lunedì 30 luglio 2007

Incarico della P.A. a professionista, revoca per mancaza di fondi, indennizzo per danno emergente


TAR Puglia-Lecce, sez. II, sentenza 19.05.2007


Il professionista che subisce la revoca di un incarico dalla P.A. per mancanza di fondi, deve essere indennizzato solo per il danno emergente e non già per il lucro cessante.


T.A.R.

Puglia – Lecce

Sezione II

Sentenza 19 maggio 2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, II Sezione di Lecce, composto dai signori Magistrati:

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 89/2007, proposto da C. P., rappresentato e difeso dall'avv. Giorgio Serafino, con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in Lecce, Via A. De Lucrezi, 5,

contro

Comune di K., in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'avv. Alessandro Maggiore, con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in Lecce, Via Pozzuolo, 9,

per l'accertamento, previa adozione di provvedimenti cautelari,

del diritto del ricorrente di percepire dall'Amministrazione intimata l'indennizzo ex art. 21 quinquies della L. n. 241/1990, in relazione alla revoca degli incarichi di direzione lavori e di coordinamento in fase di esecuzione, conferiti all'arch. P. con deliberazioni di G.M. n. 547/1991, n. 597/1991, n. 113/1999 e n. 80/2002.

Visto il ricorso, con i relativi allegati, e tutti gli atti di causa;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune intimato;

Vista la domanda cautelare proposta unitamente al ricorso;

Vista l'ordinanza 1.2.2007, n. 123, con la quale è stata disposta istruttoria;

Uditi alla camera di consiglio del 14 febbraio 2007, il relatore, Referendario Tommaso Capitanio, e, per le parti costituite, gli avv. Serafino e Maggiore.

Considerato che nel ricorso sono dedotti i seguenti motivi:

- violazione dell'art. 21 quinquies della L. n. 241/1990.

Considerato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue.

L'arch. P. adisce il TAR al fine di conseguire la condanna del Comune di K. a corrispondergli l'indennizzo di cui al terzo periodo dell'art. 21-quinquies, comma 1, della L. n. 241/1990, avendo l'Amministrazione, con deliberazione di G.M. n. 49 del 13.3.2006, stabilito di revocare gli incarichi professionali affidati a suo tempo al ricorrente (con le deliberazioni in epigrafe) nell'ambito dell'attività di progettazione e realizzazione di una piscina comunale. Per inciso, la revoca è stata motivata sia con l'indisponibilità di fondi per retribuire un professionista esterno, sia con la contestuale disponibilità di due tecnici comunali ad assolvere agli incarichi di direzione lavori afferenti il progetto da ultimo approvato dal civico ente.

Il ricorrente, dopo aver ricostruito le complesse vicende relative al tormentato iter che ha caratterizzato la progettazione dell’opera pubblica suindicata, sostiene di aver diritto al predetto indennizzo (che quantifica in € 94.139,96), non contestando la sussistenza delle ragioni che hanno indotto il Comune a revocare gli incarichi. In sostanza, viene proposta una domanda indennitaria "secca", svincolata cioè dalla contestazione del provvedimento di revoca.

Si è costituita l'Amministrazione, eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che la controversia attiene alla revoca di incarichi professionali, e chiedendo per il resto il rigetto del ricorso o, in via subordinata, la rideterminazione dell'indennizzo quantificato dal ricorrente (che viene ritenuto eccessivo).

Con l'ordinanza in epigrafe è stata disposta istruttoria, al fine di acquisire le convenzioni eventualmente stipulate fra le parti in esecuzione delle deliberazioni oggetto di revoca.

L'Amministrazione ha trasmesso copia delle deliberazioni predette, alle quali sono allegate:

copia della convenzione stipulata in attuazione delle deliberazioni nn. 547/1991 e 597/1991;

bozze di convenzioni allegate alle deliberazioni nn. 113/1999 e 80/2002, che non risultano sottoscritte dalle parti.

Ciò premesso in punto di fatto, il Tribunale ritiene che il ricorso meriti accoglimento - nei limiti che si preciseranno nel prosieguo - il che impone di esaminare l'eccezione di difetto di giurisdizione.

L'eccezione è infondata, in quanto:

in generale, la revoca è un provvedimento amministrativo, di secondo grado, che l'Amministrazione adotta per eliminare dal mondo giuridico, sia pure con effetto ex nunc, un proprio precedente atto, per cui, in base ai consueti canoni di riparto, dell'impugnazione della revoca deve conoscere il G.A., trattandosi dell'esercizio (anche se "in negativo") del medesimo potere esercitato in sede di adozione dell'atto revocato;

il Legislatore della L. n. 15/2005, codificando l'istituto in parola, ha aggiunto due ulteriori tasselli al quadro ricostruttivo appena descritto, prevedendo da un lato l'indennizzo in favore del destinatario del provvedimento di revoca, dall'altro la giurisdizione esclusiva del G.A. per le controversie afferenti la determinazione e la corresponsione dell'indennizzo stesso;

peraltro, sempre in base ai consueti canoni di riparto nonché della giurisprudenza consolidata in tema di giurisdizione sulle controversie relative alla fase di esecuzione dei contratti pubblici, poteva residuare nell'interprete qualche dubbio circa l'ascrivibilità alla giurisdizione (esclusiva) del G.A. delle controversie inerenti la revoca di provvedimenti ai quali "accede" un contratto (come è accaduto nel caso di specie in relazione agli incarichi affidati all'arch. P. in esecuzione delle deliberazioni di G.M. n. 547/1991 e n. 597/1991, le quali sono state "doppiate" dal disciplinare d'incarico, sottoscritto dalle parti nel 1995, ai sensi dell'allora vigente art. 32 della L.R. n. 25/1985 - vedasi documentazione depositata dal Comune in ottemperanza all'ordinanza istruttoria);

questo dubbio, però, è definitivamente fugato per effetto della disposizione di cui al comma 1-bis dell'art. 21-quinquies, introdotta nelle more del giudizio dal D.L. n. 7/2007 (convertito in L. n. 40/2007 - cfr. art. 13, comma 8-duodevicies della legge di conversione), la quale prevede che "Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l'indennizzo liquidato dall'amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico". La disposizione da ultimo citata conferma che la presente controversia è attribuita interamente alla giurisdizione esclusiva del G.A.

In effetti, tenuto conto della tecnica redazionale utilizzata dal Legislatore del 2007, il quale è intervenuto solo per disciplinare le modalità di determinazione dell'indennizzo allorquando la revoca incide su rapporti negoziali, dando con ciò per scontato che anche questa particolare species di revoca è inclusa nel novero della disposizione di cui al 1° comma (il quale prevede che "1. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in materia di determinazione e corresponsione dell'indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo"), ne consegue che la presente controversia è interamente attratta alla giurisdizione del G.A., e ciò in quanto il Comune ha revocato precedenti provvedimenti amministrativi recanti il conferimento degli incarichi professionali al ricorrente.

Per quanto concerne i presupposti per l'insorgere del diritto all'indennizzo, il Comune di K. eccepisce che i provvedimenti odiernamente revocati non sarebbero ad efficacia durevole, ma l'eccezione non appare fondata, in quanto è evidente che il Legislatore ha voluto riferirsi alla efficacia durevole del rapporto che si instaura a seguito dell'adozione del provvedimento (il che è confermato dalla norma di cui al comma 1-bis, la quale conferma che l'indennizzo è dovuto anche nel caso di revoca di provvedimenti ad efficacia istantanea che incida su rapporti negoziali).

Nel caso di specie, i provvedimenti revocati incidevano su rapporti negoziali, per cui l'indennizzo è dovuto.

Ex officio va poi brevemente esaminata la questione della tempestività della domanda, atteso che la stessa è stata proposta svincolata da una domanda impugnatoria (per cui non trovano applicazione i principi in tema di c.d. pregiudiziale amministrativa) e che l'art. 21-quinquies nulla dispone al riguardo.

In applicazione dei principi generali, deve essere osservato il termine ordinario di prescrizione di cui all'art. 2946 c.c., il che significa che la domanda dell'arch. P. è tempestiva.

Passando, invece, alla determinazione del quantum, si devono condividere in parte le eccezioni del Comune a proposito della quantificazione dell'indennizzo operata dal ricorrente, anche se, allo stesso tempo, non si può convenire con la difesa dell'Amministrazione allorquando sostiene che l'indennizzo dovrebbe essere meramente simbolico (addirittura, nel corso della discussione orale è stata indicata la misura di 1 Eurocent), anche in considerazione del fatto che i progetti a suo tempo redatti dal ricorrente sarebbero stati sbagliati e avrebbero costituito la causa dell'enorme ritardo nella definizione dell'iter procedurale per la realizzazione della piscina: quest'ultima affermazione, infatti, non trova alcun riscontro documentale negli atti del giudizio.

Si deve invece affermare, in base alla disposizione di cui all'art. 21-quinquies, comma 1-bis, che l'indennizzo comprende solo il danno emergente e non anche il lucro cessante e/o le altre utilità patrimonialmente valutabili che il ricorrente avrebbe ritratto dall'esecuzione degli incarichi in argomento (ad esempio, chances di guadagno legate alla valorizzazione del proprio curriculum professionale), per cui all'arch. P. non compete, in primo luogo, l'importo dell'onorario relativo alla direzione degli appaltandi lavori di costruzione della piscina, sulla base del progetto da ultimo approvato dal Comune (quantificati dal ricorrente in € 54.000,00), in quanto non è detto che il ricorrente sarebbe stato chiamato a svolgere tale incarico e, comunque, si tratta di un evento futuro, che non può contribuire a determinare la misura del danno emergente.

Tenuto poi conto della disposizione di cui al citato comma 1-bis dell'art. 21-quinquies, e tenuto altresì conto del fatto che la revoca ha effetto ex nunc (per cui sono estranee al presente giudizio, nonché alla giurisdizione del giudice amministrativo, eventuali questioni inerenti il mancato pagamento in favore dell'arch. P. dei compensi per le prestazioni professionali già eseguite in virtù degli affidamenti di che trattasi - vedasi ad esempio la parcella in data 18.6.2004), il ricorrente ha diritto di essere indennizzato nei limiti previsti dalla normativa speciale di cui alla L. n. 143/1949 e s.m.i. (recante "Approvazione della tariffa professionale degli ingegneri ed architetti"), la quale all'art. 18 disciplina espressamente la materia.

Per inciso, non avendo il ricorrente concorso in alcun modo all'adozione degli atti revocati e non potendosi certo supporre che egli fosse a conoscenza del fatto che sarebbero mancati i fondi necessari alla sua retribuzione per le attività ancora da svolgersi e quindi della contrarietà degli atti in parola all'interesse pubblico, l'indennizzo va riconosciuto in misura piena (questo in relazione al disposto di cui al comma 1-bis).

Il quantum va determinato in base alle disposizioni di cui alla citata L. n. 143/1949 e s.m.i., nonché delle determinazioni del Consiglio dell'Ordine di Lecce, in quanto tale normativa integra ex lege l'art. 21-quinquies, in base al broccardo lex specialis derogat legi generali.

