giovedì 29 dicembre 2011

Riscossione contributi inps, ammissibilità opposizione all'esecuzione per intervenuta prescrizione dell'azione esecutiva quinquennale


" ..l'azione esecutiva rivolta al recupero del credito contributivo non opposto ai sensi dell'art. 24 comma 5 del d.lgs. 46/99 è soggetta non al termine decennale di prescrizione dell'actio iudicati previsto dall'art. 2953 c.c., bensì al termine proprio della riscossione dei contributi e, quindi, nel caso di specie, al termine quinquennale introdotto dalla legge 335/1995, neppure ravvisandosi alcuna novazione del credito, come invece dedotto dall'ente previdenziale..."

Tribunale Catania - Lavoro Sentenza 5262 del 24.11.2010



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice del Tribunale di Catania, sezione lavoro, dott.ssa Cristiana Delfa nella causa di previdenza n.5664/07 R.G. promossa da ******** nei confronti dell'I.N.P.S. (Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale), anche quale mandatario della S.C.C.I. S.p.A., in persona del suo presidente pro tempore e la Serit Sicilia S.p.A. agente della Riscossione per la Provincia di Catania, in persona del legale rappresentante pro tempore (contumace) ha emesso la seguente
SENTENZA EX ART. 281 SEXIES C.P.C.
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 13.7.2007 la ricorrente di cui in epigrafe proponeva opposizione avverso il ruolo portato dalla cartella di pagamento n.2932000**** relativo a pretesi omessi contributi e somme aggiuntive nei confronti dell'INPS per gli anni 1995, 1996, 1997 e 1998.
Deduceva, a sostegno dell'opposizione, l'intervenuta prescrizione quinquennale del diritto di credito fatto valere dall'ente previdenziale, ai sensi dell'art. 3 della legge 335/1995, anche laddove la notifica della cartella fosse stata ritualmente effettuata nella data del 5.01.2001 indicata in seno all'estratto di ruolo.
Chiedeva, pertanto, dichiararsi - previa sospensione - l'annullamento dell'atto impugnato per intervenuta prescrizione del credito; il tutto con vittoria di spese e compensi di lite.

Fissata udienza di comparizione e concessa la chiesta sospensione dell'esecuzione del ruolo di cui alla cartella opposta, ai sensi dell'art. 24, comma 6, del d.lgs n.46/99, si costituivano in giudizio l'ente previdenziale, sia in proprio che in qualità di mandatario della società di cartolarizzazione eccependo, fra l'altro, la tardività dell'opposizione.
Indi all'udienza odierna la causa è stata discussa e decisa ai sensi dell'art. 429 c.p.c.
Motivazione
Ciò posto, quanto all'eccezione preliminare di tardività dell'opposizione, perchè proposta oltre il termine di decadenza di quaranta giorni previsto dal D.Lgs. n.46 del 1999, art. 24, va osservato che la Suprema Corte ha avuto modo di affermare, con orientamento condiviso da questo Giudice, che detto termine "è accordato dalla legge al debitore per l'opposizione nel meritodella pretesa contributiva, al fine di instaurare un vero e proprio processo di cognizione per l'accertamento della fondatezza della pretesa dell'ente. Detto termine deve ritenersi perentorio,perchè diretto a rendere non più contestabile dal debitore il credito contributivo dell'ente previdenziale in caso di omessa tempestiva impugnazione (Cass Civ., sez L., 2008, n.17978; e,negli stessi termini, v. anche Cass. Civ. sez. L., 2007, n.14692, Cass. Civ. sez. L. 2007 n.4506).
La Suprema Corte ha ancora precisato che "la perentorietà del termine può desumersi inoltre dalla natura perentoria del termine previsto dalla precedente disciplina della materia, sancita dall'abrogato art. 2 della legge n.389 del 1989, senza che ad essa sia di ostacolo il fatto che l'iscrizione a ruolo avvenga in mancanza di un preventivo accertamento giudiziale, essendo consolidata nell'ordinamento, come per le iscrizioni a ruolo delle imposte dirette o indirette, la categoria dei titoli esecutivi formati sulla base di un mero procedimento amministrativo dell'ente impositore".
Nella fattispecie, costituendosi in giudizio il ricorrente non ha espressamente contestato la circostanza, risultante dal ruolo e ribadita dall'I.N.P.S., dell'avvenuta notifica della cartella opposta, in data 5.1.2001.
Peraltro l'accertamento della tempestività del ricorso, con riguardo all'osservanza del termine prescritto dall'art. 24 del d.lgs. n.46/1999, in quanto involge la verifica di un presupposto processuale quale la proponibilità della domanda (e perciò una ipotesi di decadenza prevista ex lege ed avente natura pubblicistica), è un compito che il giudice deve assolvere a prescindere dalla sollecitazione delle parti, disponendo l'acquisizione di elementi utili anche aliunde, in applicazione degli artt. 421 e 437. c.p.c., con la conseguenza che il mancato rilievo officioso dell'eventuale carenza di detto presupposto comporta la nullità della sentenza, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, in ragione del difetto della potestas iudicandi derivante dalla preclusione dell'azione giudiziale (Cass. Civ. n.11274/2007).
Nella presente vicenda, l'opposizione al ruolo è stata proposta oltre il termine di 40 giorni dalla notifica della cartella.
Tuttavia, la decadenza prevista dall'art. 24 d.lgs. n.46/99 non preclude la possibilità di far valere con l'opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. eventuali fatti estintivi (come nella specie la prescrizione) del credito controverso formatisi successivamente a tale momento.
L'opposizione, in tal caso, non essendo nell'art. 615 fissato alcun termine finale, è sempre proponibile fino all'esaurimento della procedura esecutiva.

L'eccezione di prescrizione sollevata da parte opponente pone dunque la questione se, una volta divenuto non più contestabile il credito contributivo, per mancanza di tempestiva opposizione ai sensi del d.lgs. 46/99, la successiva azione esecutiva sia sempre soggetta a ltermine di prescrizione quinquennale previsto dallalegge 335/95, ovvero a quello decennale previsto dall'art. 2953 c.c.
A tal riguardo ben può farsi riferimento ai principi sanciti dalla Suprema Corte con la pronuncia n.12263 del 25.5.2007, che, sebbene riferiti alle c.d. ingiunzioni fiscali, possono essere utilmente richiamati anche nella fattispecie concreta.
In particolare, la predetta sentenza, rilevato che l'ingiunzione fiscale, in quanto espressione del potere di autoaccertamento e di autotutela della P.A., ha natura di atto amministrativo che cumula in sè le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto, ma è priva di attitudine ad acquistare efficacia di giudicato, ha ritenuto che "la decorrenza del termine per l'opposizione, pur determinando la decadenza dall'impugnazione, non produce effetti di ordine processuale, ma solo l'effetto sostanziale dell'irretrattabilità del credito (qualunque ne sia la fonte, didiritto pubblico o di diritto privato), con la conseguente inapplicabilità dell'art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione".

Alla stessa conclusione (inapplicabilità dell'art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione) deve dunque pervenirsi mutatis mutandis anche nell'ipotesi in esame, dal momento che neppure ai ruoili formati dagli enti pubblici previdenziali per la riscossione dei crediti contributivi ed alle conseguenti cartelle esattoriali può assegnarsi natura giurisdizionale: la mancata opposizione nel termine rende definitivo e non più contestabile il credito dell'ente previdenziale, ma non comporta gli effetti di natura processuale riservati ai provvedimenti giurisdizionali e, quindi, l'idoneità al giudicato.

