giovedì 16 aprile 2009

Regione Puglia, nuove norme in materia di regolamento edilizio

LEGGE REGIONALE 9 marzo 2009, n. 3


“Norme in materia di regolamento edilizio”.



IL CONSIGLIO REGIONALE
HA APPROVATO


IL PRESIDENTE
DELLA GIUNTA REGIONALE


PROMULGA


La seguente legge:


Art. 1
(Regolamento edilizio.
Competenza all’adozione e contenuto)

1. I comuni, nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’articolo 3 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali emanato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, disciplinano l’attività edilizia, con le prescrizioni e i limiti previsti dalla presente legge e dalle norme di settore nazionali e regionali. A tal fine, i comuni si dotano di un regolamento edilizio che, in armonia con le previsioni di cui al comma 2 dell’articolo 4 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia emanato con decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, disciplina le modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi.

2. Con il regolamento edilizio può essere istituita la commissione edilizia comunale e regolamentata la sua attività.

3. A decorrere dal 1° gennaio 2009, il regolamento edilizio deve prevedere, ai fini del rilascio del permesso di costruire per gli edifici di nuova costruzione, l’installazione di impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, in modo tale da garantire una produzione energetica non inferiore a 1 chilowatt (KW) per ciascuna unità abitativa, compatibilmente con la realizzabilità tecnica dell’intervento. Per i fabbricati industriali, di estensione superficiale non inferiore a 100 metri quadrati, la produzione energetica minima è di 5 KW.

4. Non possono essere previste nel regolamento edilizio norme di carattere urbanistico.


Art. 2
(Schema-tipo di regolamento edilizio)

1. La Giunta regionale, previa concertazione con le rappresentanze dei comuni e delle parti sociali, può approvare uno schema-tipo di regolamento edilizio, al quale i comuni possono adeguare il proprio regolamento locale.

2. Per esigenze di uniformità, ovvero per consentire un’omogenea disciplina dell’attività edilizia in specifici settori o con specifiche modalità, ovvero per conseguire specifici obiettivi di pubblico interesse, la Regione può dettare norme che vengono dichiarate espressamente integrative dei regolamenti edilizi comunali e che sostituiscono automaticamente eventuali previsioni di contenuto difforme.


Art. 3
(Procedimento di approvazione)

1. Il regolamento edilizio è approvato dal consiglio comunale garantendo la massima partecipazione pubblica attraverso la pubblicazione della bozza, ricevimento delle osservazioni e controdeduzioni con le modalità stabilite dallo stesso consiglio comunale.

2. Il comune acquisisce il parere preventivo e vincolante dell’azienda sanitaria locale (ASL) in ordine ai contenuti igienico-sanitari del regolamento edilizio.

3. La deliberazione di approvazione del regolamento edilizio viene trasmessa alla Regione, unitamente al regolamento edilizio in formato cartaceo e digitale.


Art. 4
(Regolamenti edilizi vigenti
e regolamenti edilizi con annessi
programmi di fabbricazione)

1. Le norme dettate dalla presente legge valgono anche per le varianti ai regolamenti edilizi vigenti e per i regolamenti edilizi che contengono programmi di fabbricazione a norma dell’articolo 34 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica e disposizioni generali), limitatamente alle norme aventi carattere edilizio di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 1.


Art. 5
(Abrogazione)

1. Il numero 4) del primo comma dell’articolo 15 della legge regionale 31 maggio 1980, n. 56 (Tutela ed uso del territorio), è abrogato.
La presente legge è pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione ai sensi e per gli effetti dell’art. 53, comma 1 della L.R. 12/05/2004, n° 7 “Statuto della Regione Puglia”. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e farla osservare come legge della Regione Puglia.

Data a Bari, addì 9 marzo 2009

VENDOLA




INDICE


Art. 1 (Regolamento edilizio. Competenza all’adozione e contenuto)
Art. 2 (Schema-tipo di regolamento edilizio)
Art. 3 (Procedimento di approvazione)
Art. 4 (Regolamenti edilizi vigenti e regolamenti edilizi con annessi programmi di fabbricazione)
Art. 5 (Abrogazione)

lunedì 13 aprile 2009

No alla pregiudiziale amministrativa, giudice amministrativo deve accogliere mera domanda risarcitoria autonoma

Corte di cassazione Sezioni unite civili Sentenza 23 dicembre 2008, n. 30254

"Il principio di diritto che ne discende e che le sezioni unite enunciano in applicazione dell'art. 363 c.p.c. è dunque questo: - "Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l'illegittimità dell'atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento".

Corte di cassazione Sezioni unite civili Sentenza 23 dicembre 2008, n. 30254

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. - I fatti che hanno dato luogo al giudizio, iniziato davanti al TAR per la Lombardia sezione staccata di Brescia, si possono così riassumere.

2.1. - La Provincia di Mantova, con delibera di giunta 30.4.1999 n. 119, approva il progetto esecutivo della circonvallazione di Medole, ne dichiara la pubblica utilità e fissa il termine di cinque anni, decorrenti dalla data della delibera, per concludere i lavori ed il procedimento di espropriazione.

Seguono, il 18.12.2000, ì decreti di occupazione di urgenza; il 26.10.2001, l'immissione in possesso delle aree; il 6.3.2001 ed il 6.12.2002 la determinazione delle dovute indennità provvisoria e definitiva.

2.2. - Marino G., con il ricorso 1284/2000, unitamente ad altre parti, impugna i decreti di occupazione.

Il TAR dispone una consulenza tecnica per accertare gli eventuali danni arrecati alle aziende delle parti e la possibilità di seguire un percorso alternativo a quello contestato comparando i rispettivi costi e benefici.

2.3. - Il 17.1.2005 è emesso il decreto di espropriazione, che Marino G. impugna con ricorso 476/2005.

2.4. - Il TAR, nei procedimenti riuniti, pronuncia la sentenza non definitiva 19.12.2005 n. 1342.

Quanto al ricorso 1284/2000 proposto per l'annullamento dei decreti di occupazione, ne dichiara, in parte, l'improcedibilità, e ciò riguardo alla domanda di annullamento, perché si é intanto verificata l'irreversibile trasformazione dei suoli, ed in parte ordina la prosecuzione del giudizio, questo per la decisione sulla domanda di risarcimento del danno.

Accoglie il ricorso 476/2005 ed annulla il decreto di espropriazione, perché pronunciato dopo la scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.

3.1. - La Provincia di Mantova impugna la sentenza.

Sostiene, quanto al decreto di espropriazione, che è stato adottato quando la dichiarazione di pubblica utilità era da ritenere fosse ancora efficace; per il caso contrario, chiede sia dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della domanda di annullamento del decreto; chiede di dichiarare inammissibile la domanda di risarcimento del danno.

La sentenza del TAR è anche impugnata con appello incidentale da Marino G.

3.2. - La decisione non definitiva 19.6.2007 n. 1614 della sesta sezione del Consiglio di Stato rigetta il motivo sulla permanente efficacia della dichiarazione di pubblica utilità; rimette all'Adunanza plenaria l'esame degli altri motivi d'appello, tra l'altro per la decisione della questione attinente alla giurisdizione, che si pone quando il decreto d'espropriazione è pronunciato una volta scaduta l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.

3.3. - L'Adunanza plenaria, afferma la giurisdizione del giudice amministrativo, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale.

4. - La decisione 22.10.2007 n. 12 della Adunanza plenaria è impugnata da Marino G.

Al ricorso resiste la Provincia di Mantova che propone anche ricorso incidentale.

5. - Ambedue le parti presentano memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. - Il ricorso principale e quello incidentale hanno dato luogo a distinti procedimenti che debbono essere riuniti perché relativi ad impugnazione della stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).

2.1. - L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella propria decisione, ha prima dichiarato che partì del giudizio sono solo Marino G. - che ha chiesto l'annullamento del decreto di espropriazione e proposto domanda di risarcimento del danno - e la Provincia di Mantova - che ha adottato il decreto di espropriazione ed è il solo ente nei cui confronti la domanda di condanna al risarcimento sia stata proposta.

Ha quindi anzitutto messo in rilievo che la pronuncia di accessione invertita, per sé non impugnata da Marino G., avrebbe impedito la restituzione delle aeree coinvolte nella costruzione dell'opera. E questo perché la strada era pressoché terminata ed aperta al traffico già prima della data di cessazione di efficacia della pubblica utilità.

Poi, ha sottolineato che il TAR non aveva reso alcuna pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno, «proposta e persino quantificata nel corso del relativo grado di giudizio».

Erano perciò intempestive ed inammissibili le relative deduzioni e richieste formulate dalle due parti in sede di appello.

2.2. - La questione di giurisdizione - sulla base di una pluralità di argomenti - è stata risolta nel senso che, se è intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità e ad essa nel suo termine di efficacia seguono l'autorizzazione all'occupazione di urgenza, l'occupazione e la trasformazione dei suoli nell'opera pubblica, spetta al giudice amministrativo la giurisdizione sulle domande di annullamento e risarcimento del danno: e ciò anche se le domande vengono fondate sul fatto che il decreto di espropriazione è stato emesso dopo che gli effetti della dichiarazione di pubblica utilità sono cessati, per la scadenza dei suoi termini finali.

2.3. - Tra i punti che l'Adunanza plenaria ha discusso è stato quello della c.d. pregiudizialità amministrativa. |

La plenaria ha bensì avvertito che si trattava di problema non pertinente - in rapporto alla decisione sul ricorso al suo esame - se non per la sua connessione con la questione di giurisdizione.

Tuttavia, posti in rilievo i singoli argomenti di carattere storico giuridico e logico che convincevano della necessità di riaffermazione del principio della pregiudizialità, anche in considerazione di questo ha enunciato in tema di giurisdizione la conclusione che si è prima riferita.

3.1. - Il ricorso principale contiene tre motivi; quello incidentale uno: tutti sono corredati del quesito di diritto richiesto a pena di inammissibilità dagli artt. 366, n. 4, e 366-bis c.p.c.

3.2. - Secondo l'ordine delle questioni deve essere esaminato per primo il ricorso incidentale.

La Provincia di Mantova vuole sia dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.

Alle Sezioni unite si chiede di enunciare il principio di diritto per cui «le controversie in materia di occupazione appropriativa relative al caso in cui il decreto di esproprio sia emanato quando la dichiarazione di pubblica utilità ha cessato di dispiegare i propri effetti e quando peraltro il fondo oggetto del decreto medesimo ha visto modificata irreversibilmente l'originaria destinazione a favore della destinazione ad opera pubblica, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario».

L'accoglimento del ricorso incidentale comporterebbe come conseguenza l'assorbimento del ricorso principale.

3.3. - Nel ricorso principale, in cui si sostiene che bene è stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo, si osserva che però una pronuncia sul fondo della domanda di risarcimento tuttora pendente davanti al TAR può incontrare ostacolo nelle considerazioni svolte della decisione del Consiglio di Stato sul punto della pregiudizialità amministrativa.

Lo si paventa per la ragione che - secondo la decisione impugnata - il giudice amministrativo non può impartire tutela risarcitoria per gli interessi legittimi se non in presenza di una pronuncia di annullamento dell'atto lesivo.

Ma, obietta la Provincia, che la decisione di annullamento del decreto di espropriazione è già passata in giudicato, sicché le considerazioni sulla pregiudizialità, pur svolte nella decisione, non limitano i poteri di decisione del TAR circa la domanda di risarcimento.

Chiede dunque che il ricorso sia dichiarato inammissibile per difetto di interesse.

3.4. - I tre motivi per cui è chiesta la cassazione con il ricorso principale propongono i quesiti che seguono.

A conclusione del primo, la parte chiede alle Sezioni unite di affermare che «la questione in ordine alla conoscibilità della domanda risarcitoria a prescindere dall'utile esperimento della domanda di annullamento sull'atto lesivo rientra tra quelle proponibili ex art. 360, primo comma, n. 1, e 362 c.p.c.».

Si tratta, dunque, non di un motivo di ricorso, ma della giustificazione della sua ammissibilità.

Gli argomenti cui si affida sono quelli svolti da queste Sezioni unite nelle ordinanze nn. 13659 e 13660 del 13 giugno 2006.

Al secondo motivo corrisponde un quesito con il quale si chiede alle Sezioni unite di affermare che, siccome sulla domanda di risarcimento rivolta al TAR non è stata resa alcuna decisione, il Consiglio di Stato, peraltro non investito a riguardo dì tale domanda da un motivo di appello, non ha il potere giurisdizionale di pronunciarsi direttamente su tale domanda.

Il terzo motivo è formulato a partire dal presupposto che la regola per cui la tutela risarcitoria possa essere impartita dal giudice amministrativo solo se prima l'atto amministrativo lesivo sia stato annullato potrebbe ostacolare l'accoglimento della domanda di risarcimento proposta con il ricorso in annullamento dei decreti di occupazione d'urgenza, perché la domanda è stata bensì proposta, ma il ricorso è stato dichiarato improcedibile, per la sopravvenuta irreversibile trasformazione dei beni, sicché l'annullamento dei decreti d'occupazione è mancato.

Il quesito che conclude il motivo è volto a che sia affermato il principio di diritto, per cui, ai fini della conoscibilità della domanda risarcitoria, il previo annullamento dell'atto amministrativo non è necessario.

4.1. - La considerazione svolta dalla Provincia di Mantova per dire inammissibile il ricorso principale, ovverosia che l'annullamento del decreto di espropriazione è già passato in giudicato, dovrebbe impedire prima di tutto l'esame del suo ricorso.

