lunedì 8 febbraio 2010

La vexata quaestio dell'art. 41 TULPS

Sentenza 18 novembre - 18 dicembre 2009, n. 48552
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI PENALE


E' la vexata quaestio dell'art. 41 TULPS introdotto in epoca precedente alla entrata in vigore della Costituzione, non risolta tuttora, che ruota intorno a rilevanti dubbi di costituzionalità, rispetto ai forti principi di tutela della libertà presenti del diritto comunitario. La Corte approccia alla questione con coraggio ma senza intervento risolutore.

"...va evidenziato che la previsione costituzionale, nell'introdurre la riserva di legge per derogare alla regola dell'inviolabilità del domicilio, in stretto collegamento con la libertà personale, impone all'interprete un'interpretazione rigorosa dell'art. 41 R.D. cit., da cui sia bandita qualsiasi libera iniziativa e valutazione discrezionale degli organi di polizia giudiziaria e negata la possibilità che la perquisizione possa essere effettuata sulla base di un mero sospetto (che può trarre origine anche da un semplice personale convincimento), essendo sempre necessaria l'esistenza di un dato oggettivo che costituisca "notizia, anche per indizio", il quale, per sua natura, deve ricollegarsi ad un fatto obbiettivamente certo o a più fatti certi e concordanti tra loro (v. Corte Cost., in particolare le sentenze nn. 173/1974 e 261/83 e l'ordinanza n. 332/2001)"

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 18 novembre - 18 dicembre 2009, n. 48552

Svolgimento del processo

1. La Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza 18.10.2005, con cui il Tribunale di Como aveva condannato il P. alla pena di otto mesi di reclusione per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale e per quello (aggravato ex art. 61 c.p., n. 2, e, perciò, procedibile d'ufficio) di lesioni personali nei confronti di un maresciallo dei Carabinieri e di due carabinieri della Stazione CC. di Pognana Lario.

2. Risulta dalla sentenza impugnata che l'ufficiale giudiziario S.A., recatosi presso l'indirizzo di P.G. per notificargli una citazione per convalida di sfratto, aveva, tramite citofono, comunicato lo scopo della visita, ricevendone il rifiuto di aprire il portone d'ingresso e l'invito ad andare via, con espressioni anche volgari.

Intervenuto a seguito di telefonata del S., il maresciallo dei CC. G.G.B. (in borghese, accompagnato da altri due carabinieri in divisa) saliva al piano d'abitazione del P., bussava, si qualificava e invitava ad aprire la porta, ottenendo dalle persone che erano in casa un rifiuto e la dichiarazione che la porta sarebbe stata aperta su mandato di un magistrato.

“Alla fine, il m.llo G., che nel frattempo aveva chiesto rinforzi, aveva intimato, ai sensi del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 41 (T.U.L.P.S.), di aprire la porta entro un certo tempo, altrimenti l'avrebbe sfondata per la ricerca di armi. La porta era restata chiusa, ma, dopo poche spallate, aveva ceduto ed i Carabinieri si erano trovati di fronte un uomo..., con le braccia in alto, che gridava come un forsennato: andate via, non potete far questo, lei chi è, come si permette di accedere nel mio appartamento, lei non sa chi sono io, la faccio trasferire, le faccio perdere la Tenenza del comando", o qualcosa del genere; poi vicino all'altro Carabiniere, che era in divisa, Lei si metta sugli attenti, mi saluti, perchè io sono un suo superiore”.

Escusso a dibattimento ex art. 210 c.p.p., (essendo intervenuta archiviazione della denuncia penale proposta dal P.), il maresciallo G. - secondo quanto scrivono i giudici d'appello - aveva precisato di avere “sospettato la perpetrazione di qualche reato e si era assunta la responsabilità di vedere che vi fosse in casa, anche sfondandone la porta d'ingresso...; aveva comunicato che intendeva procedere alla perquisizione per la ricerca di armi e aveva avvisato il P. della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, ma lui si era puntellato tra noi e il resto dell'appartamento e, non appena qualcuno aveva cercato di entrare in contatto con lui, aveva cominciato a sferrare gomitate ed anche calci (...) su di noi”.

