mercoledì 23 novembre 2011

Processo Civile, conversione d'ufficio se il rito risulta erroneo


" L’ordinanza di conversione del rito può essere pronunciata anche d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza: essa, pertanto, può essere pronunciata anche prima della prima udienza stessa, dopo l’instaurazione del processo che, nel modulo processuale introdotto dal ricorso, coincide con il deposito dello stesso (v. art. 39, comma III, c.p.c. come modificato dall’art. 45, comma III, lett. a legge 18 giugno 2009 n. 69). Si reputa, quindi, opportuno disporla immediatamente per evidenti ragioni di economia processuale.
L’art. 4, comma I, del decreto 150/2011, pur regolando la conversione, non ne esplicita le modalità, soprattutto là dove come, nel caso di specie, l’atto presenti delle omissioni che non lo rendono conforme al modello introduttivo previsto dal processo applicabile. E’ chiaro che, in casi del genere, il giudice non può limitarsi a pronunciare la conversione ma, in analogia con quanto prescrive l’art. 4, comma III, d.lgs. 150/2011, deve provvedere a disporre la integrazione degli atti per ripristinare l’architettura procedimentale applicabile.
Nel caso in cui, come nell’ipotesi attuale sub iudice, il ricorso sia erroneamente presentato con il rito camerale, invece che con il rito sommario, il giudice, pronunziando la conversione, deve onerare il ricorrente di integrare l’atto introduttivo con le omissioni rilevate che lo rendono inidoneo a conformarsi al modello processuale applicabile ovvero a depositare altro atto giudiziale introduttivo in riedizione, con emenda dei vizi; nell’uno e nell’altro caso, il ricorrente avrà l’onere di notificare alla parte resistente, l’atto iniziale originario, il decreto del giudice e l’integrazione/sanatoria."



Tribunale di Varese
Sezione I Civile
Ordinanza 9-10 novembre 2011, n. 10658
Con ricorso depositato in Cancelleria in data 8 novembre 2011, il ricorrente (cittadino italiano dal 2008), con l’assistenza dell’Avv. .., impugna il provvedimento emesso in data 26 agosto 2011, dalla Ambasciata d’Italia di Abidjan, di diniego del rilascio del visto per il ricongiungimento familiare in favore della minore affidata al ricorrente, …. nata in Sierra Leone il … 2004.
Deduce di avere conosciuto la minore insieme alla sig.ra …, sua moglie, in occasione di un viaggio a Serra Leone, incontro dante causa di un affidamento da parte del Ministero degli Affari sociali in loco, emesso in data 25 febbraio 2011. Affidamento che la resistente non ha ritenuto valido ai fini del visto, trattandosi di provvedimento per cui necessaria la valutazione ex art. 67 l- 218/1995 della Corte di Appello competente (v. provvedimento del 26 agosto 2011).
Il ricorso è presentato secondo formule processuali erronee.
Ai sensi dell’art. 20, comma I, d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150, è prevista l’applicazione del rito sommario di cognizione per le controversie previste dall’art. 30, comma VI, del d.lgs. 286/1998 (non modificato dal D.L. 89/11), disposizione normativa dove oggi si legge: “contro il diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonchécontro gli altri provvedimenti dell'autorità amministrativa in materia di diritto all'unità familiare, l'interessato può adire l’autorità giudiziaria ordinaria”. In virtù della norma sopra richiamata, è, dunque, applicabile la disciplina di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c., giusta gli artt. 3, 20, comma I, d.lgs. 150/2011 e, per l’effetto, la procedura del rito sommario di cognizione (con esclusione dei commi II e III dell’art. 702-ter c.p.c.: v- già sul punto: Trib. Varese, sez. I civ., decreto 24 ottobre 2011 n. 10192 in www.guidaaldiritto.it).
Ebbene, nel caso di specie, il ricorso è presentato senza le indicazioni di cui all’art. 163 c.p.c. (per quanto richiamato dall’art. 702-bis c.p.c.) e, soprattutto, senza l’avvertimento di cui all’art. 163, comma III, n. 7 c.p.c., così potendosi ritenere che, in effetti, il ricorrente ha introdotto la lite secondo la formula processuale previgente, che prescriveva di attingere al bacino del rito camerale ex artt. 737 c.p.c. e ss. (art. 30, comma VI, d.lgs. 286/1998 nel testo anteriore alla modifica apportata dall’art. 34 d.lgs. 150/2011).
Reputa questo giudice che, in ipotesi del genere, possa trovare applicazione l’art. 4 del d.lgs. 150/2011. La disposizione legislativa, al comma I, prevede che “quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal decreto 150/2011, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza”. Una prima lettura superficiale dell’enunciato normativo potrebbe indurre a ritenere che il cd. switch procedimentale (mutamento del rito) possa trovare applicazione solo trai riti tipizzati come generali dal decreto 150 (es. introduzione di una casa con il rito lavoro e conversione in rito sommario). Ne discenderebbe che, negli altri casi (es. introduzione con rito camerale di un procedimento per cui previsto il rito sommario, come nel caso di specie) dovrebbe trovare applicazione la disciplina in tema di ammissibilità dello strumento processuale o validità dell’atto giudiziale con esclusione, quindi, della possibilità di conversione (es. dichiarando nullo il ricorso introduttivo del giudizio ex art. 164 c.p.c. o per violazione dell’art. 125 c.p.c., con i provvedimenti conseguenti). La ratio legis sottesa all’art. 4, tuttavia, emergente in modo chiaro dai lavori parlamentari e dalla Relazione Illustrativa, depone nel senso di ritenere, invece, applicabile l’art. 4 ad ogni caso in cui il rito scelto non sia quello previsto dalla Legge. In primo luogo, sembra chiara in tal senso la lettera dell’art. 4 che discorre di “forme diverse” in generale, quindi estendendosi ad ogni modello processuale vigente nell’Ordinamento. In secondo luogo, l’interpretazione de qua è imposta da una lettura assiologica dell’enunciato normativo in esame. L’art. 4 della legge delegata introduce, a ben vedere, una disciplina ad hoc per far fronte al caso della erronea introduzione di un processo affinché essa non determini, per ciò solo, l’arresto della macchina procedimentale, in quanto l’Ordinamento tende a conservare gli atti giudiziali finché è possibile attribuirgli effetti giuridici e nei limiti in cui siano idonei a raggiungere lo scopo loro affidato. Essa salvaguarda, dunque, il «principio fondamentale degli Autori classici secondo cui il processo deve tendere ad una sentenza di merito» (v. Corte cost. 77/2007).
L’ordinanza di conversione del rito può essere pronunciata anche d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza: essa, pertanto, può essere pronunciata anche prima della prima udienza stessa, dopo l’instaurazione del processo che, nel modulo processuale introdotto dal ricorso, coincide con il deposito dello stesso (v. art. 39, comma III, c.p.c. come modificato dall’art. 45, comma III, lett. a legge 18 giugno 2009 n. 69). Si reputa, quindi, opportuno disporla immediatamente per evidenti ragioni di economia processuale.
L’art. 4, comma I, del decreto 150/2011, pur regolando la conversione, non ne esplicita le modalità, soprattutto là dove come, nel caso di specie, l’atto presenti delle omissioni che non lo rendono conforme al modello introduttivo previsto dal processo applicabile. E’ chiaro che, in casi del genere, il giudice non può limitarsi a pronunciare la conversione ma, in analogia con quanto prescrive l’art. 4, comma III, d.lgs. 150/2011, deve provvedere a disporre la integrazione degli atti per ripristinare l’architettura procedimentale applicabile.
Nel caso in cui, come nell’ipotesi attuale sub iudice, il ricorso sia erroneamente presentato con il rito camerale, invece che con il rito sommario, il giudice, pronunziando la conversione, deve onerare il ricorrente di integrare l’atto introduttivo con le omissioni rilevate che lo rendono inidoneo a conformarsi al modello processuale applicabile ovvero a depositare altro atto giudiziale introduttivo in riedizione, con emenda dei vizi; nell’uno e nell’altro caso, il ricorrente avrà l’onere di notificare alla parte resistente, l’atto iniziale originario, il decreto del giudice e l’integrazione/sanatoria.
Nessun provvedimento va, invece, emesso quanto alla regolarizzazione fiscale degli atti, in quanto, giusta l’art. 20, comma IV, dlgs 150/2011, gli atti del procedimento odierno “sono esenti da imposta di bollo e di registro e da ogni altra tassa”.
P.q.m.
Letto e applicato l’art. 4, comma I, d.lgs. 150/2011
Dispone il mutamento del rito, da camerale (ex art. 737 e ss c.p.c.) a sommario di cognizione ex artt. 702-bis e ss. c.p.c., rito applicabile alla controversia in virtù gli artt. 20 decreto legislativo 1 settembre 2011 n. 150 e 30, comma VI, decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286. Per l’effetto, dispone che parte ricorrente provveda alla integrazione dell’atto introduttivo del giudizio o alla sua riedizione secondo il rito applicabile, con atto da depositare in Cancelleria entro e non oltre la data del 30 novembre 2011;
Letti e applicati gli artt. 20 d.lgs. 150/11, 30 d.lgs. 286/1998, 702-bis c.p.c.
Fissa l’udienza di comparizione delle parti in data 25 gennaio 2012 ore 9.00. L’udienza si terrà presso il Tribunale di Varese, P.zza Cacciatori delle Alpi n. 1, Piano Primo, stanza n. 102, Ufficio del Giudice dr. Giuseppe Buffone.
Invita la parte resistente a costituirsi entro e non oltre dieci giorni prima dell’udienza.
Dispone che, a cura di parte ricorrente, il ricorso originario, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza e all’atto di integrazione, sia notificato ai convenuti almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione.
Manda alla cancelleria perché si comunichi.
Varese lì 9 novembre 2011.
Il Giudice 