Ma, da un lato, la sentenza del TAR non era passata in giudicato, perché la Provincia l'ha impugnata sostenendo anche che era stata emessa da giudice carente di giurisdizione, dall'altro la sesta sezione del Consiglio di Stato ha rigettato un diverso motivo di appello, quello volto a far accertare che, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità non era esaurita alla data di emissione del decreto di esproprio. Ha perciò rigettato un motivo intrinseco alla giurisdizione del giudice amministrativo, affermata e non negata, motivo orientato inoltre al rigetto nel merito della domanda G. di annullamento del decreto di espropriazione e non ad un rigetto per difetto di giurisdizione.

Ciò premesso, il motivo per cui la Provincia di Mantova ha chiesto la cassazione della decisione non è fondato.

4.2. - La domanda da Marino G. è stata proposta con ricorso del 2005, per ottenere l'annullamento di un decreto d'espropriazione emesso il 17.1.2005, in un procedimento all'inizio del quale si colloca una dichiarazione dì pubblica utilità pronunciata il 30.4.1999.

L'annullamento è stato chiesto perché, quando si è emesso il decreto, l'efficacia della pubblica utilità era esaurita.

Orbene, il provvedimento impugnato si inserisce in un procedimento caratterizzato dall'iniziale presenza di una dichiarazione di pubblica utilità, cui sono seguite l'occupazione di urgenza e la esecuzione dell'opera pubblica.

Questi elementi di fatto ed i suoi dati temporali collocano la controversia nell'area della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, configurata dalla disposizione, che l'art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205 ha reintrodotto nell'art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 ed è entrata in vigore a decorrere dal 10.8.2000.

Di questa norma la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale con la sentenza 6 luglio 2004, n. 204.

Ma, tenendo conto dell'interpretazione che della portata della propria sentenza la Corte costituzionale ha dato con la successiva sentenza 191 dell'11 maggio 2006, quando ha dichiarato la parziale illegittimità dell'art. 53 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), queste Sezioni unite hanno successivamente e in modo reiterato affermato che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, risultante dalla disposizione richiamata, s'estende alle controversie contro atti e comportamenti, che costituiscano esecuzione di precedenti manifestazioni in forma provvedimentale di potere ablatorio in relazione al bene di cui si discute.

E così, mentre è stata ritenuta appartenere alla giurisdizione ordinaria la domanda intesa alla restituzione d'un fondo occupato dopo che l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità è scaduta (Sez. Un. 16 luglio 2008, n. 19501), è stato per contro affermato che appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le domande cui dà origine l'emissione di un decreto di espropriazione, pur esso sopravvenuto ad efficacia della dichiarazione di pubblica scaduta, ma quando l'occupazione e trasformazione dei fondi si sono consumate prima, com'è nel caso in esame, che ha come antefatto una dichiarazione di pubblica utilità non impugnata, nel cui quadro si è prodotto un fenomeno di occupazione appropriativa (tra le più recenti decisioni in tal senso: Sez. un. 15 luglio 2008, n. 19500; 23 aprile 2008, n. 10444; cui si può aggiungere la sentenza 27 giugno 2007, n. 14794).

5.1. - Con il rigetto del ricorso della Provincia di Mantova che consegue alla dichiarata infondatezza del motivo appena discusso, s'è realizzato quel passaggio in giudicato del capo della sentenza del TAR, di annullamento del decreto di espropriazione, al quale, come si è detto prima, la Provincia ricollegava l'inammissibilità del ricorso G., per difetto di interesse.

5.2. - A questo riguardo si deve osservare che, se G. avesse proposto domanda volta al solo risarcimento del danno prodottogli

dalla irreversibile trasformazione del bene, rimasta non coperta dagli effetti del decreto di espropriazione, l'esito prospettato dalla Provincia sarebbe stato incontestabile.

A G. non si sarebbe potuto riconoscere alcun interesse a ridiscutere il punto se il giudice amministrativo possa erogare la tutela risarcitoria in assenza di un annullamento dell'atto che la parte assume illegittimo e lesivo.

Ma, dalle decisioni del Consiglio di Stato emerge che una domanda di danni è stata anche proposta in connessione con quella di annullamento dei decreti di occupazione.

Nella misura in cui l'esame del fondo di questa domanda possa risultare pregiudicata dalle considerazioni che il Consiglio di Stato ha svolto a proposito della questione della pregiudizialità amministrativa, l'interesse del ricorrente principale a mettere in discussione il punto non può essere già in tesi negato.

5.3. - Tuttavia, dei tre motivi di ricorso, il primo non denunzia un vizio della decisione impugnata, ma serve a sollecitare le Sezioni unite ad esercitare sulla decisione impugnata il sindacato preannunziato nelle ordinanze nn. 13659 e 13660 del 13 giugno 2006 e 13911 del 15 giugno 2006, ed in ciò incontra il dissenso della Provincia di Mantova.

Sicché il punto dovrà essere discusso se ed in quanto altri motivi di ricorso si riveleranno ammissibili.

5.4. - Ora, il secondo motivo è inammissibile.

Come vizio attinente alla giurisdizione è denunziato in effetti un vizio che concerne il procedere e non il decidere.

E questo, perché il vizio non riguarda le condizioni in presenza delle quali la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi verso la pubblica amministrazione è affidata dalla Costituzione o dalla legge ordinaria al giudice amministrativo, anziché ad un altro giudice ordinario o speciale, ma riguarda i presupposti processuali che debbono essere verificati nel caso concreto perché sorga nei giudici amministrativi aditi, di primo o di secondo grado, il dovere di pronunciare sulla domanda di giustizia.

Sicché, se il giudice amministrativo di appello, errando nella applicazione delle norme che regolano il procedimento davanti a sé, non già eroga o rifiuta di erogare la tutela giurisdizionale che gli è affidata, ma ritiene di doverlo fare sebbene manchino gli specifici presupposti per un suo intervento dopo di quello del giudice di primo grado e non prima di quello, il vizio della sua decisione non si presta ad essere sindacato.

5.5. - Il terzo motivo di ricorso non riguarda invece il procedere ma il decidere.

Se, all'esito della discussione sulla questione già esaminata da queste Sezioni unite con le ordinanze del 2006, si pervenisse a confermare quell'indirizzo, il motivo dovrebbe essere scrutinato nel merito.

Ma resta ancora da verificare un punto.

Ed il punto è se, una volta che la decisione pronunciata dalla Adunanza plenaria contiene considerazioni sulla questione della pregiudizialità amministrativa e su tali considerazioni è stata anche basata la decisione sulla questione di giurisdizione, spetti o no alle Sezioni unite verificare se esse hanno o no assunto valore decisorio.

La risposta è che questa verifica rientra nei poteri delle Sezioni unite ed essa si deve concludere in senso negativo, nel senso, cioè, che manca nella decisione del Consiglio di Stato una pronuncia sulla domanda risarcitoria.

La verifica rientra nei poteri delle Sezioni unite perché esse sono richieste di pronunciarsi su un ricorso per cassazione e quindi spetta loro individuare prima di ogni altra cosa se la sentenza impugnata presenti il capo che si assume viziato e perciò in un caso di ricorso contro decisione del Consiglio di Stato, una pronuncia che, in combinazione con quella di primo grado, sia di accoglimento o rigetto di una domanda e poi se tale decisione sia viziata sotto l'opposto profilo d'aver accordato o rifiutato una tutela estranea od al contrario di competenza di quell'ordine di giudici.

Ora, il Consiglio di Stato ha bensì desunto argomento dalla pregiudizialità amministrativa, ritenuta un tratto caratterizzante della tutela giurisdizionale attribuita al giudice amministrativo, per coonestare l'affermazione della giurisdizione, ma ciò con riferimento alla domanda introdotta con il ricorso in annullamento del decreto di espropriazione e non anche in riferimento a quella risarcitoria introdotta con il ricorso in annullamento dei decreti di occupazione, che ha specificamente detto proposta e non decisa, neppure sotto il profilo della ammissibilità.

E conferma di ciò si trae da più elementi per vero decisivi.

Il Consiglio di Stato ha espressamente rilevato che il TAR non s'era pronunciato sulla domanda risarcitoria (ed al riguardo ha richiamato, per dire proposta la domanda, le istanze 23.2. e 29.10.2001 di G., inerenti al ricorso contro i decreti di occupazione).

Ha esaminato in aggiunta al motivo di cui al punto 6, già scrutinato dalla sesta sezione, quelli di cui ai punti 4 e 5, afferenti all'annullamento del decreto di espropriazione.

Infine, siccome si trattava non di un caso in cui la domanda risarcitoria era stata proposta senza che lo fosse stata quella di annullamento, ma di una domanda proposta in seguito a quella di annullamento e questa era stata dichiarata improcedibile non per comportamenti processuali riconducibili al ricorrente, ma per la sopravvenuta irreversibile trasformazione del fondo, il Consiglio di Stato, se avesse inteso riferire la disamina del tema della pregiudizialità anche a quella domanda e con effetti decisori non avrebbe mancato di interrogarsi sul modo d'intendere il principio, come necessità di una tempestiva domanda di annullamento o come necessità, in assenza di un annullamento in sede amministrativa, di un accertamento principale di illegittimità dell'atto lesivo in sede giurisdizionale.

Anche quest'ultimo motivo lo sì deve allora considerare inammissibile.

6. - Il ricorso principale è in conclusione nel suo complesso inammissibile.

Tuttavia non è esaurito il dovere della sezioni unite di pronunciarsi sui ricorsi.

7. - La Corte osserva, infatti, che l'istituto della pregiudizialità amministrativa nei suoi rapporti con la tutela risarcitoria degli interessi legittimi si presenta oggi come questione rilevante e di particolare importanza.

Essa si presterà dunque ad essere discussa dalle Sezioni unite in vista della enunciazione di un apposito principio di diritto, in applicazione dell'art. 363 c.p.c., come già è stato fatto in tema di giurisdizione con la sentenza 28 dicembre 2007, n. 27187, se ne risulterà dimostrato che si tratta di questione che rientra nel sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione, cui l'art. 111, ultimo comma, Cost. assoggetta anche le decisioni del Consiglio di Stato e che l'art. 374, primo comma, in relazione all'art. 362, primo comma, c.p.c. attribuisce alla Corte di cassazione a sezioni unite, attraverso il mezzo del ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione.

8.1. - Prima di accingersi a tale indagine, conviene delimitare lo stesso ambito della questione.

È implicito in quanto si è già osservato, che il campo in cui la questione ha ragione di porsi non coincide con l'intero ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, perché, pur quando la controversia concerne una materia di giurisdizione esclusiva, di pregiudizialità amministrativa si può discorrere solo se si lamenti che la P.A. ha sacrificato o non realizzato un interesse con un suo provvedimento illegittimo, non anche quando un diritto è stato sacrificato con un comportamento, che pur si iscriva in una serie presidiata da un originario atto di esercizio di potere amministrativo.

Perché questo, come è stato già posto in rilievo con la ordinanza 27 giugno 2007, n. 14794 della Corte a sezioni unite, può assumere i caratteri di un fatto giuridico che rileva nel senso di attrarre la controversia all'area della giurisdizione esclusiva, ma non anche di fatto che muta in quella di interesse legittimo la qualificazione come diritto soggettivo che spetta alla situazione sacrificata ed in attesa di tutela.

Detto questo, si nota che la questione muove da un presupposto che oggi si può considerare non più in discussione e condiviso anche da buona parte della giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che dei Tribunali amministrativi regionali.

L'art. 7, comma 3, l. 6 dicembre 1971, n. 1034 - dopo le modifiche che vi sono state apportate con l'art. 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 e con l'art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205 - dispone che il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione e perciò pure nell'ambito della sua giurisdizione di legittimità conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno.

La Corte costituzionale, prima con la sentenza 6 luglio 2004, n. 204 poi con la sentenza 11 maggio 2006, n. 291, ha segnalato il fondamento di legittimità di questa attribuzione e lo ha indicato nell'art. 24 Cost., perciò nel principio di effettività della tutela giurisdizionale, il quale richiede che il giudice cui è affidata la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione sia munito di adeguati poteri.

Sia il Consiglio di Stato e sia questa Corte a Sezioni unite hanno in seguito affermato, in modo costante e coerente, che spetta al giudice amministrativo, in presenza di atti della P.A., espressione di potere, ma connotati da illegittimità e di fatto lesivi, dare tutela al privato anche in forma risarcitoria.

Ragione di permanente incertezza deriva invece dal dissenso tra le Corti su un diverso punto.

Questa Corte, a sezioni unite, con le ordinanze nn. 13659 e 13660 del 2006 ha affermato che, di fronte ad un atto della P.A. che ne sacrifica l'interesse o manca di realizzarlo, la parte, che ha l'onere di rivolgersi al giudice amministrativo per ottenere tutela, può scegliere di chiedere il solo risarcimento del danno.

Per contro, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione che s'è esaminata, ha ribadito l'orientamento per cui la tutela risarcitoria degli interessi legittimi presuppone che la illegittimità sia accertata e perciò, quando l'atto non sia stato già annullato, in sede amministrativa o dal giudice, la domanda risarcitoria non può essere da lui esaminata, se non in presenza di una tempestiva domanda di annullamento.

8.2. - La Corte, a sezioni unite, nelle ordinanze del 2006, attinta la conclusione che la l. 21 luglio 2000, n. 2005, all'art. 7 ha dato al giudice amministrativo la giurisdizione sulla domanda autonoma di risarcimento del danno, ha osservato: «Tutela risarcitoria autonoma significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l'illegittimità di tale agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento né il diritto al risarcimento può essere per sé disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovvero la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità. Dunque il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione».