Il teste aggiunse che "la confusione era tale che a fatica l'uomo era stato ammanettato". 3. Avverso la sentenza ricorre il difensore dell'imputato, deducendo, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), vizio di motivazione e inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione al D.Lgs.Lgt. n. 288 del 1944, art. 4, per avere i giudici di merito escluso la sussistenza della causa di non punibilità della reazione ad atto arbitrario del pubblico ufficiale.

Motivi della decisione

4. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

5. Il R.D. n. 773 del 1931, art. 41, richiamato dall'art. 225 delle norme di coordinamento c.p.p., attribuisce agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria il potere di perquisizione "in qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione" soltanto allorchè "abbiano notizia, anche se per indizio, dell'esistenza... di armi, munizioni o materie esplodenti, non denunziate o non consegnate o comunque abusivamente detenute".

Osserva il Collegio che tale norma, al di là delle intenzioni del legislatore che l'introdusse nell'ordinamento giuridico, non ha mai conferito alla polizia giudiziaria un potere senza limiti e, tanto meno, un potere ad libitum dell'agente che procede, bensì il dovere di immediata attivazione in presenza di un determinato presupposto: la notizia, anche se per indizio, dell'esistenza di armi.

Tale avvertenza va sottolineata, a maggior ragione nello Stato costituzionale di diritto, introdotto dalla Costituzione repubblicana, in cui l'inviolabilità del domicilio privato è presidiata da garanzia costituzionale come diritto fondamentale della persona, con espresso divieto di eseguire perquisizione domiciliare "se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale" (art. 14 Cost., comma 2).

Pur considerando che la tutela accordata alla libertà di domicilio non è assoluta, ma trova dei limiti stabiliti dalla legge ai fini della tutela di preminenti interessi costituzionalmente protetti, come emerge dalle stesse disposizioni dell'art. 14 Cost., e tenendo in conto l'innegabile esigenza di porre gli organi di polizia giudiziaria in grado di provvedere con prontezza ed efficacia in ordine a situazioni (quali la detenzione clandestina o comunque abusiva di armi, munizioni o materie esplodenti) idonee, per loro stessa natura, a esporre a grave pericolo la sicurezza e l'ordine sociale, va evidenziato che la previsione costituzionale, nell'introdurre la riserva di legge per derogare alla regola dell'inviolabilità del domicilio, in stretto collegamento con la libertà personale, impone all'interprete un'interpretazione rigorosa dell'art. 41 R.D. cit., da cui sia bandita qualsiasi libera iniziativa e valutazione discrezionale degli organi di polizia giudiziaria e negata la possibilità che la perquisizione possa essere effettuata sulla base di un mero sospetto (che può trarre origine anche da un semplice personale convincimento), essendo sempre necessaria l'esistenza di un dato oggettivo che costituisca "notizia, anche per indizio", il quale, per sua natura, deve ricollegarsi ad un fatto obbiettivamente certo o a più fatti certi e concordanti tra loro (v. Corte Cost., in particolare le sentenze nn. 173/1974 e 261/83 e l'ordinanza n. 332/2001).

Al di fuori di tale presupposto, la perquisizione domiciliare è non soltanto illegittima, ma anche oggettivamente arbitraria, sconfinando nell'indebita incisione della libertà domiciliare, tutelata per Costituzione nei confronti di chiunque, anche e innanzitutto nei confronti del potere pubblico.

6. Nel caso in esame, non soltanto mancava qualsiasi oggettivo indizio di notizia che, in casa del P., esistessero abusivamente armi, come chiaramente emerge dalla narrazione della vicenda contenuta nella sentenza impugnata, in cui si riferisce dei "sospetti" del pubblico ufficiale, ma l'evocazione dell'art. 41, citato T.U.L.P.S. si appalesa, all'evidenza, come un mero pretesto, utilizzato dal maresciallo G., per sfondare la porta senza che esistessero i presupposti di legalità per esercitare, per di più con modalità violente, il potere di perquisizione, conferito dall'ordinamento a tutela dell'incolumità pubblica, e non certo allo scopo di riaffermare una primazia di potere di fronte al legittimo, per quanto pervicace e testardo, diniego opposto dal P. non soltanto all'ufficiale giudiziario, ma anche al maresciallo del Carabinieri.

Mette conto, peraltro, sottolineare che già prima dello sfondamento della porta l'azione dell'ufficiale giudiziario e dei carabinieri intervenuti in suo ausilio appare eccessiva e sproporzionata rispetto alla condotta del P..