Necessario corollario è che l'azione esecutiva rivolta al recupero del credito contributivo non opposto ai sensi dell'art. 24 comma 5 del d.lgs. 46/99 è soggetta non al termine decennale di prescrizione dell'actio iudicati previsto dall'art. 2953 c.c., bensì al termine proprio della riscossione dei contributi e, quindi, nel caso di specie, al termine quinquennale introdotto dalla legge 335/1995, neppure ravvisandosi alcuna novazione del credito, come invece dedotto dall'ente previdenziale.
Nella fattispecie, atteso che dopo la data della notifica della cartella esattoriale concernente i contributi in questione (5.1.2001), l'INPS non ha più agito al fine di ottenere il pagamento delle somme pretese, è da ritenere (in mancanza di atti interruttivi) che la prescrizione quinquennale sia senz'altro già maturata.
Pertanto, alla luce di quanto fin qui esposto, in accoglimento della domanda, va in questa sede disposto l'annullamento della iscrizione a ruolo di cui all'opposta cartella.
Le spese seguono la soccombenza e pertanto l'INPS va condannato alla refusione di quelle sostenute da parte opponente, liquidate come in dispositivo.
PQM
-definitivamnte pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e difesa,
- annulla l'iscrizione a ruolo di cui all'opposta cartella di pagamento in quanto relativo a crediti prescritti;
- condanna l'INPS al pagamento, in favore dell'opponente, delle spese del giudizio, che liquida in complessivi e 910,00 oltre a spese generali, CPA e IVA come per legge.
Catania, 24.11.2010

venerdì 9 dicembre 2011

Conti corrente, nullità della clausola trimestrale degli interessi, no conversione annuale


"... la giurisprudenza ha ritenuto che, una volta dichiarata la illegittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi, questa non potrà essere convertita in capitalizzazione annuale né in altra tipologia di capitalizzazione composta (in tal senso Cass. sez. Un. 17.7.2001 n. 9653; conforme, ex multis, Corte di Appello di Torino sez. III n. 64 del 21.1.2002). La Cassazione (n.9653/200 1) ha precisato che gli interessi scaduti, se fossero stati equiparati in toto ad una qualsiasi obbligazione pecuniaria (credito liquido ed esigibile di una somma di denaro), avrebbero automaticamente prodotto interessi di pieno diritto, ai sensi dell’art. 1282 cod. civile (che stabilisce per l’appunto che “i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto”); al contrario tale effetto è stato escluso dal successivo art. 1283 c.c. (dettato a tutela del debitore ed applicabile per ogni specie d’interessi, quindi anche per gli interessi moratori), alla stregua del quale, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. («...la citata disposizione (NDR l’art. 1283 c.c.) non comporta soltanto un limite al principio generale di cui all’art. 1282 cod. civ., ma vale anche a rimarcare la particolare natura che, nel quadro delle obbligazioni pecuniarie, la legge attribuisce al debito per interessi, con la previsione di una disciplina specialistica, che si pone come derogatoria rispetto a quella generale in tema di danni nelle obbligazioni pecuniarie, stabilita dall’art. 1224 cod. civile, e che proprio per il suo carattere di specialità deve prevalere su quest’ultima norma. Se così non fosse, del resto, l’art. 1224 verrebbe ad assorbire tutto il campo applicativo dell’art. 1283, che resterebbe circoscritto ai casi in cui il debito per interessi è quantificato all’atto della proposizione della domanda. Ma una simile limitazione dell’ambito applicativo del citato art. 1283 cod. civ. non emerge da tale norma e viene anzi a porsi con essa in contrasto, perché trascura la peculiare natura del debito per interessi sopra segnalata ed elude, almeno in parte, la finalità di tutela per la posizione del debitore che la norma ha previsto stabilendo in quali casi e con quali presupposti gli interessi scaduti possono essere produttivi di altri interessi»; conforme Cass. n. 2593/2003). Pertanto nella fattispecie la problematica risulta anche ultronea atteso che non si rinviene nel rapporto bancario in esame un accordo scritto (forma ab substantiam) sul punto; né il giudice, come detto, ha il potere di operare d’ufficio la sostituzione mediante inserzione automatica di clausole che prevedano capitalizzazioni di diverse periodicità, che nella specie equivarrebbe a “nuova” condizione mai prima pattuita dalle parti.
Va infine aggiunto che anche la questione in esame ha trovato soluzione nella recente pronuncia delle Sezioni Unite suindicata (n. 24418/2010) la quale ha avuto modo di precisare di condividere e recepire quella «... giurisprudenza...ha escluso di poter ravvisare un uso normativo atto a giustificare, nel settore bancario, una deroga ai limiti posti all’anatocismo dall’art. 1283 c.c.: ma non perché abbia messo in dubbio il reiterarsi nel tempo della consuetudine consistente nel prevedere nei contratti di conto corrente bancari la capitalizzazione trimestrale degli indicati interessi, bensì per difetto del requisito della “normatività” di tale pratica. Sarebbe, di conseguenza,
assolutamente arbitrario trarne la conseguenza che, nel negare l’esistenza di usi normativi di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, quella medesima giurisprudenza avrebbe riconosciuto (implicitamente o esplicitamente) la presenza di usi normativi di capitalizzazione annuale»"....



