata nel mese di novembre 2005).

Anche per quanto concerne la contestata incompletezza documentale della DIA, il difensore del Comune ritiene le censure di parte ricorrente prive di fondamento, poiché alcuni dei documenti indicati come mancanti, sono necessari per esercitare i poteri comunali di controllo sulla segnalazione di inizio delle attività edilizie oggetto di DIA, la cui mancanza comporta inevitabilmente la immediata inibizione dei lavori programmati, attesa la impossibilità di dare corso ad acquisizioni istruttorie nel breve termine di trenta giorni fissato dalla legge, la cui inutile decorrenza determina la piena efficacia della DIA.

Con ordinanza n. 205 del 9 marzo 2006, il Tribunale ha respinto la domanda di sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento impugnato e tale decisione è stata confermata in sede di appello dal Consiglio di Stato, con ordinanza della Sezione quarta n. 2925 del 13 giugno 2006.

Nella imminenza della pubblica udienza di discussione della causa, i difensori della parte ricorrente hanno depositato, in data 18.12.2006, una memoria conclusionale con la quale hanno diffusamente ribadito i propri argomenti invalidatori dedotti con l’atto introduttivo del giudizio, insistendo per l’accoglimento del ricorso e per la condanna dell’Amministrazione comunale intimata al risarcimento dei danni asseriti sopportati dalla società ricorrente a causa del provvedimento impugnato e quantificati in euro 2.000,00 mensili, dalla data di presentazione della DIA e corrispondenti agli oneri finanziari che la società sopporta per il rimborso del mutuo bancario contratto per l’acquisto del compendio immobiliare interessato dai lavori edilizi di cui si controverte in questa sede che non può essere utilizzato a causa della inibizione alla loro esecuzione intimata con il provvedimento oggetto di gravame.

Anche il patrocinio comunale ha depositato, in data 28.12.2006, apposita memoria con la quale ha a sua volta ribadito le proprie tesi e conclusioni, insistendo per la reiezione del ricorso.

DIRITTO

1) Il ricorso va respinto per i motivi di seguito precisati.

2) Giova premettere in punto di fatto che la presente iniziativa giudiziaria è diretta a far constatare la illegittimità del provvedimento oggetto di gravame con cui il Comune intimato ha inibito la realizzazione, da parte della società ricorrente, di una serie di lavori edilizi per i quali la stessa aveva inoltrato una denuncia di inizio attività - D.I.A. - sul presupposto che per la loro esecuzione non si rendeva necessaria la preventiva acquisizione di un formale permesso di costruire, essendo le opere ascrivibili alla categoria dei lavori di manutenzione straordinaria per i quali l’art.16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, richiede la semplice DIA.

L’Amministrazione ha invece ritenuto di non potere assentire la suddetta DIA per un duplice ordine di motivi e, precisamente, in primo luogo perché, per effetto dei lavori programmati, si veniva a realizzare un incremento di cubatura non consentito sulla base delle vigenti norme urbanistiche e, poi, perché la dichiarazione di inizio lavori presentata al Comune non risultava corredata da tutta la documentazione richiesta dalla legge per consentire agli uffici comunali di verificare la compatibilità urbanistica delle opere oggetto di DIA, come previsto dall’art.23, comma 6, del citato D.P.R. n. 380 del 2001.

2/A) Ciò premesso in punto di fatto e passando all’esame delle censure dedotte con il ricorso, destituite di fondamento debbono essere valutate le censure di parte ricorrente preordinate a confutare gli assunti dell’Amministrazione comunale in ordine alla ritenuta incompletezza documentale della DIA presentata dalla società ricorrente.

A tale riguardo, va tenuto presente che l’art.23 del citato D.P.R. n. 380 del 2001, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, ai fini della regolarità formale della DIA, prevede che la stessa sia accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati, senza tuttavia precisare la tipologia della documentazione da allegare alla DIA, per cui, ai fini della sua individuazione, ritiene il Collegio bisogna fare riferimento, a seconda dei casi, alle caratteristiche degli interventi oggetto di denuncia di inizio di attività.

Infatti, è di tutta evidenza che, dal momento che sulla stessa denuncia i competenti organi comunali sono tenuti a verificare la sussistenza dei presupposti giuridici e tecnici previsti dalla legge per consentire la realizzazione dei lavori e delle opere edilizie segnalate nella DIA, ne consegue la necessità che, ai fini di tale riscontro, la dichiarazione di inizio di attività sia necessariamente completa sotto l’aspetto documentale.

