domenica 6 gennaio 2013

Stupefacenti, circostanza lieve entità può prevalere sulla recidiva reiterata


Corte Costituzionale
Sentenza 5 novembre 2012, n. 251


La disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza, come è stato già rilevato da questa Corte con riferimento ad altra fattispecie, «una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze» (sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di “lieve entità”.
L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012).
Questa conclusione non può essere confutata dal rilievo dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la previsione di trattamenti sanzionatori più severi per i recidivi reiterati non potrebbe condurre a un trattamento sanzionatorio di per sé sproporzionato. Invero, la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per «un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale» (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni, e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (sentenza n. 341 del 1994).




Corte Costituzionale
Sentenza 5 novembre 2012, n. 251
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di S.M. con ordinanza del 24 ottobre 2011, iscritta al n. 61 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 19 settembre 2012 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 24 ottobre 2011 (r.o. n. 61 del 2012), il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma, e 27, secondo (recte: terzo) comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
Il giudice rimettente riferisce di procedere, nell’ambito di un giudizio abbreviato successivo all’instaurazione di un giudizio direttissimo, nei confronti di una persona accusata del reato previsto dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, per avere illegalmente detenuto e ceduto 0,40 grammi di cocaina. All’imputato è contestata la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, avendo subìto quattro condanne per fatti commessi dall’ottobre del 2006 al febbraio del 2010, relativi a vari episodi di cessione illecita di sostanze stupefacenti.
Ricostruiti i fatti che avevano condotto all’arresto dell’imputato e ricordato che questi ha ammesso l’addebito, il Tribunale di Torino sostiene che l’episodio per il quale si procede è attenuato a norma del quinto comma del citato art. 73: elementi conferenti in tal senso sono indicati nel quantitativo della sostanza stupefacente di cui all’imputazione, nel prezzo di vendita irrisorio, nelle modalità della vendita stessa, nelle caratteristiche dell’acquirente, persona non «vulnerabile», e in quelle dell’imputato, che si trova in condizioni di vita sicuramente difficili e ha lealmente ammesso l’addebito.
Il rimettente richiama la giurisprudenza costituzionale (in particolare, la sentenza n. 192 del 2007), che ha prospettato un’interpretazione della disciplina della recidiva, così come modificata dalla legge n. 251 del 2005, secondo cui l’art. 99, quarto comma, cod. pen. prevede un’ipotesi di recidiva facoltativa, che il giudice può sia escludere, sia invece riconoscere, qualora il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.
Questa interpretazione è stata condivisa dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sezioni unite, 27 maggio 2010, n. 35738) e, secondo il giudice a quo, «ha aperto la strada a una ridda di decisioni di merito assai diverse su casi sostanzialmente analoghi», registrandosi in alcuni casi «veri e propri “equilibrismi dialettici” per motivare l’esclusione della recidiva – in situazioni che ragionevolmente non l’avrebbero consentito – pur di evitare l’assurdo dell’inflizione di sei anni di reclusione in ipotesi di cessione di una singola dose di sostanza stupefacente» e, in altri casi, invece condanne a tale pena «senza chiedersi se ciò fosse rispettoso dei principi di proporzionalità e personalità della pena».
Nonostante l’orientamento indicato, ad avviso del rimettente il problema resta ancora aperto in quanto «il riconoscere o escludere la recidiva reiterata facoltativa è operazione valutativa radicalmente diversa dal “bilanciare” quella recidiva con concorrenti circostanze attenuanti», esistendo «situazioni in cui, giudicando con onestà intellettuale, la recidiva non può essere esclusa, e tuttavia viene sentito come ingiusto negare la prevalenza di determinate attenuanti».
Il rilievo sarebbe tanto più evidente nella disciplina penale del traffico di stupefacenti, dove le disposizioni di cui al primo e al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 «rispecchiano due situazioni enormemente diverse dal punto di vista criminologico», in quanto «al comma 1 è prevista la condotta del grande trafficante, che dispone di significative risorse economiche e muove quantitativi rilevanti di sostanze stupefacenti senza mai esporsi in luoghi pubblici», laddove al comma 5 è contemplata «la condotta del piccolo spacciatore, per lo più straniero e disoccupato, che si procura qualcosa per vivere svolgendo “sulla strada” la più rischiosa attività di vendita al minuto delle sostanze stupefacenti». Sulla base di queste differenze, il legislatore ha sanzionato la seconda condotta «con una pena detentiva che, nel minimo edittale, è pari ad appena un sesto della pena prevista per la prima»; e secondo il Tribunale di Torino l’assetto normativo per il quale «una circostanza attenuante riduce la pena edittale minima da sei a un anno di reclusione, costituisce un unicum nel nostro sistema penale»; perciò la questione di legittimità costituzionale è stata proposta con «specifica limitazione» al rapporto tra l’art. 69, comma quarto, cod. pen. e la disposizione del quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
In alcuni casi (ad esempio nei delitti di lesioni, di furto, di truffa e di rapina) «la legge prevede la pena per le ipotesi meno gravi (e più frequenti nella prassi) e aggiunge una serie di circostanze aggravanti per le ipotesi di maggiore allarme sociale», mentre in altri (come nell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990) «la legge fissa la pena base per le ipotesi più gravi e prevede poi circostanze attenuanti per adeguare la sanzione ai casi più lievi e frequenti». In questi ultimi casi, «il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata produce conseguenze sanzionatorie devastanti, perché finisce con l’equiparare quoad poenam casi oggettivamente lievi a casi di particolare allarme sociale»: così, «mentre l’autore di furti, per quanti furti commetta, subirà, in caso di riconosciute attenuanti equivalenti, una pena edittale minima sempre pari a sei mesi di reclusione, il piccolo spacciatore recidivo reiterato – ove non venga in concreto esclusa la recidiva – vedrà la pena detentiva edittale minima “schizzare” da uno a sei anni di reclusione».
Escludere discrezionalmente la recidiva non sarebbe sempre possibile e in particolare non lo sarebbe nel giudizio a quo, posto che, secondo l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale, confermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza comune, per farlo occorre valutare «la natura e il tempo di commissione dei precedenti». È da considerare, infatti, che nel caso in esame le condanne già riportate dall’imputato attengono a quattro violazioni della disciplina degli stupefacenti, commesse in un arco temporale compreso tra il 2006 e il 2010, sicché natura e tempo di commissione dei reati indicherebbero che il reato sub iudice è «espressione della medesima “devianza” già denotata in occasione dei precedenti reati, ed è perciò sicura manifestazione di maggior colpevolezza e pericolosità dell’imputato». Pertanto non sarebbe possibile escludere la recidiva reiterata, laddove il reato commesso dall’imputato resterebbe una modesta violazione sussumibile nel quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e non sarebbe conforme ai principi costituzionali che «il riconoscimento della recidiva reiterata imponga al giudice di trascurare integralmente questo dato di realtà».
In particolare, la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza perché «conduce, in determinati casi, ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale enormemente diverso». Il recidivo reiterato implicato nel grande traffico di stupefacenti (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990) al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche verrebbe punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di uno «spaccio di strada» di minime quantità al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e quella prevista dal quinto comma dell’art. 73: «l’enorme differenza oggettiva, naturalistica, criminologica delle due condotte viene completamente obliterata in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore».
Sussisterebbe, inoltre, la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., che, con il suo espresso richiamo al «fatto commesso», riconosce rilievo fondamentale all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatologica di pericolosità sociale; la costituzionalizzazione del principio di offensività implicherebbe «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo».
Verrebbe in rilievo, infine, attraverso l’art. 27, secondo (recte: terzo) comma, Cost., il principio di proporzionalità della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa), perché «una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice: essa gli apparirà solo come brutale e irragionevole vendetta dello stato, suscitatrice di ulteriori istinti antisociali». Ad avviso del rimettente, sarebbe un dato autoevidente che l’inflizione di sei anni di reclusione per la cessione di una singola modesta dose di sostanza stupefacente, chiunque ne sia l’autore, non possa essere considerata una risposta sanzionatoria proporzionata. Osserva ancora il giudice a quo che la pena edittale minima per il piccolo spaccio del recidivo reiterato è più grave di quella prevista, ad esempio, per la partecipazione ad associazioni terroristiche o mafiose (artt. 270-bis e 416-bis cod. pen.), per la concussione (art. 317 cod. pen.), per le lesioni dolose con pericolo di vita della vittima (art. 583, primo comma, cod. pen.), per la rapina aggravata e l’estorsione (artt. 628 e 629 cod. pen.), per la violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.) e per l’introduzione illegale di armi da guerra nel territorio dello Stato (art. 1, legge 2 ottobre 1967, n. 895).
Il giudice rimettente chiede, dunque, una declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata. Aggiunge che la questione è incentrata solo sulla circostanza attenuante indicata, «senza carattere di generalità», perché in altre situazioni parzialmente analoghe (ad esempio, le circostanze attenuanti previste dall’art. 648, comma 2, cod. pen. e dall’ultimo comma dell’art. 609-bis cod. pen.), «i risultati sanzionatori che attualmente si producono sono assai meno stridenti con il principio di proporzionalità, ovvero possono trovare giustificazione in altri valori costituzionalmente protetti» (quale la libertà sessuale, nel secondo dei due esempi indicati).
2.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.
Secondo l’Avvocatura il Tribunale di Torino non chiarirebbe perché la doverosa considerazione della natura oggettiva del fatto «non consenta, nei casi di particolare levità, di non applicare (…) la recidiva», lasciando così al giudice la possibilità di riconoscere le circostanze attenuanti. Né potrebbe obiettarsi che la connotazione come lieve del fatto verrebbe in rilievo due volte (al fine di escludere la recidiva e di applicare la circostanza attenuante), in quanto la giurisprudenza relativa all’applicazione dei criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen. ritiene pacificamente che nulla ne impedisca la doppia valutazione. Nel caso di specie, la valutazione ai fini della recidiva reiterata sarebbe palesemente diversa da quella relativa ad una circostanza attenuante, sicché il giudice potrebbe tenere conto della natura del fatto per escludere la prima e, nel momento successivo, riconoscere o meno la seconda. La questione sarebbe, pertanto, insufficientemente motivata in punto di rilevanza.
L’Avvocatura generale dello Stato ritiene comunque la questione non fondata. Con la riforma dell’art. 69 cod. pen. introdotta dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, si sarebbe gravato il giudice di un potere discrezionale estremamente lato, con il pericolo di provocare disparità e incertezze in sede applicativa. La dilatazione del giudizio di bilanciamento conseguente alla riforma del 1974 avrebbe in seguito indotto più volte il legislatore a circoscriverlo o ad escluderlo per talune circostanze e in tale contesto si inserirebbe la modifica dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., la cui ratio è chiaramente volta ad «inasprire il regime sanzionatorio di coloro che versano nella situazione di recidiva reiterata, impedendo che tale importante circostanza sia sottratta alla commisurazione della pena in concreto»: si tratterebbe di una «scelta discrezionale del legislatore immune dalle censure denunciate dal giudice remittente».