Tribunale di Verbania
Sez. distaccata di Domodossola
Sentenza 12 maggio 2011, n. 43
 ...omissis...
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione 3.3.2009 ritualmente notificata la XXXXXXX Commerciale s.a.s. di XXXXXXX XXX & C. evocava in giudizio la XXXXXXX XXXXXXX chiedendo al Tribunale che, previa declaratoria della illegittimità degli addebiti effettuati dalla banca a valere sul conto corrente ordinario n. 20068/1, poi rinumerato 200681-27. nel periodo che va dalla data di apertura del rapporto del 26.10.1994 e sino alla estinzione avvenuta il 25.3.2004 a titolo di anatocismo, interessi passivi superiori alla misura legale, commissioni di massimo scoperto e spese di tenuta conto (per comunicazione, chiusura periodica, produzione e spedizione estratti conto) non dovuti (tali addebiti in conto corrente) perché in parte illegittimi (gli interessi anatocistici e le cms) e per altro verso perché mai validamente pattuiti per iscritto (interessi passivi in misura superiore al tasso legale, CMS e spese di tenuta conto) e previa riliquidazione del saldo finale del rapporto, condannasse la banca alla ripetizione e pagamento in suo favore di € 23.754,07=, o di quella diversa somma, maggiore o inferiore, risultante all’esito della espletanda consulenza tecnica di ufficio, costituente il saldo effettivo alla data di chiusura del rapporto (25.3.2004). L’attrice esponeva, anche, di avere inviato in data 16.10.2008, prima di iniziare la causa, due lettere raccomandata a/r (doc. 114), alla filiale competente (quella di XXXXXXX, subentrata alla filiale di via Binda a Domodossola nel frattempo chiusa) e alla sede legale della banca, lamentando che nel corso del rapporto regolato sul conto 20068/1 l’istituto di credito aveva applicato commissioni di massimo scoperto, spese di tenuta conto, interessi debitori superiori al tasso legale (c.d. ultralegali) e interessi anatocistici non dovuti e comunque illegittimi, chiedendo espressamente alla banca di riliquidare il saldo finale di conto corrente e restituire quanto indebitamente addebitato nonché chiedeva copia dei contratti sottoscritti (ex art. 119, comma 40 del Tub -D.LGS. 1.9.1993 n. 385-, che prescrive “il cliente .. ha diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni”). La banca, però, non solo aveva espresso un deciso diniego alla ripetizione del dovuto e al ricalcolo del saldo (lettera 9.2.2009 -doc. 115-), ma pure si era rifiutata di trasmettere la documentazione contrattuale. Sulla scorta ditali assunti, qualificanti una condotta contrattuale da parte dell’Istituto di
violazione dei doveri di correttezza, trasparenza e completezza delle informazioni riguardanti lo svolgimento del rapporto contrattuale, parte attrice chiedeva, pertanto, l’ulteriore condanna della banca al pagamento di € 3.144,00 (e cioè la somma corrisposta al commercilista Dott. XXXX XXXXXXXXX per la redazione della perizia e del calcolo dell’indebito dovuto -doc. 116-; fattura n. 2/2009 -doc. 118-).
A sostegno della domanda l’attrice depositava, in occasione della sua costituzione in giudizio, tutti gli estratti conto completi di conto scalare e indicazione interessi (doc. 1-1 13), relativi al conto corrente in oggetto, dalla data di apertura (26.10.1994) e sino alla chiusura (25.3.2004), con la sola eccezione dell’estratto conto di gennaio 2004, che era stato inutilmente chiesto all’istituto con la citata raccomandata (doc. 114); nonché la perizia di parte (doc. 116), redatta dal dott. XXXX XXXXXXXXX di Verbania, che conteggiava il saldo finale del conto corrente e determinava l’importo indebitamente corrisposto alla banca a titolo di anatocismo, interessi ultralegali, cms e costi non dovuti.
La banca convenuta si costituiva ritualmente in giudizio, venti giorni prima dell’udienza indicata, eccependo in via preliminare (a pag. 4 della comparsa di costituzione) l’intervenuta prescrizione ordinaria decennale della domanda e ciò con decorrenza da ciascun singolo addebito in conto corrente, e deducendo, inoltre, la legittimità della operata capitalizzazione trimestrale degli interessi (da pag. 8 a pag. 28 della comparsa citata), motivandola con l’assunto della esistenza di un uso normativo che legittimava tale pratica in regime di deroga al disposto dell’art. 1283 cc; la non ripetibilità degli interessi comunque corrisposti dall’attrice trattandosi di pagamenti effettuati spontaneamente e senza contestazioni da parte del correntista; l’applicabilità nella ricostruzione del rapporto bancario de quo dell’art. 1194 c.c., domandando che ogni pagamento venisse imputato al soddisfo prima degli interessi e delle spese e poi del capitale (pag. 30 e seg.). Infine la banca asseriva in ogni caso la legittimità dei tassi di interesse applicati e così pure delle cms e dei costi addebitati alla correntista, allegando alla citazione un contratto di conto corrente datato 6.10. 1994 con allegata scheda condizioni sottoscritto dal legale rappresentante della correntista.
Esaurita la fase introduttiva di cui all’art. 183 c.p.c., il G.I. disponeva consulenza tecnica nominando la dott.ssa XXXXX XXXXXXXX.
Quindi, depositato l’elaborato peritale, successivamente integrato da appendice (del 22.3.2010) in risposta alle osservazioni delle parti, veniva fissata udienza di precisazione delle conclusioni. All’udienza del 26.5.2010 le parti rassegnavano le rispettive conclusioni ed il G.L tratteneva la causa a decisione concedendo i termini di rito per il deposito delle note difensive, trattenendo la causa in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda è fondata e quindi meritevole di accoglimento nei limiti come di seguito spiegati.
1. Sulla decorrenza del termine di prescrizione della domanda di ripetizione di indebito oggettivo nei conti correnti bancari —dal singolo addebito illegittimo sul conto corrente comunicato al cliente -irrilevanza- dalla chiusura del conto corrente —fondatezza-
Preliminarmente va detto che sulla trattazione delle singole questioni oggetto della diatriba processuale questo giudice non intende dare sfogo ad inutili trattazioni scolastiche che si risolvono in un mero parafrasare di sentenze e passi argornentativi di parte motiva, chiarendo, invece, sin da subito di unifonnarsi alla migliore giurisprudenza formatasi in materia, cioè quella della Suprema Corte, assolutamente convincente per la forza delle argomentazioni di diritto sostenute ed affermate.
Quindi, il richiamo sarà unicamente alle più recenti sentenze della Corte. L’azione diretta a far dichiarare la nullità di clausole contrattuali è imprescrittibile ex art. 1422 c.c. mentre quella volta ad ottenere la ripetizione di quanto è stato indebitamente versato è soggetta alla ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c.. Quanto alla individuazione del dies a quo del termine prescrizionale va richiamato, e fatta applicazione, del principio da tempo elaborato ed affermato dalla Corte secondo cui lo stesso va individuato in quello della della definitiva chiusura del conto e ciò in forza dell’assunto che il conto corrente bancario è contratto unitario che da luogo ad un unico rapporto giuridico articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché le singole operazioni determinano solo variazioni quantitative dell’unico originario rapporto e solo con il saldo finale si stabiliscono definitivamente i crediti ed i debiti tra le parti («... i contratti bancari di credito con esecuzione ripetuta di più prestazioni, sono contratti unitari, che danno luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi; perciò la serie successiva di versamenti, prelievi ed accreditamenti non dà luogo a singoli rapporti (costitutivi od estintivi), ma determina solo variazioni quantitative dell’unico originario rapporto costituito tra banca e cliente -Cass. 30.4.1969 n. 1392, Cass 25. 7.1972 n. 2545”» (così Cass. n.226211 984; in senso conforme Cass. n.5720/2004; n.10l27/2005; da ultimo Cass. sez~ Un. 02.12.2010, n.24418 che ha definitivamente chiarito che «l’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Infatti, nell’anzidetta ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una
prestazione da parte del “solvens” con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell”accipiens”».
Nel caso di specie, dunque, che si verte nell’ipotesi indicata dalla Corte di pagamenti, o meglio versamenti in conto corrente con mera funzione ripristinatoria della provvista, il dies a guo della prescrizione decennale decorre dalla data di chiusura del conto: di talché, essendo stato chiuso il rapporto di conto corrente il 25.3.2004, alla data di notifica dell’atto di citazione, intervenuta il 13.3.2009, e ancor meno dalla richiesta stragiudiziale effettuata con lettera racc.ta a/r del 16.10.2008 (doc. 114), il termine decennale non era decorso.
1.1 Sull’irrilevanza dell’art. 2, comma 61, del D.L. n.225 del 29.12.2010 (il c.d. maxiemendamento al decreto Mileproroghe), convertito nella L. n.10 del 26.02.2011.
Il disegno di Legge n. 2518, ovvero il c.d. maxiemendamento al decreto Milleproroghe, trasfuso nel D.L. 29 dicembre 2010 n. 225, convertito nella L.n.10/20l1, contiene, tra l’altro, una norma estremamente criptica: l’art. 2, quinquies, comma 9, diventato art. 2, comma 61, che recita: “In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati. Alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge “.