venerdì 18 novembre 2011

Stupefacenti, traffico, illegittimità della presunzione di adeguatezza della custodia in carcere


"... L’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure...."

Corte Costituzionale
Sentenza 22 luglio 2011, n. 231
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo MADDALENA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di B.B. con ordinanza del 5 novembre 2010, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 maggio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza depositata il 5 novembre 2010, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino ha proposto, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare la misura degli arresti domiciliari, o altra misura cautelare comunque meno afflittiva della custodia in carcere, in relazione al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, previsto dall’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
Il giudice a quo premette di dover decidere su un’istanza di revoca della misura cautelare della custodia in carcere, o di sostituzione della stessa con altra misura meno grave, proposta dal difensore di una persona imputata dei delitti di cui agli artt. 74 e 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. All’interessata – sottoposta a custodia in carcere a partire dal 22 aprile 2009 – erano stati contestati, in particolare, la partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e plurimi fatti di acquisto e vendita illeciti di tali sostanze: reati per i quali, con sentenza del 16 giugno 2010, emessa a seguito di giudizio abbreviato, ella era stata condannata in primo grado alla pena di nove anni di reclusione.
A sostegno dell’istanza, il difensore aveva dedotto che le esigenze cautelari, legate al pericolo di commissione di reati analoghi, dovevano ritenersi cessate o quantomeno affievolite, alla luce di un complesso di circostanze: quali, in specie, l’«efficacia deterrente» del lungo periodo di detenzione fino ad allora patito dall’imputata, la sua incensuratezza, il comportamento sostanzialmente collaborativo da lei tenuto nel corso del processo e l’esigenza di riallacciare i rapporti con i figli minori, interrotti dall’inizio della carcerazione preventiva. Il difensore aveva prodotto, altresì, la dichiarazione di disponibilità del responsabile di un istituto religioso ad accogliere l’imputata in regime di arresti domiciliari.
Ad avviso del giudice a quo, gli elementi addotti dalla difesa, seppure inidonei a dimostrare il venir meno delle esigenze cautelari, sarebbero comunque indicativi di una loro significativa attenuazione: ciò, anche alla luce delle peculiarità della vicenda concreta, che aveva visto il vincolo associativo svilupparsi in un ambito «sostanzialmente familiare» e in un periodo nel quale quasi tutti gli associati erano anche consumatori di sostanze stupefacenti. Le evidenziate circostanze farebbero ritenere, in specie, che il periculum libertatis possa essere adeguatamente fronteggiato con la misura degli arresti domiciliari in un luogo diverso da quello in cui le condotte criminose si erano sviluppate, quale l’istituto religioso indicato dal difensore.
All’accoglimento dell’istanza osterebbe, tuttavia, la preclusione, introdotta dalla novella legislativa modificativa dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza della quale, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per una serie di reati, – tra cui quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (evocato tramite il rinvio all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.) – «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari».
Tale disposizione, secondo il corrente orientamento della giurisprudenza di legittimità, dovrebbe trovare applicazione – in forza del principio tempus regit actum, trattandosi di norma processuale – anche in rapporto alle misure cautelari da adottare per i fatti delittuosi commessi – come nel caso di specie – anteriormente alla data di entrata in vigore della novella legislativa.
Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della norma denunciata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.
Al riguardo, il giudice a quo rileva come questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, abbia già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., per contrasto con gli indicati parametri costituzionali, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Con la pronuncia ora ricordata – il cui iter argomentativo viene ampiamente ripercorso nell’ordinanza di rimessione – la Corte avrebbe individuato precisi limiti entro i quali la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari – sancita dalla norma censurata in deroga ai principi generali regolativi della materia – può ritenersi compatibile con il dettato costituzionale.
Si tratterebbe, da un lato, di limiti negativi derivanti dalla presunzione di non colpevolezza, a fronte dei quali detta disciplina derogatoria non può essere giustificata né dalla gravità astratta del reato – rilevante solo ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio – né della necessità di eliminare o ridurre l’allarme sociale causato dal reato medesimo, essendo questa una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile dell’allarme.
Dall’altro lato, sussisterebbero limiti positivi legati al rispetto del principio di ragionevolezza, posto alla base del giudizio di bilanciamento fra i diversi interessi tutelati dall’ordinamento. Affinché la disciplina in questione risulti costituzionalmente tollerabile, dovrebbe risultare enucleabile, in relazione a determinate fattispecie criminose, una regola di esperienza che consenta di formulare a priori una valutazione di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria, escludendo l’agevole ipotizzabilità di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a fondamento della presunzione. Si tratterebbe di una «prova di resistenza», da effettuare sulla base delle caratteristiche strutturali delle figure delittuose prese in considerazione: «prova di resistenza» che la Corte avrebbe in effetti espletato, con esito positivo, in rapporto ai delitti di mafia (ordinanza n. 450 del 1995).
Quanto alla figura criminosa che interessa, il delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 è una figura speciale del delitto di associazione per delinquere, che si differenzia da questo solo per la specificità del programma criminoso, costituito dalla commissione di più delitti tra quelli previsti dall’art. 73 del medesimo decreto. Le caratteristiche strutturali della fattispecie criminosa non divergerebbero, per il resto, da quelle del reato associativo comune. Per costante giurisprudenza, infatti, i suoi elementi essenziali sarebbero costituiti dal carattere indeterminato del programma criminoso e dalla permanenza della struttura, senza che occorra un accordo consacrato in manifestazioni di formale adesione né un’organizzazione con gerarchie interne e distribuzione di specifiche cariche e compiti: essendo sufficiente, al contrario, una qualunque forma organizzativa, sia pure rudimentale, deducibile dalla predisposizione di mezzi, anche semplici, per il perseguimento del fine comune.
Si sarebbe, dunque, al cospetto di una «fattispecie aperta», idonea ad abbracciare fenomeni criminali fortemente eterogenei tra loro, che spaziano dal grande sodalizio internazionale con struttura imprenditoriale, che controlla tanto la produzione che l’immissione sul mercato dello stupefacente, fino ad arrivare al gruppo attivo in ambito puramente locale e con organizzazione del tutto rudimentale, spesso limitata all’impiego di autovetture e telefoni cellulari. La giurisprudenza di legittimità ha, d’altra parte, ravvisato l’ipotesi criminosa in questione anche nel vincolo che accomuna, in maniera durevole, il fornitore della droga e coloro che la ricevono per rivenderla «al minuto», non ritenendo di ostacolo alla configurabilità del rapporto associativo la diversità degli scopi personali e la differente utilità che i singoli si propongono di ricavare.
Risulterebbero, quindi, evidenti le differenze strutturali tra il delitto in esame e i reati di mafia, in rapporto ai quali la Corte ha ritenuto giustificabile la presunzione assoluta posta dalla norma denunciata. Il delitto previsto dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 non sarebbe, infatti, necessariamente connotato da un forte radicamento nel territorio dell’associazione, da fitti collegamenti personali e da una particolare forza intimidatrice. Difetterebbero, soprattutto, le peculiarità «storiche e sociologiche», prima ancora che giuridiche, dell’associazione mafiosa, consistenti nell’adesione degli associati, senza possibilità di recesso, ad un sistema illegale parallelo a quello dello Stato, consolidato nel tempo e preesistente, nella sua struttura essenziale, rispetto ai singoli fenomeni associativi: sistema che, attraverso attività criminose che coinvolgono i più diversi settori della vita pubblica e privata, mira ad interferire con le istituzioni per assicurarsi «potere e stabilità». Caratteristiche, queste, che rendono possibile, per i reati di mafia, enucleare una regola di esperienza in base alla quale soltanto la custodia cautelare in carcere è idonea a preservare le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva, messe a rischio da simili reati.
Analoga generalizzazione sarebbe, per converso, impraticabile in rapporto al delitto previsto dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, il cui paradigma coprirebbe situazioni che incidono in misura sensibilmente differenziata sul bene protetto (l’ordine pubblico) e che, sotto il profilo cautelare, potrebbero essere fronteggiate anche con misure diverse dalla custodia in carcere, tenuto conto di plurimi elementi, anche sopravvenuti rispetto all’applicazione della misura: quali, ad esempio, l’allentarsi dei legami tra gli associati a seguito di prolungate detenzioni o il superamento dello stato personale di tossicodipendenza, che spesso favorisce la creazione di gruppi criminali dediti allo spaccio. Accadimenti, questi, viceversa non ipotizzabili in relazione ai delitti di mafia, i quali presupporrebbero, nella generalità dei casi, un patto inscindibile tra gli associati che resiste alle vicende giudiziarie, traducendosi in una «radicale scelta di vita alternativa alla legalità».
Una regola generalizzata di esperienza che giustifichi la presunzione sancita dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., con riferimento al delitto che interessa, non potrebbe essere ricavata neppure dal suo carattere di reato associativo, che lo accomuna a quello previsto dall’art. 416-bis del codice penale. Diversamente, non si spiegherebbe l’esclusione dal novero dei reati soggetti al regime cautelare speciale, in base alla novella legislativa del 2009, dei reati associativi comuni (fatta eccezione per l’ipotesi prevista dal sesto comma dell’art. 416 cod. pen.).