In effetti, la L. n. 241/1990 detta un criterio di carattere generale, valido per qualsiasi tipo di revoca, che però non quantifica esattamente il danno emergente, lasciando la relativa determinazione al giudice.

Nel caso degli architetti e degli ingegneri, tale valutazione è stata compiuta dal Legislatore, il quale ha stabilito quale è il pregiudizio patrimoniale che un professionista subisce in caso di revoca, totale o parziale, di un incarico, sia esso di progettazione, di direzione lavori, o un altro previsto dalla L. n. 143/1949.

Pertanto, essendo disponibile un parametro legale a cui il giudice può legittimamente rifarsi nella quantificazione dell’indennizzo, nel caso di specie il Comune di K. dovrà corrispondere al ricorrente la somma di € 13.979,86, risultante, per la voce "Direzione lavori e sicurezza" (le prestazioni, cioè, oggetto di revoca), dalla parcella presentata dall’arch. P. in data 20.10.2006 e validata dal Consiglio dell’Ordine.

Per cui l’indennizzo spettante all’arch. P. va determinato in € 13.979,86, oltre a interessi legali decorrenti fino alla data di effettivo pagamento.

In ragione di quanto precede, il ricorso va accolto in parte, nei sensi di cui in motivazione.

Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio fra le parti.

Sentiti i difensori delle parti costituite in ordine alla possibilità di definire nel merito il presente giudizio con sentenza in forma semplificata, ai sensi degli artt. 3 e 9 della L. 21.7.2000, n. 205.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione Seconda di Lecce, accoglie in parte il ricorso in epigrafe.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità Amministrativa.

Così deciso in Lecce, in camera di consiglio, il 14 febbraio 2007 e l'11 aprile 2007.

Dott. Antonio Cavallari - Presidente

Dott. Tommaso Capitanio - Estensore

Pubblicata il 19 maggio 2007.

lunedì 23 luglio 2007

Provvigione d'agenzia, spetta già col preliminare

Tribunale Genova, sez. III, sentenza 24.04.2007


art. 1755 c.c.]

L'orientamento giurisprudenziale consolidato della Suprema Corte (Cass. 18779/2005, Cass. 4111/2001, Cass. 6599/2001 e Cass. 7400/1992 per tutte), e condiviso anche dalla III Sezione del tribunale di Genova con sentenza del 24.4.2007, è nel senso che: per affare compiuto deve intendersi un atto da cui è scaturito un vincolo giuridico tra le parti messe in relazione per effetto dell'attività intermediatrice, che consenta loro di agire per l'esecuzione di esso, ritenendo sufficiente la conclusione di un contratto preliminare a fondare il diritto del mediatore alla provvigione.

N.d.r.: la giurisprudenza della Suprema Corte è consolidata sul punto



Tribunale di Genova

Sezione III

Sentenza 24 aprile 2007

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1) La domanda di parte attrice, volta ad ottenere la condanna della Sig.ra G.G. al pagamento della somma di Euro 13.789,41 oltre IVA a titolo di provvigione per l'asserita conclusione dell'affare relativo all'immobile di proprietà della convenuta e sito in Genova Via xxx, appare infondata e non può essere accolta in forza delle ragioni che seguono.

Più specificamente con l'odierno procedimento C. Immobiliare ha ritenuto di adire codesto Tribunale, assumendo di essersi occupata della vendita dell'appartamento citato nell'interesse della convenuta e di aver reperito un potenziale acquirente nella persona del Sig. V.C. che, in data 5.5.2004, provvedeva a sottoscrivere proposta irrevocabile d'acquisto, accettata dalla convenuta prima della scadenza del termine.

In forza di tale accordo (prod. 1 attrice) l'Agenzia C. Immobiliare chiede la condanna della Sig.ra G. al pagamento della somma di Euro 13.789,41 oltre IVA a titolo di provvigione per l'attività prestata.

Nel costituirsi in giudizio la convenuta contesta l'assunto attoreo negando di aver mai conferito incarico all'attrice di reperire un potenziale acquirente per l'immobile di sua proprietà e invocando, comunque, l'inefficacia della proposta d'acquisto ex adverso allegata in quanto sottoscritta dalla convenuta per accettazione a seguito di inganno e/o dolo posto in essere dall'attrice che avrebbe falsamente rappresentato la realtà alla Sig.ra G.

Orbene da un attento esame della documentazione agli atti l'assunto attoreo non pare aver trovato idoneo conforto probatorio.

Come è ben noto, infatti, ai sensi dell'art. 1755 c.c. il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l'affare è concluso per effetto del suo intervento.

Orientamento giurisprudenziale consolidato della Suprema Corte (Cass. 18779/2005, Cass. 4111/2001, Cass. 6599/2001 e Cass. 7400/1992 per tutte), e condiviso anche dalla III Sezione di questo Tribunale, ha avuto modo di precisare in più occasioni che per affare compiuto deve intendersi un atto da cui è scaturito un vincolo giuridico tra le parti messe in relazione per effetto dell'attività intermediatrice, che consenta loro di agire per l'esecuzione di esso, ritenendo sufficiente la conclusione di un contratto preliminare a fondare il diritto del mediatore alla provvigione.

Nel caso in esame la proposta d'acquisto (prod. 1 attrice), sottoscritta dal venditore e per accettazione dal compratore, non pare idonea a concretare la conclusione dell'affare di cui all'art. 1755 c.c. posto che detto documento non costituisce ex se un contratto preliminare, come si desume da un'attenta lettura dello stesso il quale, espressamente, fissa il termine del 7 giugno 2004 per la stipulazione del contratto preliminare e quella del 10.1.2005 per la stipulazione del rogito davanti al Notaio.

Tale argomentazione non pare confutabile neppure dalla pronuncia richiamata da parte attrice (Cass. 13067/2004), a mente della quale la proposta d'acquisto sottoscritta anche per accettazione costituirebbe già un preliminare anche laddove contenesse un termine per la stipula ad preliminare davanti al Notaio, posto che con tale formalità le parti si limiterebbero a riprodurre in forma più sicura (perché davanti al Notaio) un preliminare già concluso.

Ed infatti, nella proposta oggi in esame, risulta sì indicato il termine per la stipula del preliminare ma solo presso la sede dell'agenzia (e non ancora davanti al Notaio) e altro e successivo termine per la stipula del rogito, questa volta davanti al Notaio (sì a confermare che la proposta d'acquisto costituisce solo un atto meramente preparatorio alla conclusione dell'affare).

E conformemente a tale interpretazione pare deporre anche l'ultima clausola contenuta nella proposta d'acquisto allegata, che individua solo nell'atto della sottoscrizione del contratto preliminare (e non nella sottoscrizione della proposta d'acquisto) il momento in cui sorge l'obbligo del promissario acquirente di versare all'Agenzia mediatrice la provvigione del 3%.

A ciò si aggiunga che nella proposta d'acquisto non risulta previsto, una penale per il caso di ingiustificato recesso dalle trattative e che comunque, parte attrice si è limitata a richiedere il pagamento della provvigione e non anche l'eventuale risarcimento del danno.

Di talché, in forza delle considerazioni sopra esposte, la domanda attorea appare infondata e deve essere respinta.

2) Per quanto riguarda, infine, le spese di lite, le stesse sono poste a carico dell'attrice in virtù del principio della soccombenza ex art. 91 c.p.c.

P.Q.M.

Il Tribunale di Genova, in composizione monocratica G.O.T. Dott.ssa Chiara Daniela Fioravanti, definitivamente pronunciando nella causa vertente tra C. Immobiliare in persona del legale rappresentante pro tempore (attrice) e la Sig.ra G.G. (convenuta), disattesa ogni altra eccezione, deduzione e istanza,

- respinge la domanda attorea, per le ragioni di cui in parte motiva;

- condanna l'attrice a rifondere alla convenuta le spese di lite che liquida in complessivi Euro 1.450,00 di cui Euro 150,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 700,00 per onorari, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge, per le ragioni di cui in parte motiva.

Così deciso in Genova il 24 aprile 2007.

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2007.

venerdì 20 luglio 2007

Telefonate mute, integrano il reato di molestie


Cassazione penale , sez. I, sentenza 30.05.2007 n° 21273



molestie telefoniche ed ingiuria se si fanno telefonate mute



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I PENALE

Sentenza 30 maggio 2007, n. 21273

(Presidente Torquato – Relatore Gironi)

Motivi della decisione

La sentenza in epigrafe, salva la riduzione della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno alla persona offesa, costituitasi parte civile, ha confermato quella di primo grado, con cui O. C. era stata condannata alla pena di € 2.550 di multa per i reati di molestie telefoniche e di ingiuria in danno di C. R., commessi da epoca imprecisata del 2001 sino al 9.11.2002.

La Corte territoriale riteneva la prova di responsabilità dell'imputata integrata dalla deposizione dell'offesa nonché dai dati ricavati dai tabulati telefonici, attestanti la provenienza di numerose telefonate, concentrate in un solo mese, da utenze telefoniche intestate alla prevenuta e di una di esse dall'utenza dell'Assessorato alla Pubblica Istruzione della Regione Calabria, dove la O. lavorava.

Ricorre il difensore, deducendo:

‑ violazione della legge penale sostanziale e processuale quanto all'asserita "congetturalità" dell'affermazione per cui la commissione del reato di ingiuria non sarebbe stata ancorata al 18.7.2002 (data dell'unica telefonata proveniente dall'ufficio della prevenuta), giorno in cui l'imputata, come da certificato medico prodotto, era rimasta assente dal lavoro per malattia, tanto da essere stata assolta dalla concorrente accusa di peculato per l'uso indebito del telefono dell'ufficio, mentre nessun accertamento che dimostrasse il contrario era stato disposto dal giudice;

‑ sommarietà delle indagini, essendo l'esame dei tabulati stato ridotto ad un solo mese, a fronte di contestazione estesa ad un intero anno;

‑ incertezza circa la riferibilità all'O. dell'utenza privata da cui erano partite le telefonate risultanti dai tabulati, essendo lo stesso numero riportato come numero di fax su un biglietto di visita di tale L. T., di cui era stata richiesta ma non ammessa l'escussione, unitamente a quella del m.llo S., il quale avrebbe dovuto spiegare le ragioni della riferita appartenenza alla prevenuta dell'utenza privata da cui erano partite le telefonate;

‑ assenza di causale per la commissione dei reati contestati;

‑ eccessività della somma di € 12.000 liquidata a titolo di risarcimento del danno.