La norma censurata non sarebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto tenderebbe ad attuare «una forma di prevenzione generale della recidiva reiterata, inasprendone il regime sanzionatorio». Essa, inoltre, non comporterebbe un’applicazione sproporzionata della pena, perché sanziona coloro che hanno commesso un altro reato essendo già recidivi, così dimostrando un alto e persistente grado di antisocialità. Osserva inoltre l’Avvocatura generale dello Stato che già in relazione ad altre ipotesi, quali la circostanza aggravante di cui all’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 (Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 6 febbraio 1980, n. 15, e l’art. 280, commi 2 e 4, cod. pen., il legislatore ha escluso espressamente il bilanciamento sulla base di una disciplina ritenuta costituzionalmente legittima (sentenze n. 38 e n. 194 del 1985).
Inoltre, non si potrebbe ragionevolmente ritenere che la previsione di trattamenti sanzionatori più rigorosi per i recidivi reiterati possa determinare l’applicazione di una pena di per sé sproporzionata, e ciò sarebbe sufficiente per escludere anche qualsiasi conflitto con la funzione rieducativa della pena. La commisurazione della pena, sottolinea l’Avvocatura generale dello Stato, è «demandata al giudice alla stregua dei principi fissati dal legislatore», che, nel caso di specie, avrebbe inteso sanzionare il fenomeno della recidiva reiterata in sé, a prescindere dalla gravità dei fatti commessi, dai loro tempi e modi e dalle sanzioni irrogate, in quanto «il fatto stesso della persistenza nelle condotte antisociali, quali che esse siano, dimostra che la funzione rieducativa non ha potuto efficacemente esplicarsi nei confronti del soggetto, e quindi è necessario assicurare la possibilità (quantomeno escludendo la prevalenza delle attenuanti) che, attraverso l’applicazione della pena, tale funzione trovi una nuova occasione di svolgimento».
La giurisprudenza costituzionale, osserva ancora l’Avvocatura dello Stato, ha chiarito come, salvo che per i reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., la recidiva conservi il carattere discrezionale o facoltativo, così restando integro il potere del giudice di escludere l’applicazione della circostanza qualora ritenga che la ricaduta nel reato non sia «indice di insensibilità etico/sociale del colpevole». Anche nelle ipotesi di recidiva reiterata, il giudice di merito sarebbe tuttora in grado, motivando adeguatamente la decisione, di commisurare il trattamento sanzionatorio alla effettiva gravità del fatto e alla reale necessità di rieducazione mostrata dal colpevole.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma, e 27, secondo (recte: terzo) comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
La norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), perché, in determinati casi, condurrebbe «ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale enormemente diverso»: il recidivo reiterato implicato nel grande traffico di stupefacenti (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990) al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche è punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di uno «spaccio di strada» di minime quantità, al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e la circostanza prevista dal quinto comma dell’art. 73, con la conseguenza che «l’enorme differenza oggettiva, naturalistica, criminologica delle due condotte viene completamente obliterata in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore».
Inoltre, la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di offensività (art. 25, secondo comma, Cost.), che, con il suo espresso richiamo al «fatto commesso», riconoscerebbe rilievo fondamentale all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatologica di pericolosità sociale, implicando pertanto «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo».
Infine, la norma censurata violerebbe «il principio di proporzionalità della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa)» (art. 27, terzo comma, Cost.), «perché una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice»: la condanna a sei anni di reclusione per la cessione di una singola e modesta dose di sostanza stupefacente non potrebbe essere considerata, chiunque ne sia l’autore, una risposta sanzionatoria proporzionata.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione, rilevando che «il giudice a quo non chiarisce perché la doverosa (…) considerazione della natura oggettiva del fatto non consenta, nei casi di particolare levità, di non applicare, appunto, la recidiva; in tal modo lasciando al giudice la possibilità di riconoscere le attenuanti». Nulla infatti, secondo l’Avvocatura, «impedisce al giudice di tenere conto della natura del fatto al fine di escludere l’aggravante e, nel momento successivo, così ricondotto il fatto alla figura base, considerare nuovamente quella natura al fine di riconoscere o meno l’attenuante». Ciò posto, la questione sarebbe «insufficientemente motivata in punto di rilevanza».
L’eccezione non è fondata.
Il giudice rimettente ha spiegato che «la possibilità di escludere discrezionalmente la recidiva (…) non è praticabile nel presente processo» perché le condanne già riportate dall’imputato sono tutte relative alla disciplina degli stupefacenti e sono state pronunciate in un arco di tempo che va dal 2006 fino al 2010. Secondo quel giudice, è chiaro che il reato per cui sta procedendo «è espressione della medesima “devianza” già denotata in occasione dei precedenti reati, ed è perciò sicura manifestazione di maggior colpevolezza e pericolosità dell’imputato».
Considerata questa motivazione, non si può ritenere, come pretende l’Avvocatura, che il giudice, ai fini dell’esclusione della recidiva, abbia negato la possibilità di tenere conto anche della «levità del fatto». È vero invece che, impregiudicato questo aspetto, il tribunale rimettente ha spiegato perché, nell’esercizio del proprio potere discrezionale, ha ritenuto di non poter escludere la recidiva e di dover quindi procedere al giudizio di bilanciamento, e a siffatta conclusione il tribunale è pervenuto in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il giudice è tenuto ad applicare la recidiva, quando, considerando la natura e il tempo di commissione dei precedenti, ritiene «il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo (…) sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 257 del 2008, n. 193 del 2008, n. 90 del 2008, n. 33 del 2008 e n. 409 del 2007).
Perciò, sia in punto di diritto, sia sotto il profilo della rilevanza, l’eccezione di inammissibilità risulta priva di fondamento.
3.– Nel merito la questione è fondata.
4.– L’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen., sul giudizio di bilanciamento delle circostanze, stabilendo, tra l’altro, un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., e il giudice a quo prospetta l’illegittimità costituzionale di tale norma «nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata», con la precisazione che «la questione si appunta sulla sola circostanza attenuante specificamente indicata, senza carattere di generalità», perché in altri casi il divieto può trovare giustificazione.
Per effetto della norma impugnata, ove secondo la valutazione del giudice debba essere applicata la recidiva reiterata, le violazioni «di lieve entità» della disciplina degli stupefacenti, per le quali l’art. 73, comma 5, prevede la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000, devono essere invece punite con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.
Nell’attuale formulazione, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole. L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base, come nel caso regolato dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
È rispetto a questo tipo di circostanze che il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della «finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico» (art. 1, decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante «Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, nella legge 6 febbraio 1980, n. 15) e, in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata.
Come è stato sottolineato da questa Corte, il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di «valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono» (sentenza n. 38 del 1985). Deroghe al bilanciamento però sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili da questa Corte «soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale; alterazione che, come si vedrà, emerge per più aspetti nella situazione normativa in questione.
5.– La manifesta irragionevolezza delle conseguenze sul piano sanzionatorio del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata è resa evidente dall’enorme divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per il reato circostanziato e per la fattispecie base prevista dal primo comma della disposizione citata e dagli effetti determinati dal convergere della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dallo stesso art. 73: nel caso di recidiva reiterata equivalente all’attenuante, il massimo edittale previsto dal quinto comma per il fatto di “lieve entità” (sei anni di reclusione) diventa il minimo della pena da irrogare; ciò significa che il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di “lieve entità” (un anno di reclusione) viene moltiplicato per sei nei confronti del recidivo reiterato, che subisce così di fatto un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata, che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.
In altre parole, ove si potessero applicare i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. prima della modificazione operata dall’art. 6 del d.l. n. 99 del 1974, la pena da irrogare in un caso come quello in esame sarebbe, a seconda del tipo di recidiva, di un anno e sei mesi o di un anno e otto mesi, cioè di un anno per il reato attenuato previsto dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, aumentato, a seconda dei casi, di sei mesi o di otto mesi per la recidiva, mentre il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, determina un aumento di cinque anni.
Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali del primo e del quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 rispecchiano, d’altra parte, le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio decisamente più mite assicurato al fatto di “lieve entità”, la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di «minima offensività penale» (Cass. pen., sezioni unite, 24 giugno 2010, n. 35737), esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato. Due fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e ciò «determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale» (sentenza n. 249 del 2010).
La recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità.
È da aggiungere che, come ha rilevato il rimettente, la norma censurata dà luogo anche a una violazione del principio di uguaglianza perché il recidivo reiterato, cui siano riconosciute le attenuanti generiche, autore di un fatto “non lieve” da punire con il minimo edittale della pena stabilita dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, riceve lo stesso trattamento sanzionatorio – quest’ultimo irragionevolmente più severo – spettante al recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di “lieve entità”. Del resto, che si tratti di fatti sostanzialmente diversi, e quindi tali da non poter essere assoggettati alla stessa pena, emerge anche dalla considerazione che, come hanno ritenuto le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 23 giugno 2011, n. 34475), l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti «costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell’art. 73», che forma oggetto della previsione dell’art. 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990, costituisce un reato diverso da quello oggetto del primo comma dello stesso articolo 74, relativo a un reato associativo analogo ma punito assai più gravemente perché concerne fatti di non “lieve entità”.
6.– È fondata anche la censura formulata dal giudice a quo in relazione al principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).
La disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza, come è stato già rilevato da questa Corte con riferimento ad altra fattispecie, «una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze» (sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di “lieve entità”.
L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012).
Questa conclusione non può essere confutata dal rilievo dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la previsione di trattamenti sanzionatori più severi per i recidivi reiterati non potrebbe condurre a un trattamento sanzionatorio di per sé sproporzionato. Invero, la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per «un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale» (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni, e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (sentenza n. 341 del 1994).
7.– Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 novembre 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Stupefacenti, nuovi criteri di applicazione dell'aggravante di ingente quantità

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE
SENTENZA 20 settembre 2012, n.36258
 

L'aggravante della ingente quantità, di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non è di norma ravvisante quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata.
 