La presunzione in questione non potrebbe trovare fondamento, da ultimo, neanche nella natura dei reati-scopo dell’associazione e nella tutela particolarmente rigorosa accordata dal legislatore al bene della salute pubblica nei confronti del fenomeno dello spaccio di stupefacenti. Come già rimarcato, infatti, dalla sentenza n. 265 del 2010, la gravità astratta del reato, desunta dalla misura della pena o dalla natura dell’interesse tutelato, non può legittimare una preclusione alla verifica giudiziale del grado delle esigenze cautelari e all’individuazione della misura più idonea a fronteggiarle, rilevando solo ai fini della commisurazione della sanzione.
Alla luce di tali rilievi, la norma censurata, nella parte in cui estende la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare carceraria al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, violerebbe l’art. 3 Cost., sottoponendo ad un eguale trattamento situazioni differenti tra loro, senza che vi siano fondate ragioni per impedire la «piena individualizzazione» della coercizione cautelare.
La medesima disposizione si porrebbe, altresì, in contrasto con il principio di inviolabilità della libertà personale, sancito dall’art. 13, primo comma, Cost., imponendo il massimo sacrificio di tale bene primario all’esito di un giudizio di bilanciamento non corretto, in quanto non rispettoso del principio di ragionevolezza.
Essa lederebbe, infine, la presunzione di non colpevolezza, prevista dall’art. 27, secondo comma, Cost., affidando al regime cautelare funzioni proprie della pena, la cui applicazione presuppone un giudizio definitivo di responsabilità.
2. – È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
La difesa dello Stato ricorda come questa Corte abbia affermato – in particolare, con l’ordinanza n. 450 del 1995 – che mentre l’apprezzamento delle esigenze cautelari deve essere lasciato al giudice, la scelta della misura può bene essere operata in via generale dal legislatore, nei limiti della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei beni coinvolti.
La particolare gravità del delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, la pericolosità sociale degli associati e la grave minaccia per la collettività che può derivare dalla reiterazione della condotta accomunerebbero, d’altro canto, il delitto in questione a quelli di tipo mafioso, rispetto ai quali la Corte, con la medesima ordinanza, ha ritenuto ragionevole l’imposizione della misura carceraria.
La norma censurata non lederebbe neppure l’art. 13, primo comma, Cost., essendo stato rispettato il principio della riserva di legge in materia di provvedimenti restrittivi della libertà personale; né, da ultimo, si comprenderebbe come detta norma possa essere ritenuta incompatibile con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, enunciata dall’art. 27, secondo comma, Cost., trattandosi di disposizione che, disciplinando in modo non irragionevole l’adozione delle misure cautelari, opera su un piano diverso da quello dell’irrogazione della sanzione penale.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino dubita della legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia in carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, previsto dall’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
Il rimettente reputa estensibili ai procedimenti relativi a detto reato le ragioni che hanno indotto questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, a dichiarare costituzionalmente illegittima la norma censurata in riferimento a taluni delitti a sfondo sessuale (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale).
Al pari di tali delitti, neppure quello previsto dall’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 potrebbe essere, infatti, assimilato, sotto il profilo in esame, ai delitti di mafia, in relazione ai quali tanto questa Corte che la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, stabilita dalla norma censurata. Per quanto gravi, i fatti che integrano tale delitto presenterebbero disvalori ampiamente differenziabili sul piano della condotta e, soprattutto, potrebbero bene proporre anche esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con misure diverse dalla custodia carceraria.
La presunzione censurata, di conseguenza, si porrebbe in contrasto – conformemente a quando deciso dalla citata sentenza n. 265 del 2010 – con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), nonché con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.).
2. – La questione è fondata, nei termini di seguito specificati.
3. – Con la sentenza n. 265 del 2010, questa Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui configura una presunzione assoluta – anziché soltanto relativa – di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti a sfondo sessuale: in particolare, per i reati di induzione o sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale e atti sessuali con minorenne (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.).
Ad analoga declaratoria di illegittimità costituzionale questa Corte è altresì pervenuta, successivamente all’odierna ordinanza di rimessione, con la sentenza n. 164 del 2011, nei riguardi della medesima norma, nella parte in cui assoggetta a detta presunzione assoluta anche il delitto di omicidio volontario (art. 575 cod. pen.).
3.1. – In entrambe le occasioni, la Corte ha rilevato come i limiti di legittimità delle misure cautelari – nell’ambito della cui disciplina si colloca la disposizione scrutinata – risultino espressi, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) – oltre che dalle riserve di legge e di giurisdizione (art. 13, secondo e quarto comma, Cost.) – anche e soprattutto dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), a fronte della quale le restrizioni della libertà personale dell’indagato o dell’imputato nel corso del procedimento debbono assumere connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità.
I principi costituzionali di riferimento implicano che la disciplina della materia debba essere ispirata al principio del «minore sacrificio necessario» (sentenza n. 295 del 2005): la compressione della libertà personale va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare, in corrispondenza, criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, coerenti e adeguate alle esigenze configurabili nei singoli casi concreti.
Questo insieme di indicazioni costituzionali trova puntuale espressione nella disciplina generale dettata in materia dal codice di procedura penale. A fronte della tipizzazione di un “ventaglio” di misure, di gravità crescente (artt. 281-285), il criterio di «adeguatezza» (art. 275, comma 1) – dando corpo al principio del «minore sacrificio necessario» – impone al giudice di scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso di specie.
Da tali coordinate si discosta vistosamente la disciplina dettata dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen. – inserita tramite una serie di interventi novellistici – la quale stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari; assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa.
Proprio per i marcati profili di eccezione rispetto al regime ordinario, la disciplina derogatoria – riferita, ai suoi esordi, ad un ampio ed eterogeneo parco di figure criminose – era stata limitata, a partire dal 1995 e in una prospettiva di recupero delle garanzie, ai soli procedimenti per i «delitti di cui all’articolo 416-bis del codice penale o ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo» (art. 5, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n. 332, recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa»).
Così circoscritta, essa aveva superato il vaglio tanto di questa Corte (ordinanza n. 450 del 1995), che della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). Entrambe le Corti avevano, infatti, in vario modo valorizzato la specificità dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta (come reati associativi entro un contesto di criminalità organizzata di tipo mafioso, o come reati a questo comunque collegati) valeva a rendere «ragionevoli» le presunzioni in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della sola custodia carceraria: trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a neutralizzare il periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato e associazione.
Con l’intervento novellistico del 2009 (art. 2, comma 1, lettere a e a-bis, del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009), il legislatore ha compiuto «un “salto di qualità” a ritroso», riespandendo l’ambito di applicazione della disciplina eccezionale a numerose altre fattispecie penali, in larga misura eterogenee fra loro quanto a oggettività giuridica (fatta eccezione per i delitti “a sfondo sessuale”), struttura e trattamento sanzionatorio.
3.2. – Ciò posto, questa Corte, nelle citate sentenze n. 265 del 2010 e n. 164 del 2011, ha ricordato che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010)».
Sotto tale profitto, né ai delitti a sfondo sessuale dianzi indicati (sentenza n. 265 del 2010) né al delitto di omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011) poteva estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata in rapporto ai delitti di mafia: ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).
Pur nella loro indubbia gravità e riprovevolezza – la quale peserà opportunamente nella determinazione della pena inflitta all’autore, quando ne sia riconosciuta in via definitiva la colpevolezza – i delitti in discorso possono essere, e spesso sono, fatti meramente individuali, che trovano la loro matrice in pulsioni occasionali o passionali, ovvero in situazioni maturate nell’ambito di specifici contesti (familiare, scolastico, dei rapporti socio-economici, e così via dicendo). Di conseguenza, in un numero tutt’altro che marginale di casi, le esigenze cautelari – pur non potendo essere completamente escluse – sarebbero suscettibili di trovare idonea risposta anche in misure diverse da quella carceraria, che valgano a neutralizzare il “fattore scatenante” o ad impedirne la riproposizione. E così, anzitutto, quanto ai fatti legati a particolari contesti, tramite misure che valgano comunque ad operare una forzosa separazione da questi dell’imputato o dell’indagato: arresti domiciliari in luogo diverso dall’abitazione (art. 284 cod. proc. pen.), eventualmente accompagnati da particolari strumenti di controllo (quale il cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis); obbligo o divieto di dimora o anche solo di accesso in determinati luoghi (art. 283); allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis).
3.3. – Alla luce di tali rilievi, questa Corte ha quindi concluso che la norma impugnata violava, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.