Più di recente, questa impostazione è stata ribadita dalle Sezioni unite nella ordinanza 16 novembre 2007, n. 23471, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione in relazione a domanda risarcitoria autonoma proposta a giudice ordinario, senza che fosse stato chiesto al giudice amministrativo l'annullamento dell'atto lesivo.

Tuttavia l'impostazione non ha trovato unanimi consensi con la conseguenza che su di essa è dunque necessaria un'ulteriore riflessione.

9. - Contro le decisioni della Corte dei conti e del Consiglio di Stato il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione - così il terzo comma dell'art. 111 Cost., divenuto l'ottavo dopo la l. cost. 23 novembre 1999, n. 2 "Inserimento dei principi del giusto processo nell'art. Ili della Costituzione".

La norma delimita ed al tempo stesso descrive, attraverso l'espressione «per i soli motivi inerenti alla giurisdizione», l'ambito ed i limiti del sindacato per violazione di legge che la Corte a sezioni unite può compiere anche sulle sentenze dei giudici speciali, quando ad essere impugnata è una decisione del giudice amministrativo.

Primo e necessario interprete della norma è la stessa Corte, chiamata a conformare l'esercizio del suo potere giurisdizionale in questo campo sul significato che all'espressione deve essere riconosciuto.

10.1. - Anche a proposito di questa norma, l'interpretazione deve tenere conto della evoluzione che nel tempo l'ordinamento, nel suo complesso, ha conosciuto.

Evoluzione caratterizzata da una molteplicità di fattori.

Tra questi, il rapporto tra diritto comunitario ed ordinamento interno ed il ruolo della giurisdizione nel rendere effettivo il principio del primato del diritto comunitario; la rimozione del limite alla tutela risarcitoria degli interessi legittimi, la caduta del limite dei diritti consequenziali in rapporto alla tutela risarcitoria dei diritti nell'ambito della giurisdizione esclusiva e l'estensione ai diritti consequenziali d'ogni forma di tutela pertinente alla giurisdizione del giudice amministrativo; la coeva progressiva espansione della giurisdizione esclusiva (rispetto alle nove ipotesi regolate dall'art. 29 t.u. 22 giugno 1924, n. 1054); il rilievo assunto dal canone della effettività della tutela e dal principio di unità funzionale della giurisdizione nella interpretazione del sistema ad opera della giurisprudenza e della dottrina; la riaffermazione del rilievo costituzionale del principio del giusto processo; il nuovo ruolo assunto nell'ordine delle fonti dal diritto pattizio internazionale; l'emersione, come corollario del principio di effettività, della regola di conservazione degli effetti prodotti sul piano processuale e sostanziale dalla domanda di giustizia.

10.2. - Giurisdizione - è stato osservato da più parti - è termine che può essere inteso in diversi modi.

Nel tessuto della Costituzione non è oggi possibile dubitare che per giurisdizione deve essere inteso non in sé il potere di conoscere di date controversie, attribuito per una specifica parte a ciascuno dei diversi ordini di giudici di cui l'ordinamento è dotato, ma quel potere che la legge assegna e che è conforme a Costituzione che sia assegnato ai giudici perché risulti attuata nel giudizio la effettività dello stesso ordinamento.

Giurisdizione, nella Costituzione, per quanto interessa qui, è termine che va inteso nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi e dunque in un senso che comprende le diverse tutele che l'ordinamento assegna ai diversi giudici per assicurare l'effettività dell'ordinamento.

Che ciò sia si desume dalla convergenza di più norme della Costituzione: l'art. 24, primo comma, che guarda ai diritti ed agli interessi, sia come situazioni giuridiche di cui le parti sono titolari sia come oggetto del diritto delle parti di agire in giudizio per la tutela di tali situazioni di interesse sostanziale protette dall'ordinamento; l'art. 113, primo e secondo comma, da cui si trae che la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi, contro gli atti della pubblica amministrazione, da un lato è sempre ammessa dinanzi agli organi di giurisdizione amministrativa, dall'altro non può essere limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti; l'art. 111, primo comma, che, mediante i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata, esprime quello di effettività della tutela giurisdizionale.

Se attiene alla giurisdizione l'interpretazione della norma che l'attribuisce, vi attiene non solo in quanto riparte tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia, ma vi attiene pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che dai giudici si possono impartire per assicurare che la protezione promessa dall'ordinamento risulti realizzata, dall'altro i presupposti del loro esercizio.

10.3. - Interessa qui dare giustificazione dell'assunto, che è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca.

La giustificazione può essere svolta avendo riguardo alla tutela risarcitoria come aspetto della giurisdizione esclusiva.

10.4. - Il terzo comma dell'art. 7 della legge TAR - riproducendo nella sostanza la disposizione contenuta nell'art. 30, secondo comma, del r.d. 1054 del 1924 sul Consiglio di Stato - aveva stabilito che nelle materie deferite alla giurisdizione esclusiva dei tribunali amministrativi restavano riservate all'autorità giudiziaria le questioni attinenti a diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di illegittimità dell'atto o provvedimento contro cui si ricorre.

Ma, intervenuto l'art. 13 della l. 19 febbraio 1992, n. 142 in adempimento degli obblighi comunitari ed affermatosi con la sentenza 22 luglio 1999, n. 500 delle sezioni unite il principio per cui, di fronte ad un esercizio illegittimo della funzione pubblica, diritto al risarcimento del danno ingiusto v'era in presenza del sacrificio di una qualsiasi situazione di interesse rilevante da cui fosse derivato danno, la tutela risarcitoria era divenuta ammissibile davanti al giudice ordinario come tutela autonoma, salvi i casi di giurisdizione esclusiva estesa ai diritti consequenziali.

La disposizione è poi ricaduta nell'ambito di applicazione della norma abrogante dettata dall'art. 35.5. del d.lgs. 80 del 1998, sostituito dall'art. 7 lett. e), della l. 205 del 2000, con cui si è stabilito che fosse abrogata ogni disposizione che prevedeva la devoluzione al giudice ordinario delle «controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi».

Con l'art. 7, lett. e), della l. 205 del 2000 è stato anche sostituito il primo comma dell'art. 35.1. del d.lgs. 80 del 1998, ed è stato stabilito che «Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto».

10.5. - Orbene, a proposito della legittimità costituzionale dell'art. 35.1. si deve muovere dal considerare quanto ha osservato la Corte costituzionale non solo nelle sentenze 204 del 2004 e 191 del 2006, ma anche nella sentenza 77 del 2007.

La sentenza della Corte sul tema della translatio iudicii - che trae le conseguenze dal parallelo attuale significato della competenza e della giurisdizione - si presenta innervata da tre ordini di considerazioni.

La pluralità dei giudici costituisce una articolazione interna di un sistema di organi nel suo complesso deputato a dare una risposta di merito alla domanda di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi.

Se la tutela giurisdizionale deve essere effettiva e tanto più riesce ad esserlo in quanto siano messe a frutto le distinte competenze dei vari ordini di giudici; una volta che la domanda dì giustizia sia formulata, le norme processuali, che sono destinate ad assicurare il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale in funzione della migliore decisione, debbono prevedere i congegni che consentono di riparare l'errore compiuto dalla parte nella scelta del giudice, ma anche di superare l'errore del giudice nel denegare la giurisdizione, perché altrimenti il diritto alla tutela giurisdizionale risulterebbe frustrato dalle stesse norme che sono ordinate al suo migliore soddisfacimento.

Come a questa esigenza è informato il sistema delle norme che presiedono alla distribuzione delle competenze nell'ambito dello stesso ordine di giudici, così gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che ciò sia per il sistema delle norme che regolano il riparto della competenza giurisdizionale tra i diversi ordini di giudici.

I principi di unità funzionale della giurisdizione e di effettività della tutela giurisdizionale sono anche alla base delle precedenti decisioni in tema di giurisdizione esclusiva.

Nella sentenza 191 del 2006 la Corte costituzionale ha messo in rilievo l'importanza dell'osservazione già fatta nella sentenza 204 del 2004: non costituire altra materia di giurisdizione esclusiva l'attribuzione al giudice amministrativo del potere di risarcire il danno subito dalla parte a causa delle illegittime modalità di esercizio della funzione amministrativa.

E da un lato ne ha descritto il valore, di «attribuzione alla giurisdizione amministrativa della tutela risarcitoria - non a caso con la medesima ampiezza, e cioè sia per equivalente sia in forma specifica, che davanti al giudice ordinario»; da altro lato ne ha rinvenuto il fondamento di legittimità costituzionale «nella esigenza, coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost. di concentrare davanti ad un unico giudice l'intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica» (all'uopo richiamando la sentenza 22 luglio 1999 n. 500/SU di questa Corte).

10.6. - Il senso di quest'impostazione - secondo la spiegazione che ne ha dato la Corte costituzionale - sta in ciò che, siccome giudice naturale della legittimità della funzione pubblica è il giudice amministrativo, gli artt. 24 e 111 Cost., che postulano l'effettività della tutela giurisdizionale, vengono a porsi come una sufficiente base di legittimazione sul piano costituzionale per una scelta, che trascende la qualificazione sostanziale della pretesa risarcitoria, per concentrare davanti ad un unico giudice l'intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio di quella funzione.

10.7. - La giustificazione che sul piano costituzionale quella Corte ha dato a proposito delle disposizione dettata dal primo comma dell'art. 35 e che l'ha condotta a negare che la domanda del cittadino vada rivolta al giudice ordinario per ciò solo che abbia come oggetto esclusivo il risarcimento del danno è stata dunque, che essa è valsa a realizzare una giurisdizione piena del giudice della funzione pubblica in nome della effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi di fronte alla pubblica amministrazione.

10.8. - Orbene, quando dal giudice amministrativo si afferma che la tutela risarcitoria può essere somministrata dal quel giudice, in presenza di atti illegittimi della pubblica amministrazione, solo se gli stessi siano stati previamente annullati in sede giurisdizionale o di autotutela, si finisce col negare in linea di principio che la giurisdizione del giudice amministrativo includa nel suo bagaglio una tutela risarcitoria autonoma, oltre ad una tutela risarcitoria di completamento.

E perciò, presupposto, in ipotesi, che rientri nei poteri del giudice amministrativo erogare la tutela risarcitoria autonoma, il rigetto della relativa domanda, si risolve in un rifiuto di erogare la relativa tutela.

Ed infatti, tale rifiuto dipenderebbe non da determinanti del caso concreto sul piano processuale o sostanziale, ma da un'interpretazione della norma attributiva del potere di condanna al risarcimento del danno, che approda ad una conformazione della giurisdizione da cui ne resta esclusa una possibile forma.

Ma ciò si traduce in menomazione della tutela giurisdizionale spettante al cittadino di fronte all'esercizio illegittimo della funzione amministrativa ed in una perdita di quella effettività, che ne ha giustificato l'attribuzione al giudice amministrativo.

11.1. - Rientra d'altra parte nello schema logico del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione l'operazione che consiste nell'interpretare la norma attributiva dì tutela, per verificare se il giudice amministrativo non rifiuti lo stesso esercizio della giurisdizione, quando assume della norma un'interpretazione che gli impedisce di erogare la tutela per come essa è strutturata, cioè come tutela risarcitoria autonoma.

11.2. - È pacifico, invero, che possibile oggetto di sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione sia anche la decisione che neghi la giurisdizione del giudice adito.

11.3. - Storicamente, la problematica del giudizio sulla questione di giurisdizione si è venuta costruendo come problema di riparto tra le giurisdizioni.

La più diffusa esperienza giurisprudenziale sull'argomento si è avuta riguardo al confronto tra la giurisdizione del giudice ordinario, che è una giurisdizione sul rapporto, e quella del giudice amministrativo, che, nata come giurisdizione sull'atto, nel quadro non più di una giurisdizione speciale, si va anch'essa trasformando in una giurisdizione sul rapporto, specie sotto il profilo della tutela risarcitoria, dopo il crollo del muro della irrisarcibilità dell'interesse legittimo.

Il modello della giurisdizione esclusiva solo con la legge sui TAR ha preso ad essere effettivamente impiegato dal legislatore in campi diversi da quello, precipuo, delle controversie traenti origine dal rapporto di pubblico impiego e così lo stabilire se i giudici dei due ordini avevano sbagliato nell'esercitare o rifiutare di esercitare la giurisdizione s'è tradotto nel compiere, in base all'ordinamento ed alla interpretazione della pertinente norma di qualificazione, l'operazione d'attribuire alla concreta situazione giuridica dedotta in giudizio come oggetto dì tutela la natura di diritto soggettivo od interesse legittimo.

Lo strumento logico che ne è risultato forgiato - consistente nel verificare se la decisione abbia attuato un «superamento dei limiti esterni della giurisdizione» - ha assunto in questo modo il significato di una certificazione di correttezza dell'operazione ermeneutica compiuta dal giudice, se ed in quanto condotta al solo livello di qualificazione, della situazione soggettiva dedotta in giudizio, alla stregua del diritto oggettivo.

Le norme sulle diverse fattispecie di giurisdizione esclusiva, delineando il loro ambito di applicazione in base alla presenza di fattori ulteriori rispetto alla situazione soggettiva di interesse legittimo hanno comportato invece la necessità di estendere l'opera di qualificazione dei fatti oggetto di giudizio a quelli cui la norma attributiva di giurisdizione ha assegnato la portata di delimitare l'ambito delle controversie costituenti la materia di giurisdizione esclusiva.