 
 
 
 
 
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE - SENTENZA 20 settembre 2012, n.36258 - Pres. Lupo – est. Fumo
Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Teramo, con sentenza del 25 marzo 2010 condannò B.G. alla pena di anni nove di reclusione ed Euro 35.000 di multa (oltre alle pene accessorie previste dalla legge e al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare), riconoscendolo colpevole del delitto di cui agli artt. 110 cod. pen., 73, comma 1-bis, lett. a), e 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990, perché, in concorso con G.A. (separatamente giudicato), deteneva, al fine di cedere a terzi, ingente quantità di sostanza stupefacente di tipo eroina (complessivi kg. 14,165), suddivisa in 26 panetti, confezionati sottovuoto e in due involucri di cellophane.
1.1. Tale sostanza era stata rinvenuta, in data (OMISSIS) , in (OMISSIS) , nell'officina-rimessaggio del B. , ove il G. , secondo i giudici del merito, col consenso del primo e avvalendosi di strumentazione ivi esistente e appositamente predisposta da entrambi, l'aveva portata, allo scopo di impacchettarla e, quindi, di occultarla all'interno di una cassettiera e di una mietitrebbia, presenti nei suddetto locale.
1.2. A B. fu contestata la recidiva semplice.
2. La Corte d'appello dell'Aquila, con sentenza del 3 novembre 2010, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, ha escluso l'aggravante di cui all'art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990, rideterminando la pena in anni sei di reclusione ed Euro 26.000 di multa; ha rigettato nel resto gli appelli proposti dall'imputato e dal Procuratore generale.
In particolare, la Corte d'appello ha osservato che “non ricorre l'aggravante dell'ingente quantità, di cui all'articolo 80 comma secondo d.P.R. 309/90, in considerazione della modestia della percentuale di principio attivo accertato in esito alle analisi di laboratorio dell'ARTA. Alla stregua di tale percentuale, infatti, il quantitativo di sostanza risulta pari a circa 17 grammi. Va in proposito richiamato quanto precisato dalla Suprema Corte, Sezione Quinta (recte, Sesta), con la sentenza numero 20119 del 26/5/2010 e, cioè, che non possono, di regola, definirsi ingenti quantitativi di droghe pesanti (in particolare, tra le più diffuse, eroina e cocaina) (quelli) che, presentando un valore medio di purezza per tipo di sostanza, siano al di sotto dei 2 chilogrammi”.
3. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione l'imputato e il Procuratore generale presso la Corte di appello.
3.1. Il B. con il primo motivo deduce violazione di legge, per asserita insussistenza del ritenuto concorso ex art. 110 cod. pen. nel reato commesso dal G. , poiché nulla starebbe a provare che egli abbia dato un contributo causale alla detenzione illecita addebitata al coimputato e neanche che egli fosse consapevole del confezionamento, nella sua officina, di panetti di eroina ad opera del G. . A tutto concedere, il fatto avrebbe dovuto essere qualificato ex art. 379 cod. pen..
Con il secondo motivo, deduce, ancora, violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, atteso che, in proposito, è stato indebitamente valorizzato un remoto precedente e si è erroneamente ritenuto reticente il comportamento processuale dell'imputato.
3.2. Il Procuratore generale deduce, a sua volta, violazione di legge e contraddittorietà della motivazione per travisamento del fatto, sostenendo che la Corte di appello ha equivocato sugli esiti delle analisi eseguite, dalle quali era in realtà emerso che il principio attivo di sostanza drogante, nelle diverse confezioni di eroina cadute in sequestro, variava tra il 13% e il 17%, ammontando, sul totale degli oltre 14 chilogrammi di eroina sequestrati, a “circa due chilogrammi o più”. La Corte abruzzese, dunque, aveva erroneamente ritenuto che la sostanza caduta in sequestro consistesse in soli 17 grammi, avendo confuso il dato percentuale con il principio attivo. D'altronde, la medesima Corte di appello, nell'ambito del separato procedimento a carico del coimputato (G. ), aveva riconosciuto che il quantitativo di eroina in oggetto era ingente, ritenendo, in quella occasione, la sussistenza dell'aggravante contestata. Conseguentemente, una volta verificato l'esatto quantitativo di principio attivo nella sostanza rinvenuta e sequestrata, avrebbe dovuto essere riconosciuta la corretta contestazione dell'aggravante de qua, sia in relazione alla sua idoneità a soddisfare le esigenze di un numero elevato di tossicodipendenti (indipendentemente dalla situazione del mercato locale e dalla sua possibile saturazione, secondo un orientamento giurisprudenziale, che il ricorrente qualifica come maggioritario), sia in relazione alla 'soglia limite', suggerita dal diverso orientamento in proposito formatosi.
4. La Quarta Sezione penale della Corte di cassazione, cui i ricorsi sono stati assegnati, ha rilevato l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale in relazione alla questione sollevata dal Procuratore generale ricorrente, vale a dire sui presupposti in relazione ai quali può essere ritenuta sussistente la contestata aggravante di cui all'art. 80 del testo unico 9 ottobre 1990, n. 309. Per tale ragione, con ordinanza in data 11 ottobre 2011, ha rimesso i ricorsi alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen..
Secondo la predetta ordinanza, la sentenza della Corte di appello contiene un evidente lapsus calami nella parte in cui indica in 17 grammi il peso complessivo dello stupefacente. Invero, si osserva che, nella fase di merito, l'imputazione ha sempre riguardato un quantitativo di eroina intorno ai 14 chilogrammi, con un principio attivo medio, come anticipato, del 13-14% e con “punte” fino al 17% e oltre. Si tratterebbe quindi di un mero errore materiale, in quanto la Corte territoriale avrebbe riportato la percentuale di principio attivo invece del peso complessivo della sostanza; tuttavia, sulla base delle argomentazioni sviluppate, si rileva che il giudice di appello ha 'ragionato' sul corretto dato ponderale.
La questione relativa ai criteri in base ai quali ritenere, ovvero escludere, l'esistenza dell'aggravante in oggetto, ha poi osservato la predetta Sezione, rimane comunque aperta e non può che essere risolta, considerato il contrasto permanente, dalle Sezioni Unite.
Si osserva al riguardo che la Corte di cassazione si è, per un apprezzabile periodo di tempo, orientata nel senso della sussistenza dell'aggravante nei casi in cui i quantitativi di sostanza stupefacente si presentavano idonei al consumo da parte di un numero elevato di fruitori e alla conseguente saturazione di una rilevante porzione del mercato clandestino.
Si rileva peraltro come si sia affermato, accanto alla opinione sopra sintetizzata, un diverso indirizzo, in base al quale, pur senza far riferimento al mercato e alla sua eventuale saturazione, l'aggravante in questione deve ritenersi ricorrente ogni qualvolta il quantitativo di sostanza stupefacente, pur non raggiungendo il vertice massimo di valore, sia tale da rappresentare un pericolo effettivo per la salute pubblica, atteso che esso può soddisfare le “esigenze” di un numero elevato (anche se non determinabile) di consumatori. Al proposito, si è osservato che il riferimento al mercato, oltre ad essere arbitrario, è anche di impossibile riscontro, dal momento che, com'è ovvio, trattasi di mercato clandestino, che, appunto in quanto tale, si sottrae ad ogni tipo di censimento e controllo.
Si osserva ancora nella ordinanza che, con la sentenza n. 17 del 2000, ricorrente Primavera, le Sezioni Unite della Corte dì cassazione ebbero a stabilire che la circostanza aggravante speciale dell'ingente quantità di sostanza stupefacente, prevista dall'art. 80, comma 2, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, la cui ratio legis è da ravvisare nell'incremento del pericolo per la salute pubblica, ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti, secondo l'apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza (Rv. 216666).
Per la pronunzia sopra riportata, ciò che rileva è che la quantità di sostanza stupefacente superi notevolmente, “con accento di eccezionalità”, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere. Si tratta allora di accertare che detta sostanza sia oggettivamente di notevole quantità, vale a dire molto elevata nella scala dei valori quantitativi, anche se non raggiunga il valore massimo, che, per essere riferito a quantità, rimane sostanzialmente indeterminabile, in quanto ampliabile all'infinito.
L'ordinanza di rimessione ha, al proposito, osservato che il principio sopra enucleato ha trovato applicazione nelle successive pronunzie del giudice di legittimità, sottolineando che, tuttavia, in seno alla Sesta Sezione penale, si è venuto - col tempo - delineando un divergente orientamento, in base al quale la nozione di ingente quantità deve far riferimento ad un valore ponderale eccezionale, rispetto alle usuali transazioni del mercato clandestino. In base ai dati di comune esperienza, conoscibili e valutabili proprio dalla Corte di cassazione, in ragione del fatto che essa è da ritenere “terminale di confluenza” dei moltissimi casi che si verificano e si accertano su tutto il territorio nazionale, la predetta Sezione è giunta alla conclusione che non possono definirsi ingenti i quantitativi delle cosiddette 'droghe pesanti' - eroina e cocaina in primis - che, presentando un valore medio di purezza, siano al di sotto dei 2 kg e quantitativi di 'droghe leggere' - in particolare hashish e marijuana - che, sempre in considerazione della percentuale media di principio attivo, non superino i 50 kg.
Tale opinione, tuttavia, osserva la Quarta Sezione, è stata criticata in altre pronunzie, coeve e successive, le quali hanno rilevato come la individuazione di precisi parametri quantitativi, per individuare il carattere ingente della sostanza stupefacente “trattata”, costituisca attribuzione esclusiva del legislatore, il quale, però, non ha ritenuto di fornire alcuna precisa e specifica indicazione sul punto. È pur vero, d'altra parte - si fa notare - che anche altre ipotesi criminose sono state costruite dal legislatore con l'utilizzo di espressioni verbali generiche, espressioni relative a una maggiore o minore gravità dell'illecito. Ebbene, in tali casi, la giurisprudenza di legittimità non ha ritenuto necessario fissare un tetto quantitativo, espresso in precisi termini numerici; la giurisprudenza di merito, per parte sua, risulta aver elaborato parametri idonei all'individuazione delle fattispecie circostanziate, sulla base dei giudizi di fatto, che, appunto, attengono al merito. La logicità di tali criteri ha costituito, nei casi sopra indicati, oggetto del vaglio del giudice di legittimità.
5. Con decreto in data 3 novembre 2011, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'udienza pubblica del giorno 23 febbraio 2012 e disponendo la trasmissione degli atti all'Ufficio del Massimario penale per la redazione della consueta relazione illustrativa.
Alla data sopra indicata, in considerazione dell'astensione dalle udienze dei difensori, la trattazione è stata rinviata al 24 maggio 2012.