Il ricorso è infondato per le ragioni che seguono:

‑ il capo di imputazione relativo all'ingiuria non reca alcuna specificazione circa la data del commesso reato ne dalla sentenza impugnata si evince che la telefonata ingiuriosa sia proprio quella effettuata il 18.7.2002 dal telefono dell'ufficio della Regione, essendosi la corte territoriale limitata, riportando l'assunto della persona offesa, a riferire che "una delle telefonate moleste proveniva da un ufficio della Regione", senza alcuna ulteriore specificazione;

‑ correttamente i giudici di merito hanno escluso che la produzione postuma in giudizio di un certificato medico rilasciato il 17.7.2002, genericamente prescrivente due giorni di riposo e cure senza alcuna indicazione della patologia riscontrata, sia di per se dimostrativa dell'effettiva assenza dall'ufficio dell'O. nella giornata del 18 e, soprattutto, alle ore 13,06 in cui fu effettuata la telefonata, deponendo, comunque, a carico di costei la circostanza che la comunicazione in parola si inseriva in un contesto di telefonate certamente da lei provenienti, con l'ulteriore riscontro che il numero da cui la chiamata era partita corrispondeva proprio ad un'utenza dell'ufficio presso cui l'O. lavorava;

- la sentenza precisa che la C. ha spiegato la ragione dell'indicazione come numero di fax, sul biglietto di visita della L., del suo stesso numero di utenza telefonica (lo stesso numero può notoriamente fungere da recapito telefonico e di fax), specificando che la L. era una sua collaboratrice, per cui costei B. poteva avere la disponibilità del medesimo numero (del tutto illogico è, del resto, supporre che le, molestie e l'ingiuria fossero indirizzate alla L., se proprio da costei l'O. ottenne il biglietto prodotto come pretesa prova a discarico in giudizio, secondo quanto precisato a f. 8 dell'atto di ricorso);

- la dimostrazione che proprio la C., e non la L., fosse la destinataria delle molestie telefoniche in questione è, del resto, ulteriormente fornita dalla circostanza che, come precisato in sentenza, l'odierna parte offesa riferì di essere stata, in talune occasioni, seguita in strada dall'imputata, da lei conosciuta come dipendente della Regione Calabria, aggiungendo che la donna aveva anche suonato il campanello della sua abitazione;

- il numero di telefono cui le chiamate erano indirizzate è risultato intestato alla C., che ha riferito di aver personalmente ricevuto le telefonate incriminate, e del tutto ragionevolmente i giudici di merito hanno ritenuto la circostanza provata in base all'attestazione del m.llo S., apparendo assolutamente pleonastico un suo rinnovato esame per chiedergli le ragioni della sua affermazione, ovviamente desunta da dati ufficiali non confutabili;

- la prova logica giustifica l'estensione all'intero periodo per cui si protrassero le molestie della valenza dimostrativa dell'esame dei tabulati effettuata "a campione", data l'evidente connessione ed omologia delle condotte;

- il mancato accertamento della causale, verosimilmente nota alle protagoniste dei fatti, non incide sull'obbiettività e sull'imputabilità soggettiva delle condotte, di per se sufficienti a fondare la pronuncia di condanna;

la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno appare congruamente quantificata e giustificata in relazione alla lunga protrazione delle condotte lesive ed alla rilevanza ed intensità del pregiudizio che notoriamente le molestie insistentemente realizzate con il mezzo del telefono (tra l'altro ricorrendo ad oggettivamente allarmanti chiamate mute) recano al bene giuridico della tranquillità individuale.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

giovedì 19 luglio 2007

Registrazione, insaputa degli interlocutori, condizioni per legittimità


Consiglio di Stato , sez. VI, decisione 28.06.2007 n° 3796

Il diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost., comprende, ad avviso dei Giudici Amministrativi, anche il diritto di raccogliere prove legittime utilizzabili in un eventuale giudizio penale. Infatti, la giurisprudenza della Cassazione ha riconosciuto legittima la registrazione all'insaputa altrui perchè forma di memorizzazione di un fatto storico utilizzabile anche ai fini di prova processuale nell’ambito di un eventuale giudizio penale

Consiglio di Stato

Sezione VI

Decisione 28 giugno 2007, n. 3796

N.3796/2007
Reg.Dec.
N. 8900 Reg.Ric.
ANNO 2006

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 8900/2006, proposto dall’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, in persona del Rettore pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Prof. Luisa Torchia e Tommaso Di Nitto, con domicilio eletto presso lo studio legale “Prof. Avv. Luisa Torchia ed altri s.t.p.”, in Roma, alla via Sannio n. 65;

contro

il prof. G. F., costituitasi in giudizio, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Prof.ri Franco Gaetano Scoca e Aristide Police, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via G. Paisiello 55;

e nei confronti

del Consiglio Universitario Nazionale-Ministero dell’Università e della Ricerca, in persona del legale rappresentante p.t.,

del Ministero dell’Università e della Ricerca, in persona del Ministro p.t., non costituiti;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo per il Lazio – Roma, sez. III n. 3754/2006;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto la memoria di costituzione in giudizio del prof. F.;

Vista le memorie difensive depositata dalle parti a sostegno delle rispettive posizioni;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla udienza pubblica del 27 aprile 2007 il Consigliere Roberto Giovagnoli, ed uditi altresì l’avv. Torchia e l’avv. Police;

FATTO E DIRITTO

1. Con decreto rettorale n. G 117481 del 28 giugno 2005, il Rettore dell’Università La Sapienza di Roma contestava al prof. F. di aver fatto “ricorso sistematico alla registrazione di colloqui tra professori o di consessi accademici, nonché di studenti frequentatori della Clinica odonotoiatrica effettuati all’insaputa e senza il consenso degli interlocutori in violazione palese delle norme relative al trattamento dei dati personali cui sono tenuti anche i soggetti privati” e “di aver posto in essere comportamente gravemente scorretti nei confronti di colleghi tali da ledere la dignità e l’onorabilità dei medesimi oltre che lesivi del decoro e dell’immagine dell’istituzione universitaria”.

Successivamente, con Decreto Rettorale n. 5301 del 28 febbraio 2006, al prof. F. veniva irrogata per i fatti contestati la sanzione disciplinare della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per la durata di mesi uno.

2. Il T.a.r. Lazio, con la sentenza impugnata ha annullato la sanzione disciplinare, accogliendo il ricorso proposto dal prof. F..

In particolare, secondo il Giudice di primo grado il provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare risulta viziato sotto il profilo della violazione ed errata applicazione del disposto degli artt. 87 e 89 R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, posto che il comportamento del professore non integrerebbe nessuna delle fattispecie di cui all’art. 89, comma 1, r.d. n. 1592/1933.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto appello l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” deducendo i seguenti motivi:

1) Error in iudicando. Erroneità della sentenza nella parte in cui ritiene che il comportamento del prof. F. non integri la fattispecie di cui all’art. 89 lett. c) r.d. n. 1592/1933;

2) Error in iudicando. Erroneità della sentenza nella parte in cui ritiene che il comportamento del prof. F. non integri la fattispecie di cui all’art. 89 lett. d) r.d. n. 1592/1933.

Si è costituito in giudizio il prof. F. chiedendo il rigetto dell’appello.

Alla pubblica udienza del 27 aprile 2007, la causa è stata trattenuta per la decisione.

4. L’appello è infondato.

5. Con il primo motivo di appello l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” censura la sentenza del T.a.r., laddove questa ha escluso che la condotta del prof. F. sia riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 89 lett. c) r.d. n. 1592/1933, che punisce, sotto il profilo disciplinare, l’abituale irregolarità di condotta dei professori universitari.

5.1. Al riguardo, i Giudici di primo grado hanno osservato che la condotta tenuta dal prof. F. non può rilevare in sede disciplinare poiché “non vi è dubbio che tale irregolarità non possa essere ravvisata nel comportamento del ricorrente che, così come riconosciuto dalla giurisprudenza della Cassazione, ha operato una legittima forma di memorizzazione di un fatto storico utilizzabile anche ai fini di prova processuale nell’ambito di un eventuale giudizio penale”.

5.2. Secondo l’appellante, tale ragionamento è erroneo in quanto non tiene conto dell’esistenza nel nostro ordinamento del c.d. principio dell’autonomia della valutazione disciplinare, “in virtù del quale deve essere riconosciuto che un fatto penalmente irrilevante possa avere invece conseguenze disciplinari, anche di notevole rilievo, giacché sono diversi i criteri e i parametri con i quali quello stesso fatto deve essere valutato in sede disciplinare”. Applicando tale principio, sarebbe allora indubbia la rilevanza disciplinare del comportamento contestato al prof. F..

5.3. Il motivo è infondato.

Non c’è dubbio che nel nostro ordinamento valga il principio dell’autonomia della valutazione disciplinare (invocato dall’appellante). Nel caso di specie, tuttavia, il T.a.r. non ha violato tale principio: la sentenza impugnata ha infatti, escluso la rilevanza disciplinare (ai sensi dell’art. 89 lett. c) r.d. n. 1592/1933: abituale irregolarità di condotta) del comportamento posto in essere dal prof. F., non semplicemente perché ha ritenuto tale comportamento penalmente irrilevante, ma, più precisamente, perché ha ravvisato nella condotta contestata al ricorrente l’esercizio di un diritto, segnatamente del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost. (che comprende, ad avviso dei Giudici di primo grado, anche il diritto di raccogliere prove legittime utilizzabili in un eventuale giudizio penale).

Secondo dei giudici di primo grado, in altre parole, quello posto in essere dal prof. F. non è soltanto un comportamento penalmente lecito, ma un comportamento privo del connotato dell’antigiuridicità in quanto posto in essere in presenza di una causa di giustificazione, ovvero nell’esercizio di un diritto.

5.4. Ora, è noto che le cause di giustificazione (sebbene previste in gran parte nel codice penale) siano espressione di principi generali dell’ordinamento, e, come tali, valgono ad escludere che il comportamento posto in essere in loro presenza possa essere foriero di conseguenze negative non solo in sede penale, ma anche in altri settori dell’ordinamento (e, quindi, per quel che qui più rileva, in ambito disciplinare).

Del resto, quando il legislatore ha voluto ricollegare conseguenze “negative” al fatto posto in essere in presenza di una causa di giustificazione lo ha detto espressamente, come è accaduto, ad esempio, per lo stato di necessità che, ex art. 2046 c.c. può, comunque, dar luogo ad un obbligo di indennizzo.

Il problema, quindi, non è tanto se sia stato violato il principio della autonomia della valutazione disciplinare, in quanto anche la valutazione disciplinare, per quanto autonoma, non può che arrestarsi, per il principio di non contraddizione, a fronte di un comportamento posto in essere nell’esercizio di un diritto.

Il vero punctum pruriens consiste nello stabilire se sia corretta, a monte, l’affermazione contenuta nella sentenza, secondo cui il comportamento contestato al prof. F. rappresenti una forma legittima di esercizio del diritto di difesa, in particolare, per usare le parole della sentenza impugnata “una legittima forma di memorizzazione di un fatto storico utilizzabile anche ai fini di prova processuale nell’ambito di un eventuale giudizio penale”.

5.5. Il Collegio ritiene che la conclusione cui è giunto il T.a.r. possa essere condivisa alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale (richiamato nella sentenza impugnata e più volte ribadito dalla Cassazione penale) secondo cui la registrazione fonografica di un colloquio svoltosi tra presenti ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, quantunque eseguita clandestinamente, costituisce una forma di memorizzazione di un fatto storico del quale l’autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo ai sensi dell’art. 234 c.p.p.

E’ evidente allora, che un comportamento diretto ad ottenere una prova documentale legittimamente utilizzabile in sede processuale, non può comportare l’applicazione di una sanzione disciplinare, in quanto, altrimenti, si arriverebbe all’assurdo risultato di sanzionare un atto che costituisce legittimo esercizio del diritto di azione e di difesa in giudizio (ex art. 24 Cost.).

