Consiglio di Stato
Sezione VI
Decisione 28 giugno 2007, n. 3796
N.3796/2007
Reg.Dec.
N. 8900 Reg.Ric.
ANNO 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 8900/2006, proposto dall’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, in persona del Rettore pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Prof. Luisa Torchia e Tommaso Di Nitto, con domicilio eletto presso lo studio legale “Prof. Avv. Luisa Torchia ed altri s.t.p.”, in Roma, alla via Sannio n. 65;
contro
il prof. G. F., costituitasi in giudizio, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Prof.ri Franco Gaetano Scoca e Aristide Police, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via G. Paisiello 55;
e nei confronti
del Consiglio Universitario Nazionale-Ministero dell’Università e della Ricerca, in persona del legale rappresentante p.t.,
del Ministero dell’Università e della Ricerca, in persona del Ministro p.t., non costituiti;
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo per il Lazio – Roma, sez. III n. 3754/2006;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto la memoria di costituzione in giudizio del prof. F.;
Vista le memorie difensive depositata dalle parti a sostegno delle rispettive posizioni;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla udienza pubblica del 27 aprile 2007 il Consigliere Roberto Giovagnoli, ed uditi altresì l’avv. Torchia e l’avv. Police;
FATTO E DIRITTO
1. Con decreto rettorale n. G 117481 del 28 giugno 2005, il Rettore dell’Università La Sapienza di Roma contestava al prof. F. di aver fatto “ricorso sistematico alla registrazione di colloqui tra professori o di consessi accademici, nonché di studenti frequentatori della Clinica odonotoiatrica effettuati all’insaputa e senza il consenso degli interlocutori in violazione palese delle norme relative al trattamento dei dati personali cui sono tenuti anche i soggetti privati” e “di aver posto in essere comportamente gravemente scorretti nei confronti di colleghi tali da ledere la dignità e l’onorabilità dei medesimi oltre che lesivi del decoro e dell’immagine dell’istituzione universitaria”.
Successivamente, con Decreto Rettorale n. 5301 del 28 febbraio 2006, al prof. F. veniva irrogata per i fatti contestati la sanzione disciplinare della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per la durata di mesi uno.
2. Il T.a.r. Lazio, con la sentenza impugnata ha annullato la sanzione disciplinare, accogliendo il ricorso proposto dal prof. F..
In particolare, secondo il Giudice di primo grado il provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare risulta viziato sotto il profilo della violazione ed errata applicazione del disposto degli artt. 87 e 89 R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, posto che il comportamento del professore non integrerebbe nessuna delle fattispecie di cui all’art. 89, comma 1, r.d. n. 1592/1933.
3. Avverso la predetta sentenza ha proposto appello l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” deducendo i seguenti motivi:
1) Error in iudicando. Erroneità della sentenza nella parte in cui ritiene che il comportamento del prof. F. non integri la fattispecie di cui all’art. 89 lett. c) r.d. n. 1592/1933;
2) Error in iudicando. Erroneità della sentenza nella parte in cui ritiene che il comportamento del prof. F. non integri la fattispecie di cui all’art. 89 lett. d) r.d. n. 1592/1933.
Si è costituito in giudizio il prof. F. chiedendo il rigetto dell’appello.
Alla pubblica udienza del 27 aprile 2007, la causa è stata trattenuta per la decisione.
4. L’appello è infondato.
5. Con il primo motivo di appello l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” censura la sentenza del T.a.r., laddove questa ha escluso che la condotta del prof. F. sia riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 89 lett. c) r.d. n. 1592/1933, che punisce, sotto il profilo disciplinare, l’abituale irregolarità di condotta dei professori universitari.
5.1. Al riguardo, i Giudici di primo grado hanno osservato che la condotta tenuta dal prof. F. non può rilevare in sede disciplinare poiché “non vi è dubbio che tale irregolarità non possa essere ravvisata nel comportamento del ricorrente che, così come riconosciuto dalla giurisprudenza della Cassazione, ha operato una legittima forma di memorizzazione di un fatto storico utilizzabile anche ai fini di prova processuale nell’ambito di un eventuale giudizio penale”.