Ritiene questo giudice, condividendo la dottrina e giurisprudenza già elaborata sulla questione (Avv. F. Greco, in “Il CASO.it , Sezione Il — Dottrina, opinioni e interventi documento n. 232/2011 4 marzo 2011 Sezione II - Dottrina, opinioni e interventi 2” ; Corte Appello di Ancona, ord. del 03.02.2011), che la norma non sia idonea ad avere effetto nella prescrizione dell’indebito – nel significato della prescrizione con dies a quo dal momento dell’annotazione sul conto come invocato dalla Banca-, se ed in quanto della stessa se ne dia una interpretazione conforme ai principi costituzionali e della disciplina codicistica. Invero, la norma in questione, nella letterale formulazione legislativa utilizzata, non riesce a sovvertire i principi di diritto affermati in materia di conto corrente bancario dalla citata sent. Cass. sez. Un., 02.12.2010, n.24418.
Come detto nella sentenza la Corte pone definitivamente una “pietra tombale” sulla querelle del dies a quo della prescrizione, e sancisce che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente, a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente, decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, e perciò la serie successiva di versamenti, prelievi ed accreditamenti non dà luogo a singoli rapporti (costitutivi od estintivi), ma determina variazioni quantitative dell’unico originario rapporto costituito tra banca e cliente, con la conseguenza che solo con il conto finale si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti.
Dunque, il termine prescrizionale inizia a decorrere soltanto dalla chiusura definitiva del rapporto in quanto è solo in questo momento che si produce definitivamente il saldo dei crediti e debiti tra le parti (si abbandona definitivamente il punto di vista di una parte della giurisprudenza di merito che aveva ritenuto che nei contratti di durata ogni singola prestazione avesse una sua autonomia, sicché ognuna di esse resterebbe soggetta alle regole comuni e, quindi, anche a quelle sulla decorrenza della prescrizione). Infatti, spiega sapientemente la Corte che durante lo svolgimento del rapporto, il correntista effettua non solo prelevamenti ma anche versamenti, ma questi ultimi possano essere considerati alla stregua di “pagamenti” -tali da formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti)- solo se abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca; e, ci si trova in situazioni di questo tipo, le volte in cui si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire “scoperto”) cui non accede alcuna apertura di credito, o essa sia stata revocata, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento.
Diversamente, osservano le Sezioni Unite, tutte le volte in cui i versamenti in conto non superino il passivo ed in particolare il limite dell’affidamento concesso al cliente si tratterà di atti ripristinatori della provvista, della quale il correntista può ancora continuare a godere, e non di pagamenti. In tali ipotesi, quindi, il pagamento avviene solo con la chiusura del conto e non con l’annotazione ne consegue, ex art. 2033 c.c., che solo al momento della chiusura del conto sorge il diritto di ripetere ciò che si è pagato e dunque da questo momento inizia a decorrere il termine prescrizionale. Di talché deve propendersi per l’assoluta irrilevanza giuridica della previsione contenuta nel mille proroghe ai fini che interessano, dato che, presupposto della decorrenza del termine prescrizionale, è il pagamento e non l’annotazione sul conto. Ed invece, volendo attribuire un significato conforme ai principi civilistici alla stessa “infelice” formulazione legislativa, la ì prescrizione indicata va piuttosto riferita ad altri e diversi diritti nascenti dall’annotazione sul conto - e cioè diversi da quelli della ripetizione di un indebito pagamento-, come ad es. concernenti rettifiche di irregolarità contabili (gli errori di scritturazione o di calcolo, omissioni e duplicazioni, di cui parla l’art. 1832 c.c.), non conosciute e/o non conoscibili dal correntista nell’invio dell’estratto conto non impugnato nel termine dei sei mesi.
2. sulla illegittimità dell’anatocismo nei rapporti di conto corrente.
La banca convenuta assume la legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi in ambito bancario e, comunque, la irrepetibilità delle somme a tale titolo addebitate antecedentemente al mutamento d’indirizzo interpretativo della Cassazione. In tema di interessi anatocistici, l’art. 1283 c.c. prevede dei limiti ben precisi per l’applicazione degli stessi, statuendo che “in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per l’effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi”. La nullità della clausola che prevede la capitalizzazione trimestrale delle poste debitorie per violazione del divieto di anatocismo imposto dall’art.
1283 cc è ormai pacifica nella giurisprudenza della Corte, a partire dal 1999 quando iniziò ad affermare che la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, per quanto radicata nella prassi bancaria e contenuta nelle norme bancarie uniformi, corrisponde ad un uso negoziale imposto al correntista, e non normativo, con conseguente impossibilità di porsi quale fonte legittima di deroga rispetto alla disciplina delineata dall’art. 1283 del c.c. (indirizzo costantemente ribadito da Cass. n.             3096/1999      ; Cass. n. 12507/1999; Cass. n. 8442 e n.17338/2002; Sezioni Unite, n. 21095 del 4.11.2004; da ultimo Cass. sez. Un. 02.12.20 10, n.244l8).
In particolare le Sezioni Unite hanno rigorosamente affermato che gli usi richiamati dall’art. 1283 c.c. sono unicamente quelli c.d. normativi, di cui agli artt. i e 8 delle preleggi, e non anche quelli c.d. negoziali, di cui all’art. 1340 c.c.; che l’uso di annotare gli interessi sui conti correnti con saldo debitore ad ogni trimestre (normalmente, a marzo, giugno, settembre e dicembre di ogni annualità) è un uso del secondo tipo, ovvero negoziale, e, pertanto, risulta inidoneo a derogare al disposto dell’art. 1283 c.c.. Tale interpretazione ha trovato conferma anche nel Giudice delle leggi (Corte Costituzionale n. 425/00), che ha dichiarato costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 76 della Costituzione, la norma di salvezza della validità e degli effetti delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, le quali dunque restano disciplinate, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, dalla normativa anteriormente in vigore, alla stregua della quale esse, basate su un uso negoziale, anziché su una norma consuetudinaria, sono da considerare nulle, poiché stipulate in violazione dell’art. 1283 c.c.. La nullità di dette clausole può essere rilevata d’ufficio, in considerazione del potere- dovere del giudice di verificare la sussistenza delle condizioni dell’azione (così Cass. n. 10599/2005; conforme Cass. n.5067/2010).
2.1. Sulla illegittimità dell’anatocismo nel rapporto de quo anche per il periodo successivo al 22.4.2000.
Come sopra esposto, le clausole di capitalizzazione degli interessi contenute nei contratti bancari stipulati prima del 22/4/2000, qualunque sia la periodicità, sono sempre nulle per violazione di norme imperative (ari 1418 comma i e art. 1283 c.c.). Per quanto concerne il periodo successivo al 22.4.2000, va invece osservato che la disposizione transitoria di cui all’art. 7 della delibera
CICR 9/2/2000 - che consentiva la produzione di interessi sugli interessi con l’osservanza della stessa periodicità a partire dal 10 luglio 2000 anche per i contratti gia in corso a condizione che la clausola fosse approvata per iscritto dal cliente se peggiorativa del rapporto - non può trovare alcuna applicazione sia perché l’interpretazione sul punto offerta dalla maggioritaria giurisprudenza di merito ne afferma la sua avvenuta abrogazione sull’assunto che, in seguito alla sentenza n 425/2000 della Corte Costituzionale, essendo venuto meno l’art 25 comma 3 del D Lgs 342/1999 che era il fondamento legittimante l’art 7, esso, quale atto di normazione secondaria attuativo di una norma non più esistente perché dichiarata incostituzionale, ha perso ogni validità ed efficacia (in tal senso Tribunale di Mondovi 17.2.2009; Tribunale Benevento 18.2.2008 n. 252; Tribunale di Verbania Sezione distaccata di Domodossola sent. n. 17/2009; Tribunale di Torino 5.10.2007); ed in ogni caso, e cioè quand’anche per ipotesi scolastica della stessa norma se ne facesse applicazione, non va sottaciuto che a mente del comma 3° della norma « Nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, esse devono essere approvate dalla clientela», mentre, nella specie, la banca non ha fatto sottoscrivere la nuova condizione (peggiorativa) alla XXXXXXX (né appare dubitabile che la “nuova condizione” di anatocismo sia peggiorativa, in particolare rispetto ad una situazione precedente in cui XXXXXXX non era tenuto a corrispondere alcun interesse sugli interessi passivi, stante la illegittimità e nullità degli addebiti in punto anatocismo praticati per “usi negoziali” bancari).
3. Sulla illegittimità della conversione della capitalizzazione trimestrale degli interessi in altra tipologia di capitalizzazione, come quella semestrale, o annuale.