6. Parimenti è infondato è il secondo motivo di appello, volto a censurare la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il comportamento del prof. F. non integri la fattispecie di cui all’art. 89 lett. d) r.d. n. 1592/1933, che punisce quei docenti che compiono “atti in genere, che comunque ledano o la dignità o l’onore del professore”.

Il T.a.r. ha rilevato “come, da un lato, la motivazione dell’impugnato provvedimento sanzionatorio non attenga in alcun modo alla lesione delle dignità e dell’onore di professori universitari, quanto piuttosto dell’Università in quanto tale; dall’altro, che in ogni casi nessuna lesione alla dignità ed all’onore né di professori universitari, né dell’Università in quanto tale può ravvisarsi nei fatti contestati al ricorrente”. Sotto tale ultimo profilo, il Giudice di primo grado, in particolare ha affermato che l’art. 89 lett. d) non può trovare applicazione in quanto “l’addebito contestato al ricorrente […] non può di per sé importare la lesione del bene protetto dalla norma, dovendosi, semmai, individuare il fatto lesivo nel contenuto delle registrazioni che, tuttavia, non può che addebitarsi ai singoli interlocutori e non già all’odierno ricorrente”.

L’appellante censura tali affermazioni sotto deducendo:

- che lo scopo finale dell’art. 89 lett. d) sia quello di punire, sotto il profilo disciplinare, quei comportamenti che, essendo direttamente contrari alla dignità e all’onore del professore che li pone in essere, finiscono per incidere in maniera negativa sul decoro e sull’immagine dell’istituzione universitaria alla quale il docente appartiene. A differenza di quanto sostiene il T.a.r. , dunque, il bene protetto dalla norma è il “decoro delle istituzioni universitarie”, le quali hanno interesse a che i propri docenti non si macchini di comportamenti inopportuni;

- che, nel caso di specie, il comportamento contestato al prof. F. ha profondamente leso il decoro dell’Università come sarebbe dimostrato dagli articoli relativi alla vicenda apparsi sui quotidiani e dalle impressioni negativi (ricavabili in particolare dalla lettura della richiesta di archiviazione) che i P.M. che hanno condotto le indagini hanno avuto dell’ambiente dell’Università.

Anche tale motivo, come si diceva, è infondato.

6.1. In primo luogo, come si è sopra ricordato, il comportamento contestato al Prof.ssa Manzon rappresenta espressione del diritto di difesa (avendo egli raccolto prove per suffragare la successiva denuncia penale), il che, per le stesse ragioni sopra esposte, vale ad escluderne la rilevanza disciplinare anche ai sensi dell’art 89 lett. d) r.d. n. 1592/1933.

6.2. Inoltre, anche ad ammettere che la norma intenda tutelare il decoro dell’Università e non, come pure sembra emergere dal suo tenore letterale, la dignità e l’onore dei professori, nel caso di specie, come correttamente rileva la sentenza impugnata, la lesione dei beni protetti è stata provocata non dal fatto in sé delle registrazioni, ma da quanto è riferito nei colloqui registrati.

In altri termini, ciò che in questa vicenda ha leso l’immagine dell’Università non è stato il fatto che un docente registrava colloqui (avuti con altri docenti e con studenti) al fine di precostituirsi una prova da spendere in sede penale. Il decoro e la reputazione dell’Istituzione universitaria sono stata lesi semmai dalla notizia che all’interno della struttura universitaria esistevano “giochi di potere” e “lotte di successione” (di cui vi è ampia traccia nella richiesta di archiviazione del p.m. e nella successiva ordinanza di archiviazione).

“Giochi di potere” e “lotte di successione” ai quali l’odierna appellata non era probabilmente estranea (come emerge ancora dalla richiesta e dall’ordinanza di archiviazione), ma che certo non hanno avuto causa nei comportamenti sanzionati dal provvedimento disciplinare impugnato. Anzi, in tale contesto, la circostanza che l’Università abbia inteso sanzionare soltanto alcuni dei soggetti che hanno partecipato ai predetti “giochi di potere” è sintomo di un sicuro sviamento nell’esercizio del potere disciplinare

7. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello deve essere respinto.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, respinge l’appello indicato in epigrafe.

Spese del giudizio compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Claudio VARRONE Presidente

Giuseppe ROMEO Consigliere

Francesco CARINGELLA Consigliere

Bruno Rosario POLITO Consigliere

Roberto GIOVAGNOLI Consigliere Est.

Presidente

CLAUDIO VARRONE

Consigliere Segretario

ROBERTO GIOVAGNOLI MARIA RITA OLIVA

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 28/06/2007

mercoledì 18 luglio 2007

Ordine di demolizione e fabbricato abusivo costruito su terreno di proprietà altrui


Consiglio di Stato , sez. IV, decisione 14.05.2007 n° 2424


L’ordine di demolizione di un’opera abusiva va indirizzato al proprietario dell’area su cui sorge la stessa opera abusiva. (1)

(1) Sull’abusività di opere realizzate su beni protetti da vincoli ambientali, si veda Cassazione penale 21220/2007.

L’ordine di demolizione dell’opera abusiva va eliminata direttamente dal soggetto pubblico titolare della demanialità per quanto concerne la porzione costruita nell'area demaniale, mentre, per la parte che ricade su area privata altrui va indirizzata al soggetto proprietario dell’area, cui accede la costruzione abusiva.

Il costruttore del fabbricato abusivo non risulta titolare ad alcun titolo alla condonabilità dell’opera, non può chiedere il condono medesimo e l'amministrazione, pertanto, è tenuta al diniego.


Consiglio di Stato

Sezione IV

Decisione 14 maggio 2007, n. 2424

(Pres. Riccio, Est. Mele)

N.2424/2007
Reg. Dec.
N. 8445
Reg. Ric.
Anno 2006

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 8445/06, proposto da

N. G.,

rappresentata e difesa dall’avv. Oreste Morcavallo e presso lo stesso elettivamente domiciliata, in Roma, via Arno, 6;

CONTRO

IL COMUNE DI ROSSANO CALABRO,

costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’avv. Giovanni Spataro ed elettivamente domiciliato, in Roma, viale America, 11, presso l’avv. Francesco Lilli;

PER L’ANNULLAMENTO

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria, sez. II, n. 463 del 3 maggio 2006, resa “inter partes”.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’intimato Comune di Rossano;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 16 gennaio 2007, il Consigliere Eugenio Mele;

Uditi l’avv. Morcavallo e Staparo;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Impugna in appello la sentenza indicata in epigrafe la signora G. N., la quale chiede, in riforma della sentenza appellata, l’annullamento del provvedimento del Comune di Rossano circa il diniego di condono di un immobile e l’ordine di demolizione dello stesso.

Rileva l’appellante che è incerta la demanialità dell’area su cui insiste il fabbricato abusivo, essendo mancata una esatta delimitazione delle aree, mentre il nulla-osta paesistico non doveva essere richiesto essendo stato introdotto il vincolo successivamente alla realizzazione del manufatto, oltre al fatto che il Comune ha mostrato acquiescenza all’opera autorizzando i vari allacci civici.

Si costituisce in giudizio il Comune di Rossano, il quale rileva alcuni aspetti di inammissibilità sia dell’appello che del ricorso di primo grado, nonché l’infondatezza nel merito dell’appello per essere stata accertata la demanialità dell’area con sentenza (del giudice penale) passata in giudicato (n. 89 del 2001), oltre al fatto che il diniego di condono è sorretto anche da altri elementi (vincolo paesistico, mancata dimostrazione di un titolo di proprietà o di altro diritto reale, mancata dimostrazione dell’epoca di completamento dell’edificio).

La causa passa in decisione alla pubblica udienza del 16 gennaio 2007.

DIRITTO

Prima di decidere la presente controversia, occorrono alcune precisazioni, che sono indispensabili al fine di rendere chiara ed intellegibile una vicenda che appare, invece, ad una prima lettura degli atti, terribilmente complicata.

Innanzitutto, la natura dell’area su cui insiste l’immobile di cui l’appellante ha chiesto il condono è stata definitivamente ed irrevocabilmente accertata con sentenza passata in cosa giudicata (n. 855 del 28 aprile 2003 della Corte d’appello penale di Catanzaro), per cui essa è in parte demanio pubblico dello Stato e in parte particella intestata ad altro soggetto (M. S.), e sul punto, quindi, non vi è più possibilità di contestazione, salvo che non sopravvengano vicende nuove, che allo stato non sono a conoscenza del Collegio.

In secondo luogo, pur confermandosi che la richiesta di condono è stata correttamente e legittimamente denegata alla signora G. N., in quanto soggetto estraneo all’immobile in parola e da considerarsi occupante occasionale senza titolo dell’immobile stesso, l’ordine di demolizione dell’abuso non può riguardare la medesima G. N., in quanto la sentenza penale prima richiamata ordinava la confisca dell’immobile in parola per la parte di esso che ricadeva sull’area demaniale e la sua distruzione.

Pertanto, l’ordine di demolizione dell’opera abusiva non va inviato alla signora N. ma, per quanto concerne la parte dell’immobile che si trova sull’area demaniale, la stessa va eliminata direttamente dal soggetto pubblico titolare della demanialità (nella specie, il Comune), mentre, per la parte che ricade su area privata altrui va indirizzata al soggetto proprietario dell’area, cui accede la costruzione abusiva.

Con tali precisazioni, si intende peraltro che l’appellante, in quanto non risulta titolare ad alcun titolo alla condonabilità dell’opera, non poteva chiedere il condono medesimo e che il diniego dello stesso operato dall’Amministrazione comunale è da considerarsi legittimo.

L’appello va, pertanto, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in complessivi € 3.000,00 (tremila/00).

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo rigetta.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese di giudizio, liquidate come in motivazione.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, addì 16 gennaio 2007, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), riunito in Camera di Consiglio con l'intervento dei signori:

Stenio RICCIO - Presidente

Pier Luigi LODI - Consigliere

Anna LEONI - Consigliere

Eugenio MELE - Consigliere est.

Sandro AURELI - Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

Eugenio Mele Stenio Riccio

IL SEGRETARIO

Rosario Giorgio Carnabuci

Depositata in Segreteria il 14/05/2007.

Avvocati, obblighi di formazione permanente


Regolamento CNF 13.07.2007

E' stato regolamentato l'obbligo deontologico degli avvocati esercenti di curare la formazione professionale continua.

Il sistema prevede la partecipazione ad eventi formativi col conseguimento nel corso del triennio di almeno 90 crediti formativi (con un minimo di 20 in un anno) , attribuiti nel numero di uno per ciascuna ora di partecipazione (con limite massimo di 24 crediti per ciascun evento formativo).

Il regolamento approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 13 luglio 2007 entrerà in vigore dal 1 settembre 2007.