5.2. Secondo l’appellante, tale ragionamento è erroneo in quanto non tiene conto dell’esistenza nel nostro ordinamento del c.d. principio dell’autonomia della valutazione disciplinare, “in virtù del quale deve essere riconosciuto che un fatto penalmente irrilevante possa avere invece conseguenze disciplinari, anche di notevole rilievo, giacché sono diversi i criteri e i parametri con i quali quello stesso fatto deve essere valutato in sede disciplinare”. Applicando tale principio, sarebbe allora indubbia la rilevanza disciplinare del comportamento contestato al prof. F..
5.3. Il motivo è infondato.
Non c’è dubbio che nel nostro ordinamento valga il principio dell’autonomia della valutazione disciplinare (invocato dall’appellante). Nel caso di specie, tuttavia, il T.a.r. non ha violato tale principio: la sentenza impugnata ha infatti, escluso la rilevanza disciplinare (ai sensi dell’art. 89 lett. c) r.d. n. 1592/1933: abituale irregolarità di condotta) del comportamento posto in essere dal prof. F., non semplicemente perché ha ritenuto tale comportamento penalmente irrilevante, ma, più precisamente, perché ha ravvisato nella condotta contestata al ricorrente l’esercizio di un diritto, segnatamente del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost. (che comprende, ad avviso dei Giudici di primo grado, anche il diritto di raccogliere prove legittime utilizzabili in un eventuale giudizio penale).
Secondo dei giudici di primo grado, in altre parole, quello posto in essere dal prof. F. non è soltanto un comportamento penalmente lecito, ma un comportamento privo del connotato dell’antigiuridicità in quanto posto in essere in presenza di una causa di giustificazione, ovvero nell’esercizio di un diritto.
5.4. Ora, è noto che le cause di giustificazione (sebbene previste in gran parte nel codice penale) siano espressione di principi generali dell’ordinamento, e, come tali, valgono ad escludere che il comportamento posto in essere in loro presenza possa essere foriero di conseguenze negative non solo in sede penale, ma anche in altri settori dell’ordinamento (e, quindi, per quel che qui più rileva, in ambito disciplinare).
Del resto, quando il legislatore ha voluto ricollegare conseguenze “negative” al fatto posto in essere in presenza di una causa di giustificazione lo ha detto espressamente, come è accaduto, ad esempio, per lo stato di necessità che, ex art. 2046 c.c. può, comunque, dar luogo ad un obbligo di indennizzo.
Il problema, quindi, non è tanto se sia stato violato il principio della autonomia della valutazione disciplinare, in quanto anche la valutazione disciplinare, per quanto autonoma, non può che arrestarsi, per il principio di non contraddizione, a fronte di un comportamento posto in essere nell’esercizio di un diritto.
Il vero punctum pruriens consiste nello stabilire se sia corretta, a monte, l’affermazione contenuta nella sentenza, secondo cui il comportamento contestato al prof. F. rappresenti una forma legittima di esercizio del diritto di difesa, in particolare, per usare le parole della sentenza impugnata “una legittima forma di memorizzazione di un fatto storico utilizzabile anche ai fini di prova processuale nell’ambito di un eventuale giudizio penale”.
5.5. Il Collegio ritiene che la conclusione cui è giunto il T.a.r. possa essere condivisa alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale (richiamato nella sentenza impugnata e più volte ribadito dalla Cassazione penale) secondo cui la registrazione fonografica di un colloquio svoltosi tra presenti ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, quantunque eseguita clandestinamente, costituisce una forma di memorizzazione di un fatto storico del quale l’autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo ai sensi dell’art. 234 c.p.p.
E’ evidente allora, che un comportamento diretto ad ottenere una prova documentale legittimamente utilizzabile in sede processuale, non può comportare l’applicazione di una sanzione disciplinare, in quanto, altrimenti, si arriverebbe all’assurdo risultato di sanzionare un atto che costituisce legittimo esercizio del diritto di azione e di difesa in giudizio (ex art. 24 Cost.).
6. Parimenti è infondato è il secondo motivo di appello, volto a censurare la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il comportamento del prof. F. non integri la fattispecie di cui all’art. 89 lett. d) r.d. n. 1592/1933, che punisce quei docenti che compiono “atti in genere, che comunque ledano o la dignità o l’onore del professore”.