Al fine di ricondurre il sistema a sintonia con i valori costituzionali, la Corte ha ritenuto che non fosse, peraltro, necessario rimuovere integralmente la presunzione de qua, ma solo il suo carattere assoluto, che implicava una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del “minore sacrificio necessario”. La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede, per contro, i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso.
4. – Le considerazioni dianzi ricordate risultano valevoli, con gli opportuni adattamenti e precisazioni, anche in rapporto al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope: delitto al quale il regime cautelare speciale risulta esteso tramite il richiamo “mediato” alla norma processuale di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.
4.1. – Pur nella particolare gravità che il fatto assume nella considerazione legislativa, anche nel caso in esame la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria non può considerarsi, in effetti, rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla «struttura stessa» e alle «connotazioni criminologiche» della figura criminosa.
È ben vero che, nelle ipotesi descritte dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, diversamente che nei casi precedentemente scrutinati da questa Corte, non si è di fronte a un reato suscettibile di presentarsi come fatto meramente individuale ed episodico: trattandosi, al contrario, di un reato che – come la generalità delle fattispecie di tipo associativo – presuppone uno stabile vincolo di appartenenza del soggetto a un sodalizio criminoso, volto al compimento di una pluralità non predeterminata di delitti. Questa sola caratteristica non è, tuttavia, ancora sufficiente a costituire un’adeguata base logico-giuridica della presunzione di cui si discute. Lo dimostra eloquentemente già la semplice circostanza che lo stesso legislatore ordinario abbia ritenuto di dover includere fra i reati soggetti al regime cautelare censurato solo talune particolari figure associative, e non anche quella generale dell’associazione per delinquere, prevista dall’art. 416 cod. pen. (fatta eccezione per i casi in cui essa è menzionata dal richiamato art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., in quanto diretta a commettere determinati reati-fine: in pratica, alla data di entrata in vigore della novella del 2009, le sole ipotesi di cui al sesto comma dello stesso art. 416).
Questa Corte, d’altro canto – nel ritenere assistita da adeguato fondamento razionale la presunzione de qua in rapporto al delitto di associazione di tipo mafioso – ha già avuto modo di porre in evidenza come tale conclusione si giustifichi alla luce non del mero vincolo associativo a scopi criminosi, quanto piuttosto delle particolari caratteristiche che esso assume nella cornice di detta fattispecie (sentenze n. 164 del 2011 e n. 265 del 2010).
Il delitto di associazione di tipo mafioso è, infatti, normativamente connotato – di riflesso ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica” alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea – per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell’uomo – «a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine», minimizzando «il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia).
Altrettanto non può dirsi per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. Quest’ultimo si concreta, infatti, in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine (i delitti previsti dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990). Per consolidata giurisprudenza, essa non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, essendo viceversa sufficiente una qualunque organizzazione, anche rudimentale, di attività personali e di mezzi economici, benché semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune. Il delitto in questione prescinde, altresì, da radicamenti sul territorio, da particolari collegamenti personali e soprattutto da qualsivoglia specifica connotazione del vincolo associativo, tanto che, ove questo in concreto si presentasse con le caratteristiche del vincolo mafioso, il reato ben potrebbe concorrere con quello dell’art. 416-bis cod. pen. (come già ritenuto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione: sentenza 25 settembre 2008-13 gennaio 2009, n. 1149).
Si tratta, dunque, di fattispecie, per così dire, “aperta”, che, descrivendo in definitiva solo lo scopo dell’associazione e non anche specifiche qualità di essa, si presta a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i più diversi ed eterogenei: da un sodalizio transnazionale, forte di una articolata organizzazione, di ingenti risorse finanziarie e rigidamente strutturato, al piccolo gruppo, talora persino ristretto ad un ambito familiare – come nel caso oggetto del giudizio a quo – operante in un’area limitata e con i più modesti e semplici mezzi.
Proprio per l’eterogeneità delle fattispecie concrete riferibili al paradigma punitivo astratto, ricomprendenti ipotesi nettamente differenti quanto a contesto, modalità lesive del bene protetto e intensità del legame tra gli associati, non è dunque possibile enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le «connotazioni criminologiche» del fenomeno, secondo la quale la custodia carceraria sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. In un significativo numero di casi, al contrario, queste ultime potrebbero trovare risposta in misure diverse e meno afflittive, che valgano comunque ad assicurare – nei termini in precedenza evidenziati – la separazione dell’indiziato dal contesto delinquenziale e ad impedire la reiterazione del reato.
4.2. – Né può considerarsi significativa, in senso contrario, la circostanza che la fattispecie associativa prevista dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 risulti accomunata all’associazione di tipo mafioso nella sottoposizione alla disciplina stabilita all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.: disposizione alla quale – come accennato – la norma censurata preliminarmente rinvia al fine di individuare i delitti soggetti allo speciale regime cautelare di cui si discute.
Per corrente rilievo, infatti, la predetta disciplina risponde a una logica distinta ed eccentrica rispetto a quella sottesa alla disposizione sottoposta a scrutinio. Il richiamato art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. prevede una deroga all’ordinaria regola (recata dal comma 3 dello stesso articolo ed espressione del cosiddetto principio di accessorietà) che vorrebbe attribuite le funzioni di indagine, di esercizio dell’azione penale e di sostegno dell’accusa nei procedimenti di primo grado all’ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente, devolvendole a quello presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.
Si tratta di norma ispirata da ragioni di opportunità organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione alla tipicità e alla qualità delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma che non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative a tutti procedimenti per i quali quella deroga è stabilita. Ne è evidente riprova l’eterogeneità della lista delle fattispecie criminose cui la norma stessa fa riferimento, che già primo visu evidenzia come il relativo criterio di selezione non consista affatto in una particolare “qualità” del periculum libertatis. Detta lista – mentre non include, ad esempio, l’associazione per delinquere finalizzata a commettere rapine a mano armata o estorsioni – abbraccia invece figure quali l’associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale») o l’associazione diretta a commettere i delitti di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen., in materia di contraffazione di marchi o altri segni distintivi e di commercio di prodotti con segni mendaci (ciò a seguito dell’interpolazione dell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. operata dall’art. 15, comma 4, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia»).
4.3. – Contrariamente a quanto assume l’Avvocatura dello Stato, la presunzione assoluta censurata non può neppure rinvenire, da ultimo, la sua base di legittimazione costituzionale nella gravità astratta del delitto associativo che qui viene in rilievo, desumibile dalla severità della pena edittale, o nell’esigenza di eliminare o ridurre situazioni di allarme sociale, correlate alla pericolosità della diffusione del traffico e del consumo di sostanze stupefacenti rispetto a beni quali l’ordine pubblico e la salute individuale. A tale riguardo, non si può, infatti, che ribadire quanto già affermato da questa Corte nelle precedenti pronunce sul tema (sentenze n. 164 del 2011 e n. 265 del 2010). In primo luogo, cioè, che la gravità astratta del reato, considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura dell’interesse protetto, è elemento significativo in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente ai fini della determinazione della sanzione, ma inidoneo a fungere da elemento preclusivo della verifica del grado delle esigenze cautelari e all’individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte. In secondo luogo, poi, che il contenimento dell’allarme sociale causato dal reato non può essere annoverato tra le finalità della custodia cautelare, costituendo una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme.
5. – Alla luce delle considerazioni che precedono, la presunzione assoluta sancita dalla norma censurata va dunque trasformata, anche in rapporto al delitto oggetto dell’odierno scrutinio, in presunzione solo relativa.
L’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
6. – Giova precisare che non interferisce con l’odierno thema decidendum il problema dell’operatività o meno del regime cautelare previsto dalla norma censurata in rapporto all’ipotesi – che non risulta ricorrere nel giudizio a quo – contemplata dal comma 6 dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (associazione finalizza a commettere fatti di «lieve entità» ai sensi dell’art. 73, comma 5, del medesimo decreto): problema che trae origine dalla sancita applicabilità a tale fattispecie delle disposizioni generali in tema di associazione per delinquere (delitto non assoggettato, come detto, al regime cautelare speciale). Qualora si opti, infatti, per la soluzione negativa, all’ipotesi in parola non si applicherebbe neppure la presunzione relativa di adeguatezza della sola custodia in carcere, nei termini stabiliti dalla presente sentenza, rimanendo la fattispecie integralmente soggetta alla disciplina ordinaria in punto di trattamento cautelare.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 luglio 2011.
F.to:
Paolo MADDALENA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2011.