IL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE

considerato

·) che a se medesimo e ai Consigli dell’ordine degli avvocati è affidato il compito di tutelare l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione e quello di garantire la competenza e la professionalità dei propri iscritti, nell’interesse della collettività;

·) che, in particolare, al Consiglio nazionale forense è attribuito dalla legge il potere di determinare i principi ed i precetti della deontologia professionale, che la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione considera norme giuridiche;

·) che il Codice deontologico forense, all’art. 12, impone all’avvocato il dovere di competenza, prevedendo, fra l’altro, che “l’avvocato non deve accettare incarichi che sappia di non potere svolgere con adeguata competenza” e che “l’accettazione di un determinato incarico professionale fa presumere la competenza a svolgere quell’incarico”;

·) che l’art. 13 del Codice deontologico forense dispone: «È dovere dell’avvocato curare costantemente la propria preparazione professionale, conservando e accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori nei quali svolga l’attività» ;

·) che l’obbligo formativo è assolto, tra l’altro, con «lo studio individuale e la partecipazione a iniziative culturali in campo giuridico e forense», rispettando «i regolamenti del Consiglio nazionale forense e del Consiglio dell’ordine di appartenenza concernenti gli obblighi e i programmi formativi»;

·) che, oltre che in ambito deontologico, il possesso di un adeguato bagaglio di conoscenze e di sapere, anche a carattere specialistico, da aggiornare ed arricchire periodicamente si apprezza in prospettiva comunitaria, mentre l’importanza e la rilevanza costituzionale dell’attività professionale forense ne impone un esercizio consapevole e socialmente responsabile, quale mezzo di attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia;

·) che la continuità nella formazione e la costanza nell’aggiornamento assicurano più elevata qualità della prestazione professionale e adeguato contatto con il diritto vivente, soprattutto in presenza di un sistema normativo complesso e di una produzione giurisprudenziale sempre più numerosa e sofisticata;

·) che l’intensità e la qualità specifica della formazione e dell’aggiornamento variano in rapporto al settore di esercizio dell’attività, a seconda che si tratti di attività generalista, prevalente o specialistica;

·) che il regolamento di cui infra ha riguardo all’aggiornamento per l’attività generalista e prevalente, mentre è rinviato a diverso regolamento da adottare in prosieguo la disciplina dell’aggiornamento per l’attività specialistica;

·) che, sino all’adozione di quest’ultimo, anche per gli esercenti attività “specialistica” ai sensi delle vigenti disposizioni di legge valgono gli obblighi e le modalità di espletamento dell’aggiornamento previsti per gli esercenti attività generalista e prevalente;

ha approvato il seguente

REGOLAMENTO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE CONTINUA

Articolo 1

Formazione professionale continua

1. L’avvocato iscritto all’albo ed il praticante abilitato al patrocinio, dopo il conseguimento del certificato di compiuta pratica hanno l’obbligo di mantenere e aggiornare la propria preparazione professionale...

2. A tal fine, essi hanno il dovere di partecipare alle attività di formazione professionale continua disciplinate dal presente regolamento, secondo le modalità ivi indicate.

3. L’adempimento di tale dovere, con riferimento agli ambiti in cui si comunica di esercitare l’attività professionale prevalente, è, altresì, condizione per la spendita deontologicamente corretta, ai sensi dell’art. 17 bis del codice deontologico forense, dell’indicazione dell’attività prevalente in qualsiasi comunicazione diretta al singolo o alla collettività.

4. Con l’espressione formazione professionale continua si intende ogni attività di accrescimento ed approfondimento delle conoscenze e delle competenze professionali, nonché il loro aggiornamento mediante la partecipazione ad iniziative culturali in campo giuridico e forense.

Articolo 2

Durata e contenuto dell’obbligo

1. L’obbligo di formazione decorre dal 1° gennaio dell’anno solare successivo a quello di iscrizione all’albo o di rilascio del certificato di compiuta pratica, con facoltà dell’interessato di chiedere ed ottenere il riconoscimento di crediti formativi maturati su base non obbligatoria, ma in conformità alle previsioni del presente regolamento, nel periodo intercorrente fra la data d’iscrizione all’albo o del rilascio del certificato di compiuta pratica e l’inizio dell’obbligo formativo.

L’anno formativo coincide con quello solare.

2. Il periodo di valutazione della formazione continua ha durata triennale.

L’unità di misura della formazione continua è il credito formativo.

3. Ogni iscritto deve conseguire nel triennio almeno n. 90 crediti formativi, che sono attribuiti secondo i criteri indicati nei successivi artt. 3 e 4, di cui almeno n. 20 crediti formativi debbono essere conseguiti in ogni singolo anno formativo.

4. Ogni iscritto sceglie liberamente gli eventi e le attività formative da svolgere, in relazione ai settori di attività professionale esercitata, nell’ambito di quelle indicate ai successivi articoli 3 e 4, ma almeno n. 15 crediti formativi nel triennio devono derivare da attività ed eventi formativi aventi ad oggetto l’ordinamento professionale e previdenziale e la deontologia.

5. L’iscritto che, dando con qualunque modalità consentita informazione a terzi, intenda fornire le indicazioni di cui al precedente articolo 1, comma 3, dovrà aver conseguito, nel periodo di valutazione che precede l’informazione, non meno di 30 crediti formativi nell’ambito di esercizio dell’attività professionale che intende indicare.

Articolo 3

Eventi formativi

1. Integra assolvimento degli obblighi di formazione professionale continua la partecipazione effettiva e adeguatamente documentata agli eventi di seguito indicati:

a) corsi di aggiornamento e masters, seminari, convegni, giornate di studio e tavole rotonde, anche se eseguiti con modalità telematiche, purché sia possibile il controllo della partecipazione;

b) commissioni di studio, gruppi di lavoro o commissioni consiliari, istituiti dal Consiglio nazionale forense e dai Consigli dell’ordine, o da organismi nazionali ed internazionali della categoria professionale;

c) altri eventi specificamente individuati dal Consiglio nazionale forense e dai Consigli dell’ordine.

2. La partecipazione agli eventi formativi sopra indicati attribuisce n. 1 credito formativo per ogni ogni ora di partecipazione, con il limite massimo di n. 24 crediti per la partecipazione ad ogni singolo evento formativo.

3. La partecipazione agli eventi di cui alle lettere a) e b) rileva ai fini dell’adempimento del dovere di formazione continua, a condizione che essi siano promossi od organizzati dal Consiglio nazionale forense o dai singoli Consigli dell’ordine territoriali, o, se organizzati da associazioni forensi, altri enti, istituzioni od organismi pubblici o privati, sempre che siano stati preventivamente accreditati, anche sulla base di programmi a durata semestrale o annuale, dal Consiglio nazionale forense o dai singoli Consigli dell’ordine territoriali, a seconda della rispettiva competenza.

A tal fine:

- appartiene alla competenza del Consiglio nazionale forense l’accreditamento di eventi da svolgersi all’estero, che siano organizzati da organismi stranieri, ovvero –a richiesta dei soggetti organizzatori- quelli che prevedono la ripetizione di identici programmi in più circondari o distretti;

- appartiene alla competenza dei singoli Consigli dell’ordine territoriali l’accreditamento di ogni altro evento, in ragione del suo luogo di svolgimento.

4. L’accreditamento viene concesso valutando la tipologia e la qualità dell’evento formativo, nonché gli argomenti trattati. A tal fine gli enti ed associazioni che intendono ottenere l’accreditamento preventivo di eventi formativi da loro organizzati devono presentare al Consiglio dell’ordine locale ovvero al Consiglio nazionale forense, secondo la rispettiva competenza, una relazione dettagliata con tutte le indicazioni necessarie a consentire la piena valutazione dell’evento anche in relazione alla sua rispondenza alle finalità del presente regolamento..

A tal fine il Consiglio dell’ordine o il Consiglio nazionale forense richiedono, ove necessario, informazioni o documentazione e si pronunciano sulla domanda di accreditamento con decisione motivata entro quindici giorni dalla data di deposito della domanda o delle informazioni e della documentazione richiesta.

In caso di silenzio protratto oltre il quindicesimo giorno l’accreditamento si intende concesso.

Il Consiglio dell’ordine competente o il Consiglio nazionale forense potranno accreditare anche eventi non programmati, a richiesta dell’interessato e con decisione motivata da assumere entro il termine di quindici giorni dalla richiesta; in caso di mancata risposta entro il termine indicato, l’accreditamento si intenderà concesso.

Il Consiglio nazionale forense può stipulare con la Cassa Nazionale di previdenza e assistenza forense e con le Associazioni forensi riconosciute maggiormente rappresentative sul piano nazionale dal Congresso nazionale forense specifici protocolli, applicabili anche in sede locale, allo scopo di semplificare ed accelerare le procedure di accreditamento degli eventi programmati e di quelli ulteriori.

5. Ciascun Consiglio dell’ordine dà immediata notizia al Consiglio nazionale forense di tutti gli eventi formativi da esso medesimo organizzati o altrimenti accreditati. Il Consiglio nazionale forense ne cura la pubblicazione nel suo sito Internet per consentire la loro più vasta diffusione e conoscenza anche al fine di permettere la partecipazione a detti eventi di iscritti in albi e registri tenuti da altri Consigli.

Articolo 4

Attività formative

1. Integra assolvimento degli obblighi di formazione professionale continua anche lo svolgimento delle attività di seguito indicate:

a) relazioni o lezioni negli eventi formativi di cui alle lettere a) e b) dell’art. 3, ovvero nelle scuole forensi o nelle scuole di specializzazione per le professioni legali;

b) pubblicazioni in materia giuridica su riviste specializzate a diffusione o di rilevanza nazionale, anche on line, ovvero pubblicazioni di libri, saggi, monografie o trattati, anche come opere collettanee, su argomenti giuridici;

c) contratti di insegnamento in materie giuridiche stipulati con istituti universitari ed enti equiparati;

d) partecipazione alle commissioni per gli esami di Stato di avvocato, per tutta la durata dell’esame.

e) il compimento di altre attività di studio ed aggiornamento svolte in autonomia nell’ambito della propria organizzazione professionale, che siano state preventivamente autorizzate e riconosciute come tali dal Consiglio nazionale forense o dai Consigli dell’ordine competenti.

2. Il Consiglio dell’ordine attribuisce i crediti formativi per le attività sopra indicate, tenuto conto della natura della attività svolta e dell’impegno dalla stessa richiesto, con il limite massimo di n. 12 crediti per le attività di cui alla lettera a), di n. 12 crediti per le attività di cui alla lettera b), di n. 24 crediti per le attività di cui alla lettera c), di n. 24 crediti per le attività di cui alla lettera d) e di n. 12 crediti annuali per le attività di cui alla lettera e).

Articolo 5

Esoneri

1. Sono esonerati dagli obblighi formativi, relativamente alle materie di insegnamento, ma fermo l’obbligo di aggiornamento in materia deontologica, previdenziale e di ordinamento professionale, i docenti universitari di prima e seconda fascia, nonché i ricercatori con incarico di insegnamento.

2. Il Consiglio dell’ordine, su domanda dell’interessato, può esonerare, anche parzialmente determinandone contenuto e modalità, l’iscritto dallo svolgimento dell’attività formativa, nei casi di:

– gravidanza, parto, adempimento da parte dell’uomo o della donna di doveri collegati alla paternità o alla maternità in presenza di figli minori;

– grave malattia o infortunio od altre condizioni personali;

– interruzione per un periodo non inferiore a sei mesi dell’attività professionale o trasferimento di questa all’estero;

– altre ipotesi indicate dal Consiglio nazionale forense.