Considerato in diritto

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni unite è la seguente: “Se, per il riconoscimento della circostanza aggravante speciale dell'ingente quantità nei reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, si debba far ricorso al criterio quantitativo, con predeterminazione di limiti ponderali per tipo di sostanza, ovvero debba aversi riguardo ad altri indici che, al di là di soglie quantitative prefissate, valorizzino il grado di pericolo per la salute pubblica, derivante dallo smercio di un elevato quantitativo, e la potenzialità di soddisfare I numerosi consumatori per l'alto numero di dosi ricavabili”.
2. Prima di affrontare la predetta questione, è necessario esaminare il ricorso dell'imputato, essendo evidente che, se esso dovesse rilevarsi fondato in riferimento alla prima censura proposta dal B. (il quale - si ripete - ha sostenuto, in via principale, l'insussistenza dei presupposti in base ai quali fu ritenuto il suo concorso nel delitto per il quale il G. ha già riportato condanna), non vi sarebbe possibilità, né ragione, di affrontare la questione rimessa alle Sezioni Unite.
2.1. La prima censura proposta dall'imputato, peraltro, è infondata.
Si legge nella sentenza impugnata (e il dato è pacifico, non risultando essere mai stato contestato) che nell'officina-rimessaggio del B. fu rinvenuta la sostanza stupefacente di cui al capo di imputazione, suddivisa in 26 panetti, confezionati sotto vuoto e avvolti in due involucri di cellophane.
2.2. Con il ricorso, il difensore dell'imputato sostiene che il solo fatto che il locale nel quale la droga era stata occultata fosse di proprietà del B. non costituisce certo circostanza sufficiente perché sia ritenuto il suo concorso nel reato in questione.
Il ricorrente invero ricorda che “affinché si possa contestare il concorso di persona nel reato è necessario dimostrare l'apporto di ciascun concorrente alla determinazione dell'evento. Tale apporto, per altro, deve configurarsi in termini di funzionalità, utilità o maggiore sicurezza rispetto al risultato finale”.
3. In realtà, il presupposto dal quale muove la critica del ricorrente non corrisponde a quanto ritenuto ed esposto dalla Corte abruzzese. I giudici di appello, infatti, non hanno affermato la sussistenza degli estremi del concorso del B. nel reato (già) addebitato al G. per il solo fatto che il primo era il proprietario del locale nel quale la droga era occultata, ma hanno considerato: a) le modalità di tale occultamento, b) la presenza nella rimessa-officina di strumentazione utilizzabile per il confezionamento “sotto vuoto”, c) il fatto che sarebbe stato illogico che G. avesse, senza il consenso del B. , nascosto una così rilevante quantità di eroina (avente un controvalore tutt'altro che trascurabile) in un luogo, nel quale - per stessa ammissione dell'imputato e per quel che si è sforzata di provare la sua difesa - avevano accesso più persone. Proprio tale ultima circostanza è particolarmente valorizzata dal giudice di secondo grado, il quale afferma che certamente il G. non avrebbe corso il rischio di perdere il controllo della 'merce', nascosta in un luogo di pertinenza di altri e, per di più (secondo quanto si sosteneva nell'atto di appello e si sostiene nel ricorso) invito domino, anzi, addirittura, all'insaputa del proprietario del locale. Il rischio, secondo la Corte di merito, era notevolmente accresciuto, appunto, dal fatto che la rimessa-officina era frequentata anche da terze persone, di talché era stato necessario individuare e utilizzare 'nascondigli' (la cassettiera, la mietitrebbia) all'interno del predetto locale.
Sulla base di tale presupposto fattuale e sviluppando un iter argomentativo tutt'altro che illogico, la Corte territoriale ha correttamente applicato l'istituto di cui all'art. 110 cod. pen., ritenendo che B. non fosse né inconsapevole, né indifferente in relazione all'occultamento dell'eroina nel suo locale, ma anzi fosse consenziente e avesse, all'uopo, messo a disposizione la rimessa-officina.
La conclusione cui motivatamente è giunto il giudice di secondo grado non lascia spazio alla alternativa qualificazione giuridica della condotta del B. ai sensi dell'art. 379 cod. pen.. Invero il principio in base al quale il reato di favoreggiamento non è configurabile, con riferimento al delitto di illecita detenzione di sostanza stupefacente, in costanza di detta detenzione, costituisce giurisprudenza consolidata (cfr. Sez. 6, n. 4927 del 17/12/2003, dep. 2004, Domenighini, Rv. 227986; Sez. 4, n. 12915 del 08/03/2006, Billeci, Rv. 233724); ciò in quanto, nei reati permanenti, qualunque agevolazione del colpevole, prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve - salvo che sia diversamente previsto - in un concorso, quanto meno a carattere morale.
Il principio, per altro, è stato più volte ribadito proprio in relazione a fattispecie nelle quali il contributo ascritto all'imputato era consistito nella messa a disposizione di locali utilizzati da terzi per traffici illeciti di sostanze stupefacenti (cfr. Sez. 6, n. 37170 del 15/04/2008, Cona, Rv. 241209: fattispecie in cui l'imputato aveva messo a disposizione i locali della propria officina per le attività di spaccio posta in essere da un congiunto; Sez. 6, n. 35744 del 03/06/2010, Petrassi, Rv. 248586: fattispecie in cui era stato messo a disposizione un magazzino perché vi fosse custodita droga; Sez. 4, n. 13784 del 24/03/2011, Improta, Rv. 250135: fattispecie in cui il locale era stato messo a disposizione dello spacciatore perché si incontrasse con l'acquirente).
4. La seconda censura del ricorso B. è inammissibile per genericità e perché, sostanzialmente, articolata in fatto. La pur sintetica motivazione che, in ordine al diniego delle attenuanti di cui all'art. 62-bis cod. pen., sviluppa la sentenza di appello, fa perno su due presupposti: la esistenza di precedenti penali (all'imputato, come premesso, è stata contestata la recidiva) e il “censurabile comportamento processuale, improntato a reticenza e ambiguità”.
Orbene, quanto ai precedenti, il ricorrente si limita ad affermare che in realtà vi è un unico precedente e, per di più, “datato”, ma neanche chiarisce a quando risalga e a quale reato si riferisca; quanto alla condotta processuale, con il ricorso si assume che il B. si è limitato a riferire quel che sapeva; ciò potrebbe costituire, a tutto concedere, replica alla accusa di reticenza, replica, in sé, non infondata, atteso che l'imputato non è obbligato a un comportamento collaborativo, ma non certo al più grave addebito di aver tenuto una condotta processuale ambigua, atteso che il pieno esercizio del diritto di difesa, se faculta, appunto l'imputato al silenzio e persino alla menzogna, non lo autorizza, per ciò solo, a tenere atteggiamenti processualmente 'obliqui' e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale, che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento (cfr. Sez. 5, n. 15547 del 19/03/2008, Aceto, Rv. 239489) e la cui violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice del merito.
5. Tanto premesso e definito, è necessario ora passare a esaminare l'unica censura nella quale si sostanzia il ricorso del Procuratore generale, censura che costituisce, poi, la ragione per la quale sono state investite queste Sezioni Unite.
5.1. Va innanzitutto ricordato che, dal capo di imputazione, sì evince che la circostanza aggravante di cui all'art. 80, comma 2 d.P.R. n. 309 del 1990 è stata contestata in considerazione del quantitativo totale di eroina tratta in sequestro, pari a poco più di chilogrammi 14; in secondo luogo, va osservato come si ricavi, dalla sentenza di primo grado, che detta circostanza aggravante è stata ritenuta in relazione al quantitativo di principio attivo contenuto nella sostanza in questione (dalle analisi tecniche esperite è emerso che l'eroina sequestrata era 'pura' in percentuale mediamente variabile tra poco più del 13% e il 14%, con 'punte' del 17,84% nei 28 panetti nei quali essa era suddivisa, e quindi pari a circa kg. 2); in terzo luogo, va ribadito che, tuttavia, dalla sentenza d'appello, sembra comprendersi che l'aggravante sia stata esclusa sul presupposto che il quantitativo di principio attivo nella droga tratta in sequestro corrispondesse nel complesso a soli 17 grammi.
5.2. In merito, l'ordinanza di rimessione della Sezione Quarta ritiene tale ultimo riferimento frutto di un 'mero refuso', attinente alla sola 'espressione grafica', in quanto la stessa sentenza fa riferimento alla 'modestia di percentuale di principio attivo accertato'. D'altra parte, osserva sempre la sezione rimettente, se la Corte di merito avesse inteso effettivamente far riferimento a un quantitativo di soli 17 grammi di principio attivo, non avrebbe avuto senso il richiamo della giurisprudenza di legittimità (in particolare alla sentenza della Sezione Sesta n. 20119 del 26/05/2010), che affronta il problema in relazione a fattispecie in cui le quantità (e le percentuali) erano di ben altro livello.
L'affermazione merita di essere condivisa, dovendosi il detto quantitativo e la detta percentuale di principio attivo assumere come dati fattuali certi e immodificabili, conseguenti ad accertamento di merito, che lo stesso imputato ricorrente (e, prima, appellante) non risulta aver mai contestato.
6. La Quarta Sezione, nell'ordinanza più volte ricordata, compie un sintetico excursus della giurisprudenza di legittimità, relativa ai criteri utilizzati per la determinazione del concetto di 'ingente quantità', prendendo le mosse da quelle sentenze che fanno esplicito riferimento alla capacità delle quantità trattate di saturare, in un determinato momento, il mercato clandestino (“un apprezzabile area di spaccio”, cfr. Sez. 4, n. 7204 del 22/05/1997, Franzoni, Rv. 208535 e altre), per ricordare di seguito come il “profilo mercantilistico” fosse stato poi abbandonato (segnatamente dalla ricordata sentenza delle Sezioni Unite, Primavera, del 2000 e da quelle delle sezioni semplici che ad essa si erano allineate), per concludere, quindi, facendo riferimento all'orientamento emerso nell'ambito della Sesta Sezione a far tempo dal 2010. Tale orientamento ha inteso ancorare la predetta espressione ('ingente quantità') a un dato numerico, variabile a seconda si tratti di 'droghe pesanti', ovvero di 'droghe leggere', nel senso che, al di sotto della soglia individuata, non potrebbe mai ritenersi sussistente l'aggravante in questione.