Ma, pur così ampliato il campo del suo impiego, la regola dei limiti esterni è in grado di servire allo scopo di espungere dall'area dei motivi attinenti alla giurisdizione ogni segmento del giudizio che si rivela estraneo alla ricognizione della portata della norma che attribuisce giurisdizione, ricognizione che costituisce invece l'oggetto su cui al giudizio del giudice amministrativo si può sovrapporre, modificandolo, quello della Corte di cassazione a sezioni unite

11. 4. - Peraltro, come mostra nel campo della giurisdizione di merito il caso dei ricorsi per l'ottemperanza (artt. 27 n. 4 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 e 7, comma 1, l. 6 dicembre 1971, n. 1034) - che, a ben vedere, integrano una forma di tutela, più che una materia - una questione di giurisdizione si presenta anche quando non è in discussione che la giurisdizione spetti al giudice cui ci si è rivolti, perché è solo quel giudice che secondo l'ordinamento la può esercitare, ma si deve invece di stabilire se ricorrono - in base alla norma che attribuisce giurisdizione - le condizioni perché il giudice abbia il dovere di esercitarla (così, in rapporto al decreto di accoglimento di ricorso straordinario al Capo dello Stato, il configurarsi come giudicato ha potuto essere discusso come questione di giurisdizione da Sez. Un. 2 ottobre 1953, n. 3141 e più di recente Sez. Un. 18 dicembre 2001, n. 2448).

11.5. - È parso che le ordinanze di questa Corte del 2006 non si siano attenute al canone richiamato al punto 11.2. ed abbiano invece preconizzato una invasione dell'ambito proprio della giurisdizione del giudice amministrativo, là dove, interpretata la norma dettata dall'art. 7 della legge TAR nel testo modificato dalla l. 205 del 2000, nel senso che abbia attribuito la tutela risarcitoria degli interessi legittimi al giudice amministrativo, hanno anche detto che nella norma non vi è il limite per cui la domanda di tale tutela allora solo determina nel giudice amministrativo il dovere di giudicarne il fondo, quando dell'atto illegittimo è chiesto od è stato già pronunciato l'annullamento.

Ma, da un punto di vista logico e per quello che si è detto, questo assunto non convince.

Postulare che la norma che attribuisce ad un giudice una forma di tutela lo faccia sulla base di un determinato presupposto positivo o negativo, dalla cui presenza ne dipenda l'erogazione, per un verso, come si è visto, inerisce al giudizio che quel giudice deve compiere per stabilire in che limiti la giurisdizione gli è attribuita.

Per altro verso, il sindacato che assume a suo oggetto questo tratto si arresta e non oltrepassa il limite oltre il quale non può essere esercitato, perché si appunta su un aspetto della norma e si traduce in una decisione della Cassazione, che vincola ad esercitare la giurisdizione rispettando i tratti essenziali della forma di tutela in questione, senza pretendere di costringere a riconoscere rispettati dalla domanda né le condizioni processuali d'una decisione di merito né ì fatti che danno in concreto diritto alla tutela richiesta.

11.6. - Le sezioni unite sono in conclusione autorizzate a passare alla discussione della questione di particolare importanza in precedenza anticipata, al punto 7.

12.1. - Punto di partenza nell'indagine sulla disciplina positiva della tutela degli interessi legittimi come dei diritti soggettivi non può non essere l'art. 24, primo comma, Cost.

Dal quale - perché dispone che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi - non pare sia possibile trarre se non il significato che dei diritti e degli interessi, di cui è titolare, ognuno è arbitro di chiedere tutela e che perciò a ciascuno spetta non solo di scegliere se chiedere tutela giurisdizionale, ma anche di scegliere di quale avvalersi, tra le diverse forme di tutela apprestate dall'ordinamento, per reagire al fatto che l'interesse sostanziale della parte, protetto dall'ordinamento, sia rimasto insoddisfatto.

Queste sezioni unite, nelle ordinanze del 2006 e del resto in consonanza con diffusi orientamenti della dottrina, alla luce della Costituzione e dello stadio di evoluzione dell'ordinamento, avevano già avuto modo di porre l'accento sulla insostenibilità di precedenti ricostruzioni della figura dell'interesse legittimo e della giurisdizione amministrativa, che il primo configuravano come situazione funzionale a rendere possibile l'intervento degli organi della giustizia amministrativa, e della seconda predicavano la natura di giurisdizione di diritto oggettivo, e dunque di mezzo direttamente volto a rendere possibile, attraverso una nuova determinazione amministrativa, il ripristino della legalità violata e solo indirettamente a realizzare l'interesse del privato.

12.2. - Altro punto di riferimento è rappresentato, per ciò che interessa qui, dall'art. 113, primo e secondo comma, Cost. e dal precetto in essi contenuto, che è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giustizia ordinaria o amministrativa e che tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione.

Il precetto è venuto ad assumere ulteriore concretezza a cavallo della fine del '900, quando, con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, la riflessione compiuta dalle sezioni unite con la sentenza 500 del 1999 sulla vicenda della risarcibilità degli interessi legittimi e la disciplina al riguardo introdotta infine con la l. 21 luglio 2000, n. 205, ha finito con l'essere acquisito che, se l'ordinamento protegge una situazione di interesse sostanziale, in presenza di condotte che ne impediscono o mancano di consentirne la realizzazione, non può essere negato al suo titolare almeno il risarcimento del danno, posto che ciò costituisce la misura minima, e perciò necessaria di tutela di un interesse, indipendentemente dal fatto che la protezione assicurata dall'ordinamento in vista della sua soddisfazione, sia quella propria del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo.

12.3. - Lo sbocco cui conduce il confluire di questa acquisizione nell'alveo dei principi desunti dagli artt. 24 e 113 Cost. è che, per i diritti soggettivi come per gli interessi, spetta al loro titolare tutela sul piano risarcitorio e, se a questa si aggiunge altra forma di tutela, spetta al titolare della situazione protetta, in linea di principio, scegliere a quale far ricorso in vista di ottenere ristoro al pregiudizio provocatogli dall'essere mancata la soddisfazione che è attesa attraverso la condotta altrui.

12.4.1. - L'ordinamento, come assoggetta con norme di diritto sostanziale l'esercizio dei diritti a termini di prescrizione o di decadenza, così dispone con norme di diritto processuale circa i tempi di accesso alla tutela giurisdizionale; esclude in casi specifici determinate situazione soggettive dall'attribuzione di una tra le forme di tutela invece in via generale riconosciute a situazioni dello stesso tipo e, quando riconosce più forme di tutela in concorso tra loro, può prevedere regole di coordinamento nell'atto di farle valere.

È in questo quadro che si inserisce il tema del rapporto tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria, rispetto alle situazioni di interesse legittimo.

12.4.2. - Così, in diritto amministrativo europeo, delle decisioni delle Istituzioni della Comunità prese nei suoi confronti la parte può chiedere l'annullamento per motivi d'illegittimità nel termine di sessanta giorni da quando ne ha avuto conoscenza, mentre ad un eguale termine non è soggetta l'azione per responsabilità delle Istituzioni comunitarie sul piano extracontrattuale.

La elaborazione giurisprudenziale di questo sistema - la cui ricostruzione, peraltro, appare alla dottrina italiana non sicura - sembra non escludere la possibilità che in sede di azione di danni si abbia un accertamento incidentale circa l'illegittimità dell'atto non impugnato, anche se registra un sicuro orientamento volto a negare il risarcimento almeno in un definito settore, in particolare quando la relazione controversa intercorre solo tra il ricorrente e la istituzione pubblica e la domanda di danni tende allo stesso risultato che si sarebbe potuto conseguire con l'azione di annullamento.

12.4.3. - Il diritto civile presenta, da noi, in campo societario una specifica disciplina della invalidità delle delibere delle società di capitali.

Dove è negata la legittimazione all'azione di annullamento ed è data l'azione di danni (art. 2377, quarto comma, c.c.), il termine per proporre la domanda di risarcimento non è diverso da quello dell'azione di impugnazione (art. 2377, sesto comma).

V'è dunque, la specifica previsione di un termine di esercizio per l'azione di danno.

D'altro canto, il diritto societario prevede ipotesi, in cui non sì può pronunciare l'invalidità della delibera, ma la si può accertare in funzione della condanna al risarcimento del danno (artt. 2377 penultimo comma; 2379-ter secondo comma e 2504-quater secondo comma).

È dunque la tutela demolitoria ad essere impedita - dalla sostituzione della delibera o dalla sua avvenuta esecuzione - non lo stesso accertamento dell'invalidità della delibera, in funzione della ammessa tutela risarcitoria.

12.4.4. - Nel campo del diritto del lavoro, ad una problematica di rapporti tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria, dà luogo la disciplina del licenziamento e della sua impugnazione (artt. 6 ed 8 della l. 15 luglio 1966, n. 604; 8 della l. 20 maggio 1970, n. 300).

L'orientamento della giurisprudenza al riguardo è nel senso che la mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro (Cass. 12 ottobre 2006, n. 21833).

L'inoppugnabilità preclude sì al lavoratore oltre alla tutela reale della reintegrazione nel posto di lavoro, di rivendicare tutela sul piano risarcitorio per il danno costituito ed originato dalla mancata percezione degli emolumenti altrimenti spettanti.

Ciò non toglie, però, che l'ingiustizia del licenziamento resta tale ed è perciò suscettibile di accertamento se si presenta come componente di una più ampia condotta lesiva, cioè quando ha concorso a provocare un danno, diverso da quello patrimoniale costituito dalla perdita degli emolumenti.

12.4.5. - Nei rapporti tra privati ed in materia contrattuale, la scelta tra i mezzi di reazione all'inadempimento - la condanna all'adempimento o la risoluzione del contratto - è lasciata alla parte che lo subisce, ma vige la regola di coordinamento per cui la prima non può essere più chiesta, quando lo è stata la seconda, mentre ad ambedue ed a loro completamento si accompagna la tutela risarcitoria, che tuttavia può essere esperita al posto delle altre (art. 1453 c.c.).

12.5.1. - Le situazioni qui considerate - non a caso desunte dal dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ferve sull'argomento - mostrano che, nel campo del diritto civile, rispetto ad uno schema generale di raccordo tra le tutele, rappresentato dalla soluzione offerta dell'art. 1453 c.c., soluzioni specifiche sono approntate in riferimento a rapporti, che vivono in un più complesso quadro organizzativo, e nei quali, siccome si considera prevalente l'esigenza di stabilità dello stato di fatto originato dall'atto, si tende a limitare nel tempo la sua invalidibilità, non escludendo la tutela risarcitoria.

Tecnica non ignota, ora, anche al diritto amministrativo (art. 246.4. del Codice dei contratti pubblici, il d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163).

12.5.2. - Appare dunque che la regolazione del rapporto, tra le forme di tutela che rendono possibile soddisfare l'interesse protetto e tutela risarcitoria dello stesso interesse, può essere attuata in modi diversi, che a loro volta riflettono da parte del legislatore la valutazione delle esigenze proprie di specifici tipi di rapporti, sicché a proposito di tale regolazione non si può affermare la necessità logica che riguardi nello stesso modo ogni concreta situazione di interesse riconducibile ad un medesimo schema tipico.

13.1. - Nelle ordinanze del 2006 le sezioni unite hanno osservato che è certo nella disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni soggettive assoggettando a termini di decadenza l'esercizio dell'azione, come si è visto quando ha assoggettato in campo societario al medesimo termine l'azione di impugnazione e quella di risarcimento spettante ai soci non legittimati all'esercizio della prima.

Ma si è anche osservato che una norma siffatta oggi manca.

13.2. - Si postula, però, che dall'art. 7, quarto comma, della legge TAR - quale è risultato dalle modificazioni, che vi sono state apportate, per il tramite dell'art. 35.4. del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, dall'art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205 - si trae che il previo annullamento dell'atto impugnato costituisca presupposto del riconoscimento di un diritto al risarcimento.

Ciò, perché il risarcimento v'è detto eventuale ed è considerato quale oggetto di un diritto, che come specie rientra tra gli altri diritti patrimoniali consequenziali.

E perché, si potrebbe forse aggiungere, vi si dice che il tribunale conosce «di tutte le questioni relative al risarcimento del danno» e non - come in disposizioni dettate in tema di giurisdizione esclusiva - anche delle «controversie risarcitorie».

Se non che, se il significato da attribuire alla disposizione fosse questo, la replica sarebbe allora che la norma ha tratto alla tutela risarcitoria che completa quella di annullamento e non alla tutela risarcitoria autonoma, che è oggetto dì discussione.

13.3. - Che la tutela risarcitoria autonoma rientri tra quelle che secondo l'ordinamento pertengono all'interesse legittimo deriva dalla natura sostanziale di tale situazione giuridica soggettiva e, se corrisponde alle viste esigenze di effettività della tutela giurisdizionale degli interessi che ad erogarla sia il giudice amministrativo, non può poi dipendere da questo che la fruizione concreta di tale tutela sia condizionata da un presupposto che attiene invece alla tutela di annullamento.

La tutela giurisdizionale si dimensiona su quella sostanziale e non viceversa.

13.4. - Anche là dove regole di comportamento si traducono in regole di validità dell'atto, la circostanza che la parte che potrebbe avere interesse all'annullamento dell'atto non lo chieda non comporta che esso divenga valido o cessi di essere rilevante la contrarietà del comportamento alla sua regola.

Nel diritto civile, la parte non perde il diritto di far valere l'invalidità se l'altra pretende l'esecuzione del contratto (art. 1442, quarto comma, c.c.) e d'altro canto può sempre chiedere il risarcimento del danno derivato dal comportamento che l'altra ha tenuto nell'indurla a contrarre.