La reiterata insistenza dell'ufficiale giudiziario nel pretendere di consegnare materialmente la citazione per convalida di sfratto nelle mani proprie del destinatario, nonostante il rifiuto da lui opposto, non trova fondamento giuridico (e tanto meno legittimava in alcun modo l'intervento della polizia giudiziaria), essendo espressamente previsto, in tema di notificazione di atti, che "se il destinatario rifiuta di ricevere la copia, l'ufficiale giudiziario ne da atto nella relazione, e la notificazione si considera fatta in mani proprie" (art. 138 c.p.c., comma 2).

7. Ritiene, pertanto, il Collegio che la condotta del P., contestata come resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), fu causata dal comportamento arbitrario tenuto dell'ufficiale di polizia giudiziaria, eccedente dai limiti delle attribuzioni istituzionali, perchè caratterizzato da un macroscopico sviamento rispetto allo scopo di pubblico interesse per il quale è dall'ordinamento previsto l'esercizio di poteri autoritativi, sicchè deve trovare applicazione la causa di non punibilità prevista dalla L. 15 giugno 2009, n. 94, art. 1, comma 9, che ha reintrodotto, sotto l'art. 393 bis c.p., la causa di non punibilità già prevista dal D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, art. 4.

In linea con quanto questa Corte ha avuto modo di affermare, infatti, una perquisizione, che incide sull'inviolabilità del domicilio, presidiata da garanzia costituzionale, ove sia eseguita pretestuosamente, e quindi consapevolmente, effettuata ai sensi dell'art. 41 T.U.L.P.S., in mancanza di oggettivo indizio di esistenza di armi, costituisce, oggettivamente per offensività e soggettivamente per vessatorietà, atto arbitrario del pubblico ufficiale (v. Cass. n. 5564/1996, Perrone).

8. Per il delitto di lesioni personali le parti offese non hanno presentato querela e si proceduto d'ufficio in forza della previsione di cui all'art. 582 c.p.p., comma 2, art. 585 c.p.p., comma 1, e art, 576 c.p.p., comma 1, n. 1, essendo stata contestata l'aggravante del nesso teleologico (art. 61 c.p., n. 2).

Trattasi di aggravante di natura soggettiva, che si fonda sulla maggiore pericolosità di chi, pur di attuare il suo intento criminoso, non esita a compiere un reato mezzo per eseguirne un altro. Detta circostanza deve essere conosciuta dall'agente e deve rientrare nella rappresentazione dell'evento. Per la sua sussistenza è necessaria la prova che la volontà dell'agente, al momento della commissione del reato-mezzo (nella specie lesioni personali) era diretta alfine di commettere il reato-scopo (resistenza a pubblico ufficiale), scopo che deve essere già presente nella mente dell'agente con chiarezza tale da consentire l'identificazione della sua fisionomia giuridica (cfr. Cass. n. 4751/1989, Costa).

Rileva il Collegio che nel caso di specie tale prova manca del tutto, apparendo invece che nel P. mancava sia la volontà sia la rappresentazione dell'aggravante, mirando il suo intento e la sua condotta unicamente a reagire a quello che, soggettivamente, egli considerava un intollerabile sopruso e, oggettivamente, costituì un atto arbitrario.

Esclusa, perciò, la contestata aggravante, va constatata l'improcedibilità dell'azione per difetto di querela.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, con riferimento al delitto di resistenza a pubblico ufficiale, trattandosi di persona non punibile ai sensi dell'art. 393 bis c.p., e, con riferimento al delitto di lesioni personali, esclusa la contestata aggravante, per difetto di querela.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2009.

lunedì 1 febbraio 2010

RCA e sufficienza della targa per l'obbligo risarcitorio nella identificazione del veicolo danneggiante

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE IV PENALE
Sentenza 23 ottobre 2009 - 15 gennaio 2010, n. 1823

Il certificato di assicurazione ed il relativo contrassegno contengono solo il numero della targa, salvo casi eccezionali, per cui è solo la targa che consente l'identificazione del veicolo assicurato, e quindi l'insorgenza dell’obbligazione risarcitoria a carico della compagnia per i danni causati dal veicolo; sicchè, nessuna rilevanza può avere il numero del telaio.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

Sentenza 23 ottobre 2009 - 15 gennaio 2010, n. 1823

Svolgimento del processo

Con sentenza del 5 febbraio 2003 il Tribunale di Ancona, Sezione di Jesi, ha dichiarato S.D. colpevole del delitto di omicidio colposo plurimo e del reato di guida in stato di ebbrezza e lo ha condannato alla pena di anni due e mesi otto di reclusione e di Euro 800,00 di ammenda nonchè, in solido con il responsabile civile, Sai Assicurazioni spa, al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili, con assegnazione alle stesse di provvisionali.