Per vero, l'ordinanza di rimessione coglie aspetti problematici in entrambe le soluzioni proposte dalla giurisprudenza di legittimità. Con riferimento alla prima, in quanto il richiamo al mercato sembra essere stato, in realtà, reintrodotto dalla perifrasi - utilizzata dalla stessa sentenza Primavera e dalle caudatarie - con la quale si fa riferimento alle “transazioni del genere nell'ambito territoriale nel quale il giudice di fatto opera”; con riferimento alla seconda, perché, come affermato da Sez. 4, n. 2451 del 03/06/2010, Iberdemaj, Rv. 247823 (e dalle altre pronunzie della medesima sezione che vengono singolarmente ricordate), non sarebbe consentito al giudice, nel silenzio del legislatore, “fissare predeterminati limiti quantitativi minimi, al fine di ritenere configurabile la circostanza aggravante in questione”.
In tali termini (e con le predette implicazioni), la Sezione rimettente ha individuato il contrasto di giurisprudenza, per la cui soluzione sono state investite le Sezioni Unite.
7. Per affrontare il problema 'alla radice', conviene innanzitutto completare il quadro relativo alle contrapposte pronunzie giurisprudenziali che, sul tema, si sono susseguite.
7.1. Come correttamente osservato nell'ordinanza di rimessione, a un originario (e risalente) orientamento, che faceva riferimento alla saturazione del mercato (oltre alla ricordata sentenza Franzoni del 1997, può essere citata, tra le altre, Sez. 6 n. 8287 del 09/05/1996, Amato, Rv. 205929), ha fatto seguito, nel 2000, la sentenza delle Sezioni Unite, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, che, pretermettendo (almeno in apparenza) il riferimento al mercato, ha sottolineato che, perché possa parlarsi di quantità 'ingente' di stupefacente, è necessario che “la quantità di sostanza tossica, oggetto della specifica indagine nel dato procedimento, superi notevolmente, con accento di eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere, nell'ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera”.
A tale pronunzia fanno esplicito riferimento non poche sentenze successive a far tempo dalla sentenza n. 44518 del 2003 della Sezione Quarta (ud. 24/09/2003, Grado, Rv. 226817), per la quale la circostanza aggravante della quantità ingente deve ritenersi sussistente quando il quantitativo, pur non raggiungendo il vertice massimo di valore, sia tale da rappresentare un pericolo per la salute pubblica, ovvero per un rilevante, ancorché indefinito, numero di tossicodipendenti e, pertanto, allorché sia idoneo a soddisfare le esigenze di un numero molto elevato di tossicodipendenti, senza ulteriore riferimento al mercato e alla eventuale sua saturazione.
Con argomenti analoghi motiva la medesima Sezione, con le sentenze, n. 45427 del 09/10/2003, Bouzarriah, Rv. 226246, n. 30075 del 21/06/2006, De Angelis, Rv. 235180, n. 12186 del 27/11/2003, dep. 2004, Duro, Rv. 227908, n. 11510 del 02/12/2003, dep. 2004, Esposito, Rv. 228029, n. 47891 del 28/09/2004, Mauro, Rv. 230570, n. 43372 del 15/05/2007, Hillalj, Rv. 238295, n. 36585 del 18/06/2009, ric. Venturini, Rv. 244986 (ed altre non massimate).
Per parte sua, la Sezione Sesta assumeva posizioni analoghe, con le sentenze n. 7254 del 19/10/2004, dep. 2005, Cusumano, Rv. 231313, n. 10834 del 23/01/2008, Sartori, Rv. 239210, n. 1870 del 16/10/2008, dep. 2009, Grieco, Rv. 242637.
Episodicamente anche altre sezioni (Sez. 5, n. 39205 del 09/07/2008, Di Pasquale ed altri, Rv. 241694; Sez. 2, n. 4824 del 12/01/2011, Baruffaci, Rv. 249628), esprimevano simili concetti.
7.2. Ha rilevato, tuttavia, puntualmente, sempre l'ordinanza di rimessione che, a far tempo dal 2010, la Sezione Sesta ha affermato ripetutamente il principio in base al quale, con riferimento alle così dette 'droghe pesanti', non può definirsi ingente un quantitativo inferiore a 2 chilogrammi e, con riferimento alle così dette 'droghe leggere', a 50 chilogrammi; ciò facendo riferimento a una percentuale media di principio attivo.
Il rilievo corrisponde al vero, atteso che effettivamente la recente giurisprudenza della Sesta Sezione ha manifestato l'esigenza di ancorare la nozione di ingente quantità a un parametro improntato, per quanto possibile, a criteri oggettivi. Ciò in quanto, diversamente opinando, dovrebbe sospettarsi, secondo detta Sezione, la esistenza di un insanabile contrasto tra l'aggravante in questione e il principio di determinatezza, aspetto del più generale principio di legalità, presidiato dall'art. 25, comma secondo, Cost..
Dunque, muovendo dal dictum della sentenza Primavera (e, pertanto, abbandonando anche essa il criterio della saturazione del mercato, in quanto del tutto assente dalla lettera della norma e comunque, di fatto, indefinibile), questo 'nuovo' orientamento (Sez. 6, n. 20119 del 02/03/2010, Castrogiovanni, Rv. 243374) ha voluto chiarire che, “ai fini di un'applicazione giurisprudenziale che non presti il fianco a critiche di opinabilità di valutazioni, se non (addirittura) di casuale arbitrarietà, occorra meglio definire l'ambito di apprezzamento rimesso al giudice del merito e, di riflesso, quello proprio del sindacato di legittimità; il tutto considerando che la giurisprudenza prodottasi successivamente all'accennata sentenza delle Sezioni unite, pur prestandovi formalmente adesione, presenta talvolta risultati di evidente disarmonia a fronte di dati quali-quantitativi e di realtà territoriali in tutto assimilabili”.
Si è, conseguentemente, osservato che il riferimento all'ambito territoriale (pur presente nella stessa sentenza delle Sezioni Unite, come metro di valutazione della eventuale esuberanza del dato ponderale rispetto alle 'usuali transazioni'), ha uno scarso valore ermenuetico. Ciò in quanto il mercato della droga ha caratteri globali e, normalmente, non riceve significativi connotati da una determinata area territoriale.
Dunque, “poiché l'aggravante in questione esprime l'esigenza di reprimere più severamente fatti di accresciuto pericolo per la salute pubblica in relazione al rilevante numero di tossicofili cui un determinato quantitativo di droga è potenzialmente destinato, ciò che conta è, appunto, il numero di fruitori finali e non l'area dove essi insistono”.
Facendo ricorso alle medesime espressioni della sentenza Primavera, la predetta pronunzia aggiunge che, dovendosi porre l'ipotesi aggravata dalla quantità in posizione di marcata eccezione rispetto alle “usuali transazioni del mercato clandestino”, ciò che rileva in assoluto è il valore ponderale, considerato in relazione al grado di purezza della sostanza tossica, e, quindi, delle dosi singole (aventi effetti stupefacenti) da essa ricavabili.
Per la Sezione Sesta, non è dubbio poi che ci si debba riferire, non alle transazioni relative alla vendita al dettaglio e nemmeno a quelle che si verificano tra il pusher e il suo fornitore, ma a quelle relative ai quantitativi importati. E tali quantitativi ben possono essere valutati proprio dal giudice di legittimità - si intende, una volta avuto per certo il dato numerico, come emerso nel giudizio di merito - dal momento che la Corte di cassazione “è sede privilegiata, in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale”.
Forte, dunque, della propria esperienza nel presente momento storico, la Sezione Sesta ha ritenuto, come si anticipava, di poter individuare quale 'ingente quantità' il valore ponderale (considerato in relazione alla qualità della sostanza e specificato in ragione del grado di purezza, e, quindi, delle dosi singole aventi effetti stupefacenti) superiore a 2 kilogrammi per le 'droghe pesanti' e a 50 chilogrammi per le 'droghe leggere'.
Le sentenze della medesima Sezione n. 27128 del 25/05/2011, D'Antonio, Rv. 250736; n. 34382 del 21/06/2011, Romano, non massimata, n. 12404 del 14/01/2011, Laratta, Rv. 249635, hanno consolidato tale orientamento giurisprudenziale (nel medesimo senso anche Sez. 1, n. 30288 del 08/06/2011, Rexhepi, Rv. 250798).
Da ultimo, la Sesta Sezione ha, ancora una volta, confermato la sua opinione (sent. n. 31351 del 19/05/2011, Turi, Rv. 250545), chiarendo, ribadendo e specificando che “il carattere ingente del quantitativo, e cioè la sua eccezionale dimensione rispetto alle usuali transazioni, può certamente essere suscettibile di essere, di volta in volta, confrontato dal giudice di merito con la corrente realtà del mercato; ma, stando a dati di comune esperienza, apprezzabili a maggior ragione dalla Corte di cassazione, sede privilegiata, in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale, deve ritenersi che non possono, di regola, definirsi ingenti quantitativi di droghe leggere (...) oramai parificate dal punto di vista sanzionatorio alle così dette droghe pesanti, che, presentando una percentuale di principio attivo corrispondente ai valori medi propri di tale sostanza, siano inferiori ai cinquanta chilogrammi” (nel caso in esame si trattava di hashish).
La sentenza da ultimo citata mostra, per altro, di non ignorare le critiche che al filone interpretativo che essa condivide e corrobora erano state mosse (critiche, come anticipato, in base alle quali non sarebbe consentito alla Corte di cassazione predeterminare i limiti quantitativi che consentono di ritenere configurabile la circostanza aggravante de qua, cfr. la già citata sentenza della Sezione Quarta, Iberdemaj, nonché la sentenza, sempre della stessa Sezione n. 9927 del 01/02/2011, Ardizzone, Rv. 249076, della quale amplius infra.
A tali critiche, invero, si replica da parte della Sesta Sezione osservando che le soglie indicate (2 chilogrammi, 50 chilogrammi) non devono intendersi alla stregua di 'valori assoluti o immutabili”, rappresentando esse, viceversa, semplici parametri indicativi, tratti, come più volte chiarito, dalla casistica apprezzata dalla Corte di legittimità, sulla base dei dati provenienti dalla esperienza processuale; parametri, per altro, che ben possono essere ritenuti non confacenti al caso di specie, a patto, però, che il giudice di merito offra specifica indicazione dei criteri di riferimento cui ha inteso aderire.
7.3. A tale orientamento ha inteso, appunto, esplicitamente “reagire” proprio la Sezione Quarta (e, come si dirà, episodicamente anche la Quinta), che, con la già (più volte) ricordata sentenza n. 24571 del 03/06/2010, Iberdemaj, Rv. 247823, e, ancora più marcatamente, con la citata sentenza n. 9927 del 2011, Ardizzone, ha affermato che “in tema di reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, non è consentito predeterminare i limiti quantitativi minimi che consentono di ritenere configurabile la circostanza aggravante prevista dall'art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990”.