Nel diritto amministrativo, l'inoppugnabilità non si traduce in convalidazione del provvedimento illegittimo, di cui resta possibile l'annullamento dall'amministrazione che lo ha emesso.

E perciò se, per non esserne stata chiesta la sospensione, l'atto non perde efficacia e può continuare ad essere eseguito, il comportamento tenuto, prima nell'adottarlo e poi nell'eseguirlo, non perde i suoi tratti di comportamento illegittimo, fonte di responsabilità, per il fatto che dell'atto neppure sia stato poi chiesto l'annullamento.

Lo stesso vale a proposito del comportamento consistito nel mantenere l'atto o nel darvi esecuzione per essere mancata la domanda di annullamento, anche se il non averlo la parte chiesto può rilevare come comportamento che ha concorso a provocare il danno.

Pensare diversamente significa trasformare l'onere della parte di attivarsi nel proprio interesse per l'annullamento in un dovere della parte di collaborare con l'amministrazione a renderla edotta della illegittimità dei propri atti.

Passando poi dal piano del diritto sostanziale a quello del diritto processuale, la pregiudizialità dell'annullamento non può essere desunta sul piano sistematico da caratteristiche che si dicono intrinseche alla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto giudice cui è commessa rispetto agli interessi legittimi la tutela demolitoria.

Dal fatto che il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione generale di legittimità, non abbia il potere di dichiarare il dovuto modo d'essere del rapporto, ma solo quello di accertare la illegittimità dell'atto ed annullarlo, sì che è all'amministrazione che torna a spettare di dover provvedere (peraltro nel rispetto dell'effetto conformativo della pronuncia di annullamento), non segue che non possa accertare la responsabilità derivante alla P.A. dall'esercizio illegittimo della funzione.

Oggetto della domanda di risarcimento del danno è il diritto a ad ottenerlo e su ciò si forma il giudicato, mentre l'accertamento sui singoli aspetti della situazione di fatto che genera la responsabilità sono accertati in via incidentale.

Quando si discute sul se spetti il diritto al risarcimento del danno, per pervenire a riconoscerlo, si deve accertare che la parte ha subito un danno per effetto della mancata realizzazione del suo interesse e questo a causa dell'esercizio illegittimo della funzione pubblica e dunque si esercita un potere che nulla ha a che vedere con quello di disapplicazione, che al contrario consiste nel tenere per non prodotti quegli effetti di un atto, che rilevano come presupposto della legittimità del provvedimento, esso oggetto della domanda di annullamento.

13.5. - La teoria della pregiudizialità affonda del resto la sua origine in presupposti che l'attuale stadio di evoluzione della tutela giurisdizionale degli interessi mostra non essere più riferibili all'intero spettro di questa.

Più indici normativi testimoniano della trasformazione in atto dello stesso giudizio sulla domanda di annullamento, da giudizio sul provvedimento in giudizio sul rapporto: ciò che è stato puntualmente messo in rilievo dalla dottrina, in riferimento all'impugnazione, con motivi aggiunti, dei provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all'oggetto del ricorso (art. 21, primo comma, legge TAR, modificato dall'art. 1 della l. 205 del 2000); al potere del giudice di negare l'annullamento dell'atto impugnato per vizi di violazione di norme sul procedimento, quando giudichi palese, per la natura vincolata del provvedimento, che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (art. 21-octies, comma 1, della l. 241 del 1990, introdotto dall'art. 21-bis della l. 11 febbraio 2005, n. 15); al potere del giudice amministrativo di conoscere della fondatezza dell'istanza nei casi di silenzio (art. 2, comma 5, della l. 241 del 1990, come modificato dalla l. 14 maggio 2005, n. 80 in sede di conversione del d.l. 14 marzo 2005, n. 35.

13.6. - Non mancano poi i casi in cui l'annullamento non è in grado di procurare alcuna soddisfazione all'interesse protetto, perché era in giuoco il solo interesse del ricorrente ed è trascorso il tempo in cui avrebbe potuto esserlo: ed allora, per ammettere il ricorso, si è costretti a postulare un interesse all'annullamento, perché questo sarebbe il tramite necessario per accedere ad una pronuncia di condanna al risarcimento del danno.

Come non mancano i casi in cui il danno deriva non dall'atto, infine adottato in senso conforme all'interesse di chi lo ha richiesto, ma dal ritardo con cui è stato emesso.

14. - Si può dire in definitiva - nel solco delle ordinanze del 2006 - che la parte, titolare d'una situazione di interesse legittimo, se pretende che questa sia rimasta sacrificata da un esercizio illegittimo della funzione amministrativa, ha diritto di scegliere tra fare ricorso alla tutela risarcitoria anziché a quella demolitoria e che tra i presupposti di tale forma di tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo non è quello che l'atto in cui la funzione si è concretata sia stato previamente annullato in sede giurisdizionale o amministrativa.

Il principio di diritto che ne discende e che le sezioni unite enunciano in applicazione dell'art. 363 c.p.c. è dunque questo: - "Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l'illegittimità dell'atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento".

15. - Le spese di questo grado del giudizio si prestano ad essere dichiarate interamente compensate in ragione dell'eguale negativo esito dei ricorsi proposti dalle due parti.

P.Q.M.

La Corte di cassazione, a sezioni unite, riuniti i ricorsi, rigetta l'incidentale e dichiara inammissibile il principale; pronuncia, ai sensi dell'art. 363 c.p.c., il seguente principio di diritto: - «Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l'illegittimità dell'atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento»; compensa le spese del giudizio di cassazione.

Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23 dicembre 2008, n. 30254

Obbligazioni pecuniarie,interessi legali, danno,onere della prova

Cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 16 luglio 2008, n. 19499

" nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, cod. civ. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 cod. civ.; - è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata; - il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti; - in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa"


Cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 16 luglio 2008, n. 19499
Presidente Carbone
Relatore Amatucci
Pm Martone - difforme
Ricorrente I. - Controricorrente R.Q.Spa
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Varie società editrici si opposero, con atti distinti, a diversi decreti ingiuntivi emessi nei loro confronti dal pretore di Roma su istanza dell'I.XXX per il pagamento di somme dovute per omesso versamento di contributi assicurativi e relative sanzioni civili relativamente a periodi compresi tra il 1980 ed il 1986. Dedussero che, a seguito della fiscalizzazione di cui all'art. 1 della legge n. 782/1980, le somme non erano dovute e, in subordine, che l’I.YYY, che chiamarono in giudizio unitamente al ministero del tesoro, era tenuto a restituire quanto percepito in eccesso.
Con sentenza 15496 del 1996 il pretore respinse le opposizioni e condannò l'IYYY a tenere indenni le società opponenti di quanto avrebbero dovuto pagare all'IXXX in base ai decreti ingiuntivi.
Decidendo con sentenza n. 14271 del 2003 sugli appelli proposti ed in parziale accoglimento dell'appello incidentale condizionato proposto dalla R. E. s.p.a. (anche quale incorporante di R. E.Q. s.p.a.), la sezione lavoro del tribunale di Roma ha, per quanto in questa sede interessa, condannato l'IYYY alla restituzione dei contributi indebitamenti versati dalla predetta società per l'ammontare di € 110.982,29, "oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo, dalla data di notificazione all'IYYY dei ricorsi in opposizione ai decreti di ingiunzione fino al soddisfo".
Ha ritenuto il tribunale che, secondo quanto affermato da Cass. n. 6420/2001, ai fini del risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria ex art. 1224, comma 2, cod. civ., la semplice qualità di imprenditore del creditore rileva come elemento presuntivo idoneo a far ritenere che la somma, se restituita tempestivamente, sarebbe stata reinvestita nell'attività produttiva, con conseguente neutralizzazione degli effetti della svalutazione monetaria.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'IYYY, affidandosi ad un unico motivo, col quale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1224 e 2697 cod. civ. e vizio di motivazione per essere stato il maggior danno da svalutazione monetaria riconosciuto in contrasto col principio enunciato da Cass. nn. 9910/03 e 14970/02; principio secondo il quale, a tale fine, il creditore non può limitarsi ad allegare la propria qualità di imprenditore, essendo invece tenuto, in base al generale principio dell'onere della prova, a fornire indicazioni in ordine al danno subito per effetto dell'indisponibilità del denaro determinata dall'inadempimento (quale, ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), giacché altrimenti si darebbe luogo ad un meccanismo di automatica rivalutazione dei crediti, analogo a quello previsto per i lavoratori subordinati dall'art. 429 cod. proc. civ..
Ha resistito con controricorso la R. Q. s.p.a. (nuova denominazione della R. E. s.p.a.), che ha depositato anche memoria illustrativa.
3. L'esame del ricorso è stato rimesso dal primo presidente a queste sezioni unite a seguito di ordinanza interlocutoria della sezione lavoro n. 2990 del 19.12.2006, depositata il 12.2.2007, per il ravvisato contrasto di giurisprudenza in ordine alla sufficienza della qualità di imprenditore del creditore ai fini della presumibilità di impieghi antinflattivi della somma non tempestivamente versata dal debitore.
Con la predetta ordinanza la sezione lavoro, premesso che il caso di specie concerne sicuramente un credito pecuniario ordinario, rileva che si sono formati diversi orientamenti giurisprudenziali, sostanzialmente riducibili a due, sull'applicazione dei principi enunciati dalla innovativa sentenza delle sezioni unite n. 3776/1979 in ordine alla prova che, nelle obbligazioni pecuniarie, il creditore appartenente alla categoria degli imprenditori deve offrire perché possa essergli riconosciuto il maggior danno da svalutazione monetaria, rispetto a quello già coperto dagli interessi legali:
- secondo un primo orientamento, è sufficiente dedurre la qualità di imprenditore per ritenere provato, per effetto di presunzione collegata alla qualità professionale, il maggior danno in questione (vengono citate: Cass., s.u. n. 2318/83, sez. I n. 1403/98, sez. I n. 5732/99, sez. II n. 409/00, sez. II n. 1770/01, sez. lav. n. 6420/01, sez. lav. n. 10304/02, sez. lav. n. 2113/03, sez. III n. 58/04, sez. III n. 13829/04, sez. III n. 14767/04, sez. III n. 20807/04, sez. I n. 4885/06, sez. II n. 5860/06);
- secondo un diverso orientamento, invece, il pur legittimo ricorso al notorio ed a presunzioni non può prescindere dall'assolvimento, da parte del creditore, ancorché appartenente ad una categoria soggettiva come quella degli imprenditori, di un onere quantomeno di allegazione, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto delle sue qualità personali e dell'attività in concreto esercitata, il particolare danno lamentato possa essersi verosimilmente prodotto (vengono indicate come espressive di tale indirizzo: Cass., sez. un. n. 2564/84, sez. un. n. 2368/86, sez. II n. 5678/99, sez. lav. n. 1036/02, sez. lav. n. 14970/02, sez. I n. 10860/03, sez. lav. n. 12634/04, sez. I, n. 2613/06, sez. lav. n. 6153/06). Fondamento del secondo degli indirizzi indicati - afferma ancora la sezione lavoro - è, in sintesi, che gli automatismi risarcitori, al di là degli interessi di mora, sono previsti dal diritto positivo nella sussistenza non solo dell'elemento soggettivo (qualità del creditore) ma anche oggettivo (qualità del credito): spunti di sostegno a tale ricostruzione sarebbero rinvenibili nelle argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 459 del 2000 e nelle disposizioni del d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, recante "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi dei pagamenti nella transazioni commerciali".
Motivi della decisione
1. È opportuno verificare preliminarmente se la decisione ed il testo normativo appena citati offrano effettivamente sostegno alla seconda delle ricostruzioni prospettate. 1.1. Con sentenza 2 novembre 2000, n. 450 la Corte costituzionale, chiamata a sindacare la regola della non cumulabilità di rivalutazione ed interessi, già prevista per i crediti di lavoro dall'art. 429 cod. proc. civ. secondo l'interpretazione ampiamente consolidata di tale disposizione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, limitatamente alle parole "e privati", nella parte in cui in buona sostanza riconosce(va) al lavoratore solo la maggior somma tra l'ammontare degli interessi e quello della rivalutazione monetaria; ciò sulla scorta del rilievo che ai crediti di lavoro, in considerazione della loro natura, deve riconoscersi un'effettiva specialità di tutela rispetto alla generalità degli altri crediti, sicché non è giustificabile che essa sia collocata "all'interno della disciplina generale di cui all'art. 1224 cod. civ. sulla responsabilità contrattuale da inadempimento" (così la motivazione, sub 7.1.). È dunque ben vero che la Consulta ha avuto riguardo alla particolarità del credito (retribuzione) ed alla sua funzione di assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, ma ciò in ragione della ravvisata necessità di una tutela speciale, normativamente assicurata dal cumulo di rivalutazione ed interessi (benché non possa dirsi costituzionalizzato - ha avvertito il Giudice delle leggi - il meccanismo previsto dall'art. 429, comma 3, cod. civ.). Ha, infatti, dichiaratamente ritenuto che il riconoscimento della maggior somma tra rivalutazione ed interessi, secondo quanto appunto previsto dalla norma dichiarata incostituzionale, si risolvesse nel collocare il trattamento dei crediti di lavoro all'interno della disciplina generale dell'art. 1224 c.c. Ha dunque offerto spunti per un'interpretazione di tale disposizione in senso se mai opposto a quello prospettato dalla sezione lavoro, posto che per i crediti di valuta si pone non già un problema di cumulo di rivalutazione ed interessi, ma solo di possibile riconoscibilità del maggior danno da svalutazione indipendentemente da specifiche allegazioni probatorie: dunque, in definitiva, sotto il profilo aritmetico, della maggior somma tra interessi legali e svalutazione monetaria.
1.2. Il d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (recante "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi dei pagamenti nella transazioni commerciali"), richiamato senza ulteriori specificazioni, agli artt. 1 e 2 prevede, con talune esclusioni, che le relative disposizioni si applichino ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale (contratti tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo); stabilisce che "il creditore ha diritto alla corresponsione di interessi moratori, ai sensi degli artt. 4 e 5, salvo che il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato da causa a lui non imputabile" (art. 3); correla il saggio degli interessi a quello del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato in un certo giorno e maggiorato di sette punti (art. 5); dispone che il creditore ha diritto al risarcimento dei costi di recupero del credito, "salva la prova del maggior danno, ove il debitore non dimostri che il ritardo non sia a lui imputabile" (art. 6). Non è dato rinvenire automatismi risarcitori, quanto piuttosto la determinazione di un tasso degli interessi moratori collegato all'effettivo costo del denaro, o a questo addirittura superiore; è anzi previsto che il debitore possa sottrarsi al pagamento degli interessi se dimostra che il ritardo deriva da impossibilità non imputabile (mentre tale possibilità è esclusa quanto agli interessi legali dovuti dal giorno della mora ex art. 1224, comma 1, cod. civ.) ed è espressamente contemplata la prova del maggior danno, purché il debitore non dimostri la non imputabilità del ritardo. Si tratta in ogni caso di una disciplina particolare che, se non altro per l'elevatezza del tasso, non sembra offrire spunti per l'adozione di un'interpretazione dell'art. 1224, comma 2, cod. civ. sfavorevole al creditore imprenditore.
2. Conviene allora, in vista della soluzione del problema del quale queste sezioni unite sono investite, ripercorrere la storia dell'evoluzione della giurisprudenza in ordine alla prova del danno da svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie. Con la fondamentale sentenza n. 3776/79 (pres. Novelli, est. Scanzano, seguita dalla conforme n. 5572/79) le sezioni unite predicarono la liberalizzazione più ampia possibile nel rispetto dei principi tradizionali un anno prima affermati da Cass., n. 4463/77; principi intanto disattesi da Cass., n. 5670/78, la quale aveva sostanzialmente ritenuto - secondo i commenti fortemente critici della dottrina prevalente - che, insorta la mora debendi, le obbligazioni di valuta dovessero essere trattate come quelle di valore, sicché la somma originariamente dovuta "andava necessariamente rivalutata alla stregua di indici pubblicizzati di sicura attendibilità". Fu dunque ribadito che nei debiti originariamente pecuniari, per i quali vale il principio nominalistico, la svalutazione monetaria verificatasi durante la mora non giustifica alcun risarcimento automatico che possa essere attuato con la rivalutazione della somma dovuta. Ma si affermò anche che non ha bisogno di essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell'acquisto di beni o servizi o comunque in forme remunerative; che risponde infatti alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori ma è strumento di scambio, dotata appunto di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo; che il prudente apprezzamento del giudice in ordine alle presumibili modalità di impiego può essere formato eventualmente anche con valutazioni equitative, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ.; che, infine, l'orientamento tradizionale andava rimeditato anche "perché non dà adeguato rilievo a presunzioni di ordine oggettivo", che furono ricollegate all'appartenenza del creditore ad una delle categorie creditorie di cui appresso.
Le sezioni unite si pronunciarono nuovamente negli anni successivi con le sentenze nn. 2318/83, 2564/84 e 2368/86 (pres. Tamburrino, est. Cantillo), l'ultima delle quali dette spazio ai cosiddetti "criteri personalizzati di normalità", riaffermando che nelle obbligazioni pecuniarie il danno da svalutazione non si identifica col fenomeno inflattivo e che incombe pertanto al creditore dimostrare che il pagamento tempestivo lo avrebbe messo in condizione di evitare o limitare gli effetti economici depauperatori che l'inflazione produce per tutti i possessori di denaro; ma chiarendo anche che tanto il creditore può fare avvalendosi di presunzioni e dati economici acquisiti dalla comune esperienza e riferiti a categorie economiche socialmente significative ("imprenditore", risparmiatore abituale", "creditore occasionale", "modesto consumatore" "o altre enucleabili in relazione a più particolari modalità di impiego del denaro"). Con specifico riguardo alla categoria del creditore esercente attività imprenditoriale si affermò che possono essere fatte valere presunzioni di due tipi: a) quelle connesse con il normale impiego del denaro nel ciclo produttivo, per cui l'esistenza e l'ammontare approssimativo del danno possono essere desunti dal risultato medio dell'attività in un certo periodo, come suggerito dalle sentenze del 1979; b) quelle connesse al costo del denaro, precisamente allo scarto fra interesse legale e tasso di mercato dell'interesse praticato dalle banche alla migliore clientela per il credito a breve termine (prime rate), con la precisazione che tale criterio ha carattere primario, perché attiene al danno emergente, è altresì ancorato ad un parametro certo di facile rilevazione e, soprattutto, è l'unico possibile per un'azienda che non produca utile, ma sia in pareggio o in perdita, non essendovi allora un guadagno cui commisurare la presumibile entità della somma mancata (così la motivazione, sub 9).
Conclusero le Sezioni unite che, pertanto, l'altro criterio risulta applicabile solo quando l'imprenditore espressamente deduca il mancato guadagno; ed affermarono "che l'onere probatorio, pur non potendosi attestare alla qualità professionale, si atteggia diversamente per ciascuno dei due criteri ritenuti più appropriati per questa figura: in relazione al criterio del maggior costo del denaro, il creditore deve dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito; in relazione al criterio del mancato guadagno, invece, è tenuto a fornire gli elementi necessari a stabilire la redditività del denaro investito nell'impresa, sicché la prova - basata in gran parte su vicende proprie della singola impresa - spesso presenta maggiore complessità" (sub. 13, lettera b, della motivazione). Non affermarono, dunque, che l'imprenditore era tenuto a provare di aver fatto ricorso al finanziamento delle banche durante la mora, ma si riferirono genericamente alla dimostrazione di "condizioni atte a presumere".
Criteri specifici furono fissati anche per il "risparmiatore abituale", per il "creditore occasionale" e per il "modesto consumatore": - si disse che al primo faceva carico l'onere di allegare e dimostrare la qualità degli investimenti abitualmente effettuati, sicché la presunzione operava in riferimento all'uguale destinazione che egli avrebbe dato alla somma non pagata ed all'ammontare del relativo reddito (interessi di titoli di Stato, rendimento di azioni, etc.); - si ritenne che, per il secondo, era consentito presumere l'impiego mediante deposito presso istituti di credito, con conseguente commisurazione del danno alla remunerazione media dei depositi nel periodo di mora; - si affermò per il terzo che, essendo presumibile che egli avrebbe destinato la somma alla immediata soddisfazione dei propri bisogni familiari e personali, così realizzando la moneta al suo valore attuale e conseguentemente sottraendosi agli effetti depauperativi della svalutazione, era del tutto appropriato il riferimento agli indici Istat per la determinazione forfettaria del (maggior) danno.
Ancora al criterio personalizzato di normalità le sezioni unite si riferirono con sentenza n. 5299/89, con la quale fu ribadita la possibilità di una presunzione generalizzata di spesa immediata da parte del semplice consumatore e della determinabilità del danno da ritardato pagamento in riferimento agli indici Istat delle variazioni dei prezzi al consumo, "così semplificandosi al massimo l'assolvimento dell'onere della prova ... ed ancorando, al tempo stesso, la liquidazione del danno a parametri oggettivi e di agevole liquidazione".
Può dunque dirsi che, nella seconda metà degli anni ’80, il regime probatorio relativo al maggior danno da svalutazione monetaria per il ritardato pagamento dei debiti pecuniari (ex art. 1224, comma 2, cod. civ.) risultò governato dalle seguenti regole: a) il creditore imprenditore era gravato da un particolare onere probatorio solo in caso di richiesta di un maggior danno corrispondente ai risultati utili della sua impresa (lucro cessante), mentre poteva avvalersi di una presunzione di tipo, quasi oggettivo, fondata su criteri personalizzati di normalità, in ordine al maggior danno ancorato allo scarto tra il tasso degli interessi legali ed il prime rate (danno emergente), essendo comunque tenuto a dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito; b) il semplice consumatore poteva pretendere un maggior danno corrispondente alle differenze tra indici Istat e tasso legale di interesse, nel periodo della mora, indipendentemente da ogni specifica prova di impiego; c) per il creditore occasionale si aveva senz'altro riguardo al tasso medio sui depositi bancari; d) il risparmiatore abituale era invece tenuto a provare come normalmente investiva il denaro ed a quale tasso.