Si trattava di un incidente stradale cosi ricostruito. Lo S., alla guida della vettura Fiat Bravo, tg ****, con a bordo L.L., seduto sul sedile anteriore destro, nonchè T.C., La.Lu. e C.E., seduti sul sedile posteriore, era uscito di strada, sul lato sinistro, urtando contro un albero di olmo. Per effetto dell'impatto e della successiva rotazione, l'auto si era divisa in due tronconi. Gli occupanti dei troncone posteriore erano stati sbalzati fuori finendo a notevole distanza dall'albero di olmo e decedendo.

Con sentenza del 30 ottobre 2006 la Corte di Appello di Ancona, investita delle impugnazioni proposte dai difensori dello S. e da quello del responsabile civile, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine alla contravvenzione ascritta perchè estinta per prescrizione e, per l'effetto, ha rideterminato la pena in anni due e mesi otto di reclusione, confermando il riconoscimento di responsabilità per il delitto di cui all'art. 589 c.p., commi 1 e 3 e art. 61 c.p., n. 3 e la condanna dello S. e del responsabile civile Fondiaria - Sai spa, a risarcire il danno alle parti civili.

I difensori dello S. hanno presentato, per conto di quest'ultimo, ricorso per Cassazione contro la summenzionata sentenza della Corte di Appello.

Essi si sono doluti, in primo luogo, del fatto che non fosse stata accolta la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per assumere delle prove, in particolare le testimonianze di P. L. e R.L., da cui sarebbe emerso che alla guida del veicolo si trovava altra persona vale a dire L.L..

Hanno contestato, altresì, la circostanza che la condanna fosse stata basata sostanzialmente su un apparato indiziario non certo, nonchè la mancanza e, comunque, la illogicità della motivazione in ordine al riconoscimento dell'aggravante della previsione dell'evento e alla negata applicazione delle attenuanti generiche nella loro massima espansione.

Anche l'Avv. Rodolfo Berti ha proposto, per conto dei responsabile civile, la Fondiaria Sai spa, ricorso per Cassazione contro la sentenza della Corte di Appello nella parte in cui aveva confermato la condanna della detta società, quale responsabile civile, a risarcire le parti civili.

Egli ha esposto, in primo luogo, che il giudice di secondo grado aveva errato nel ritenere che lo S., pure intestatario al PRA del veicolo targato ****, lo stesse guidando al momento del sinistro. Infatti, la vettura da lui condotta, come accertato dalla Polizia Stradale aveva subito la modifica del numero del telaio in quanto quello originale era stato abraso e sopra era stato stampigliato il n. ****, corrispondente al PRA alla targa ****. Questa targa risultava impropriamente applicata sul veicolo in quanto, attraverso il numero del motore, si era risaliti alla vettura Fiat Bravo targata **** di proprietà di tale O. che era stata oggetto di furto avvenuto a **** la notte del ****. La vettura condotta dallo S. era, in realtà, targata **** e ad essa, successivamente, lo stesso vi aveva apposto la targa **** di un altro veicolo da lui acquistato da tale P. nel ****. Ne conseguiva che la macchina coinvolta nel sinistro non era quella assicurata avente targa **** e numero di telaio **** (così come trascritti al PRA), ma altro veicolo in origine targato ****.

Il difensore dello S. ha depositato memoria difensiva.

Altrettanto ha fatto il difensore delle parti civili C.C. A., D.S., C.E., La.At., A.S. e La.Lu. nonchè delle parati civili T.G., C.L. e T.L..

Motivi della decisione

I gravami sono infondati.