Ancor più di recente, la Quinta Sezione, per parte sua (sent. n. 36360 del 14/07/2011, Amato, non massimata), rifacendosi proprio a tale ultima pronunzia, ha ribadito la impossibilità/illegittimità di fissare soglie aritmeticamente determinate.
8. Tale essendo lo stato della giurisprudenza, appare opportuno, allo scopo di avvicinarsi alla soluzione del problema, in vista della composizione del contrasto, prendere le mosse da un'analisi del comma 2 dell'art. 80 d.P.R. 309/90, non trascurando le conseguenze che la sua applicazione comporta.
8.1. L'art. 80, comma 2, rappresenta una circostanza aggravante ad effetto speciale, che comporta, per le condotte incriminate dall'art. 73 del medesimo d.P.R., aventi ad oggetto quantitativi 'ingenti' di droga, un inasprimento della pena edittale, dalla metà a due terzi. La pena poi è di anni 30 di reclusione, se le sostanze stupefacenti o psicotrope, oltre ad essere in quantità ingente, siano anche adulterate o commiste ad altre, in modo che ne risulti accentuata la potenzialità lesiva.
Al proposito, è utile osservare che, già per le ipotesi 'ordinarie' (quelle non riconducibili al comma 5 dell'art. 73 che, come è noto, prevede i casi attenuati del fatto di 'lieve entità'), il legislatore ha approntato un quadro sanzionatorio di estrema severità. Invero, la pena detentiva va da 6 a 20 anni di reclusione e quella pecuniaria da Euro 26.000 a Euro 260.000 di multa.
Dunque, anche in caso si ritenga insussistente l'aggravante de qua, il giudicante ha a sua disposizione una gamma sanzionatoria, che, non solo gli consente, come è ovvio, di graduare la pena secondo i noti criteri di cui all'art. 133 cod. pen., ma che gli conferisce il potere - ricorrendone ovviamente i presupposti oggettivi e soggettivi - di fornire una risposta repressiva in termini quantitativamente molto elevati. Il limite massimo della pena edittale per il reato di cui all'art. 73 della vigente legge sugli stupefacenti, invero, si allinea a quelli previsti per alcuni tra i più gravi delitti.
Se si fa riferimento al caso in esame, poi, non si può non rilevare che il B. è stato condannato, come ricordato, alla pena di anni nove di reclusione in primo grado. È allora agevole osservare che, anche senza la contestazione dell'aggravante di cui al comma secondo dell'art. 80, la pena inflitta avrebbe potuto, almeno in astratto, essere egualmente determinata nella misura ritenuta in concreto, atteso che - come anticipato - il massimo edittale è di gran lunga superiore.
Non basta: l'aggravante in questione comporta conseguenze (ovviamente sfavorevoli per il soggetto che se la veda riconoscere) con riferimento all'ampliamento dei termini di custodia cautelare, all'ampliamento dei termini di durata massima delle indagini preliminari, all'inasprimento del trattamento penitenziario.
Inoltre, per le ipotesi aggravate ai sensi della ricordata norma, è stata prevista l'esclusione dall'indulto concesso con legge 31 luglio 2006, n. 241.
È allora evidente che il legislatore ha voluto riservare l'applicazione della aggravante in questione ai casi di estrema gravità, individuati come tali dalla elevata quantità della sostanza stupefacente trattata. In questi termini, è assolutamente da condividere la statuizione della sentenza Primavera, in base alla quale, come anticipato, l'aggravante in questione ricorre tutte le volte in cui il quantitativo “pur non raggiungendo valori massimi”, consenta, tuttavia, di determinare una notevole impennata nei consumi, raggiungendo quindi un cospicuo numero di sub-fornitori, prima, e una folta massa di consumatori, in fine. La figura criminale che, attraverso tale previsione, il legislatore individua è quindi quella del 'grossista': non necessariamente, insomma, l'importatore in grado di movimentare quantità rilevantissime di sostanza stupefacente (e quindi di eseguire pagamenti per importi altrettanto 'impegnativi'), ma certo neanche lo spacciatore di medio livello, in grado di acquistare, stoccare e smerciare quantità pur ragguardevoli di droga, ma non certo 'ingenti' (vocabolo di incerta etimologia, ma che sembra abbia attinenza con la radice verbale che indica accrescimento, aumento, incremento).
8.2. Ciò detto, tuttavia, è manifesto che nessun progresso in termini di (maggiore) determinazione dei concetto espresso dalla norma è stato fatto. Espressioni come quantità 'considerevoli, rilevanti, cospicue', o, appunto, 'ingenti', sono tutte sostanzialmente indefinite, perché relative, mutevoli, sfuggenti, sottoposte all'interpretazione soggettiva e all'esperienza contingente.
D'altronde, il riferimento al mercato, che l'originario orientamento aveva effettuato, nel tentativo di ricercare un aggancio oggettivo al dato normativo, è stato, come si è visto, per tempo, e opportunamente, abbandonato per le ragioni che si sono sopra accennate: trattandosi di un mercato illegale, e quindi clandestino, nessuna credibile rilevazione della dinamica domanda-offerta è possibile. A ciò si deve aggiungere che, se si fa riferimento, come è inevitabile, 'ai mercati', piuttosto che 'al mercato' (atteso che in una determinata zona la saturazione può avvenire in tempi diversi - e quindi con quantità diverse - rispetto a un'altra), si rischia di violare il principio costituzionale di eguaglianza, finendo per attribuire rilevanza, in termini di aggravante, a una circostanza in un determinato contesto e non in un altro. E ciò, si badi bene, in presenza di un'aggravante che è costruita sul solo dato quantitativo (e che quindi non dovrebbe essere diversamente declinata ratione loci). A differenza, infatti, dell'attenuante di cui al comma 5 dell'art. 73 del d.P.R. più volte citata, che, per delineare i fatti 'di lieve entità', invita il giudice a prendere in esame, oltre alla quantità dello stupefacente trattato, vari altri parametri (i mezzi adoperati, le modalità della condotta, le circostanze che l'hanno accompagnata, la qualità dello stupefacente), l'aggravante di cui al comma 2 dell'art. 80 del medesimo corpus normativo fa riferimento solo alla quantità ('ingente') della sostanza. Naturalmente la quantità va valutata in riferimento al principio attivo, non al materiale inerte di cui la sostanza risulti essere anche composta; ma il giudice non può e non deve far riferimento a nessun altro parametro, se non a quello (estrinseco e oggettivo) della 'ingente' quantità.
9. L'esame delle sentenze di merito, oggetto di ricorso per cassazione con riferimento all'aggravante di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. n. 309 del 1990 (esame condotto dall'Ufficio del Massimario di questa Corte in relazione al periodo successivo al manifestarsi del contrasto, vale a dire a far tempo dal 2011), offre un quadro quanto mai 'variegato' circa il concetto di quantità ingente, come ritenuto dai giudicanti di primo e secondo grado.
9.1. Quanto alle 'droghe pesanti', si va dai 100 chilogrammi di cocaina, ritenuti quantità ingente dall'autorità giudiziaria milanese, ai 15 grammi, ritenuti integrare l'aggravante de qua dall'autorità giudiziaria napoletana (in tale ultimo caso, questa Corte, annullando sul punto, ha escluso l'aggravante in questione); dai 767 grammi, sequestrati a Foggia e ritenuti quantità ingente, ai 512 grammi, sequestrati a Taranto, giudicati quantità non ingente.
9.2. Analogo divario è stato segnalato per l'eroina (dai 106 grammi, ritenuti quantità ingente dall'autorità giudiziaria catanese, con conseguente annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione, ai 45,270 chilogrammi sequestrati a Milano).
9.3. Con riferimento all'hashish, la valutazione spesso è effettuata in relazione alle dosi confezionate (es. 12.532 dosi, giudicate quantità ingente dall'autorità giudiziaria di Santa Maria Capua Vetere, giudizio che è passato indenne al vaglio di questa Corte), ma anche al valore ponderale, con frequenti annullamenti - con o senza rinvio - in relazione alla ritenuta aggravante (7 chilogrammi a Bologna, 6 chilogrammi a Paola, 600 grammi a Enna ecc).
9.4. Quanto alla marijuana, potendo essa essere prodotta in Italia, il più delle volte, i sequestri hanno riguardato le piantagioni, più che il 'prodotto finito', con la conseguenza che, data la notevole estensione degli appezzamenti di terreno coltivati, la quantità ingente è quasi sempre stata ritenuta.
10. Quelli sommariamente esposti sono dati ovviamente parziali e, peraltro, selezionati in base alla iniziativa della parte che ha deciso di proporre ricorso per cassazione e di sottoporre, in tal modo, al giudice di legittimità la valutazione che, in termini di 'ingente quantità', aveva effettuato il giudice del merito.
Si tratta, tuttavia, di dati significativi in ordine alla questione che in questa sede deve essere affrontata, in quanto evidenziano, come anticipato, la estrema differenziazione e la conseguente mutevolezza delle decisioni dei giudici di merito.
Di talché si giunge alla - apparentemente paradossale - conclusione in base alla quale la sussistenza dell'aggravante (e l'aggravamento della pena) dipendono dalla concorrenza di una circostanza oggettiva, molto soggettivamente interpretata, però, in quanto essa è rimasta concettualmente incerta e quantitativamente fluttuante. E ciò, naturalmente, rappresenta, sotto altro verso, ancora una volta, insidia al principio costituzionale di eguaglianza (non pochi ricorrenti si sono lamentati della disparità di trattamento, in quanto, dovendo rispondere del medesimo fatto, ma essendo stati giudicati separatamente, alcuni si sono visti ascrivere la circostanza aggravante della 'ingente quantità', che viceversa per altri è stata esclusa. E tale sembrerebbe, per altro, essere il caso del B. nei confronti del coindagato G. , atteso che, per il primo, in appello, è stata eliminata la aggravante, che, viceversa, come sostiene il ricorrente Procuratore generale, è stata addebitata definitivamente al secondo).
11. È allora da chiedersi se non si sia in presenza di una previsione normativa priva di quel livello di determinatezza e tassatività che, trattandosi di disposizione sanzionatola penale, deve necessariamente sussistere perché sia superato il giudizio di compatibilità costituzionale. È chiaro infatti che un sospetto di tal genere imporrebbe di investire della questione il Giudice delle leggi.