martedì 15 novembre 2011

Occupazione espropriativa e usurpativa e art. 42-bis del T.U. Espropriazione


"  Il principio che le prove raccolte in una siano utilizzabili anche in altra causa (cd. efficacia riflessa del giudicato) può riguardare, al più, le prove, ma non gli strumenti di ausilio del giudice, come la CTU, che non sono qualificabili come prove."

"Il Collegio deve precisare, preliminarmente, che la distinzione tra occupazione appropriativa ed usurpativa (quella realizzata in assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità), invocata dagli appellanti per ottenere una diversa misura del risarcimento del danno, ha perso di significato sia con riferimento alla giurisdizione (nel senso che residuano al giudice ordinario le sole ipotesi in cui ab origine manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell'opera) che alla decorrenza del termine di prescrizione trattandosi nei due casi di un illecito permanente come affermato dalla più recente giurisprudenza amministrativa (aderendo alle argomentazioni svolte in più occasioni dalla Corte europea dei diritti umani e, di recente, Cons. St., sez. IV, 27 giugno 2007 n. 3752, 16 novembre 2007, n. 5830 e 30 novembre 2007, n. 6124).

L'unico elemento di differenziazione ancora esistente riguarda invero l'individuazione del dies a quo di commissione dell'illecito posto che, in caso di occupazione usurpativa, esso va fatto decorrere dal momento dell'immissione in possesso da parte dell'amministrazione mentre, in caso di occupazione appropriativa, dalla scadenza del termine di occupazione legittima del terreno (ciò rileva al fine di individuare il momento in cui misurare il valore venale ai fini della quantificazione del risarcimento del danno).

Peraltro, in tema di risarcimento del danno da occupazione espropriativa, qualora il danno sia stato liquidato secondo il criterio riduttivo di cui all'art. 5 bis, comma 7 bis, d.l. 11 luglio 1992 n. 333, convertito, con modificazioni, in l. 8 agosto 1992 n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, l. 23 dicembre 1996 n. 662, soltanto la mancata impugnazione di tale capo della sentenza da parte del privato si traduce in acquiescenza alla relativa pronuncia, con la conseguenza che l'impugnazione del medesimo capo da parte dell'Amministrazione non rende applicabili nel giudizio d'appello gli effetti della sentenza della Corte cost. n. 349 del 2007 (cfr. Cassazione civile , sez. I, 5 luglio 2010, n. 15835).

Nel caso di specie, invece, gli appellanti hanno specificamente impugnato la sentenza di prime cure per tale motivo, con la conseguenza che, in questo giudizio, avente ad oggetto il risarcimento del danno conseguente alla occupazione e trasformazione irreversibile di un fondo senza titolo, la qualificazione della domanda risarcitoria da parte del giudice in primo grado come di accessione invertita non esclude l'ammissibilità di una riqualificazione della stessa in occupazione usurpativa da parte del giudice di appello, anche tenuto conto che la differenza pratica tra le due forme di illecito si è quasi dissolta dopo le sentenze della Corte cost. n. 348 e 349 del 2007 (cfr. Cassazione civile, sez. I, 16 luglio 2010, n. 16750).