Con riferimento a quanto precisato, dalla ricognizione della motivazione del provvedimento impugnato e, più precisamente, dal riscontro della elencazione dei documenti e dei dati notiziali asseriti non allegati e non indicati nella relazione tecnica presentata a corredo della DIA di cui si controverte, il Collegio ha potuto constatare che, indubbiamente, buona parte degli stessi risultavano effettivamente necessari agli uffici comunali per l’esercizio degli accennati poteri di controllo preventivo previsti dall’art.23 del D.P.R. n. 380 del 2001.

Donde, in mancanza di tali dati, a fronte del breve termine assegnato dalla legge per l’accennato riscontro (30 gg.) che ne impediva l’acquisizione in via istruttoria, ragionevolmente il responsabile del procedimento si è visto costretto ad inibire, nell’immediato, l’avvio dei lavori e delle opere oggetto della DIA, in modo da evitare la loro realizzazione in assenza di controllo, dal momento che, una volta decorso inutilmente il termine suddetto, la società ricorrente avrebbe potuto liberamente dare avvio ai lavori programmati.

Non vi è dubbio, infatti, che per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, ai fini della completezza istruttoria, in sede di asseverazione della conformità urbanistica ed edilizia delle opere oggetto di DIA, bisognava sicuramente indicare gli estremi dei precedenti atti autorizzatori della costruzione interessata dagli interventi manutentivi programmati, come pure allegare il segnalato parere dell’Amministrazione provinciale, visto che l’intervento costruttivo veniva ad interessare un edificio prospiciente una strada provinciale.

Per le stesse ragioni, ritiene il Collegio, che doveva essere allegata alla DIA anche la speciale relazione tecnica prevista dall’art.4, comma 3, del D.M. 27 luglio 2005, in materia di risparmio energetico, visto che l’intervento manutentivo oggetto della denuncia di inizio attività era finalizzato a porre rimedio alle carenze delle preesistenti tamponature esterne dell’edificio, sotto l’aspetto dell’isolamento termico.

Da ciò quindi deriva la infondatezza delle censure di violazione di legge e di eccesso di potere dedotte dalla parte attrice, poiché, a fronte della rilevata incompletezza della documentazione e della relazione allegata alla DIA presentata dalla società ricorrente, l’ordine di non dare inizio ai lavori intimato dal Comune, ritiene il Collegio, costituisse un adempimento doveroso, attesa la necessità di non fare decorrere inutilmente il termine perentorio di 30 giorni fissato dalla legge per la verifica della regolarità della DIA e tenuto altresì presente che, indipendentemente dalla accennata inibizione a dare avvio ai lavori di cui si controverte, alla società ricorrente era comunque consentito di ripresentare la DIA con le modifiche e le integrazioni necessarie per colmare le carenze notiziali e documentali contestate in precedenza dagli uffici comunali, come previsto espressamente dall’art. 23, comma 6 del citato D.P.R. n. 380 del 2001.

2/B) Passando a questo punto ad esaminare le residue censure dedotte con il ricorso e preordinate a sindacare la legittimità dell’ulteriore motivo addotto dal Comune intimato a giustificazione del divieto di dare avvio ai lavori oggetto di DIA, impartito con il provvedimento impugnato, il Collegio le ritiene fondate per i motivi di seguito precisati.

Al riguardo, va osservato che il responsabile del procedimento ha giustificato il divieto suddetto, oltre che per la ritenuta incompletezza della relazione e della documentazione allegata alla denuncia di inizio attività, anche in considerazione della ulteriore circostanza che, per effetto della esecuzione dei lavori oggetto di tale denuncia, si veniva a realizzare un incremento di volumetria del fabbricato interessato da tali lavori di manutenzione, non consentita, dal momento che l’eventuale non valutabilità di tali maggiori cubature derivanti dalla collocazione sulle facciate dell’edificio di pannelli prefabbricati, secondo quanto previsto dall’art.4, comma 3, del Decreto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti 27 luglio 2005, risultava subordinata al preventivo adeguamento al citato D.M. dello strumento urbanistico comunale, in mancanza del quale l’incremento di cubatura che si veniva a realizzare in conseguenza della DIA, non era consentito.

Tale assunto dell’Amministrazione comunale deve essere tuttavia valutato illegittimo, in quanto frutto di una errata interpretazione del quadro normativo di riferimento.

In proposito, va precisato che l’art.4, comma 3, del suddetto Decreto ministeriale, al fine di agevolare l’attuazione delle norme sul risparmio energetico e per migliorare la qualità degli edifici, ha previsto la non commutabilità, ai fini del calcolo della superficie utile lorda di cui all’art.13 del Regolamento edilizio regionale tipo (approvato con D.P.G.R. n. 23 del 14.9.1989), dello spessore delle strutture verticali idonee a migliorare l’isolamento termico degli edifici per la parte superiore a 30 cm. di spessore, fino ad un massimo di ulteriori 25 cm..