Quanto alle censure dello S., la corte di appello ha concluso che costui era sicuramente alla guida del veicolo al momento dell'incidente, ritenendo sul punto rilevanti e decisive, ai fini della formazione del suo convincimento, le dichiarazioni delle testi R.C. e G.A.. La prima, infatti, aveva visto il ricorrente, pochi istanti prima che andasse via con la sua auto, fare salire a bordo dal lato guidatore C.E., mentre il Lampi aveva fatto altrettanto dall'altro lato con la T.. La seconda, invece, aveva sentito la C. dire che il L. sarebbe andato avanti accanto al conducente perchè aveva mal di stomaco. Il collegio ha pure considerato la posizione assunta dal corpo del L. dopo l'urto e le spiegazioni date al riguardo dal consulente del PM. Le osservazioni svolte dalla corte del merito, evidenziando che la stessa non dubitava della ricorrenza di una pluralità di elementi dimostrativi del fatto che alla guida del veicolo al momento del sinistro fosse l'imputato, spiegano perchè il collegio nulla abbia espressamente detto sulla richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale volta: 1) a fare sentire come testi P.L. e R.L. secondo cui il L., nell'immediatezza dell'incidente, aveva chiesto perdono per quanto era accaduto; 2) a fare acquisire la perizia psichiatrica eseguita sull'imputato che dava conto del fatto che lo S. aveva perso la memoria in conseguenza del grave trauma subito a seguito dell'incidente, che successivamente aveva riacquistato la memoria, ricordando che alla guida della vettura era il L., che tale ricordo era genuino; 3) ad ottenere l'esame dell'imputato ed il confronto con il L.; 4) a disporre un perizia per accertare la posizione degli occupanti il veicolo al momento del sinistro. Ed infatti, indipendentemente dalle considerazioni fatte nell'ordinanza del 19/10/2006, i giudici di appello, nel momento stesso in cui hanno espressamente escluso che alla guida della vettura non fosse lo S., hanno contemporaneamente disatteso la tesi difensiva secondo cui il mezzo era condotto dal L., vale a dire da persona diversa dall'imputato;ed implicitamente escluso la necessità, ai fini della decisione da assumere, di rinnovare l'istruzione dibattimentale, non essendo le nuove prove, nella comparazione con gli elementi acquisiti, idonee a determinare un diverso convincimento.

Immune da censura è anche la motivazione con cui la corte del merito ha spiegato che l'evento si presentava all'imputato come altamente prevedibile, essendo egli consapevole che, per le condizioni della strada percorsa, ben conosciute, e per la condotta di guida tenuta, contraddistinta da una velocità elevata, poteva uscire di strada.

L'evento, quindi, non si poteva non rappresentare alle capacità intellettive dello S..

Il collegio ha pure giustificato in maniera adeguata e coerente l'esercizio del suo potere discrezionale in ordine alla determinazione della pena,in quanto ha ritenuto di non potere concedere le attenuanti generiche dopo una valutazione della gravità del fatto e del grado della colpa ravvisabile nella condotta del prevenuto. Vi è stato quindi, un apprezzamento di elementi, tale da attribuire agli stessi valenza prevalente rispetto ai dati evidenziati dal ricorrente.

Non è ancora maturata la prescrizione, chiesta dal difensore dello S. in sede di conclusioni, trattandosi di reato commesso il **** e non essendo state concesse attenuanti.

Quanto alle contestazioni dei responsabile civile, si osserva, in primo luogo, che non risulta accertato dai giudici di merito che il veicolo condotto dall'imputato al momento dell'incidente fosse quello rubato e targato ****. Infatti, come si evince dalla sentenza di primo grado (cfr. pag. 13), le cui conclusioni sul punto sono state implicitamente condivise dalia corte di appello, unicamente era emerso che il motore della macchina dello S. era quello della vettura summenzionata, mentre alcuna certezza si era potuta raggiungere in ordine all'identificazione del telaio.

Tanto precisato, si rileva che, secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, nei giudizi di risarcimento dei danni derivanti dalla circolazione di veicoli per i quali vi è obbligo di assicurazione, nei rapporti tra danneggiato e compagnia assicurativa non assumono rilievo questioni riguardanti la validità della polizza.