In altre parole, la sentenza della Corte costituzionale 24 ottobre 2007, n. 349 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 5-bis, comma 7-bis, d.l. n. 333 del 1992, convertito con modificazioni dalla l. n. 359 del 1992, introdotto dall'art. 3 comma 65 l. n. 662 del 1996, inquanto non prevedeva un risarcimento del danno da occupazione acquisitiva da parte della p.a. pari al valore venale del bene deve ritenersi direttamente applicabile al caso di specie, a prescindere dalla qualificazione dell’occupazione in termini di occupazione acquisitiva o usurpativa.
Infatti, poiché le sentenze della Corte costituzionale sono retroattive e hanno quindi efficacia anche rispetto ai rapporti antecedenti che non siano, ovviamente, esauriti per il fatto di essere regolati da provvedimenti ormai passati in giudicato, il giudice chiamato a risolvere le controversie relative, appunto, alla quantificazione del danno da occupazione acquisitiva, deve tenere conto della citata sentenza della Corte costituzionale (e, peraltro, della successiva normativa che risulta essere confermativa della stessa) anche se successiva all'occupazione, a meno che le statuizioni relative alla regolamentazioni relative al rapporto tra la p.a. occupante e il soggetto che ha subito l'occupazione medesima non risultino coperte da giudicato.
L’applicabilità del precedente criterio di liquidazione, infatti, vulnera i principi del giusto processo e della parità delle parti e violerebbe l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 6 della CEDU ed 1 del Primo Protocollo, poiché la sua applicabilità ai giudizi in corso e la misura dalla stessa stabilita per la quantificazione del danno da occupazione acquisitiva lederebbe il diritto di proprietà, ponendosi in contrasto con i citati art. 6 ed 1, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con conseguente violazione di obblighi internazionali assunti dallo Stato (cfr. Corte costituzionale, 14 marzo 2008, n. 66).

Pertanto, si deve ritenere che, in tema di risarcimento danni da esproprio, con la pronuncia n. 349 del 2007, la Consulta ha ora abrogato il meccanismo indennitario anche per le occupazioni illegittime anteriori al 30 settembre 2006, per modo che al proprietario deve essere corrisposto il risarcimento del danno, rapportato al pregiudizio arrecato per la perdita di proprietà del bene, ossia al valore venale dello stesso.

Risulta, pertanto, irrilevante stabilire se il Comune di Nuoro abbia o meno provato che la “sede stradale in grado di essere percorsa” fosse stata già realizzata entro il 31 dicembre 1995 e se la “consumazione” della “irreversibile trasformazione” possa o meno collocarsi alla data di ultimazione dei lavori, cioè al 20 maggio 1996 (lotti 16–18) ed al 2 giugno 1996 (lotti 19–21), determinando, in entrambi i casi, un periodo di occupazione temporanea illecita di cinque mesi.

Infatti, come detto, dopo la sentenza della Consulta n. 349 del 2007, il meccanismo indennitario anche per le occupazioni illegittime anteriori. al 30 settembre 2006 è inapplicabile e al proprietario deve essere corrisposto il risarcimento del danno, rapportato al pregiudizio arrecato per la perdita di proprietà del bene, ossia al valore venale dello stesso.

Con la conseguenza che, nella specie, si deve condannare il Comune di Nuoro al pagamento, in favore degli appellanti, in proporzione alle rispettive quote di comproprietà, a titolo di risarcimento per la definitiva illecita sottrazione delle aree per cui è causa, avvenuta per le opere di cui ai lotti 16 e 18, alla data di ultimazione dei lavori, avvenuta il 20 maggio 1996, mentre per le aree impiegate nelle opere di cui ai lotti 19 e 21, alla data del 2 giugno 1996, all’integrale valore venale del bene.

Inoltre, devono essere valutati “i danni morali” richiesti dall’appellante sulla base del nuovo art. 42-bis del T.U. Espropriazione n. 327/2001, introdotto dall’art. 34 della cd. “Manovra economica2011” (D.L. 6 luglio 2011, n. 98), il quale, reintroducendo l’istituto dell’acquisizione sanante, prevede anche che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, anche con riferimento ai fatti antecedenti (comma 8 del predetto art. 42-bis)."