A tale riguardo, l’art.2, commi 6 e 7 dello stesso D.M., nel prevedere l’obbligo per i Comuni di adeguare i propri strumenti urbanistici per migliorare lo sfruttamento delle radiazioni solari quale fonte di calore, attraverso indicazioni in ordine all’orientamento dei fabbricati ed alla utilizzazione di elementi di tamponatura delle facciate di notevole spessore, ha stabilito lo scorporo dal calcolo dei volumi massimi previsti nelle diverse zone urbanistiche, degli spessori di tali elementi di tamponatura nelle parti eccedenti i 30 cm., fino ad un massimo di 25 cm..

Con riferimento a quanto precisato, ritiene tuttavia il Collegio che, al contrario di quanto sostenuto dal Comune intimato, tale scorporo delle cubature cui si è fatto cenno, può trovare immediata applicazione anche prima dell’adeguamento dei piani urbanistici comunali, in quanto la tassatività dei limiti di spessore delle strutture verticali degli edifici non computabili ai fini volumetrici, definiti in sede ministeriale, non consente deroghe in difetto o in eccesso da parte degli strumenti urbanistici comunali, per cui l’operatività delle suddette norme tecniche non può essere subordinata a tale accennato previsto adeguamento del piano regolatore, visto che lo stesso non potrà fare altro che recepirle.

Ciò comporta il riconoscimento della illegittimità del provvedimento impugnato relativamente alla ritenuta inapplicabilità dello scorporo di cubatura previsto dagli artt.2, comma 7 e 4, comma 3 del D.M. 27 luglio 2005, in mancanza dell’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali, per quanto concerne gli interventi edilizi oggetto della DIA presentata dalla società ricorrente la cui esecuzione è stata inibita con il provvedimento impugnato.

3) In conclusione, alla luce di quanto argomentato, il ricorso deve essere tuttavia respinto, poiché il provvedimento impugnato, come si è avuto modo di evidenziare, risulta basato su una pluralità di motivazioni e, quindi, l’avvenuto riconoscimento della validità di una di esse, costituita dalla riscontrata carenza documentale della DIA di cui si controverte, è comunque idonea a sorreggere il dispositivo dello stesso provvedimento oggetto di gravame, nonostante il contestuale avvenuto riconoscimento della invalidità dell’altro motivo addotto a giustificazione del medesimo.

Infatti, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, ai fini della legittimità di un atto amministrativo, nel caso di pluralità di motivi autonomi posti a base dello stesso, la perdurante riconosciuta legittimità ed efficacia di uno di essi, perché non censurato o perché ritenuto esente dai vizi denunciati, è idonea a sorreggere la validità del medesimo ed è di per sé ragione sufficiente per respingere il ricorso (Cons. St., Sez.VI, 17 ottobre 2000, n.5530; C.S.I., 12 febbraio 2004, n.31; TAR Marche, 29 settembre 2000, n.1378; TAR Lazio, Sez. II, 16 gennaio 2003, n.180).

4) Va respinta anche la domanda di risarcimento danni pure avanzata con il ricorso, in quanto, nel processo amministrativo, presupposto ineludibile dell’azione risarcitoria è la sentenza che, a conclusione di un giudizio impugnatorio annullatorio, ha provveduto ad eliminare dal mondo giuridico l’atto al quale la parte ricorrente addebita la responsabilità del danno patrimoniale che assume avere subito e per il quale chiede di essere indennizzato (Cons. St., Ad. Pl., 26 marzo 2003, n.4; Sez. V, 12 agosto 2004, n.5558; TAR Basilicata, 17 ottobre 2003, n.994).

Donde, per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, dal momento che il ricorso in epigrafe, per le ragioni esposte, deve essere respinto e, quindi, il provvedimento impugnato è destinato a conservare piena validità ed efficacia, pur nei limiti sopra precisati per quanto concerne gli altri motivi addotti a sua giustificazione, ne consegue la reiezione della domanda di risarcimento danni avanzata dalla parte ricorrente.

5) In conclusione, il ricorso deve dunque essere respinto, come pure la subordinata domanda di risarcimento danni.

6) Si ravvisano tuttavia valide ragioni per compensare tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale delle Marche respinge il ricorso in epigrafe indicato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Ancona, nella camera di consiglio del giorno 10/01/2007, con l'intervento dei signori:

Luigi Ranalli, Presidente FF

Galileo Omero Manzi, Consigliere, Estensore

Liana Tacchi, Consigliere







L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE










IL SEGRETARIO






DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 30/03/2007

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

IL DIRIGENTE

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