Senonché - osservò criticamente la dottrina - soltanto l'imprenditore ed il consumatore (e quest'ultimo solo in ragione del censo o della modesta entità della somma dovutagli) erano, se pur non senza gravi difficoltà, astrattamente suscettibili di essere inseriti in una categoria determinata, mentre apparivano difficilmente etichettabili i creditori occasionali ed i risparmiatori abituali. Soprattutto perché il creditore sovente non è in grado egli stesso di stabilire, ex post, cosa avrebbe davvero fatto del denaro che gli era dovuto ma che non aveva tempestivamente avuto, in quanto il problema dell'impiego si sarebbe posto, in relazione alle contingenze ed alle propensioni del momento, solo se e quando lo avesse davvero ricevuto; sicché si dava in tal modo la stura ad una serie di complicazioni processuali destinate ad offrire risultati di scarsissima attendibilità, data l'ovvia propensione del creditore ad evitare un inquadramento sfavorevole o nel quale la prova si presentasse complessa e, per converso, quello del debitore a prospettare l'inserimento del creditore in una categoria nella quale il maggior danno fosse più difficile da provare o di entità meno gravosa per il convenuto.
Negli anni successivi la prevalente giurisprudenza si attestò comunque sulla posizione secondo la quale, in caso di ritardato pagamento di un debito pecuniario ad un imprenditore commerciale, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria non si rende necessario che egli fornisca la prova concreta di un danno causalmente ricollegabile all'indisponibilità dell'importo, ben potendosi dedurre in tale situazione, in base all'id quod plerumque accidit, che in caso di tempestivo adempimento la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata in modo tale da essere sottratta agli effetti della svalutazione (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 600/86, 742/86, 809/86, 6483/87, 4666/90, 1403/98 e 5732/99 della I sezione civile; nn. 35/85, 1492/87, 2161/87, 12343/97 e 4184/98 della II sezione, n. 6231/86 della III sezione, nn. 1244/88, 3014/89 e 12381/91 della Sezione lavoro).
Una giurisprudenza minoritaria ritenne, per contro, che il pur legittimo ricorso al notorio ed alle presunzioni da parte del giudice non può prescindere dall'assolvimento da parte del creditore, quantunque imprenditore commerciale, di un onere quantomeno di allegazione che consenta al giudice di merito di verificare se il particolare danno allegato (anche da svalutazione) possa essersi verosimilmente prodotto (così Cass., nn 1212/86, 2368/86, 2690/87, 4344/93, 5517/97, 5678/99). Più numerose le sentenze che hanno affrontato il tema negli anni 2000, ancora una volta prevalentemente risolto nel senso che è sufficiente che non sia controversa la qualità di imprenditore del creditore perché possa essere riconosciuto il richiesto maggior danno da svalutazione monetaria (tra le altre, Cass., nn. 15059/00, 2816/06, 4885/06 e 19927/07 della I sezione; nn. 409/00, 1770/01, 13133/03 e 5860/06 della II sezione; nn. 317/02, 14909/02, 58/04, 20807/04, 13829/04, 5008/05 e 22986/05 della III sezione; nn. 14089/00, 6420/01, 10304/02 e 2113/03 della sezione lavoro; hanno per contro ritenuto che occorrano allegazioni specifiche, pur nell'ambito della categoria di appartenenza, tra le altre, Cass., sez. I, n. 4919/03; sez. II, n. 6327/00; nonché le sentenze della sezione lavoro nn. 14970/02, 9910/03, 12634/04, 2613/06, 6153/06; oltre a Cass. Sez. un., n. 16871/07, della quale si dirà specificamente più avanti). Emblematiche dei due contrapposti indirizzi, per le argomentazioni addotte, sono le sentenze n. 14089/2000 da un lato, e 14970/02 e 12634/04 dall'altro, tutte della Sezione lavoro.
2.1. La prima, pronunciata in fattispecie pressoché identica a quella ora in scrutinio, s'è fatta puntuale carico dell'argomento secondo il quale il ricorso a categorie tipiche finirebbe anch'esso col determinare un automatismo di rivalutazione del credito contrario al principio nominalistico e farebbe venir meno la distinzione tra obbligazioni di valuta ed obbligazioni di valore. Ha tuttavia rilevato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere di acquisto della moneta; che, infatti, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione, nei debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie damni e pone problemi di esclusiva natura probatoria; che ritenere notoria l'entità del fenomeno inflattivo e probabilisticamente rilevante la destinazione del danaro allo scambio non significa affatto derogare al principio nominalistico, ma solo adottare un criterio di valutazione che tiene conto degli interessi delle parti ed è conforme alla comune esperienza ed al comune sentire.
Ha dunque ricordato che, in base a tali principi, alcune decisioni di questa Corte avevano conseguentemente affermato che il danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria è per qualsiasi creditore, per la parte che non sia già coperta dagli interessi legali, non inferiore alla misura dell'inflazione della moneta, che ne costituisce l'elementare dato probatorio, salvo che esso assuma un diverso, maggiore valore per il singolo creditore in relazione al comprovato uso che della somma oggetto dell'obbligazione intendeva fare. Pertanto, salvo questa prova diversa, il danno da svalutazione può essere determinato sulla base degli indici ufficiali dell'inflazione in relazione al costo della vita (sono citate Cass. nn. 123/83, 651/84, 3356/85). Ed ha concluso che, in effetti, "non è dubbio che la mancata disponibilità del danaro da parte del creditore costituisce obiettivamente un danno e non ha bisogno di alcuna prova di carattere soggettivo, salva la possibilità da parte del debitore di provare il concorso del fatto colposo del creditore, ai sensi dell'art. 1227 del codice civile. Di conseguenza, il creditore che intenda ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale deve solo allegare gli indici ufficiali dell'Istat. Il creditore, invece, che ritenga che la mancata disponibilità del danaro abbia inciso sul suo patrimonio in misura superiore agli interessi legali e alla svalutazione ufficiale, dovrà provare il maggiore danno: dovrà provare, ad esempio, di aver dovuto rinunciare a investimenti particolarmente vantaggiosi o di essere dovuto ricorrere a prestiti particolarmente onerosi".
2.2. Opposte le conclusioni di Cass. 14970/02, pronunciata anch'essa in fattispecie di domanda di restituzione di contributi indebitamente versati all'IYYY. Con tale sentenza la stessa Sezione lavoro, dichiaratasi a sua volta pienamente consapevole dell'orientamento appena illustrato, ha tuttavia ritenuto (richiamando Cass., nn. 11870/92, 5517/97, 5678/99, 9965/01): a) che collegare alla sola qualità di imprenditore la presunzione di un impiego antinflattivo del denaro e, dunque, di un maggior danno da svalutazione monetaria durante la mora, finirebbe per stravolgere il criterio fondamentale dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ., risolvendosi in un'ingiustificata soluzione di favore per il creditore il quale, per beneficiare del risarcimento, dovrebbe solo provare di appartenere ad una determinata categoria economica; b) che una tale conseguenza avrebbe ben poca giustificazione anche sotto il profilo sistematico, comportando l'introduzione di un meccanismo di automatica rivalutazione analogo a quello di cui all'art. 429 cod. proc. civ. senza alcun fondamento normativo e, anzi, nel contesto di un'opposta tendenza legislativa, in cui il divieto di cumulo rappresenta la regola ed in cui una sostanziale valorizzazione dei crediti pecuniari, anche contrattuali, in relazione a particolari caratteristiche del creditore, necessiterebbe ancor più di un'esplicita previsione normativa.
Le conclusioni della citata sentenza 14970/02 sono state condivise dalla successiva 12634/04 che, ancora una volta relativa al danno da ritardo nella restituzione di somme indebitamente versate all'IYYY, contrapponendosi a Cass. 14089/00, ha ribadito che il maggior danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie non può essere riconosciuto indipendentemente dall'osservanza di uno specifico onere di allegazione e prova da parte del creditore (quantunque imprenditore) per due sostanziali ordini di ragioni: c) perché si deve escludere che la svalutazione costituisca danno di per sé, stante l'operatività del principio nominalistico (art. 1277 c.c.) derogato specificamente dal legislatore soltanto per particolari crediti pecuniari, come i crediti di lavoro, ai sensi dell'art. 429, comma terzo, c.p.c.; d) perché osta alla identificazione del danno mora-torio nella diminuzione di valore della moneta il rilievo che "il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto; tale danno, quindi, può derivare esclusivamente dall'impiego che il creditore avrebbe fatto della somma se ne avesse conseguito la disponibilità tempestivamente (es. autofinanziamento e reimpiego nella produzione, acquisto di valori mobiliari, interessi bancari, ecc.), cosicché deve ritenersi indispensabile (non potendo il giudice determinare autonomamente il tipo di impiego) che siano forniti elementi che consentano al giudice di ritenere, anche in via presuntiva, alcune forme di impiego più verosimili di altre".
3. Allo stato, dunque, le principali tesi in materia sono tre:
1) quella secondo la quale nei debiti di valuta, quale che sia la categoria cui appartiene il creditore, il maggior danno da svalutazione monetaria rispetto a quello che non sia già assorbito dagli interessi legali moratori, va riconosciuto in via generalizzata e presunta, fermo l'onere del creditore che assuma di aver subito un danno ancora maggiore di provare che avrebbe fatto un uso del denaro tale da garantirgli un rendimento superiore al tasso di inflazione (lucro cessante), ovvero che a causa dell'inadempimento ha dovuto procurarsi denaro a tassi più onerosi (danno emergente); e salva la facoltà del debitore di offrire comunque la prova contraria;
2) quella secondo la quale il maggior danno da svalutazione va correlato alla sola categoria creditoria cui il creditore appartiene in relazione alla più probabile forma di impiego del denaro;
3) quella secondo la quale l'appartenenza ad una categoria creditoria non è comunque sufficiente a giustificare il riconoscimento del maggior danno correlabile alle forme di impiego tipiche della categoria nella quale il creditore è iscrivibile (soprattutto se imprenditore), essendo egli comunque gravato da uno specifico onere quantomeno di allegazione in ordine al verosimile impiego che avrebbe fatto della somma dovutagli, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto di dette qualità personali e professionali, il danno denunziato possa essersi effettivamente prodotto (in difetto di quella allegazione, alcune sentenze affermano che non possono riconoscersi che gli interessi legali, come la citata n. 12634/04; altre, che tale tipo di conseguenza va tratto solo per il danno eccedente il tasso di svalutazione, come Cass., sez. lavoro, n. 6153/06).
Va osservato che nessuna delle tre è in tutto conforme ai principi enunciati da queste Sezioni unite nel 1986, il cui trasparente scopo fu quello di semplificare, mediante il ricorso a presunzioni di tipo generalizzato in relazione alla categoria di appartenenza del creditore, le modalità della prova del maggior danno da svalutazione. Si trattò di una soluzione intermedia tra quella che richiedeva la rigorosa e quasi sempre impossibile prova dell'avvenuta predisposizione di un impiego alternativo del denaro non tempestivamente pagato e quella di chi invece riteneva che, in caso di mora, il maggior danno da svalutazione è in via generale presunto in misura pari al tasso di inflazione in relazione alle caratteristiche proprie del denaro, destinato per sua natura ad essere speso o investito in impieghi tali da mettere chi lo possegga al riparo, quantomeno, dalla svalutazione. La terza tesi, che formalmente ne segue gli enunciati letterali, finisce infatti col non assecondarne lo spirito, segnatamente nella sua più rigorosa versione; la seconda è a questo conforme, ma ne disattende le prescrizioni testuali in relazione al creditore imprenditore; la prima è quella che maggiormente se ne discosta, ma è anche quella che, a parere del collegio, tiene in maggior conto i non appaganti risultati applicativi della soluzione dell'inquadramento dei creditori in categorie, cui collegare in via presuntiva il tipo di impiego che del denaro avrebbero fatto se fosse stato loro tempestivamente dato e, dunque, l'entità del maggior danno durante la mora del debitore. A parte, invero, la categoria dell'imprenditore (per la quale pure, come s'è rilevato, non vengono adottate soluzioni univoche), l'inquadramento del creditore in una qualsiasi delle altre, o in quelle ulteriori che le sezioni unite del 1986 pure prospettarono potessero essere in seguito configurate e che non sono state invece mai elaborate, si è rivelata di assai problematica praticabilità, non sussistendo parametri di riferimento sufficientemente univoci per definire i caratteri propri di ogni categoria. E la stessa categoria degli imprenditori - per la quale, invece, i parametri per una qualificazione palesemente sussistono - non vale, a ben vedere, ad offrire criteri di maggiore attendibilità delle possibili inferenze induttive, posto che a quello che pretendesse come maggior danno la differenza tra il tasso legale d'interesse ed il prime rate (peraltro non più rilevato a partire dal 2004 e, secondo le sezioni unite del 1986, ottenibile quasi sulla base della sola appartenenza alla relativa categoria) poterebbe obiettarsi che già alla data di insorgenza della mora la redditività marginale media dei propri investimenti era inferiore al tasso praticato dalle banche alla migliore clientela nei prestiti a breve termine; ovvero, se superiore, che male il creditore aveva fatto a non ricorrere al credito bancario (con conseguente applicazione dell'art. 1227, comma 2, cod. civ.), ovvero che non era comunque prevedibile dal debitore che non lo facesse (con conseguente irrisarcibilità del danno differenziale ex art. 1225 cod. civ.).
I bisogni ed i desideri che il denaro vale a soddisfare sono d'altronde troppi e troppo intimamente connessi anche al modo d'essere di ognuno, nonché agli eventi di cui ciascuno è nella vita protagonista, spettatore o vittima, perché l'uno o l'altro creditore sia suscettibile di essere tout court qualificato -come consumatore, o risparmiatore, o creditore occasionale, essendo vero invece che ognuno è o può essere l'una o l'altra cosa, o l'altra ancora, o tutte insieme in relazione a ciascuna frazione dell'importo ed a seconda delle contingenze economiche generali e personali del momento, dell'entità del credito, dei propri progetti e così via. Per altro verso, le prorompenti esigenze di semplificazione dell'istruzione probatoria impongono, a distanza di circa un quarto di secolo, soluzioni più snelle, anche alla luce dei dati costituiti dall'incessante aumento del contenzioso civile, dall'allungamento dei tempi medi di definizione del processo, dal nuovo principio della sua ragionevole durata, proclamato dall'art. 111, comma 2, Cost. (nel testo introdotto con legge costituzionale n. 2 del 1999). Si verte, del resto, in situazioni che recano in se stesse il germe dell'inevitabile approssimazione della statuizione giudiziale, come avvertivano le stesse Sezioni unite del 1986; nelle quali, dunque, l'equazione "categoria creditoria = presunta, oggettivamente personalizzata modalità di impiego del denaro" presenta incognite non inferiori, in prima battuta, a quelle proprie dell'equazione "creditore = maggior danno da svalutazione corrispondente all'incremento dei prezzi al consumo, ovvero alla redditività delle più comuni forme di impiego alternative alla spesa".
4. Non sussistono d'altro canto i paventati pericoli che i debiti di valuta ricevano in tal modo una disciplina identica a quella propria dei debiti di valore, con sostanziale pretermissione del principio nominalistico di cui all'art. 1277 cod. civ.; o che le conseguenze dell'inadempimento finiscano per divenire, per qualsiasi credito di denaro, identiche a quelle "speciali" che l'art. 429, comma 3, cod. proc. civ. contempla per i crediti di lavoro; ovvero che sia sostanzialmente disapplicato il principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ..