Orbene, la nullità della capitalizzazione trimestrale degli interessi, applicata dalla banca nel corso del rapporto, deriva non già dal tipo di cadenza temporale della capitalizzazione, ma dalla mancanza delle condizioni di cui all’art. 1283 c.c. (domanda giudiziale, convenzione posteriore alla loro scadenza e interessi dovuti per almeno sei mesi), il cui disposto, a differenza di quello della norma successiva in tema di interessi ultralegali, non è derogabile neppure per iscritto. Infatti l’art. 1284 cc che, come è dato leggere in rubrica, riguarda solo il saggio degli interessi, cioè l’entità del tasso e la decorrenza degli interessi legali, non deroga in alcun modo alla norma di cui all’art. 1283 cc, che è l’unica che stabilisce le condizioni per la produzione degli interessi sugli interessi e della quale è certa nel sistema la natura imperativa, contrariamente all’ art. 1284 cc, la cui natura dispositiva giustifica la derogabilità del tasso con la pattuizione di interessi convenzionali (con forma scritta, ad substantiam). Sulla scorta ditali enunciati la giurisprudenza ha ritenuto che, una volta dichiarata la illegittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi, questa non potrà essere convertita in capitalizzazione annuale né in altra tipologia di capitalizzazione composta (in tal senso Cass. sez. Un. 17.7.2001 n. 9653; conforme, ex multis, Corte di Appello di Torino sez. III n. 64 del 21.1.2002). La Cassazione (n.9653/200 1) ha precisato che gli interessi scaduti, se fossero stati equiparati in toto ad una qualsiasi obbligazione pecuniaria (credito liquido ed esigibile di una somma di denaro), avrebbero automaticamente prodotto interessi di pieno diritto, ai sensi dell’art. 1282 cod. civile (che stabilisce per l’appunto che “i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto”); al contrario tale effetto è stato escluso dal successivo art. 1283 c.c. (dettato a tutela del debitore ed applicabile per ogni specie d’interessi, quindi anche per gli interessi moratori), alla stregua del quale, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. («...la citata disposizione (NDR l’art. 1283 c.c.) non comporta soltanto un limite al principio generale di cui all’art. 1282 cod. civ., ma vale anche a rimarcare la particolare natura che, nel quadro delle obbligazioni pecuniarie, la legge attribuisce al debito per interessi, con la previsione di una disciplina specialistica, che si pone come derogatoria rispetto a quella generale in tema di danni nelle obbligazioni pecuniarie, stabilita dall’art. 1224 cod. civile, e che proprio per il suo carattere di specialità deve prevalere su quest’ultima norma. Se così non fosse, del resto, l’art. 1224 verrebbe ad assorbire tutto il campo applicativo dell’art. 1283, che resterebbe circoscritto ai casi in cui il debito per interessi è quantificato all’atto della proposizione della domanda. Ma una simile limitazione dell’ambito applicativo del citato art. 1283 cod. civ. non emerge da tale norma e viene anzi a porsi con essa in contrasto, perché trascura la peculiare natura del debito per interessi sopra segnalata ed elude, almeno in parte, la finalità di tutela per la posizione del debitore che la norma ha previsto stabilendo in quali casi e con quali presupposti gli interessi scaduti possono essere produttivi di altri interessi»; conforme Cass. n. 2593/2003). Pertanto nella fattispecie la problematica risulta anche ultronea atteso che non si rinviene nel rapporto bancario in esame un accordo scritto (forma ab substantiam) sul punto; né il giudice, come detto, ha il potere di operare d’ufficio la sostituzione mediante inserzione automatica di clausole che prevedano capitalizzazioni di diverse periodicità, che nella specie equivarrebbe a “nuova” condizione mai prima pattuita dalle parti.
Va infine aggiunto che anche la questione in esame ha trovato soluzione nella recente pronuncia delle Sezioni Unite suindicata (n. 24418/2010) la quale ha avuto modo di precisare di condividere e recepire quella «... giurisprudenza...ha escluso di poter ravvisare un uso normativo atto a giustificare, nel settore bancario, una deroga ai limiti posti all’anatocismo dall’art. 1283 c.c.: ma non perché abbia messo in dubbio il reiterarsi nel tempo della consuetudine consistente nel prevedere nei contratti di conto corrente bancari la capitalizzazione trimestrale degli indicati interessi, bensì per difetto del requisito della “normatività” di tale pratica. Sarebbe, di conseguenza,
assolutamente arbitrario trarne la conseguenza che, nel negare l’esistenza di usi normativi di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, quella medesima giurisprudenza avrebbe riconosciuto (implicitamente o esplicitamente) la presenza di usi normativi di capitalizzazione annuale».
4. Sulla applicabilità del criterio di imputazione dei pagamenti ex art. 1194 c.c. nel rapporto di conto corrente bancario —esclusione-.
La convenuta ha altresì invocato l’applicazione dell’art. 1194 c,c., meccanismo che, prescrivendo l’imputazione dei pagamenti/rimesse del correntista prima agli interessi via via maturati nel periodo di riferimento, e poi al capitale, non potrebbero aumentare il debito capitale, o lo farebbero in misura minore, sì da annullare di fatto il fenomeno dell’anatocismo.
L’assunto interpretativo non è condivisibile. Anzitutto, nel caso di specie non risulta che la Banca convenuta abbia mai fatto applicazione del criterio di imputazione che oggi invoca pur in difetto di qualsivoglia pattuizione contrattuale, avendo invece sempre utilizzato i versamenti del correntista per reintegrare la disponibilità del medesimo e non per ridurre il proprio credito per interessi Quindi, va osservato che tale criterio di imputazione dei pagamenti non può trovare applicazione nella ricostruzione del rapporto bancario, essendo che per imputare a pagamento una determinata somma di denaro occorre che il credito sia liquido ed esigibile e quindi occorre che il creditore abbia la disponibilità del credito. Tali elementi (liguidità e disponibilità) difettano (per la banca) nell’ambito di un rapporto di conto corrente bancario, ancor più se connesso ad una apertura di credito come nella fattispecie. Infatti la banca ha la disponibilità del suo credito e, dunque, ha la liquidità ed esigibilità dello stesso solo quando revoca la linea di credito e chiede il rientro (che nella fattispecie non è mai stato domandato); prima di allora la banca non può pretendere alcun pagamento essendo solo cliente beneficiano della disponibilità delle somme versate (o concesse dalla banca). Tale orientamento è stato fatto proprio dalla giurisprudenza di merito maggioritaria (Tribunale di Benevento, sentenza n. 252 del 18.2.2008; Tribunale di Pescara, del 4.4.2005;
ed anche sentenze Tribunale di Verbania allegate dalla difesa), e costituisce corollario della sentenza Cass. sez. Un. 02.12.2010, n.2441 8 che ha chiarito, appunto, che «...nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista (...) ciascun versamento non configura un pagamento (...), giacchè il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte del “solvens” con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell”accipiens”». Dunque, la fattispecie dell’art. 1194 c.c. non è applicabile poiché nel corso del rapporto non si ha un pagamento in senso tecnico degli interessi e del capitale, e cioè non vi è un debitore che imputi un pagamento, ma vi è un correntista che effettua un versamento ottenendo una mera registrazione a credito sul conto priva di effetti di imputazione di pagamento per interessi e competenze eventualmente maturati.
6. Sulla applicabiità di cims e spese di operazioni bancarie non concordate-esclusione-.
Orbene, la banca nel corso del giudizio ha prodotto copia del contratto sottoscritto datato 6.10.1994 (doc. 8 controparte), che regolamentava le spese di tenuta conto e i tassi di interesse. In considerazione di tale produzione l’attrice ha conseguentemente precisato le conclusioni chiedendo la ripetizione di quanto indebitamente pagato solo a titolo di interessi anatocistici e cms (senza più chiedere le spese di tenuta conto e gli interessi ultralegali).
-Sulle CMS applicate dalla banca.
Nel caso in esame, in base alla pattuizione contrattuale in atti (scheda allegata al contratto 6.10.2004: viene indicata l’aliquota dello 0,125% per giorni non consecutivi superiori a 3, applicata sia all’apertura di credito, che allo scoperto di conto), va condiviso l’assunto interpretativo di parte attrice, secondo cui la relativa pattuizione è indeterminata e indeterminabile, con conseguente nullità ex art. 1418. 1325, 1346 e 1284 del cc.
Infatti, anche volendo sottacere la giurisprudenza e dottrina maggioritaria che affermano la nullità di siffatte clausole in quanto prive di causa, sull’argomentazione che il servizio reso dall’istituto di credito con l’apertura di credito trova già sufficiente ed adeguata remunerazione nella pattuizione degli interessi che per volonta del legislatore sono la tipica remunerazione per le prestazioni consistenti nel prestito di denaro (cosi anche Tribunale di Verbania, Sezione distaccata di Domodossola sent. 17/2009; cfr. Cass. 6 8 2002 n 11772, si legge in sent. Tribunale Milano 4 7 2002 « il supposto rapporto obbligatorio o patto contrattuale deve ritenersi nullo per totale mancanza di una causa giustificatrice poiché la remunerazione della utilizzazione della somma messa a disposizione dalla banca consiste negli interessi corrispettivi e tali interessi dovranno essere calcolati, nella misura a titolo convenuto, sulla somma concretamentè utilizzata e per tutto il periodo di tempo in cui la somma è stata utilizzata»), nondimeno appare difficilmente superabile l’ovvia obiezione che nel caso della scrittura prodotta dalla banca (scheda allegata al contratto 6.10.1994, doc. n. 8 ex adverso prodotto), la quale riporta unicamente la dicitura “aliquota 0,125”, omettendo invece ogni indicazione sul criterio/modalità in concreto applicato per il calcolo della cms, risulti del tutto indeterminato tale ulteriore onere di spesa, con conseguente aggravio illegittimo degli interessi anatocistici -come evidente per la cms prevista sullo scoperto di conto- (non è dato comprendere se la cms è calcolata sull’intera somma messa a disposizione del correntista —importo del fido-, ovvero sulla somma rimasta disponibile in un dato. momento; né può farsi riferimento alla prassi bancaria, sul punto non uniforme: talvolta gli istituti calcolano detto costo sulla somma eccedente il limite di fido al netto dello stesso; altre volte sulla massima esposizione debitoria del trimestre; ed altre ancora sulla esposizione media rapportata al trimestre o semestre/annualità).