Il Consiglio dell’ordine può altresì dispensare dall’obbligo formativo, in tutto o in parte, l’iscritto che ne faccia domanda e che abbia superato i 40 anni di iscrizione all’albo, tenendo conto, con decisione motivata, del settore di attività, della quantità e qualità della sua attività professionale e di ogni altro elemento utile alla valutazione della domanda.

3. L’esonero dovuto ad impedimento può essere accordato limitatamente al periodo di durata dell’impedimento.

4. All’esonero consegue la riduzione dei crediti formativi da acquisire nel corso del triennio, proporzionalmente alla durata dell’esonero, al suo contenuto ed alle sue modalità, se parziale.

Articolo 6

Adempimenti degli iscritti e inosservanza dell’obbligo formativo

1. Ciascun iscritto deve depositare al Consiglio dell’ordine al quale è iscritto una sintetica relazione che certifica il percorso formativo seguito nell’anno precedente, indicando gli eventi formativi seguiti, anche mediante autocertificazione.

2. Costituiscono illecito disciplinare il mancato adempimento dell’obbligo formativo e la mancata o infedele certificazione del percorso formativo seguito.

3. La sanzione è commisurata alla gravità della violazione.

Articolo 7

Attività del Consiglio dell’ordine

1. Ciascun Consiglio dell’ordine dà attuazione alle attività di formazione professionale e vigila sull’effettivo adempimento dell’obbligo formativo da parte degli iscritti nei modi e con i mezzi ritenuti più opportuni, regolando le modalità del rilascio degli attestati di partecipazione agli eventi formativi organizzati dallo stesso Consiglio.

2. In particolare, i Consigli dell’ordine, entro il 31 ottobre di ogni anno, predispongono, anche di concerto tra loro, un piano dell’offerta formativa che intendono proporre nel corso dell’anno successivo, indicando i crediti formativi attribuiti per la partecipazione a ciascun evento. Nel programma annuale devono essere previsti eventi formativi aventi ad oggetto la materia deontologica, previdenziale e l’ordinamento professionale .

3. I Consigli dell’ordine realizzano il programma, anche di concerto con altri Consigli dell’ordine o nell’ambito delle Unioni distrettuali, ove costituite. Possono realizzarlo anche in collaborazione con Associazioni forensi, o con altri enti che non abbiano fini di lucro, avvalendosi, se lo ritengano opportuno, di apposito ente da essi costituito, partecipato e comunque controllato. Essi favoriscono la formazione gratuita in misura tale da consentire a ciascun iscritto l’adempimento dell’obbligo formativo, realizzando eventi formativi non onerosi, allo scopo determinando la contribuzione richiesta ai partecipanti col limite massimo del solo recupero delle spese vive sostenute. A tal fine utilizzeranno risorse proprie o quelle ottenibili da sovvenzioni o contribuzioni erogate da enti finanziatori pubblici o privati. I Consigli potranno inoltre organizzare attività formative, unitamente a soggetti, anche se operanti con finalità di lucro, sempre che nessuna utilità, diretta o indiretta, ad essi ne derivi, ulteriore rispetto a quella consistente nell’esonero dalle spese di organizzazione degli eventi.

4. Entro il 31 ottobre di ogni anno, i Consigli dell’ordine sono tenuti a comunicare al Consiglio nazionale forense una relazione che illustri il piano dell’offerta formativa dell’anno solare successivo, ne evidenzi i costi per i partecipanti, segnali i soggetti attuatori e indichi i criteri e le finalità cui il Consiglio si è attenuto nella predisposizione del programma stesso. Se la programmazione sia avvenuta di concerto tra più Consigli, essi potranno inviare un'unica relazione.

5. I Consigli dell’ordine, anche in collaborazione con altri Consigli, con associazioni forensi, enti od istituzioni ed altri soggetti, potranno organizzare nel corso dell'anno eventi formativi ulteriori, rispetto a quelli già programmati, attribuendo i crediti secondo i criteri di cui al precedente art. 3 e dandone comunicazione al Consiglio nazionale forense.

Articolo 8

Controlli del Consiglio dell’ordine

1. Il Consiglio dell’ordine verifica l’effettivo adempimento dell’obbligo formativo da parte degli iscritti, attribuendo agli eventi e alle attività formative documentate i crediti formativi secondo i criteri indicati dagli artt. 3 e 4.

2. Ai fini della verifica, il Consiglio dell’ordine deve svolgere attività di controllo, anche a campione, ed allo scopo può chiedere all’iscritto ed ai soggetti che hanno organizzato gli eventi formativi chiarimenti e documentazione integrativa.

3. Ove i chiarimenti non siano forniti e la documentazione integrativa richiesta non sia depositata entro il termine di giorni 30 dalla richiesta, il Consiglio non attribuisce crediti formativi per gli eventi e le attività che non risultino adeguatamente documentate.

4. Per lo svolgimento di tali attività, il Consiglio dell’ordine può avvalersi di apposita commissione, costituita anche da soggetti esterni al Consiglio. In questo caso, il parere espresso dalla commissione è obbligatorio, ma può essere disatteso dal Consiglio con deliberazione motivata.

Articolo 9

Attribuzioni del Consiglio nazionale forense

1. Il Consiglio nazionale forense:

a) promuove ed indirizza lo svolgimento della formazione professionale continua, individuandone i nuovi settori di sviluppo.

b) valuta le relazioni trasmesse dai Consigli dell’ordine a norma del precedente art. 7, anche costituendo apposite Commissioni aperte alla partecipazione di soggetti esterni al Consiglio nazionale forense, esprimendo il proprio parere sull’adeguatezza dei piani dell’offerta formativa organizzati dai Consigli dell’ordine, eventualmente indicando le modifiche che vi debbano essere apportate, con l’obiettivo di assicurare l’effettività e l’uniformità della formazione continua. In mancanza di espressione del parere entro il termine di trenta giorni dalla presentazione delle relazioni, il programma formativo si intende approvato.

In caso di parere negativo, il Consiglio dell’ordine è tenuto, nei trenta giorni successivi, a trasmettere un nuovo programma formativo, che tenga conto delle indicazioni e dei rilievi formulati dal Consiglio nazionale forense.

2. Esso inoltre, anche tramite la Fondazione Scuola Superiore dell’Avvocatura, la Fondazione dell’Avvocatura Italiana e la Fondazione per l’informatica e innovazione forense:

a) favorisce l’ampliamento dell’offerta formativa, anche organizzando direttamente eventi formativi, se del caso in collaborazione con il C.S.M.;

b) assiste i Consigli dell’ordine nella predisposizione e nell’attuazione dei programmi formativi e vigila sull’adempimento da parte dei Consigli delle incombenze ad essi affidate;

Articolo 10

Norme di attuazione

Il Consiglio nazionale forense si riserva di emanare le norme di attuazione e coordinamento che si rendessero necessarie in sede di applicazione del presente regolamento.

Articolo 11

Entrata in vigore e disciplina transitoria

1. Il presente regolamento entra in vigore dal 1° settembre 2007.

2. Il primo periodo di valutazione della formazione continua decorre dal 1° gennaio 2008.

3. Nel primo triennio di valutazione a partire dall’entrata in vigore del presente regolamento, i crediti formativi da conseguire sono ridotti a venti per chi abbia compiuto entro il 1° settembre 2007 od abbia a compiere entro il 1° settembre 2008 il quarantesimo anno d’iscrizione all’albo ed a cinquanta per ogni altro iscritto, col minimo di 9 crediti per il primo anno formativo, di 12 per il secondo e di 18 per il terzo, dei quali in materia di ordinamento forense, previdenza e deontologia almeno 6 crediti nel triennio formativo.

4. L’articolo 1, comma 3 del presente regolamento si applica a partire dal 1° settembre 2008.

5. Per il primo triennio di valutazione l’iscritto che, dando con qualunque modalità consentita informazione a terzi, intenda fornire le indicazioni di cui all’articolo 1, comma 3, dovrà aver conseguito nei 12 mesi precedenti l’informazione non meno di 10 crediti formativi nell’ambito di esercizio dell’attività professionale che intende indicare.

giovedì 12 luglio 2007

ICI, area edificabile e regime delle aree in attesa dei piani attuativi


L'art. 36, comma 2, del D.L. 4 luglio 2006 (meglio conosciuto come Decreto Bersani), convertito, con modificazioni, in L. 4 agosto 2006, n. 248, chiarisce che "Ai fini dell'applicazione del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo".

Tuttavia, secondo le SS UU, ai fini dell'applicazione del D.Lgs. 504/1992, un'area è da considerarsi fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo: in tal caso, l'Ici deve essere dichiarata e liquidata sulla base del valore venale in comune commercio, tenendo conto anche di quanto sia effettiva e prossima la utilizzabilità a scopo edificatorio del suolo, e di quanto possano incidere gli ulteriori eventuali oneri di urbanizzazione.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 28 settembre 2006, 25506

(Pres. Carbone, Rel. Merone)

1. Fatto, svolgimento del processo e motivi del ricorso

1.1. Il comune di X. ricorre contro la sig.ra C.C., nella qualità di erede della sig.ra A.L., per ottenere la cassazione della sentenza specificata in epigrafe. La parte intimata non ha svolto alcuna attività difensiva.

1.2. In fatto, la sig.ra A.L., dante causa dell'odierna intimata, ha impugnato gli avvisi di accertamento ed irrogazione delle conseguenti sanzioni, con i quali l'ente impositore le ha contestato:

a) per gli anni 1993/1994, l'infedele dichiarazione Ici, avendo dichiarato, indebitamente, che i terreni agricoli posseduti, erano condotti direttamente da lei, in qualità di coltivatrice diretta, per beneficiare della riduzione d'imposta prevista dall'art. 9 del D.Lgs. n. 504/1992;

b) per gli anni 1995/1997, l'omessa dichiarazione della variazione di destinazione urbanistica di terreni, divenuti edificabili a seguito dell'adozione del nuovo piano regolatore generale, a far data dal 22 maggio 1995.

La Commissione tributaria adita in primo grado, ha riunito tutti i ricorsi, ha accolto parzialmente quelli riferiti agli anni di imposta 1993 e 1994 (con riferimento ai profili sanzionatori, pur respingendo la tesi della spettanza della riduzione dell'imposta) ed ha accolto in toto quelli riferiti agli anni 1995, 1996, 1997, sul rilievo che il piano regolatore, pur adottato nel 1995, è stato approvato dalla regione soltanto in epoca successiva.

Entrambe le parti hanno impugnato la decisione. Il comune, con appello principale ha eccepito l'erronea applicazione dell'art. 2, lettera b), del D.Lgs. n. 504/1992, che definisce le aree edificabili ai fini dell'Ici. La contribuente, con appello incidentale, ha riproposto la tesi del suo diritto alla riduzione dell'imposta, in quanto coltivatrice diretta dei propri fondi.