Il T.a.r. ha rilevato “come, da un lato, la motivazione dell’impugnato provvedimento sanzionatorio non attenga in alcun modo alla lesione delle dignità e dell’onore di professori universitari, quanto piuttosto dell’Università in quanto tale; dall’altro, che in ogni casi nessuna lesione alla dignità ed all’onore né di professori universitari, né dell’Università in quanto tale può ravvisarsi nei fatti contestati al ricorrente”. Sotto tale ultimo profilo, il Giudice di primo grado, in particolare ha affermato che l’art. 89 lett. d) non può trovare applicazione in quanto “l’addebito contestato al ricorrente […] non può di per sé importare la lesione del bene protetto dalla norma, dovendosi, semmai, individuare il fatto lesivo nel contenuto delle registrazioni che, tuttavia, non può che addebitarsi ai singoli interlocutori e non già all’odierno ricorrente”.
L’appellante censura tali affermazioni sotto deducendo:
- che lo scopo finale dell’art. 89 lett. d) sia quello di punire, sotto il profilo disciplinare, quei comportamenti che, essendo direttamente contrari alla dignità e all’onore del professore che li pone in essere, finiscono per incidere in maniera negativa sul decoro e sull’immagine dell’istituzione universitaria alla quale il docente appartiene. A differenza di quanto sostiene il T.a.r. , dunque, il bene protetto dalla norma è il “decoro delle istituzioni universitarie”, le quali hanno interesse a che i propri docenti non si macchini di comportamenti inopportuni;
- che, nel caso di specie, il comportamento contestato al prof. F. ha profondamente leso il decoro dell’Università come sarebbe dimostrato dagli articoli relativi alla vicenda apparsi sui quotidiani e dalle impressioni negativi (ricavabili in particolare dalla lettura della richiesta di archiviazione) che i P.M. che hanno condotto le indagini hanno avuto dell’ambiente dell’Università.
Anche tale motivo, come si diceva, è infondato.
6.1. In primo luogo, come si è sopra ricordato, il comportamento contestato al Prof.ssa Manzon rappresenta espressione del diritto di difesa (avendo egli raccolto prove per suffragare la successiva denuncia penale), il che, per le stesse ragioni sopra esposte, vale ad escluderne la rilevanza disciplinare anche ai sensi dell’art 89 lett. d) r.d. n. 1592/1933.
6.2. Inoltre, anche ad ammettere che la norma intenda tutelare il decoro dell’Università e non, come pure sembra emergere dal suo tenore letterale, la dignità e l’onore dei professori, nel caso di specie, come correttamente rileva la sentenza impugnata, la lesione dei beni protetti è stata provocata non dal fatto in sé delle registrazioni, ma da quanto è riferito nei colloqui registrati.
In altri termini, ciò che in questa vicenda ha leso l’immagine dell’Università non è stato il fatto che un docente registrava colloqui (avuti con altri docenti e con studenti) al fine di precostituirsi una prova da spendere in sede penale. Il decoro e la reputazione dell’Istituzione universitaria sono stata lesi semmai dalla notizia che all’interno della struttura universitaria esistevano “giochi di potere” e “lotte di successione” (di cui vi è ampia traccia nella richiesta di archiviazione del p.m. e nella successiva ordinanza di archiviazione).
“Giochi di potere” e “lotte di successione” ai quali l’odierna appellata non era probabilmente estranea (come emerge ancora dalla richiesta e dall’ordinanza di archiviazione), ma che certo non hanno avuto causa nei comportamenti sanzionati dal provvedimento disciplinare impugnato. Anzi, in tale contesto, la circostanza che l’Università abbia inteso sanzionare soltanto alcuni dei soggetti che hanno partecipato ai predetti “giochi di potere” è sintomo di un sicuro sviamento nell’esercizio del potere disciplinare
7. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello deve essere respinto.
Sussistono, tuttavia, giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, respinge l’appello indicato in epigrafe.
Spese del giudizio compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 27 aprile 2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:
Claudio VARRONE Presidente
Giuseppe ROMEO Consigliere
Francesco CARINGELLA Consigliere
Bruno Rosario POLITO Consigliere
Roberto GIOVAGNOLI Consigliere Est.
Presidente
CLAUDIO VARRONE
Consigliere Segretario
ROBERTO GIOVAGNOLI MARIA RITA OLIVA
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 28/06/2007
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