4.1. Sul primo punto va infatti osservato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere d'acquisto della moneta. Solo che, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione in quanto il denaro vale solo a misurare e ad esprimere un valore necessariamente attuale, nei debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie damni. La circostanza che una somma di denaro, come quantità di pezzi monetari dedotta in obbligazione, conservi integra la propria idoneità solutoria quale che sia l'alterazione nel tempo del suo valore in termini di potere d'acquisto (non altro è il 'significato e non altra la conseguenza del nominalismo monetario), non esclude che la diminuzione del suo valore durante il periodo di mora debendi si risolva in un danno tutte le volte che il creditore agli effetti della svalutazione si sarebbe sottratto, spendendo o investendo il denaro non tempestivamente versatogli in impieghi con remuneratività superiore al tasso di inflazione. Facendone, cioè, l'uso connaturale alla sua intima essenza, volta che se il denaro è l'unico bene intrinsecamente insuscettibile di offrire qualunque utilitas diretta è anche il solo che consente, mediante lo scambio, di procurare immediatamente quelle ricavabili da qualsiasi altro bene (è questa la giustificazione economica del rendimento del denaro dato a mutuo), sicché è del tutto contraria ai dati di comune esperienza l'ipotesi della mera conservazione improduttiva da parte del creditore di un bene ontologicamente destinato allo scambio o all'investimento. Se ne mostrò d'altronde consapevole lo stesso legislatore del 1942 all'atto della redazione del codice civile; al punto n. 592 (in fine) della relazione al re del ministro guardasigilli si legge infatti testualmente: "L'alterazione del valore della moneta dovuta può verificarsi durante la mora del debitore. Il caso non è previsto espressamente, perché esso si risolve in un danno, che è risarcibile secondo gli artt. 1218 e 1224, 2° comma". Neppure è possibile che si creino confusioni di sorta sul piano processuale, posto che nei debiti di valore (tipica l'obbligazione di risarcimento del danno) la rivalutazione non va neppure domandata, essendo il giudice tenuto d'ufficio alla liquidazione in valori monetari attuali; mentre nei debiti di valuta vanno chiesti sia gli interessi moratori sia il maggior danno (anche da svalutazione, secondo l'impreciso ma corrente lessico giudiziario; e tuttavia, più esattamente, da intervenuta impossibilità, per fatto del debitore, che il creditore si sottraesse agli effetti della svalutazione) , risultando altrimenti inficiata da vizio di ultrapetizione la sentenza che riconoscesse gli uni o l'altro.
4.2. Quanto alla temuta possibilità che i crediti pecuniari ordinari e quelli di lavoro finiscano con l'essere trattati allo stesso modo, s'è già rilevato che per i crediti di cui all'art. 429, comma 3, cod. proc. civ. interessi e svalutazione si cumulano, mentre nei debiti di valuta il maggior danno (anche da svalutazione) è dovuto, ex art. 1224, comma 2, cod. civ., solo per la parte che non sia già coperta dagli interessi moratori.
4.3. Quanto alla pretesa disapplicazione dell'art. . 2697 cod. civ. che deriverebbe dal ritenere presunta (ma, rectius, normale), una modalità di impiego del denaro tale da consentire al creditore di sottrarsi agli effetti della svalutazione, è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico e pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva. Ebbene, è senz'altro conforme alla realtà dell'esperienza positiva che il denaro sia speso in relazione alla sua primaria destinazione allo scambio, ovvero impiegato in rassicuranti forme remunerative tali da garantire un rendimento superiore al tasso di inflazione, qual è quello dei titoli di stato, costantemente eccedente l'incremento dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati rilevati dall'Istat.
4.4. Quanto, infine, all'argomento- (addotto da Cass. Sez. lav. n. 12634/04) che "il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto", deve rilevarsi che l'osservazione si attaglia ai debiti di valore, nei quali il denaro viene appunto in considerazione come strumento di misura di un valore (mensura), ma non è conferente in ordine ai debiti di valuta, nei quali il denaro è dedotto in obbligazione come ammontare di pezzi monetari (mensuratum). Sicché, come la variazione del valore di una cosa si misura comparando fra loro le diverse quantità di moneta necessarie per scambiarla in tempi diversi con denaro, così la variazione del "valore" del denaro si misura comparando tra loro le diverse quantità di pezzi monetari necessari, in tempi diversi, per procurarsi la medesima cosa o le medesime cose. Cose e pezzi monetari dovuti e non dati, il cui valore sia mutato durante la mora, possono o meno aver prodotto un danno da diminuzione di valore a seconda dell'impiego che ne avrebbe fatto il creditore: "possono" (non "devono"), giacché se la loro destinazione era la mera conservazione, il danno da diminuzione di valore durante la mora sarà in ogni caso insussistente; ma se la destinazione era lo scambio o l'investimento, il danno andrà commisurato alla diminuzione di valore, o al costo affrontato dal creditore per procurarsi quel che gli era dovuto (cose o denaro), o ancora alle conseguenze economiche negative subite per non esserci riuscito.
5. Tanto precisato in linea di principio, va qui detto che le vicende che connotarono gli anni '70 e '80, durante i quali il tasso di svalutazione monetaria fu pressoché costantemente superiore a quello degli interessi legali, talora in misura assai rilevante, con una differenza che toccò i 16.1 punti percentuali nel 1980, indussero il legislatore a modificare l'art. 1284, comma 1, cod. civ., dapprima elevando il tasso degli interessi legali dal 5 al 10% in ragione di anno (art. 1, 1. 26.11.1990, n. 353), e poi riportandolo al 5% ma stabilendo che esso può essere annualmente modificato dal Ministro del tesoro "sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell'anno" (art. 2, comma 185, 1. 23.12.1996, n. 662).
Da allora, fatta eccezione per una pressoché insignificante differenza nell'anno 2000 (e per quella preannunciata come verosimile nell'anno 2008 in corso, per "il quale il tasso di inflazione pare collocarsi intorno al 3,6% su base annua in relazione al momento di redazione della presente sentenza), il tasso di interesse è stato costantemente superiore al tasso ufficiale di aumento dei prezzi al consumo, sicché la svalutazione è risultata normalmente assorbita per intero dagli interessi legali, con conseguente perdita di rilevanza del problema relativo al risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria; problema che, in relazione alle periodiche determinazioni del Ministro del tesoro, non dovrebbe essere ulteriormente configurabile, se non in casi assolutamente marginali ed in misure scarsamente significative, correlabili all'intervallo di tempo tra l'ipotetico aumento dell'indice medio dei prezzi al consumo ed il successivo adeguamento per l'anno successivo.
Resta il fatto che il tasso di rendimento lordo delle più comuni forme d'investimento è apprezzabilmente più elevato del tasso degli interessi legali: dal 1991 al 2008 i valori relativi al rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi ed i valori del tasso legale d'interesse sono stati, infatti, di anno in anno, rispettivamente i seguenti: 13,779 e 10 (1991); 12,876 e 10 (1992); 13,555 e 10 (1993); 8,815 e 10 (1994); 11,949 e 10 (1995); 10,043 e 10 (1996); 6,757 e 5 (1997); 5,212 e 5 (1998); 3,556 e 2,5 (1999); 5,187 e 2,5 (2000); 4,928 e 3,5 (2001); 4,512 e 3 (2002); 3,672 e 3 (2003); 3,631 e 2,5 (2004); 3,244 e 2,5 (2005); 3,332 e 2,5 (2006); 4,167 e 2,5 (2007); 4,22 e 3,8 (fino a giugno del 2008). Fatta dunque eccezione per l'anno 1994, nel quale il rendimento dei titoli di Stato fu inferiore al tasso legale, va allora constatato che la più comune e prudente forma di investimento del denaro ha una redditività superiore al tasso dell'interesse legale, con la conseguenza che, per il debitore di un'obbligazione pecuniaria, in linea di massima continua a poter essere economicamente conveniente non adempiere tempestivamente, così lucrando la differenza tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore quando adempirà la propria obbligazione.
Il che è esattamente il contrario dell'intenzione del legislatore (la cui considerazione è imposta dal criterio ermeneutico di cui all'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale), certamente non determinatosi alle modifiche normative di cui s'è detto sopra al fine di creare un incentivo economico all'inadempimento, ma a tanto indotto dall'ovvia considerazione che l'ordinato svolgimento dei rapporti economici fra i consociati costituisce un beneficio per la collettività per una serie di ragioni la cui intuitività esime da una specifica enumerazione. L'effetto di disincentivazione dell'inadempimento (e, di riflesso, la positiva ricaduta sulla diminuzione del contenzioso civile e sulla semplificazione del processo) è appunto collegato ad una soluzione che renda il debitore consapevole del fatto che la promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si risolverebbe, comunque, nel riconoscimento a suo favore di un maggior importo corrispondente quantomeno all'utile economico minimo che il debitore ha tratto o che avrebbe potuto trarre dalla conservazione, medio tempore, del denaro che doveva dare e che non ha dato. Ed è qui appena il caso di ricordare come, senza eccezione alcuna, tutte le istituzioni del Paese da tempo annoverino la inappagante funzionalità della giustizia civile (la quale dipende soprattutto dai lunghi tempi di definizione, a sua volta correlati alla variabile niente affatto indipendente del numero delle cause promosse) fra le ragioni di uno sviluppo economico inferiore a quello possibile, segnatamente sotto il profilo dell'abbassamento della propensione agli investimenti.
Tutto insomma concorre all'adozione di un'interpretazione che si risolva nel riconoscere al creditore di somme di denaro non corrisposte dal debitore in mora un maggior danno - ex art. 1224, comma 2, cod. civ. - corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali (se inferiore). E tanto del tutto in linea con la ratio legis del novellato art. 1284, comma 1, cod. civ., il quale prevede un meccanismo che sconta l'inevitabile riferibilità al futuro dell'eventuale intervento adeguatore del Ministro del tesoro ("con decreto da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica non oltre il 15 dicembre dell'anno precedente a quello cui il saggio si riferisce", ex art. 1284, comma 1, cod. civ.), le cui conseguenze vanno tuttavia, in linea di principio, sopportate non già dal creditore insoddisfatto, ma dal debitore che versi anche in quella situazione di qualificato ritardo nell'adempimento qual è la mora (ex art. 1219 cod. civ.): quanto si va osservando è infatti estraneo agli interessi corrispettivi di cui all'art. 1282 c.c. ed a quelli compensativi di cui all'art. 1499 c.c., per i quali non è configurabile un danno da ritardo fino alla data di insorgenza della mora debendi.
Tale conclusione risulta, poi, definitivamente corroborata dalla lettera dell'art. 1284, comma 1, cod. civ., nel testo novellato nel 1996, laddove espressamente vincola il Ministro del tesoro a determinare il saggio d'interesse "sulla base" del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali e "tenuto conto" del tasso d'inflazione registrato nell'anno: la differenza tra le due espressioni è invero significativa del primario rilievo che il legislatore ha conferito al parametro di riferimento costituito dal rendimento dei titoli di Stato ai fini dell'apprezzamento della normale redditività del denaro.
Le considerazioni fin qui svolte comportano il superamento della suddivisione dei creditori in categorie, a ciascuna delle quali si attagli la presunzione di una personalizzata modalità di impiego del denaro, restando invece l'ambito della possibile personalizzazione affidato, esso solo, alla prova. Sarà così consentito al debitore di provare - pur con le difficoltà connesse alla raffigurabilità di un ipotetico ed economicamente inefficiente comportamento altrui - che dal proprio ritardo nell'adempimento il creditore non ha subito un danno, o che lo ha subito in misura inferiore al saggio degli interessi legali, sicché nulla gli è dovuto, in aggiunta a quelli, per maggior danno (perché, ad esempio, dedito al deposito del denaro in conto corrente, la cui remuneratività è notoriamente assai bassa, ovvero perché i suoi investimenti nel periodo si sono risolti in una perdita, etc.); così come sarà consentito al creditore di provare che il danno da ritardo è stato invece maggiore del rendimento netto dei titoli di Stato (perché costretto a ricorrere al credito bancario, o per mancati investimenti remunerativi, o per altre particolari vicende). Ma ciò non in quanto il creditore appartenga ad una categoria; il che si risolverebbe tra l'altro - quantomeno in epoche connotate, come quella attuale, da un aumento dei prezzi al consumo normalmente inferiore al saggio degli interessi legali - nel paradossalmente deteriore trattamento dei meno abbienti, quale il modesto o mero o semplice consumatore. Non dunque per questo, ma perché il risarcimento va sempre tendenzialmente adeguato al danno effettivamente subito, nei limiti in cui tale risultato sia perseguibile; limiti di cui il legislatore s'è fatto del resto consapevole carico dettando la disposizione di cui all'art. 1226 cod. civ., ormai costantemente interpretata nel senso che alla valutazione equitativa nella liquidazione del danno è possibile ricorrere non solo quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, ma anche quando quella prova si presenti, per l'una o per l'altra parte, particolarmente complessa o costosa, anche in riferimento al livello degli interessi dedotti in giudizio, oppure quando sia destinata ad offrire risultati di assai scarsa attendibilità.
Anche il creditore imprenditore, al pari di ogni altro creditore ed indipendentemente da qualsivoglia allegazione, avrà dunque titolo a pretendere il maggior danno nei limiti sopra indicati, salva la prova contraria, da offrirsi dal debitore, che esso è inferiore o inesistente. Ove invece lamenti un danno superiore a quei livelli e ne domandi il risarcimento, dovrà offrirne la prova, come ogni altro creditore.
A tal fine sarà in linea di massima sufficiente la produzione di documentazione dalla quale si evinca che, durante la mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario (con saggio di interesse passivo oggi attestantesi, a quanto consta, sull'Euribor maggiorato tra circa 0,20 e 2,5 punti) o ad altre forme di approvvigionamento di liquidità, con la dimostrazione dei relativi costi; e sempre che, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia effettivamente presumibile che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma alla parziale estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe altrimenti il possibile ricorso strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell'entità del danno nel successivo giudizio di adempimento e risarcimento).
Se invece sia domandato un risarcimento del danno correlato all'utilità marginale netta dell'impresa durante la mora, perché il maggior danno possa essere rapportato ai mancati utili sarà necessario che il creditore imprenditore produca il bilancio contenente il conto economico (se tenuto a redigerlo) ovvero altre idonee scritture contabili; e sempre che, in relazione all'importo dovutogli e con riguardo al tipo ed al rilievo economico dell'attività stessa, sia effettivamente presumibile che la somma di cui era creditore sarebbe stata impiegata nell'impresa con il medesimo risultato utile.
6. È il caso di chiarire che le diverse enunciazioni effettuate da queste sezioni unite con la menzionata sentenza n. 16871 del 2007 concernevano una fattispecie nella quale il creditore aveva solo domandato la "rivalutazione monetaria e gli interessi", ma non aveva neppure sostenuto di aver subito un maggior danno da svalutazione monetaria, sicché la domanda relativa a tale danno era stata ritenuta inammissibile in relazione alla norma di riferimento, d'ufficio individuata in quella di cui all'art. 1224, comma 2, cod. civ.. In tale occasione, inoltre, le sezioni unite, anche perché investite del ricorso solo in ragione della prospettata questione di giurisdizione, si sono limitate a fare applicazione dei principi già precedentemente enunciati con la più volte citata sentenza n. 2368/86, ma non hanno affrontato il tema ex professo, com'è invece avvenuto in quest'occasione. E deve anche fugarsi l'eventuale preoccupazione che le conclusioni raggiunte si risolvano in un trattamento dei crediti ordinari più favorevole di quello "speciale" riservato ai crediti di lavoro dall'art. 429, comma 3, cod. proc. civ. : il cumulo di rivalutazione ed interessi da effettuarsi per tali crediti è, invero, costantemente superiore al tasso del rendimento medio (anche lordo) dei titoli di Stato di durata non superiore all'anno.
7. Possono conclusivamente enunciarsi i seguenti principi di diritto: « - nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, cod. civ. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 cod. civ.; - è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata; - il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti; - in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa ».
8. In applicazione degli enunciati principi il ricorso va respinto. Negli anni per i quali si era protratta la mora, infatti, il rendimento dei titoli di Stato è stato complessivamente superiore al tasso della svalutazione monetaria che il giudice del merito ha riconosciuto al creditore indipendentemente da una prova specifica in ordine all'impiego del denaro.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità, in quanto il ricorso sarebbe stato suscettibile di essere accolto in base ad almeno uno degli orientamenti di cui al contrasto ora difformemente composto.
PQM
La Corte di cassazione, a sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese.

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