E, dunque, la stessa disposizione risulta affetta da nullità per indeterminatezza/indetenninabilità ex art. 1418 e 1346 cc.
Acclarata la nullità di tale clausola ne consegue che le somme corrisposte dall’attrice durante il rapporto sono prive di causa e quindi, costituiscono indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., nella specifica ipotesi di “conditio ob causamfinitam” (cfr. Cass. 1.7.2005 n. 14084).
7. Sulla approvazione tacita delle risultanze del conto per mancata contestazione —irrilevanza-
Né, infine, riveste pregio giuridico la tesi della convenuta volta ad attribuire rilevanza alla mancata contestazione degli addebiti (illegittimi), essendo oltremodo pacifico, anche nella giurisprudenza della Corte, che il correntista può contestare la validità e l’efficacia dei rapporti obbligatori da cui scaturiscono le partite inserite nel conto corrente anche in assenza di impugnazione dello stesso nel termine semestrale previsto, la quale invece rende solo incontestabili le “annotazioni” del conto ex art. 1832 c.c. (in tal senso, ex multis, da ultimo cfr. Cass. n.5067/2010; in senso conforme Cass. 5.12.2003 n. 18626, Cass. 26.7.2001 n. 10186, Cass. nn. 10129 e 6548/2001; Cass. n.4846/l998).
8. Valutazione delle risultanze peritali.
La CTU dott.ssa B.XXXXXXXX, nella ricostruzione dei rapporti di conto corrente, ha conteggiato le somme indebitamente versate dall’attrice alla convenuta giungendo a determinare sei ipotesi di indebito.
Orbene, essendo incontestati i criteri tecnico-contabili adottati dal CTU;
fatta invece applicazione degli indicati principi giuridici, va osservato che:
-i conteggi n. i e n. 2 (indicati a pag. 9 della perizia 24.2.2010) non possono prendersi in considerazione poiché il CTU ha proceduto a riportare gli interessi al tasso legale, ignorando la pattuizione scritta prodotta dalla banca (doc. 8: che prevede, per l’appunto, con clausola redatta per iscritto, i tassi di interesse e le spese di tenuta conto);
-allo stesso modo non corretti i conteggi 3 e 4 (indicati a pag 10 della
relazione 24 2 2010) in quanto il CTU ha calcolato i tassi di interresse debitori con le percentuali fisse indicate dalla banca nella scrittura 6 10 1994 (11,5% sull’apertura di credito e 18,5% per lo scoperto extra fido), cosi finendo per disapplicare variazioni dei tassi più favorevoli applicati al cliente in taluni periodi di diminuzioni del costo del denaro (il contratto prodotto prevede, al punto 16, conformemente a quanto stabilito dall’art. 118 del D.LGs 10.9.1993 n. 385 —Tub-, la facoltà per l’istituto di modificare le condizioni economiche applicate al rapporto regolato in conto corrente; fatto salvo che in caso di variazione in senso sfavorevole al correntista vanno rispettate le modalità previste dalla legge, e cioè la comunicazione scritta al cliente come prescritta appunto dall’art. 118/1 Tub). Quindi, come giustamente osservato dalla difesa attorea, e recepito dal CTU, il conteggio corretto e puntuale era quello di calcolare gli interessi debitori secondo i tassi (più favorevoli) applicati di volta in volta dalla banca, con il limite massimo della misura prevista in contratto; tuttavia, le problematiche di conteggio determinate dal fatto che la banca utilizzava contemporaneamente più tassi bancari che variavano in base alle diverse topologie di credito (vd. pag. 2 “Risposta alle osservazioni”), ha condotto il CTU, con criterio condivisibile, ad operare la ricostruzione calcolando i tassi medi ponderati.
Recepite tali ultime osservazioni dal CTU nel ricalcolo denominato CONTEGGIO 3 BIS (pag. 4 della relazione 17.3.2010). appunto tale conteggio risulta essere quello corretto, in quanto rispettoso del principio della decorrenza della prescrizione dalla chiusura del conto —al contrario del conteggio “4 bis” basato sulla c.d. “prescrizione breve”-; il conto è stato epurato da interessi anatocistici e cms ; sono stati applicati i tassi passivi di interessi effettivamente praticati dall’Istituto (nel massimo, quello concordato per iscritto), calcolati con il criterio della media ponderata; come pure sono stati ricompresi nel ricalcalo anche gli interessi creditori sugli eventuali saldi attivi, atteso che, con normativa derogabile solo per iscritto, il legislatore ha stabilito che nella eventualità che non vi sia alcuna regolazione scritta degli interessi del rapporto di conto corrente, e dunque in caso di inosservanza del comma 4 dell’art. 117 del D.LGS 1.9.1993 n. 385, automaticamente “si applicano il tasso nominale minimo e quello massimo dei buoni ordinari del tesoro annuali … rispettivamente per le operazioni attive e per quelle passive” (art. 117 Tub indicato). Dunque, correttamente il Ctu ha provveduto ad applicare gli interessi attivi sui saldi riliquidati conformemente ai tassi previsti dal contratto 6.10.1994.
Pertanto, recepito tale conteggio, la Banca convenuta va condannata al pagamento di € 16.948,67, oltre agli interessi legali, decorrenti dalla data della domanda (notifica intervenuta il giorno 13.3.2009) e sino al saldo effettivo.
8. Sul risarcimento e sulle spese legali.
L’attrice ha infine domandato la condanna della banca al pagamento delle spese per la consulenza tecnica di parte, pari ad € 3.144,00 (corrisposti al commercialista Dott. I. XXXXXXXXX per la redazione della perizia, come provato per iscritto dalla fattura n. 2/2009 -doc. il 8-), evidenziando che se l’istituto di credito non avesse espresso il diniego alla ripetizione del dovuto e alla riliquidazione del saldo finale, rendendosi di fatto inadempiente l’attrice avrebbe potuto evitare la spesa di una consulenza tecnica di parte.
Tale assunto non è condivisibile. Invero, quand’anche si possa ritenere non improntata alla massima trasparenza, lealtà e correttezza, il comportamento della banca, la quale si è determinata a produrre la documentazione bancaria di interesse solo in sede di giudizio, mentre ha dolosamente violato, nel corso del rapporto contrattuale ed a chiusura di esso, gli obblighi, generici di correttezza e buona fede, e specifici di trasparenza bancaria, che su di essa gravavano; ebbene, le spese per la perizia di cui l’attrice chiede risarcimento non rappresentano affatto conseguenza “immediata e diretta”, ai sensi dell’art. 1223 c.c., della violazione degli indicati obblighi di correttezza e buona fede (art. 1175 c.c.) da parte della banca, bensì esborso necessario alla parte attrice per allegare e provare la domanda svolta in giudizio. Né può dirsi che le stesse spese di perizia furono direttamente causate dal silenzio ed inerzia della banca convenuta sulla pretesa del correntista di avere un diverso conteggio del saldo di conto corrente, atteso che il. diniego Opposto dall’istituto non era affatto del
tutto pretestuoso, ma trovava comunque fondamento nella contrapposta pretesa giuridica di avvalersi di un diritto, quello della prescrizione, che aveva un suo fondamento anche in parte della giurisprudenza di merito (applicando tale criterio il credito di rimborso del correntista sarebbe stato di circa € 1.500: vd. risultanze conteggio n.4 del CTU).
Ciò chiarito, quelle spese tecniche sostenute da parte attrice rientrano, invece, più semplicemente nelle spese legali, e quindi vanno liquidate secondo i criteri di queste, ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.p. (in tal senso anche la pronuncia della Corte citata dalla difesa attorea, Cass. n.6056/l990).
Dunque, in punto spese di lite, considerato che la questione della prescrizione eccepita dalla Banca convenuta, assolutamente determinante nella liquidazione del quantum dovuto, nelle more del processo trovava un qualche conforto in parte della giurisprudenza di merito, ricorrono i giusti motivi dell’art. 92/2 c.p.c. per una loro compensazione nella misura di 1/2, mentre il residuo delle spese legali sostenute da parte attrice —comprese come detto le spese di ctp- segue il Principio della soccombenza e va posto a carico della convenuta.
P.Q.M.
Il Tribunale definitivamente pronunciando ogni diversa istanza ed eccezione disattesa, così provvede:
-accoglie la domanda e per l’effetto, ricalcolato il saldo del conto corrente ordinario n. 20068/I, in seguito rinumerato 200681-27, intercorrente tra la XXXXXXX Commerciale s.a.s di XXXXXXX XXX & C e XXXXXXX XXXXXXX spa, nel periodo che va dalla data di apertura del rapporto del 26.10.1994 e Sino alla estinzione avvenuta il 25.3.2004, eliminando la capitalizzazione periodica degli interessi passivi - applicati i tassi a debito in quelli effettivamente praticati al cliente dalla banca, e calcolati con il criterio della media ponderata con il limite massimo convenuto tra le parti- ed il costo delle commissioni di massimo scoperto:
dichiara tenuta e condanna la convenuta XXXXXXX XXXXXXX s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, alla restituzione in favore della “XXXXXXX Commerciale s.a.s. di XXXXXXX XXX & C.” della somma di € 16.94867=, oltre agli interessi legali, decorrentj dalla data della domanda (notifica intervenuta il giorno 13.3.2009) e sino al saldo effettivo:
-dichiara compensate tra le parti 1/2 delle spese legali, e condanna la società convenuta alla rifusione del residuo di spese legali sostenute dalla parte attrice, liquidate nella somma di € 4.000,00 per diritti, onorari —già comprensiva di ½ di spese di perizia-, oltre rimborsi forf., CPA ed IVA come per legge;
spese di CTU integralmente a carico della convenuta.
Sentenza trattenuta il 30.09.20 10.
Il Giudice
Dott. Vinicio Cantarini
Depositata in cancelleria il 12.05.2011.