Consiglio di Stato
Sezione V
Sentenza 2 novembre 2011, n. 5844
05844/2011REG.PROV.COLL.
N.             04773/2005       REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il C. di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4773 del 2005, proposto da: G. A., G. P., C. V., G. G. A., G. G. G., G. G. S., B. G. in P. e Q.Le Procuratore Gen., B. V., B. O., I. D., L. G. e L. A., rappresentati e difesi dall'avv. G. Piras, con domicilio eletto presso l’avv. Viviana Callini in Roma, via Arenula, 21;
contro
Comune di Nuoro, rappresentato e difeso dall'avv. Marcello Mereu, con domicilio eletto presso l’avv. Stefania Masini in Roma, via della Vite n. 7;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. SARDEGNA - CAGLIARI: SEZIONE II n. 00086/2005, resa tra le parti, concernente RISARCIMENTO DANNI DA ESPROPRIAZIONE.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 luglio 2011 il Cons. P. Giovanni Nicolo' Lotti e uditi per le parti gli avvocati Piras e Sciacca, per delega dell'Avv. Mereu;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, sez. II, con la sentenza n. 86 del 24 gennaio 2005, ha accolto la domanda di risarcimento del danno proposta dai ricorrenti in primo grado nei confronti del Comune di Nuoro, a seguito dell’intervenuto annullamento giurisdizionale dei decreti di espropriazione e delle presupposte deliberazioni di proroga dei termini espropriativi, con l’illecita occupazione temporanea e definitiva delle aree impiegate nella realizzazione delle opere di urbanizzazione del rione Badu ‘e Carros, di cui alle deliberazioni della Giunta Municipale di Nuoro nn. 322 e 324 del 5 marzo 1991 e n. 1126 del 18 ottobre 1991.
Il TAR ha, così, condannato il Comune di Nuoro al pagamento della relativa somma, da calcolare con i parametri di cui al comma 7-bis all'art. 5-bis, d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. in l. 8 agosto 1992, n. 359 (comma ora abrogato dall'art. 58, d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, adecorrere dal 30 giugno 2003, ai sensi dell'art. 2, d.l. 20 giugno 2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 1° agosto 2002, n. 185), sulla base del valore venale di € 122,32 a mq, attualizzato sulla base degli indici Istat al 1.1.1996, data di passaggio della proprietà dei terreni occupati in capo al Comune, oltre alla rivalutazione monetaria.
Con sentenza n. 6010 del 2 ottobre 2009, questa Sezione dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice adito.
La predetta sentenza veniva annullata dalla Cassazione civile, Sez. Un., con sentenza 12 gennaio 2011, n. 509, con la quale si statuiva che appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo l’azione risarcitoria per occupazione usurpativa consequenziale all'annullamento di atti del procedimento espropriativo: ciò perché le azioni risarcitorie per vicende di occupazione appropriativa, dovute a comportamenti riconducibili all'esercizio, ancorché illegittimo, del pubblico potere, rientrano nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Alla medesima conclusione si deve addivenire qualora l’azione risarcitoria venga proposta in un momento successivo rispetto a quello in cui si è chiesto l’annullamento di atti del procedimento espropriativo ritenuti illegittimi, come nella specie.
L’appello veniva quindi riassunto dagli originari appellanti.
Parte appellante riproponeva, quindi, la sua impugnazione sulla base di tre motivi.
Con il primo chiedevano la condanna del Comune di Nuoro al pagamento di una somma “commisurata al pieno valore di mercato dei tratti di area occupati”, dovendosi considerare la fattispecie in giudizio non come occupazione “appropriativa”, bensì come occupazione “usurpativa”.
Con il secondo, censuravano la pronuncia del primo Giudice per la mancata disapplicazione delle norme nazionali (art. 3, comma 65, della Legge n. 662/1996) in contrasto con le disposizioni internazionali in materia di diritti umani fondamentali, quali la tutela della proprietà privata.
Con il terzo lamentavano l’insufficiente liquidazione delle spese del giudizio, a fronte del valore economico ed alla complessità giuridica della controversia.
Il Comune di Nuoro, a propria volta, proponeva controricorso e appello incidentale, con atto notificato in data 8 luglio 2005 e depositato in data 13 luglio 2005, nella parte in cui ha disatteso le osservazioni formulate contro la determinazione del valore di mercato dei beni, nonché nella parte in cui ha ritenuto irrilevante la mancata presentazione della dichiarazione ICI.
Si rilevava, inoltre, che il TAR aveva omesso di rilevare che i parametri e dati tecnici utilizzati dal CTU in primo grado non hanno coinciso con quelli adottati da altro CTU (Geom. P.G.) nel giudizio di opposizione alla stima avanti alla Corte d’Appello di Cagliari, Sezione Distaccata di Sassari, avente ad oggetto le medesime aree, al fine della determinazione dell’Indennità dl occupazione temporanea.
Secondo l’appellante incidentale il TAR avrebbe dovuto anche apprezzare che la residua proprietà dei ricorrenti in primo grado si sarebbe incrementata per effetto della realizzazione dell’opera.
Sempre secondo l’appellante incidentale meriterebbe di una riforma il capo di sentenza con il quale il TAR ha riconosciuto la rivalutazione monetaria e gli interessi legali. Infine, la reciproca soccombenza avrebbe dovuto comportare una differente regolamentazione delle spese di giudizio, e quanto meno la loro integrale compensazione.
All’udienza pubblica del 12 luglio 2011 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
Rileva il Collegio che, nel caso di specie, il Comune di Nuoro nel 1991 ha proceduto alla occupazione di urgenza di alcuni terreni di proprietà dei ricorrenti per la realizzazione di opere di urbanizzazione, in base a progetti approvati nello stesso anno 1991, con efficacia ex lege di dichiarazione di pubblica utilità, con delibere della Giunta Municipale di Nuoro, che fissavano per le espropriazioni, quale termine ultimo, il 31 dicembre 1995.
Detti termini erano stati prorogati con distinte delibere prima fino al 31 ottobre 1996 e poi fino al 20 novembre 1996, e le aree erano state espropriate con due decreti del Presidente della Giunta Regionale Sarda; essendo state le delibere di proroga ed i decreti di esproprio annullati dal TAR Sardegna con sentenze del 1999 passate in giudicato, le opere di urbanizzazione, iniziate nel periodo di occupazione legittima, erano state ultimate, in conseguenza dell’annullamento degli atti summenzionati, dopo il compimento del termine (31 dicembre 1995), di occupazione legittima.
Da quanto precede risulta, pertanto, che le opere di urbanizzazione sono state iniziate in una situazione di occupazione legittima ed in conseguenza delle sentenze del TAR del 1999 sono state concluse in una situazione, in conseguenza dell’effetto retroattivo delle pronunce di annullamento di delibere di proroga dei termini e dei provvedimenti espropriativi, da ritenersi illegittima.
Il Collegio deve precisare, preliminarmente, che la distinzione tra occupazione appropriativa ed usurpativa (quella realizzata in assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità), invocata dagli appellanti per ottenere una diversa misura del risarcimento del danno, ha perso di significato sia con riferimento alla giurisdizione (nel senso che residuano al giudice ordinario le sole ipotesi in cui ab origine manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell'opera) che alla decorrenza del termine di prescrizione trattandosi nei due casi di un illecito permanente come affermato dalla più recente giurisprudenza amministrativa (aderendo alle argomentazioni svolte in più occasioni dalla Corte europea dei diritti umani e, di recente, Cons. St., sez. IV, 27 giugno 2007 n. 3752, 16 novembre 2007, n. 5830 e 30 novembre 2007, n. 6124).
L'unico elemento di differenziazione ancora esistente riguarda invero l'individuazione del dies a quo di commissione dell'illecito posto che, in caso di occupazione usurpativa, esso va fatto decorrere dal momento dell'immissione in possesso da parte dell'amministrazione mentre, in caso di occupazione appropriativa, dalla scadenza del termine di occupazione legittima del terreno (ciò rileva al fine di individuare il momento in cui misurare il valore venale ai fini della quantificazione del risarcimento del danno).
Peraltro, in tema di risarcimento del danno da occupazione espropriativa, qualora il danno sia stato liquidato secondo il criterio riduttivo di cui all'art. 5 bis, comma 7 bis, d.l. 11 luglio 1992 n. 333, convertito, con modificazioni, in l. 8 agosto 1992 n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, l. 23 dicembre 1996 n. 662, soltanto la mancata impugnazione di tale capo della sentenza da parte del privato si traduce in acquiescenza alla relativa pronuncia, con la conseguenza che l'impugnazione del medesimo capo da parte dell'Amministrazione non rende applicabili nel giudizio d'appello gli effetti della sentenza della Corte cost. n. 349 del 2007 (cfr. Cassazione civile , sez. I, 5 luglio 2010, n. 15835).
Nel caso di specie, invece, gli appellanti hanno specificamente impugnato la sentenza di prime cure per tale motivo, con la conseguenza che, in questo giudizio, avente ad oggetto il risarcimento del danno conseguente alla occupazione e trasformazione irreversibile di un fondo senza titolo, la qualificazione della domanda risarcitoria da parte del giudice in primo grado come di accessione invertita non esclude l'ammissibilità di una riqualificazione della stessa in occupazione usurpativa da parte del giudice di appello, anche tenuto conto che la differenza pratica tra le due forme di illecito si è quasi dissolta dopo le sentenze della Corte cost. n. 348 e 349 del 2007 (cfr. Cassazione civile, sez. I, 16 luglio 2010, n. 16750).
In altre parole, la sentenza della Corte costituzionale 24 ottobre 2007, n. 349 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 5-bis, comma 7-bis, d.l. n. 333 del 1992, convertito con modificazioni dalla l. n. 359 del 1992, introdotto dall'art. 3 comma 65 l. n. 662 del 1996, inquanto non prevedeva un risarcimento del danno da occupazione acquisitiva da parte della p.a. pari al valore venale del bene deve ritenersi direttamente applicabile al caso di specie, a prescindere dalla qualificazione dell’occupazione in termini di occupazione acquisitiva o usurpativa.