11.1. Ebbene, proprio la Quarta Sezione, con la sentenza n. 40792 del 10/07/2008, Tsiripidis, Rv. 241366, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità - sollevata con riferimento agli artt. 3, 24, comma secondo, 25, comma secondo, 111, comma sesto, della Costituzione - della aggravante di cui al comma 2 dell'art. 80 del d.P.R. 309 del 1990 a cagione della sua pretesa indeterminatezza.
Ha osservato la Quarta Sezione che il presupposto di operatività della aggravante, per quanto ampio, non può “ritenersi indeterminato, rispondendo all'esigenza di evitare l'introduzione di parametri legali precostituiti, i quali impedirebbero al giudice di apprezzare in concreto la gravità del fatto e quindi rideterminare la pena in termini di coerente proporzionalità rispetto al suo effettivo profilo e alla personalità dell'autore”.
11.2. L'ordinamento, d'altronde, conosce altre ipotesi in cui disposizioni penali evocano il concetto di 'ingente quantità'.
L'art. 53-bis del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, sostituito dall'art. 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in tema di traffico illecito di rifiuti, prevede la condotta di chi “cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti”. Ebbene, anche a proposito di tale normativa, la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 358 del 20/11/2007, dep. 2008, ric. Patrone, Rv. 238558) ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma sopra ricordata, per pretesa violazione dell'art. 25 Cost., sul presupposto dell'asserita indeterminatezza del concetto di ingente quantità di rifiuti. La Sezione Terza, al contrario, ha ritenuto senz'altro possibile definire l'ambito applicativo della disposizione, tenuto conto che tale nozione, in un contesto che consideri anche le finalità della norma, va riferita al quantitativo di materiale complessivamente gestito attraverso una pluralità di operazioni, anche se queste ultime, considerate singolarmente, potrebbero essere di entità modesta.
Né diversamente si è orientata la medesima Sezione in tema di pedopornografia, in relazione al dettato degli artt. 600-ter e 600-quater cod. pen., i quali fanno riferimento alla detenzione di materiale (pedopornografico, appunto) in 'ingente quantità'. E, infatti, con la sentenza n. 17211 del 31/03/2011, R., Rv. 250152, la predetta Sezione ha chiarito, a proposito della nota locuzione, che il suo uso “rappresenta l'espressione di una legittima scelta del legislatore di riservare al giudicante il potere di considerare un fatto aggravato o attenuato in relazione agli innumerevoli, e mai predeterminabili, casi della vita. Come, però, accade abitualmente, di fronte all'uso, di siffatti termini di respiro, che rimandano alla valutazione dell'interprete, la difficoltà risiede nella individuazione di parametri che - senza avere la pretesa di contenere numericamente entro 'gabbie' precostituite i concetti da definire - ne delimitino, tuttavia i confini. Orbene, nel perseguire tale obiettivo, con riferimento alla fattispecie che occupa (detenzione di materiale pedopornografico) si può cominciare con l'osservare che l'apprezzamento come ingente, del quantitativo di materiale posseduto, è da ritenersi correlato al dato numerico delle immagini contenute nei supporti più vari”.
11.3. Per completezza, va chiarito che, in merito a tali posizioni, non sempre la dottrina si è mostrata consenziente, giungendo - per vero - a dubitare della compatibilità di tali norme (e di tali interpretazioni) con il principio di legalità, sotto lo specifico profilo della tassatività e determinatezza della figura criminosa, come descritta dalla littera legis.
Si è, anzi, sostenuto da parte di taluni Autori, che l'indeterminatezza normativa del legislatore costringe il giudice a una inevitabile 'tautologia interpretativa' (in quanto egli, con parole diverse, non fa che riprodurre il testo della norma, senza apportare alcun contributo chiarificatore), con la conseguenza che precetti penali così aspecificamente formulati finiscono con l'entrare in conflitto anche con l'art. 54, comma primo, Cost., poiché non è possibile osservare leggi che non siano chiare e comprensibili nel loro contenuto.
12. Orbene, è noto che il principio di determinatezza trova il suo fondamento costituzionale negli artt. 25, comma secondo, e 13, comma secondo, Cost. (ma esso risulta desumibile, negli stessi termini, dal testo dell'art. 7 della CEDU, in quanto espressione del più ampio principio di legalità).
Al proposito, la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 364 del 1988 e n. 185 del 1992) ha chiarito che la (sufficiente) determinatezza della fattispecie penale è certamente funzionale tanto al principio della separazione dei poteri, quanto a quello della riserva di legge in materia penale (evitando che il giudice assuma un ruolo creativo nell'individuare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è), assicurando, al contempo, la libera determinazione individuale, perché consente al destinatario della norma penale di conoscere le conseguenze (giuridico-penali, appunto) del proprio agire.
Sulla base di tali premesse, tuttavia, non è stato ritenuto dal Giudice delle leggi incompatibile con il principio di determinatezza l'utilizzo, nella formula descrittiva dell'illecito penale, di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti 'elastici' (Corte cost, sentenze n. 247 del 1989, n. 34 del 1995, n. 5 del 2004 e n. 395 del 2005), ed è stata così negata l'indeterminatezza di talune fattispecie sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale, in quanto ha ritenuto la Corte che competa all'interprete rendere certe e determinate quelle fattispecie che, in astratto, possono apparire prive di contorni sicuri e definiti (Corte cost,. sent. n. 247 del 1997 e n. 69 del 1999).
Il compito della giurisprudenza è (anche) quello di rendere concrete, calandole nella realtà fenomenica, previsioni legislative, non solo astratte, ma apparentemente indeterminate e ciò va fatto attraverso il richiamo al diritto vivente, che si manifesta nella interpretazione giurisprudenziale.
12.1. Al proposito, altra dottrina sembra aver assunto una posizione di non netta chiusura, pretendendo rigida determinatezza della norma descrittiva della condotta penalmente vietata, ovvero aggravatrice dell'illecito e concedendo, però, una qualche possibilità di formulazione 'più elastica' quando si tratti di attenuare la dimensione offensiva o mitigare le conseguenze sanzionatorie.
Altri Autori hanno mostrato ancora maggiore apertura, attribuendo decisamente al giudice il potere-dovere di specificare la portata della norma, quando il dato letterale faccia riferimento a una realtà quantitativa, ponderale o temporale non predeterminabile in termini di certezza, ma comunque sufficientemente circoscrivibile, sulla base delle conoscenze condivise e delle massime di esperienza (si fa l'esempio del danno patrimoniale di rilevante gravità, di cui all'art. 61, n. 7, cod. pen. o di speciale tenuità, di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen.).
13. Va al riguardo osservato che il condivisibile criterio del riferimento alle conoscenze condivise e alle (comuni) massime di esperienza non esclude affatto che quali valori di riferimento si assumano anche grandezze numeriche, che hanno la peculiarità di esprimere - nella loro astrattezza - parametri valutativi generali e quindi generalmente applicabili.
D'altronde, la giurisprudenza precedentemente citata (cfr. Sez. 3, n. 17211 del 2011 in tema di pedopornografia), con riferimento ai testi normativi - diversi da quelli sugli stupefacenti - che anche fanno ricorso ad espressioni 'elastiche', pur assumendo che ricorrere a valori numerici costringerebbe il ragionamento del giudice entro inaccettabili 'gabbie' (così testualmente), non rifugge, poi, da esemplificazioni di natura, appunto, numerica. Così detta sentenza, a proposto della detenzione di materiale pedopornografico, esclude che possa parlarsi di ingente quantità quando la detenzione sia relativa a decine, ma anche a centinaia, di immagini e giunge alla conclusione che “diverso è il caso di chi superi, più o meno ampiamente, tali indicazioni di massima”.
14. La soluzione va allora ricercata all'interno del sistema che, in tema di stupefacenti, la vigente legislazione ha approntato.
14.1. Detta normativa contempla, come è noto (artt. 13, comma 1, e 14 d.P.R. n. 309 del 1990, come modificati e integrati prima dal decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, e successivamente dalla legge 15 marzo 2010, n. 38), che le sostanze stupefacenti e psicotrope siano iscritte in due tabelle.
La prima tabella comprende le sostanze, indipendentemente dalla distinzione tra stupefacenti e sostanze psicotrope, con potere drogante; nella seconda sono inserite le sostanze che hanno funzione farmacologica e pertanto sono usate a scopo terapeutico. Si tratta, appunto, di farmaci. Dette tabelle sono aggiornate quando si presenti la necessità di inserire una nuova sostanza o di variarne la collocazione o di provvedere a eventuali cancellazioni. L'aggiornamento pertanto interviene (con decreto ministeriale) tutte le volte in cui una 'nuova sostanza' diventa oggetto di abuso o quando qualche 'nuova droga' viene messa in circolazione sul mercato clandestino o, ancora, quando viene messo a punto un nuovo farmaco ad azione stupefacente o psicotropa. Naturalmente una stessa sostanza (es. la morfina) può trovarsi in entrambe le tabelle, perché, pur essendo un farmaco utile per lenire il dolore, essa è idonea a provocare tossicodipendenza.
Le tabelle in questione, poi (ed è ciò che in questa sede rileva), indicano, tra l'altro, i cd. 'limiti-soglia', cioè i limiti quantitativi massimi previsti, oltre i quali le condotte descritte nell'art. 73, comma 1-bis, d.P.R. n. 309 del 1990 sono considerate di regola penalmente rilevanti e, quindi, potenzialmente assoggetta bili al trattamento sanzionatorio previsto dai comma 1 del medesimo articolo (reclusione da sei a venti anni e multa da 26.000 a 260.000 Euro).
Tali limiti, dunque, costituiscono il discrimine tendenziale fra 'uso personale', che non comporta sanzione penale, e le condotte di detenzione penalmente represse.
Va peraltro precisato che tanto il possesso quanto l'uso di droghe costituiscono, comunque, condotte riprovate e vietate dall'ordinamento, il quale, tuttavia - per quel che si è appena detto - non sempre reagisce con la minaccia e la applicazione di sanzione penale.