mercoledì 23 novembre 2011

Processo Civile, conversione d'ufficio se il rito risulta erroneo


" L’ordinanza di conversione del rito può essere pronunciata anche d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza: essa, pertanto, può essere pronunciata anche prima della prima udienza stessa, dopo l’instaurazione del processo che, nel modulo processuale introdotto dal ricorso, coincide con il deposito dello stesso (v. art. 39, comma III, c.p.c. come modificato dall’art. 45, comma III, lett. a legge 18 giugno 2009 n. 69). Si reputa, quindi, opportuno disporla immediatamente per evidenti ragioni di economia processuale.
L’art. 4, comma I, del decreto 150/2011, pur regolando la conversione, non ne esplicita le modalità, soprattutto là dove come, nel caso di specie, l’atto presenti delle omissioni che non lo rendono conforme al modello introduttivo previsto dal processo applicabile. E’ chiaro che, in casi del genere, il giudice non può limitarsi a pronunciare la conversione ma, in analogia con quanto prescrive l’art. 4, comma III, d.lgs. 150/2011, deve provvedere a disporre la integrazione degli atti per ripristinare l’architettura procedimentale applicabile.
Nel caso in cui, come nell’ipotesi attuale sub iudice, il ricorso sia erroneamente presentato con il rito camerale, invece che con il rito sommario, il giudice, pronunziando la conversione, deve onerare il ricorrente di integrare l’atto introduttivo con le omissioni rilevate che lo rendono inidoneo a conformarsi al modello processuale applicabile ovvero a depositare altro atto giudiziale introduttivo in riedizione, con emenda dei vizi; nell’uno e nell’altro caso, il ricorrente avrà l’onere di notificare alla parte resistente, l’atto iniziale originario, il decreto del giudice e l’integrazione/sanatoria."