Infatti, poiché le sentenze della Corte costituzionale sono retroattive e hanno quindi efficacia anche rispetto ai rapporti antecedenti che non siano, ovviamente, esauriti per il fatto di essere regolati da provvedimenti ormai passati in giudicato, il giudice chiamato a risolvere le controversie relative, appunto, alla quantificazione del danno da occupazione acquisitiva, deve tenere conto della citata sentenza della Corte costituzionale (e, peraltro, della successiva normativa che risulta essere confermativa della stessa) anche se successiva all'occupazione, a meno che le statuizioni relative alla regolamentazioni relative al rapporto tra la p.a. occupante e il soggetto che ha subito l'occupazione medesima non risultino coperte da giudicato.
L’applicabilità del precedente criterio di liquidazione, infatti, vulnera i principi del giusto processo e della parità delle parti e violerebbe l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 6 della CEDU ed 1 del Primo Protocollo, poiché la sua applicabilità ai giudizi in corso e la misura dalla stessa stabilita per la quantificazione del danno da occupazione acquisitiva lederebbe il diritto di proprietà, ponendosi in contrasto con i citati art. 6 ed 1, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con conseguente violazione di obblighi internazionali assunti dallo Stato (cfr. Corte costituzionale, 14 marzo 2008, n. 66).
Pertanto, si deve ritenere che, in tema di risarcimento danni da esproprio, con la pronuncia n. 349 del 2007, la Consulta ha ora abrogato il meccanismo indennitario anche per le occupazioni illegittime anteriori al 30 settembre 2006, per modo che al proprietario deve essere corrisposto il risarcimento del danno, rapportato al pregiudizio arrecato per la perdita di proprietà del bene, ossia al valore venale dello stesso.
Risulta, pertanto, irrilevante stabilire se il Comune di Nuoro abbia o meno provato che la “sede stradale in grado di essere percorsa” fosse stata già realizzata entro il 31 dicembre 1995 e se la “consumazione” della “irreversibile trasformazione” possa o meno collocarsi alla data di ultimazione dei lavori, cioè al 20 maggio 1996 (lotti 16–18) ed al 2 giugno 1996 (lotti 19–21), determinando, in entrambi i casi, un periodo di occupazione temporanea illecita di cinque mesi.
Infatti, come detto, dopo la sentenza della Consulta n. 349 del 2007, il meccanismo indennitario anche per le occupazioni illegittime anteriori. al 30 settembre 2006 è inapplicabile e al proprietario deve essere corrisposto il risarcimento del danno, rapportato al pregiudizio arrecato per la perdita di proprietà del bene, ossia al valore venale dello stesso.
Con la conseguenza che, nella specie, si deve condannare il Comune di Nuoro al pagamento, in favore degli appellanti, in proporzione alle rispettive quote di comproprietà, a titolo di risarcimento per la definitiva illecita sottrazione delle aree per cui è causa, avvenuta per le opere di cui ai lotti 16 e 18, alla data di ultimazione dei lavori, avvenuta il 20 maggio 1996, mentre per le aree impiegate nelle opere di cui ai lotti 19 e 21, alla data del 2 giugno 1996, all’integrale valore venale del bene.
Inoltre, devono essere valutati “i danni morali” richiesti dall’appellante sulla base del nuovo art. 42-bis del T.U. Espropriazione n. 327/2001, introdotto dall’art. 34 della cd. “Manovra economica2011” (D.L. 6 luglio 2011, n. 98), il quale, reintroducendo l’istituto dell’acquisizione sanante, prevede anche che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, anche con riferimento ai fatti antecedenti (comma 8 del predetto art. 42-bis).
Il riferimento al danno non patrimoniale in tale disposizione costituisce disposizione innovativa, che impone la necessità di opportuna considerazione anche in sede di risarcimento del danno per illecita occupazione; danno patrimoniale che il Collegio ritiene di poter equitativamente determinare, ai sensi dell’art. 1226 c.c., in complessivi euro 50.000,00, atteso anche il valore complessivo del risarcimento.
Trattandosi di obbligazione derivante da illecito extracontrattuale, e quindi di debito di valore, tali somme, determinate con riferimento alla data della trasformazione irreversibile del bene, devono essere rivalutate equitativamente all'attualità sulla base degli indici Istat.
Si impone, inoltre, il riconoscimento del danno da lucro cessante, costituito dalla perdita della possibilità di far fruttare la somma stessa; tale danno, avuto riguardo al tempo trascorso ed al graduale mutamento del potere di acquisto della moneta, può liquidarsi in via equitativa nella misura degli interessi legali sulle somme rivalutate anno per anno a decorrere dalla data dell'illecito, in applicazione della sentenza 17 febbraio 1995, n. 1712 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui deve escludersi che la base del calcolo dei suddetti interessi possa essere quella della somma rivalutata al momento della liquidazione se gli interessi vengono fatti decorrere dal momento del fatto illecito, perché con tali modalità si attribuirebbe al creditore un valore cui egli non ha diritto.
A tale somma, naturalmente, dovrà essere detratto quanto già eventualmente pagato dal Comune di Nuoro allo stesso titolo, da imputarsi, alle date di effettivo accreditamento a ciascun destinatario, secondo le regole di cui all’art. 1194, comma 2, c.c.; tale somma dovrà, quindi, essere ripartita su ciascuno degli appellanti, in ragione delle rispettive quote di proprietà.
L’appello, pertanto, nei termini e nei limiti indicati, merita accoglimento.
E’ inammissibile, invece, la censura concernente la tassabilità della somma corrisposta a titolo di risarcimento danno, trattandosi di un effetto giuridico conseguente alla condanna che, peraltro, sfugge anche alla giurisdizione di questo giudice.
L’appello incidentale è, invece, infondato.
Si deve, infatti, rilevare che l’appellante incidentale fonda il proprio ragionamento in relazione ad una C.T.U. svolta in un altro, separato, giudizio svoltosi tra diverse parti, di fronte al Giudice Ordinario.
Il Collegio ritiene che tale consulenza tecnica sia in opponibile: il principio che le prove raccolte in una siano utilizzabili anche in altra causa (cd. efficacia riflessa del giudicato) può riguardare, al più, le prove, ma non gli strumenti di ausilio del giudice, come la CTU, che non sono qualificabili come prove.
In ogni caso, come acutamente rilevano gli appellanti, la C.T.U. del Geom. D. (Doc. 3 depositato dal Comune di Nuoro col proprio controricorso) svolta nella causa civile promossa dalla comproprietaria Sig.ra M. G. G. non conferma affatto le tesi dell’appello incidentale.
L’argomento secondo cui le aree per cui è causa sarebbero state “prive di volumetria” o, comunque “assimilabili ad aree cortilizie”, sono disattese anche dal predetto C.T.U. D., che ha accertato che le aree erano comprese in un piano particolareggiato, con indice di edificabilità territoriale di 3,82 mc/mq (pag. 6 della relazione D., doc. 3 depositato dal Comune di Nuoro con il “controricorso”).
Inoltre, la stima del valore di mercato fatta dal C.T.U. D. (da pag. 11 a pag. 13 della sua relazione), non si pone affatto in contrasto con quella fatta dal C.T.U. Trincas nel primo grado di questo giudizio, salvo che il C.T.U. D. ha assunto un costo al 1996 di costruzione di fabbricato di Lire 350.000 per metro cubo, non indicando alcuna fonte, anziché Lire 400.000/mc accertate dal C.T.U. Trincas, che ha invece citato espressamente la fonte (ISTAT), apparendo quest’ultima stima ben più credibile, corrispondendo ad un costo per metro quadrato di superficie abitabile di Lire 1.200.000.
Peraltro, correttamente si sottolinea che il C.T.U. D. ha collocato temporalmente la propria stima al 1° gennaio 1996, mentre il C.T.U. Trincas l’ha collocata alla fine del mese di maggio 1996: tra le due date vi è, quindi, una differenza comprensibile di valori ISTAT del 1,5385% (Doc. 13 appellante).
Né, secondo il Collegio è apprezzabile la residua proprietà dei ricorrenti in primo grado, che si sarebbe incrementata per effetto della realizzazione dell’opera, atteso che tale dato, per uniforme orientamento giurisprudenziale, è stato da sempre ritenuto neutro rispetto alla quantificazione del danno da occupazione illegittima.
Infine, quanto al capo di sentenza con il quale il TAR ha riconosciuto la rivalutazione monetaria e gli interessi legali e al capo relativo alla regolamentazione delle spese di giudizio, si deve ribadire che il riconoscimento del danno da lucro cessante, costituito dalla perdita della possibilità di far fruttare la somma stessa, avuto riguardo al tempo trascorso ed al graduale mutamento del potere di acquisto della moneta, può liquidarsi in via equitativa nella misura degli interessi legali sulle somme rivalutate anno per anno a decorrere dalla data dell'illecito, in applicazione della sentenza 17 febbraio 1995, n. 1712 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui deve escludersi che la base del calcolo dei suddetti interessi possa essere quella della somma rivalutata al momento della liquidazione se gli interessi vengono fatti decorrere dal momento del fatto illecito, perché con tali modalità si attribuirebbe al creditore un valore cui egli non ha diritto.
Conclusivamente, alla luce del complesso delle argomentazioni svolte, si deve ritenere parzialmente fondato l’appello, che deve essere accolto nei limiti sopra indicati, con conseguente riforma della sentenza di primo grado, e ritenere infondato l’appello incidentale che, invece, deve essere rigettato.
Le spese sono liquidate come in dispositivo in ragione dei plurimi gradi di giudizio.
P.Q.M.
Il C. di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),
definitivamente pronunciando, in riforma della sentenza impugnata accoglie l’appello come in epigrafe proposto nei limiti e nei sensi della motivazione.
Respinge l’appello incidentale.
Condanna l’Amministrazione al pagamento delle spese di tutti i gradi di giudizio in favore degli appellanti , spese che liquida in euro 40.000,00, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di C. del giorno 12 luglio 2011 con l'intervento dei magistrati:
S. Baccarini, Presidente
Carlo Saltelli, Consigliere
Francesca Quadri, Consigliere
P. Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore
Doris Durante, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 02/11/2011

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