La Commissione tributaria regionale ha respinto l'appello principale del comune, confermando la tesi che l'adozione del piano regolatore generale, non ancora approvato, non può conferire il carattere dell'edificabilità ai suoli, prima dell'approvazione definitiva. Ha accolto, invece, l'appello incidentale della contribuente, annullando gli avvisi di accertamento all'origine del contenzioso.

1.3. A sostegno dell'odierno ricorso, il comune di Noventa di Piave denuncia:

a) violazione e falsa applicazione dell'art. 2, lettera b), del D.Lgs. n. 504/1992, in quanto l'adozione del piano regolatore generale da parte del comune è sufficiente a far considerare fabbricabili le aree per le quali sia prevista la utilizzabilità a scopo edificatorio. Anche prima del perfezionamento dello strumento urbanistico;

b) violazione e falsa applicazione degli artt. 9 del D.Lgs.

n. 504/1992, 11 della L. n. 9/1963, e 58, comma 2, del D.Lgs. n. 446/1997, in quanto la contribuente non ha provato di possedere i requisiti soggettivi per beneficiare della agevolazione richiesta.

1.4. La trattazione del ricorso è stata assegnata, ratione materiae, alla Sezione V civile. Questa, con ordinanza 8 marzo 2005, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 374, comma 2, del codice di procedura civile, avendo rilevato, nella giurisprudenza della Corte, un contrasto interpretativo, riferito al primo motivo di ricorso, che riguarda i criteri in base ai quali un'area deve essere definita fabbricabile ai fini fiscali, in generale, e dell'imposta comunale sugli immobili, in particolare.

Infatti, secondo un primo indirizzo, definito "sostanzialistico" (in quanto, realisticamente, valorizza le immediate ricadute economiche di qualunque variazione che faccia sorgere o consolidi una aspettativa di diritto), è sufficiente che un'area sia utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici, ancorché le relative procedure non siano state perfezionate (Cass. n. 4120/2002, n. 4341/2002, n. 17513/2002, n.

13817/2003, n. 16751/2004 e n. 19750/2004). Secondo altro e diverso orientamento, definito "formale-legalistico", la qualifica di area fabbricabile, anche ai fini fiscali, presuppone che le procedure per l'approvazione degli strumenti urbanistici, siano perfezionate (Cass.

n. 10406/1994, n. 15320/2000, n. 13296/2001, n. 2416/2002, n. 14024/2002, n. 2316/2003, n. 5433/2003, 21573/2004 e 21644/2004).

1.5. Il Primo Presidente ha rimesso la trattazione del ricorso a queste Sezioni Unite.

2. Diritto e motivi della decisione

2.1. Il ricorso appare fondato in relazione al primo motivo di ricorso.

Va respinto, invece, in relazione al secondo motivo.

2.2. Le Sezioni Unite sono chiamate a fornire la corretta interpretazione dell'art. 2, comma 1, lettera b), del D.Lgs. n. 504/1992, superando il contrasto in atto, nella parte in cui dispone che "per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi". Per affrontare correttamente il problema ermeneutico, bisogna partire da alcune premesse di sistema: l'imposta comunale sugli immobili è un'imposta locale sul patrimonio immobiliare, a carattere proporzionale (ad aliquota unica), reale (in quanto prescinde dalle ulteriori condizioni economiche del contribuente) e periodica (riferita all'anno solare). Infatti, il presupposto impositivo è costituito, per quanto interessa in questa sede, dal "possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati" (art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 504/1992). Dunque, l'Ici incide sia il possesso delle aree fabbricabili che quello dei terreni agricoli.

La distinzione, però, è rilevante, ai fini fiscali, perché differenti sono i criteri utilizzati per determinare la base imponibile. Infatti, per le aree fabbricabili, la base imponibile è costituita dal "valore venale in comune commercio", calcolato al 1° gennaio dell'anno di imposizione, "avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all'indice di edificabilità, alla destinazione d'uso consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche" (art. 5, comma 5, del D.Lgs. n. 504/1992). Per i terreni agricoli, invece, "il valore è costituito da quello che risulta applicando all'ammontare del reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell'anno di imposizione, un moltiplicatore pari a settantacinque" (art. 5, comma 7, del D.Lgs. n. 504/1992, oltre gli eventuali coefficienti di rivalutazione, ex art. 3, comma 5, della L. n. 662/1996). In definitiva, ai fini dell'Ici, la distinzione tra aree edificabili e terreni agricoli, non serve per distinguere un bene imponibile da uno non imponibile, serve soltanto per individuare il criterio in base al quale deve essere determinata la base imponibile Ici (criterio del valore venale, secondo i prezzi medi di mercato, ovvero valore catastale). Questa premessa serve anche a sdrammatizzare il problema, perché, se i criteri di calcolo vengono applicati correttamente, il contribuente subirà un prelievo che non sarà mai superiore a quello giustificato dal reale valore del bene posseduto.

Con la possibilità, del tutto naturale, che si verifichino oscillazioni di valore connesse all'andamento del mercato e/o allo stato di attuazione delle procedure che determinano il perfezionamento dello ius edificandi. È naturale che le imposte patrimoniali siano commisurate al valore del patrimonio cui si riferiscono. Possono verificarsi variazioni al rialzo, che comportano un maggior prelievo nel periodo di imposta, o variazioni al ribasso (ad esempio, a causa della mancata approvazione del piano regolatore generale), che attenuano il prelievo, senza che questo comporti, ex se, il diritto al rimborso per gli anni pregressi [salvo che i comuni non ritengano, sul piano dell'equità, di riconoscere il diritto al rimborso, ex art. 59, comma 1, lettera f), del D.Lgs. n. 446/1997], durante i quali, comunque, l'imposta è stata commisurata al valore venale di mercato. E non rileva, ai fini dell'Ici, che l'incremento di valore non sia stato monetizzato, attraverso un atto di trasferimento oneroso, che, eventualmente, ricorrendone i presupposti di legge, avrebbe potuto dar luogo ad una plusvalenza, soggetta ad imposta sul reddito. D'altra parte, anche un piano regolatore generale approvato e vigente è soggetto a modifiche che possono portare a una diversa classificazione dei suoli con conseguenti sensibili oscillazioni di valore. Per ragioni di equità, come già accennato, il legislatore ha previsto espressamente che i comuni possano "prevedere il diritto al rimborso dell'imposta pagata per le aree successivamente divenute inedificabili, stabilendone termini, limiti temporali e condizioni, avuto anche riguardo alle modalità ed alla frequenza delle varianti apportate agli strumenti urbanistici" [art. 59, comma 1, lettera f), del D.Lgs. n. 446/1997)].

2.3. I criteri per stabilire se un suolo debba qualificarsi come area fabbricabile o come terreno agricolo, sono indicati nelle lettere b) e c) dell'art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 504/1992. In base alle citate disposizioni, "per terreno agricolo si intende il terreno adibito all'esercizio delle attività indicate nell'art. 2135 del codice civile" (coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali ed attività connesse); per area fabbricabile, invece, per quanto di interesse nella fattispecie, "si intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi". Dal momento in cui un terreno agricolo è utilizzabile a scopo edificatorio in base ad uno strumento urbanistico generale, prevale quest'ultima qualificazione. A meno che non si tratti di "terreni posseduti e condotti dai soggetti indicati nel comma 1 dell'art. 9, sui quali persiste l'utilizzazione agro-silvo-pastorale mediante l'esercizio di attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, alla funghicoltura ed all'allevamento di animali" [art. 2. comma 1, lettera b), secondo alinea]. Nel caso di specie, il problema della conduzione diretta del terreno agricolo non risulta che sia stato prospettato in relazione alle annualità 1995, 1996 e 1997, per le quali, quindi il quesito della qualificazione del suolo in questione deve essere risolto esclusivamente sulla base della corretta interpretazione della prima parte della lettera b) del comma 1 dell'art. 2 del D.Lgs. n. 504/1992.

Nelle more del giudizio, sono intervenuti due provvedimenti legislativi, a carattere interpretativo, che incidono sulla trama normativa di riferimento. Il primo, riguarda specificamente l'Ici, e stabilisce che "Ai fini dell'applicazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, la disposizione prevista dall'articolo 2, comma 1, lettera b), dello stesso decreto si interpreta nel senso che un'area è da considerare comunque fabbricabile se è utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale, indipendentemente dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo". La norma impone di ritenere edificabili le aree utilizzabili a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico, anche se manchino gli strumenti attuativi. Non risolve il problema del valore da attribuire al piano regolatore generale, adottato, ma non ancora approvato, che è quello che qui interessa e che, invece appare risolto dal secondo intervento.

Infatti, l'art. 36, comma 2, del D.L. 4 luglio 2006 [, n. 223, n.d.r.], convertito, con modificazioni, in L. 4 agosto 2006, n. 248, chiarisce che "Ai fini dell'applicazione del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo". La norma citata ha accolto la tesi sostanzialistica, propugnata dall'ente impositore, secondo la quale "non occorre che lo strumento urbanistico, adottato dal comune, abbia perfezionato il proprio iter di formazione mediante l'approvazione da parte della regione, atteso che l'adozione dello strumento urbanistico, con inserimento di un terreno con destinazione edificatoria, imprime al bene una qualità che è recepita dalla generalità dei consociati come qualcosa di già esistente e di difficile reversibilità e, quindi, è sufficiente a fare venir meno, ai fini anzidetti, la presunzione del rapporto proporzionale tra reddito dominicale risultante in catasto e valore del terreno medesimo, posto a fondamento della valutazione automatica" (Cass. n. 17513/2002; conf., ex plurimis, n. 4381/2002, n. 4120/2202, n. 17762/2002 e n. 3817/2003). In altri termini, dinanzi ad una vocazione edificatoria di un suolo, formalizzata in un atto della procedura prevista dalla legislazione urbanistica, il Fisco ritiene che, a prescindere dallo status giuridico formale dello stesso, non sia più possibile apprezzarne il valore sulla base di un parametro di riferimento, come il reddito dominicale, che resta superato da più concreti criteri di valutazione economica. Non interessa, dunque, ai fini fiscali, che il suolo sia immediatamente ed incondizionatamente edificabile, perché possa farsi ricorso legittimamente al criterio di valutazione del valore venale in comune commercio. L'inizio della procedura di "trasformazione" urbanistica di un suolo implica, di per sé, una "trasformazione" economica dello stesso, che non consente più la valutazione, ai fini fiscali, secondo il criterio del reddito dominicale. Tuttavia, l'aspettativa di edificabilità di un suolo, non comporta, ai fini della valutazione fiscale, l'equiparazione sic et simpliciter alla edificabilità; comporta soltanto, l'assoggettamento ad un regime di valutazione differente da quello specifico dei terreni agricoli, oggi meno conveniente per il contribuente, ma non per questo iniquo.