Per quanto concerne la relazione tra danneggiato ed assicuratore vale, infatti, il principio posto dalla L. n. 990 del 1969, art. 7, secondo cui, nei confronti dei danneggiato, l'assicuratore è tenuto al risarcimento dei danni per tutto il periodo indicato nella polizza, indipendentemente dalla sua validità, visto che il certificato di assicurazione attesta verso i terzi la presenza della garanzia assicurativa e da questa attestazione nasce l'obbligazione risarcitoria (Cfr. Cass. Sez. 3, Sent. n. 10504 dell'8 maggio 2006).

In particolare, il rilascio del contrassegno assicurativo da parte dell'assicuratore vincola quest'ultimo a risarcire i danni causati dalla circolazione del veicolo, pure se il contratto non è efficace, poichè verso il danneggiato ciò che rileva è l'autenticità del contrassegno, non la validità del rapporto assicurativo, dovendosi tutelare il legittimo affidamento dei terzi (Cfr. Cass. Sez. 3, Sent. n. 16726 del 17 luglio 2009).

Sostiene parte ricorrente che la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto del fatto che, in base alla L. n. 990 del 1969, art. 7, comma 4, il contrassegno assicurativo doveva essere applicato "sul veicolo cui l'assicurazione si riferisce", mentre, nella specie, venendo in considerazione una macchina avente solo targa identica a quella indicata nel contrassegno, ma diverso telaio e motore, non poteva parlarsi di identità fra il veicolo assicurato e quello coinvolto nell'incidente Detto assunto è privo di pregio.

Infatti, il comma summenzionato va letto assieme ai primi tre del detto art. 7, secondo cui:

1) l'adempimento degli obblighi stabiliti dalla presente legge deve essere comprovato da apposito certificato rilasciato dall'assicuratore, da cui risulti il periodo di assicurazione per il quale sono stati pagati il premio o la rata di premio;

2) l'assicuratore è tenuto nei confronti dei terzi danneggiati per il periodo di tempo indicato nel certificato, salvo quanto disposto dall'art. 1901 c.c., comma 2;

3) all'atto del rilascio de certificato di assicurazione l'assicuratore consegna inoltre all'assicurato un contrassegno recante la sua firma, il numero della targa di riconoscimento del veicolo e l'indicazione dell'anno, mese e giorno di scadenza del periodo di assicurazione per cui è valido il certificato.

Inoltre, secondo l'art. 9 del regolamento di esecuzione della L. n. 990 del 1969 (D.P.R. n. 973 del 1970), pure richiamato dal responsabile civile a sostegno della propria tesi, il certificato di assicurazione per i veicoli a cui si applica la L. n. 990 del 1969 deve contenere una serie di dati, fra cui, per ciò che qui rileva, il tipo del veicolo, il numero della polizza e i dati della targa di riconoscimento e, solo quando quest'ultima non sia prescritta, i dati d'identificazione del telaio e del motore.

Dalla L. n. 990 del 1969, art. 7, commi 1, 2 e 3 e dall'art. 9 del regolamento di esecuzione, si ricava che:

l'esistenza del contratto è dimostrata dal certificato di assicurazione;

l'assicuratore risponde nei confronti dei terzi per il periodo ivi indicato;

assieme al certificato è rilasciato un contrassegno dell'assicuratore;

sia nel certificato che nel contrassegno è riportato, ai fini dell'identificazione del veicolo assicurato, il solo numero di targa e non quello del telaio, tranne che in casi eccezionali.

Se ne evince che nel certificato di assicurazione il numero della polizza è associato in linea generale alla targa, che nel contrassegno dell'assicuratore è pure menzionata la sola targa e che, quindi, il "veicolo cui l'assicurazione si riferisce", del quale fa menzione la L. n. 990 del 1969, comma 4, è quello identificato nel certificato e nel contrassegno de quibus con il numero della targa.

D'altronde, non si comprende come potrebbe validamente essere tutelato l'affidamento dei terzi (che, appunto, assume primario rilievo nel loro rapporto con l'istituto assicuratore secondo l'intero assetto normativo vigente) qualora si faccia riferimento al numero dei telaio, dato che non può essere considerato di agevole percezione, mentre, invece, è proprio con il numero di targa, facilmente conoscibile, che la posizione dei danneggiati riceve adeguata protezione.