In sintesi: proprio per il dettato del comma 1-bis, lett. a), dell’art. 73 del più volte ricordato d.P.R. n. 309 del 1990 e per il rinvio che esso adotta alla apposita tabella, acquistano rilievo dirimente le 'soglie', al di sotto delle quali il possesso delle predette sostanze si presume per uso esclusivamente personale (sempre che, per altre circostanze sintomatiche, quali te modalità di presentazione, il confezionamento frazionato o altro, la presunzione sia ritenuta non operativa).
In scala di crescente gravità, viene in considerazione la ipotesi della lieve entità, di cui al comma 5 dell'art. 73; le ipotesi 'ordinarie' sono quelle residuali di cui all'art. 73; mentre la risposta repressiva più forte è riservata alle ipotesi aggravate di cui ai quattro commi dell'art. 80.
14.2. Orbene è da osservare che il ricordato decreto-legge n. 272 del 2005, introducendo criteri tabellari, ha dato primario risalto proprio al dato quantitativo, in relazione alle dosi ricavabili. Come suggerisce parte della dottrina, esso può offrire al giudice nuovi elementi di apprezzamento per valutare la ricorrenza dell'aggravante in discussione.
Invero, proprio dai riferimento al 'sistema tabellare' e dal rilievo (diretto e riflesso) che esso ha nel sistema, si può e si deve trarre la conclusione che è necessario individuare un parametro numerico anche per la determinazione del concetto di ingente quantità.
Infatti, se il legislatore ha positivamente determinato la soglia -quantitativa, appunto - di punibilità (dunque un limite 'verso il basso'), consegue che l'interprete ha il compito di individuare una soglia al di sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze stupefacenti, non possa parlarsi di ingente quantità (un limite, quindi, 'verso l'alto').
Dunque, il dato quantitativo è determinante sia per stabilire (ai sensi del comma 1-bis, lett. a, dell'art. 73) la soglia al di sotto della quale si presume l'uso personale, sia per la individuazione dell'ipotesi lieve di cui al comma 5 dell'art. 73 (unitamente ad altri dati, parimenti valutabili da parte del giudice), sia per la configurabilita’ dell'ipotesi aggravata di cui al comma 2 dell'art. 80.
Va precisato che la giurisprudenza (cfr. Sez. 6, n. 48434 del 20/11/2008, Puleo, Rv. 242139) ha interpretato la tabella attuativa nel senso che i limiti quantitativi in essa previsti riguardano il principio attivo e dunque le dosi utilmente realizzabili; e lo stesso criterio interpretativo (la incidenza del principio attivo), ovviamente, deve essere adottato per determinare l'ingente quantità di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. n. 309 del 1990. Infatti, poiché i beni oggetto di tutela penale da parte delle fattispecie incriminatrici ex artt. 73 e 74 d.P.R. citato sono tanto la salute dei singoli quanto la sicurezza pubblica (cfr. Corte cost, sent. n. 333 del 1991; Sez. U, n. 9973 del 24/06/1998, Kremi, Rv. 211073; Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920), consegue che la ratio della severissima punizione prevista con riferimento alla condotta descritta dal comma 2 dell'art. 80, va ricercata nel fatto che una quantità 'ingente' di sostanza stupefacente (tale considerata con riferimento al principio attivo), consentendo il confezionamento di un numero davvero rilevante di dosi, determina un 'allagamento della piazza di spaccio', con le ovvie ricadute, appunto, tanto in termini di illecito e iperbolico arricchimento di chi tale traffico gestisce ai più alti livelli (e si tratta ovviamente di soggetti non estranei alla criminalità organizzata), quanto con riferimento all'ordine pubblico e alla salute dei consociati.
Già la sentenza delle Sezioni Unite Primavera, d'altra parte, aveva evidenziato come la “elevazione del livello di offerta” e il conseguente “calo del prezzo di scambio” costituissero ovvi fattori moltiplicatori della diffusione delle droghe.
15. I valori numerici, per tutto quel che si è detto, in quanto 'misuratori di grandezza', costituiscono necessariamente l'oggetto dell'attività valutativa del giudice che sia chiamato a pronunziarsi sulla conformità di tali grandezze rispetto ad (elastici) parametri normativi, cui deve dare concretezza.
15.1. Avendo allora come riferimento e punto di partenza il valore-soglia previsto dalle predette tabelle (in quanto 'unità di misura' rapportabile al singolo cliente-consumatore), è conseguente stabilire, sulla base della fenomenologia relativa al traffico di sostanze stupefacenti, come risultante a questa Corte di legittimità in relazione ai casi sottoposti al suo esame (“casi” riferibili all'intero territorio nazionale), una soglia, ponderalmente determinata, al di sotto della quale non possa di regola parlarsi di quantità 'ingente'.
Non si tratta invero di usurpare una funzione normativa, che ovviamente compete al solo legislatore, ma di compiere una operazione puramente ricognitiva, che, sulla base dei dati concretamente disponibili e avendo, appunto, quale metro e riferimento i dati tabellari (dati frutto di nozioni tossicologiche ed empiriche: cfr. Sez. 6, n. 27330 del 02/04/2008, Sejial, Rv. 240526), individui, sviluppando detti dati, una 'soglia verso l'alto', al di sopra della quale possa essere ravvisata la aggravante di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. 309 del 1990.
15.2. Ebbene, sulla base dei dati affluiti a questa Corte, si può affermare che, avendo riferimento alle singole sostanze indicate nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, non può certo ritenersi 'ingente', un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2000 volte il predetto valore-soglia (espresso in mg nella tabella).
Si tratta di un 'moltiplicatore' desumibile proprio con riferimento alla casistica scaturente dalla indagine condotta dall'Ufficio del Massimario di questa Corte, sul 'materiale giudiziario' a sua disposizione.
Invero su di un totale di 65 casi esaminati, in relazione alla così dette 'droghe pesanti', in 21 occasioni sono stati eseguiti sequestri (o comunque è stato accertato il possesso) di quantitativi superiori ai 10 chilogrammi. Con riferimento ai residui casi, la 'maggioranza relativa' riguarda sequestri inferiori ai 2 chilogrammi.
Discorso analogo può esser fatto con riferimento alle 'droghe leggere', avendo come discrimen il quantitativo di 50 chilogrammi.
È allora evidente che se, come richiede la sentenza delle Sezioni Unite, Primavera, del 2000, per integrare il requisito della 'ingente quantità', è necessario che la dimensione ponderale della sostanza stupefacente presenti “accenti di eccezionalità”, detta eccezionalità non potrà che essere valutata se non come 'strappo' a un criterio di (relativa) regolarità. Ora, avendo presente il quantitativo, numericamente espresso in milligrammi, indicato nella tabella più volte menzionata, ovvero il così detto valore-soglia (750 per la cocaina, 250 per l'eroina, 1000 per l'hashish ecc.) e considerando che il grado di 'purezza' delle sostanze cadute in sequestro ed esaminate dai consulenti tossicologici - come riportato nelle sentenze di merito prese in considerazione (cfr. supra, i punti da 9.1 a 9.4) - è pari a oltre il 50% per la cocaina, al 25% per la eroina, al 5% per l'hashish - tanto per circoscrivere l'analisi alle più diffuse sostanze droganti - appaiono condivisibili, in via di prima approssimazione, i criteri indicati dalla Sesta Sezione di questa Corte con le sentenze emesse a far tempo dal 2010.
La conclusione, in ultima analisi, finisce per corrispondere a quei criteri di ragionevolezza, di proporzionalità e di equità, che proprio la più volte ricordata sentenza Primavera, di queste Sezioni unite, ebbe, a suo tempo, a indicare.
15.3. Più correttamente, tuttavia, per quel che si è anticipato, piuttosto che far riferimento al valore ponderale globale, appare opportuno riferirsi, appunto, alle dosi-soglia, individuando, come si diceva, in 2000 il limite al di sotto del quale non potrà essere di norma contestata l'aggravante della ingente quantità, atteso che a tale limite corrispondono, in linea di massima, i valori ponderali individuati come 'medi' (rectius: non eccezionali) dalla giurisprudenza di merito.
15.4. Indubbiamente, non si tratta di una rigorosa valutazione statistica, per la buona ed evidente ragione - più volte ribadita - che i numeri sul traffico di sostanze stupefacenti sono numeri oscuri; si tratta, viceversa, di una valutazione operata su dati processuali (essendo, peraltro, la verità processuale l'unica conoscibile dal giudice), che, tuttavia, pur con inevitabili margini di approssimazione, possono e devono essere assunti.
La soglia così stabilita, come si è chiarito, definisce tendenzialmente il limite quantitativo minimo, nel senso che, al di sotto di essa, la 'ingente quantità' non potrà essere di regola ritenuta; al di sopra, viceversa, deve comunque soccorrere la valutazione in concreto del giudice del merito.
In altre parole, i parametri sopra enucleati non determinano - di per sé e automaticamente - se superati, la configurabilità dell'aggravante. Essi, invero, valgono solo in negativo, nel senso che, al di sotto degli accennati valori quantitativi, l'aggravante (ex art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990) deve ritenersi in via di massima non sussistente.
16. Pertanto, con riferimento alla questione sottoposta alle Sezioni Unite, si deve enunciare il seguente principio di diritto: “L'aggravante della ingente quantità, di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non è di norma ravvisante quando la quantità sta inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata”.
17. In conseguenza di tutto quanto premesso, mentre il ricorso dell'imputato va rigettato, con conseguente condanna del B. al pagamento delle spese del procedimento, il ricorso del Procuratore generale deve essere accolto, disponendosi, per l'effetto, l'annullamento con rinvio ad altro giudice di appello, da individuare nella Corte di appello di Perugia, che farà applicazione del principio sopra enunciato.

P.Q.M.

In accoglimento del ricorso del Procuratore generale, annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente l'aggravante di cui all'art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990 e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia.

Rigetta il ricorso dell'imputato, che condanna al pagamento delle spese del procedimento.

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