L'art. 36, comma 2, citato, fornisce una condivisibile chiave interpretativa che, per espressa volontà del legislatore, deve essere utilizzata nell'applicazione delle disposizioni relative all'Iva (D.P.R. n. 633/1972), al Tuir (D.P.R. n. 917/1986), all'Ici (D.Lgs. n. 504/1992) e all'imposta di registro (D.P.R. n. 131/1986). La novella non fornisce un nuovo criterio di valutazione, ma si limita a chiarire che il beneficio della tassazione su base catastale, prevista per i terreni agricoli, non compete quando si tratti di suoli la cui vocazione edificatoria sia stata formalizzata in uno strumento urbanistico, ancorché non operativo. È di comune esperienza, infatti, che tale circostanza è sufficiente a far lievitare il valore venale del suolo, secondo le leggi di mercato.

Trattandosi di imposta periodica, le oscillazioni di valore, come già è stato accennato, dovranno riflettersi, nel bene e nel male, nelle dichiarazioni di variazione.

2.4. La soluzione adottata dal legislatore, per quanto non abbia bisogno di avalli giurisprudenziali e di esplicite motivazioni, sembra la più aderente ad un corretto e realistico approccio al problema in esame. Posto che i maggiori problemi ermeneutici hanno avuto ad oggetto il concetto di "utilizzabilità a scopo edificatorio", occorre chiarire cosa debba intendersi con tale espressione, dopo l'approvazione dell'art. 36, comma 2, del D.L. n. 223/2006.

La qualifica di area fabbricabile, che apre la strada all'accertamento del valore venale dell'immobile, presuppone la utilizzabilità a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico. Secondo alcuni arresti giurisprudenziali di questa Corte, per aree fabbricabili si deve intendere, ai fini fiscali (con specifico riferimento all'Ici), "i terreni immediatamente utilizzabili a scopo edificatorio, con possibilità legale ed effettiva di rilascio di concessione edilizia al momento dell'imposizione tributaria, distinguendosi, nella disciplina dell'imposta, tra le zone urbanizzate per le quali è consentito il rilascio della concessione edilizia secondo le previsioni del piano regolatore generale del comune, ancora prima dell'adozione dei piani attuativi, e le zone che, pur comprese nelle previsioni del piano regolatore generale, non sono immediatamente utilizzabili a scopo edificatorio, essendo il rilascio della concessione a edificare subordinato all'adozione dei piani particolareggiati o dei piani di lottizzazione" (Cass. n. 21573/2004 e n. 21644/2004). Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, "il legislatore ha voluto sottoporre ad imposta, con base imponibile diversa, quelle aree immediatamente utilizzabili a scopo edificatorio, con possibilità legale ed effettiva di rilascio di concessione edilizia al momento dell'imposizione fiscale, distinguendo tra zone urbanizzate, per le quali è consentito il rilascio di concessione edilizia in base al piano regolatore generale, ancora prima dell'approvazione dei piani attuativi, e quelle che, non trovandosi in tale situazione anche se comprese nei piani regolatori generali, devono attendere i piani particolareggiati o i piani di lottizzazione per poter ottenere tale concessione". In altri termini, "il legislatore ha inteso riservare un diverso trattamento fiscale, con la previsione di una base imponibile sul valore reale, per quelle aree la cui utilizzazione a scopo edificatorio è attuale e non rinviata alla adozione e successiva approvazione regionale degli strumenti urbanistici attuativi e, quindi, per quei terreni per i quali il rilascio della concessione edilizia è previsto da provvedimenti definitivi e non in fieri. Se non avesse inteso dire quanto sopra esposto, il legislatore avrebbe potuto limitarsi a definire l'area fabbricabile quella "compresa nel piano regolatore generale" oppure quella "destinata all'edificazione", senza riferimento agli strumenti urbanistici "attuativi" o alle "possibilità effettive di edificare" richiamando, inoltre, i criteri contenuti nella L. n. 359/1952 (possibilità legali ed effettive di edificazione)" (Cass. n. 21573/2004 e n. 21644/2004).

Dopo la novella del 2006, tale tesi non è più sostenibile. Il legislatore (rectius: l'Amministrazione finanziaria "vestita" da legislatore) ha fatto la sua scelta. Il testo della legge non consente più di distinguere a seconda delle "fasi di lavorazione" degli strumenti urbanistici. Se c'è stato l'avvio della procedura per la formazione del piano regolatore generale, la situazione in movimento non consente più di beneficiare del criterio statico della valutazione automatica. Quello che interessa al legislatore fiscale è la necessità di adottare un diverso criterio di valutazione dei suoli, quando questi siano avviati sulla strada (non necessariamente senza ritorno) della edificabilità. Normalmente, infatti, già l'avvio della procedura per la formazione del piano regolatore generale determina una "impennata" di valore, pur con tutti i necessari distinguo (riferiti alle zone e alla necessità di ulteriori passaggi procedurali). Il fulcro della norma interpretativa è costituito dalla precisazione che la edificabilità dei suoli, ai fini fiscali, non è condizionata ("indipendentemente") "dall'approvazione della regione [degli strumenti urbanistici] e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo".

È chiara, dunque, la voluntas legis di tenere conto, realisticamente, delle variazioni di valore che subiscono i suoli in ragione delle vicende degli strumenti urbanistici. Diverse, infatti, sono le finalità della legislazione urbanistica rispetto a quelle della legislazione fiscale.

La prima tende a garantire il corretto uso del territorio urbano, e, quindi, lo ius edificandi non può essere esercitato se non quando gli strumenti urbanistici siano perfezionati (garantendo la compatibilità degli interessi individuali con quelli collettivi); la seconda, invece, mira ad adeguare il prelievo fiscale alle variazioni dei valori economici dei suoli, che si registrano e progrediscono, in parallelo, dal sorgere della mera aspettativa dello ius edificandi, fino al perfezionamento dello stesso. Ne consegue, che le chiavi di lettura dei due comparti normativi possono essere legittimamente differenti. Infatti, non bisogna confondere lo ius edificandi con lo ius valutandi, che poggiano su differenti presupposti. Il primo sul perfezionamento delle relative procedure, il secondo sull'avvio di tali procedure. Non si può costruire se prima non sono definite tutte le norme di riferimento. Invece, si può valutare un suolo considerato "a vocazione edificatoria", anche prima del completamento delle relative procedure. Anche perché i tempi ancora necessari per il perfezionamento delle procedure, con tutte le incertezze riferite anche a quelli che potranno essere i futuri contenuti prescrittivi, entrano in gioco come elementi di valutazione al ribasso.

In definitiva, la equiparazione legislativa di tutte le aree che non possono considerarsi "non inedificabili", non significa che queste abbiano tutte lo stesso valore.

Con la perdita dell'inedificabilità di un suolo (cui normalmente, ma non necessariamente, si accompagna un incremento di valore) si apre soltanto la porta alla valutabilità in concreto dello stesso. È evidente che, in sede di valutazione, la minore o maggiore attualità e potenzialità della edificabilità dovrà essere considerata ai fini di una corretta valutazione del valore venale delle stesse, ai sensi dell'art. 5, comma 5, del D.Lgs. n. 504/1992, per l'Ici, e 51, comma 3, del D.P.R. n. 131/1986, per l'imposta di registro.

Pertanto, ai fini dell'applicazione del D.Lgs. 504/1992, un'area è da considerarsi fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo: in tal caso, l'Ici deve essere dichiarata e liquidata sulla base del valore venale in comune commercio, tenendo conto anche di quanto sia effettiva e prossima la utilizzabilità a scopo edificatorio del suolo, e di quanto possano incidere gli ulteriori eventuali oneri di urbanizzazione.

2.5. Infine, osserva il Collegio, l'intervento interpretativo, da parte del legislatore, piuttosto che dare forza alla soluzione adottata, che sarebbe stata recepita anche in mancanza della imposizione ex auctoritate, l'ha indebolita, in quanto può apparire inutilmente e dichiaratamente di parte. Infatti, il legislatore è intervenuto quando già le Sezioni Unite erano state investite del contrasto e, quindi, era imminente la rimozione del contrasto stesso da parte di un giudice terzo, nell'esercizio della specifica funzione istituzionale di garante dell'uniforme interpretazione della legge (artt. 65, comma 1, del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, e 374, comma 2, del codice di procedura civile). Si aggiunga, poi, che, come è accaduto nel caso di specie, in materia fiscale gli interventi interpretativi sono sempre pro Fisco, in quanto dettati da ragioni di cassa (nell'intento di realizzare maggiori entrate). Non sono ispirati, quindi, alla esigenza di realizzare la certezza del diritto, ma soltanto a garantire gli interessi di una delle parti in causa. Ciò non facilita l'istaurarsi di un rapporto di fiducia tra Amministrazione e contribuente, basato sul principio della collaborazione e della buona fede, come vorrebbe lo Statuto del contribuente (art. 10, comma 1, della L. n. 212/2000).

Nel caso di specie, poi, non è facile distinguere l'Amministrazione finanziaria, parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è stata approvata con decreto-legge del Governo, convertito in una legge, la cui approvazione è stata condizionata dal voto di fiducia al Governo. Tanto che se fosse stato diverso l'orientamento del Collegio (rispetto alla scelta legislativa), non ci si sarebbe potuto esimere dal valutare la compatibilità della procedura di approvazione dell'art. 36, comma 2, del D.L. n. 223/2006, con il parametro costituzionale di cui all'art. 111 della Costituzione, che presuppone una posizione di parità delle parti nel processo, posto che, nella specie, l'Amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di parte in causa e di legislatore e che, in questa seconda veste, nel corso del giudizio ha dettato al giudice quale dovesse essere, pro domo sua, la corretta interpretazione della norma sub iudice.

L'intervento è apparso inopportuno anche perché la Pubblica amministrazione, anche quando è parte in causa, ha sempre l'obbligo di essere e di apparire imparziale, in forza dell'art. 97 della Costituzione.

2.6. Con il secondo motivo, il comune ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 9 del D.Lgs. 504/1992, 11 della L. n. 9/1963 e 58, comma 2, del D.Lgs. n. 446/1997, anche sotto il profilo del vizio di motivazione, in quanto la contribuente non avrebbe provato che negli anni 1993/1994 aveva condotto direttamente i suoi terreni agricoli, in qualità di coltivatrice diretta o di imprenditrice agricola, non avendo dimostrato di essere iscritta, in tale qualità, nell'apposito elenco comunale, così come impone l'art. 58 del D.Lgs. n. 446/1997. In realtà, in punto di fatto, la Commissione tributaria regionale afferma che la contribuente A.L. aveva dimostrato di condurre direttamente i terreni in questione, respingendo l'eccezione, prospettata dal comune, secondo la quale l'agevolazione fiscale competeva soltanto a coloro che risultassero iscritti negli appositi elenchi comunali, ai sensi dell'art. 58, comma 2, del D.Lgs..n. 446/1997. Tale eccezione, riproposta come motivo di ricorso, è infondata, perché il precetto contenuto nell'art. 58 citato, non vale per le annualità 1993 e 1994, ma soltanto per il futuro, così ha osservato il giudice di merito, in sintonia con l'insegnamento di questa Corte. (vd. Cass. n. 19375/2003 e n. 13334/2006).

2.7. Conclusivamente, il primo motivo di ricorso deve essere accolto, il secondo, invece, va respinto. La sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al giudice del merito, per le sue ulteriori valutazioni, sulla base del principio di diritto affermato e per la liquidazione delle spese.

P.Q.M.

la Corte accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale del Veneto.

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