Del tutto irrilevanti sono le considerazioni del responsabile civile in ordine alla vendita di veicolo recante i numeri di telaio o di motore alterati, considerato che in tali casi non viene in questione un problema di risarcimento di danni subiti da soggetti terzi rispetto al rapporto contrattuale previsto obbligatoriamente dalla legge con una disciplina coattiva, ma solo un inadempimento. In particolare, in tali casi si parla di consegna di aliud pro alio, per indicare un'ipotesi in cui le differenze fra la cosa promessa e quella venduta sono talmente gravi da comportare l'applicazione della disciplina sull'inadempimento,piuttosto che quella sui vizi della res alienata, senza che rilevi l'affidamento dei terzi od una normativa specifica che regolamenti i rapporti con questi imponendo obblighi risarcitori.

Privo di pregio è anche il riferimento della Fondiaria - Sai spa alla L. n. 990 del 1969, art. 8, che prevede che il trasferimento di proprietà dei veicoli comporta le cessione del contratto di assicurazione, considerato che tale disposizione risponde all'esigenza che sia proprio garantita sempre la circolazione di veicoli coperti da assicurazione.

Pure da respingere è l'ulteriore contestazione del responsabile civile relativa all'inesistenza del contratto di assicurazione per mancanza del rischio assicurato ai sensi dell'art. 1895 c.c..

Infatti, è innegabile che, nella specie, il contratto è stato concluso con riferimento ad un veicolo destinato alla circolazione anteriormente alla data del sinistro de quo e che, quindi, sussistono gli elementi fondamentali di un contratto di assicurazione, in particolare la cd. alea. La Fondiaria - Sai spa ha posto a fondamento della propria doglianza due sentenze della Suprema Corte di Cassazione, la n. 8460 del 1994 e la n. 7300 del 1991 che, però, concernono fattispecie del tutto diverse da quella in esame. Nel primo caso, viene in questione la nullità di un contratto assicurativo perchè stipulato dopo il verificarsi dell'incidente, nel secondo si verte in tema di rapporti fra assicurazione e terzo danneggiante.

Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè, in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili liquidate equitativamente in complessivi Euro 3000,00 quanto a C.C.A., D.S., C.E., in Euro 3000,00 quanto a T.G., C.L. e T. L.; in Euro 3000,00 quanto a La.At., A. S. e La.Lu., oltre per tutti spese generali ed accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali; inoltre, in solido, alla rifusione delle spese sostenute ne presente giudizio dalle parti civili che liquida equitativamente in complessivi Euro 3000,00 quanto a C.C.A., D. S., C.E.; in Euro 3000,00 quanto a T. G., C.L. e T.L.; in Euro 3000,00 quanto a La.At., A.S. e La.Lu., oltre per tutti spese ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2010.

Difensore, impedimento, processo penale, necessità di indicare i motivi che onstano alla nomina di un sostituto

CASSAZIONE PENALE SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE II PENALE
Sentenza 12-30 novembre 2009, n. 45837
in tema d'impedimento del difensore per concomitanza di altro impegno professionale, questi ha l'onere di prospettare, in modo tempestivo e motivato, le ragioni che gli impediscono di presenziare, nonchè di fornire specifica ragione della impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell'art. 102 c.p.p., sia nel processo a cui intende partecipare, sia in quelli di cui chiede il rinvio; da parte sua il giudice deve valutare accuratamente le deduzioni documentate, bilanciando le esigenze di difesa dell'imputato con quelle dell'amministrazione della giustizia, accertando che l'impedimento non sia funzionale a manovre dilatorie (V. Cass. Sez. 6 sent. n. 49540 del 1.10.2003 dep. 31.12.2003 rv 227824).

CASSAZIONE PENALE

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

Sentenza 12-30 novembre 2009, n. 45837

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Torino, con sentenza in data 3.12 2007, confermava la sentenza del Tribunale di Alessandria del 5/2/2007, appellata da B.B., dichiarato responsabile di concorso, con A.T., nel reato di truffa (per aver effettuato, con artifizi e raggiri, opera di convincimento nei confronti di M. E., adducendo la necessità di stipulare un improrogabile acquisto immobiliare, facendosi consegnare dall'anziana donna la somma di Euro 18.000 in contanti) e condannato, concesse le attenuanti generiche ed esclusa la contestata recidiva, alla pena di anni uno di reclusione e Euro 200 di multa, disponendo la sospensione dell'esecuzione della pena per anni cinque. il difensore dell'imputato proponeva ricorso per Cassazione deducendo i seguenti motivi:

a) mancata declaratoria di improcedibilità, ex art. 129 c.p.p., in quanto la querela è carente della specifica istanza punitiva che deve connotarla;

b) mancato riconoscimento dell'imputato, erronea valutazione della prova e illogicità della motivazione in ordine all'avvenuto riconoscimento dell'imputato dopo un anno, avendo la parte offesa visto lo stesso ripreso televisivamente da un'emittente regionale e ritratto su un quotidiano locale quale responsabile di un fatto simile;

c) mancato riconoscimento del legittimo impedimento del difensore, inosservanza di norme processuali a nullità della sentenza, essendo il difensore impegnato, nella medesima data di celebrazione del processo in appello, presso il Tribunale di Roma in altro processo.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato e va dichiarato inammissibile.

1) In ordine logico va esaminato il terzo motivo di ricorso relativo al mancato riconoscimento del legittimo impedimento del difensore a presenziare all'udienza davanti alla Corte di appello di Torino, essendo contestualmente impegnato in altro giudizio davanti al Tribunale di Roma. La Corte di Appello di Torino ha correttamente e legittimamente motivato per quale motivo non ha ritenuto legittimo l'impedimento dell'avvocato a presenziare all'udienza, per un concomitante impegno professionale, rilevando come il difensore non avesse prontamente comunicato il legittimo impedimento e non avendo giustificato le ragioni che rendevano essenziale la partecipazione ad uno degli altri impegni professionali.

A fronte di quanto sopra il ricorrente contrappone solo contestazioni, che non tengono conto delle argomentazioni del Corte di appello.

Questa Corte ha costantemente affermato che in tema d'impedimento del difensore per concomitanza di altro impegno professionale, questi ha l'onere di prospettare, in modo tempestivo e motivato, le ragioni che gli impediscono di presenziare, nonchè di fornire specifica ragione della impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell'art. 102 c.p.p., sia nel processo a cui intende partecipare, sia in quelli di cui chiede il rinvio; da parte sua il giudice deve valutare accuratamente le deduzioni documentate, bilanciando le esigenze di difesa dell'imputato con quelle dell'amministrazione della giustizia, accertando che l'impedimento non sia funzionale a manovre dilatorie (V. Cass. Sez. 6 sent. n. 49540 del 1.10.2003 dep. 31.12.2003 rv 227824).

Nel caso di specie il difensore non ha motivato le ragioni che gli impedivano di nominare un sostituto.

In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è inammissibile il ricorso per Cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 - dep. 11.10.2004 - rv 230634).

2) Anche il secondo motivo è manifestamente infondato. La Corte territoriale, con valutazione logica, ha rilevato che, ferma restando che l'espressione dell'intento di chiedere la punizione degli autori del reato non ha bisogno di formule sacramentale e può persino essere implicita (cfr Sez. 5, Sentenza n. 10543 del 24/01/2001 Ud. (dep. 15/03/2001), nel caso in esame il riferimento all'intenzione di presentare per i fatti narrati un formale atto di querela era addirittura esplicitato. Tale valutazione, non essendo nè incongrua illogica, facendo riferimento a una valutazione di merito non può essere censurata davanti a questa Suprema Corte.

3) Anche il terzo motivo segue le sorti dei precedenti.

La Corte territoriale ha desunto la certezza dell'individuazione del prevenuto dal riconoscimento fotografico effettuato dalla parte offesa presso la caserma dei Carabinieri, riconoscendo la foto del prevenuto all'interno di un album fotografico ed esprimendosi in termini di certezza.

Peraltro la vittima ha riferito di essere stato in compagnia dei personaggi che la raggirarono per circa due ore e, dunque, ha visto bene l'autore del reato.

La Corte di merito, inoltre, ha anche puntualizzato che la certezza del riconoscimento non può essere inficiata dall'esito negativo di una prima individuazione tentata nell'immediatezza del delitto:

invero non vi è alcuna prova che in quella prima occasione tra le fotografie sottoposte alla vittima vi sia stata quella dell'odierno imputato.

Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, (Sez. 4, sent. n. 5191 del 29.3.2000 dep. 3.5.2000 rv 216473) "E' inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità", (cfr anche Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 dep. 11.10.2004 rv 230634).

Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro Mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro Mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2009.

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