Tribunale di Varese
Sezione I Civile
Ordinanza 9-10 novembre 2011, n. 10658
Con ricorso depositato in Cancelleria in data 8 novembre 2011, il ricorrente (cittadino italiano dal 2008), con l’assistenza dell’Avv. .., impugna il provvedimento emesso in data 26 agosto 2011, dalla Ambasciata d’Italia di Abidjan, di diniego del rilascio del visto per il ricongiungimento familiare in favore della minore affidata al ricorrente, …. nata in Sierra Leone il … 2004.
Deduce di avere conosciuto la minore insieme alla sig.ra …, sua moglie, in occasione di un viaggio a Serra Leone, incontro dante causa di un affidamento da parte del Ministero degli Affari sociali in loco, emesso in data 25 febbraio 2011. Affidamento che la resistente non ha ritenuto valido ai fini del visto, trattandosi di provvedimento per cui necessaria la valutazione ex art. 67 l- 218/1995 della Corte di Appello competente (v. provvedimento del 26 agosto 2011).
Il ricorso è presentato secondo formule processuali erronee.
Ai sensi dell’art. 20, comma I, d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150, è prevista l’applicazione del rito sommario di cognizione per le controversie previste dall’art. 30, comma VI, del d.lgs. 286/1998 (non modificato dal D.L. 89/11), disposizione normativa dove oggi si legge: “contro il diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonchécontro gli altri provvedimenti dell'autorità amministrativa in materia di diritto all'unità familiare, l'interessato può adire l’autorità giudiziaria ordinaria”. In virtù della norma sopra richiamata, è, dunque, applicabile la disciplina di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c., giusta gli artt. 3, 20, comma I, d.lgs. 150/2011 e, per l’effetto, la procedura del rito sommario di cognizione (con esclusione dei commi II e III dell’art. 702-ter c.p.c.: v- già sul punto: Trib. Varese, sez. I civ., decreto 24 ottobre 2011 n. 10192 in www.guidaaldiritto.it).
Ebbene, nel caso di specie, il ricorso è presentato senza le indicazioni di cui all’art. 163 c.p.c. (per quanto richiamato dall’art. 702-bis c.p.c.) e, soprattutto, senza l’avvertimento di cui all’art. 163, comma III, n. 7 c.p.c., così potendosi ritenere che, in effetti, il ricorrente ha introdotto la lite secondo la formula processuale previgente, che prescriveva di attingere al bacino del rito camerale ex artt. 737 c.p.c. e ss. (art. 30, comma VI, d.lgs. 286/1998 nel testo anteriore alla modifica apportata dall’art. 34 d.lgs. 150/2011).
Reputa questo giudice che, in ipotesi del genere, possa trovare applicazione l’art. 4 del d.lgs. 150/2011. La disposizione legislativa, al comma I, prevede che “quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal decreto 150/2011, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza”. Una prima lettura superficiale dell’enunciato normativo potrebbe indurre a ritenere che il cd. switch procedimentale (mutamento del rito) possa trovare applicazione solo trai riti tipizzati come generali dal decreto 150 (es. introduzione di una casa con il rito lavoro e conversione in rito sommario). Ne discenderebbe che, negli altri casi (es. introduzione con rito camerale di un procedimento per cui previsto il rito sommario, come nel caso di specie) dovrebbe trovare applicazione la disciplina in tema di ammissibilità dello strumento processuale o validità dell’atto giudiziale con esclusione, quindi, della possibilità di conversione (es. dichiarando nullo il ricorso introduttivo del giudizio ex art. 164 c.p.c. o per violazione dell’art. 125 c.p.c., con i provvedimenti conseguenti). La ratio legis sottesa all’art. 4, tuttavia, emergente in modo chiaro dai lavori parlamentari e dalla Relazione Illustrativa, depone nel senso di ritenere, invece, applicabile l’art. 4 ad ogni caso in cui il rito scelto non sia quello previsto dalla Legge. In primo luogo, sembra chiara in tal senso la lettera dell’art. 4 che discorre di “forme diverse” in generale, quindi estendendosi ad ogni modello processuale vigente nell’Ordinamento. In secondo luogo, l’interpretazione de qua è imposta da una lettura assiologica dell’enunciato normativo in esame. L’art. 4 della legge delegata introduce, a ben vedere, una disciplina ad hoc per far fronte al caso della erronea introduzione di un processo affinché essa non determini, per ciò solo, l’arresto della macchina procedimentale, in quanto l’Ordinamento tende a conservare gli atti giudiziali finché è possibile attribuirgli effetti giuridici e nei limiti in cui siano idonei a raggiungere lo scopo loro affidato. Essa salvaguarda, dunque, il «principio fondamentale degli Autori classici secondo cui il processo deve tendere ad una sentenza di merito» (v. Corte cost. 77/2007).
L’ordinanza di conversione del rito può essere pronunciata anche d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza: essa, pertanto, può essere pronunciata anche prima della prima udienza stessa, dopo l’instaurazione del processo che, nel modulo processuale introdotto dal ricorso, coincide con il deposito dello stesso (v. art. 39, comma III, c.p.c. come modificato dall’art. 45, comma III, lett. a legge 18 giugno 2009 n. 69). Si reputa, quindi, opportuno disporla immediatamente per evidenti ragioni di economia processuale.
L’art. 4, comma I, del decreto 150/2011, pur regolando la conversione, non ne esplicita le modalità, soprattutto là dove come, nel caso di specie, l’atto presenti delle omissioni che non lo rendono conforme al modello introduttivo previsto dal processo applicabile. E’ chiaro che, in casi del genere, il giudice non può limitarsi a pronunciare la conversione ma, in analogia con quanto prescrive l’art. 4, comma III, d.lgs. 150/2011, deve provvedere a disporre la integrazione degli atti per ripristinare l’architettura procedimentale applicabile.
Nel caso in cui, come nell’ipotesi attuale sub iudice, il ricorso sia erroneamente presentato con il rito camerale, invece che con il rito sommario, il giudice, pronunziando la conversione, deve onerare il ricorrente di integrare l’atto introduttivo con le omissioni rilevate che lo rendono inidoneo a conformarsi al modello processuale applicabile ovvero a depositare altro atto giudiziale introduttivo in riedizione, con emenda dei vizi; nell’uno e nell’altro caso, il ricorrente avrà l’onere di notificare alla parte resistente, l’atto iniziale originario, il decreto del giudice e l’integrazione/sanatoria.
Nessun provvedimento va, invece, emesso quanto alla regolarizzazione fiscale degli atti, in quanto, giusta l’art. 20, comma IV, dlgs 150/2011, gli atti del procedimento odierno “sono esenti da imposta di bollo e di registro e da ogni altra tassa”.
P.q.m.
Letto e applicato l’art. 4, comma I, d.lgs. 150/2011
Dispone il mutamento del rito, da camerale (ex art. 737 e ss c.p.c.) a sommario di cognizione ex artt. 702-bis e ss. c.p.c., rito applicabile alla controversia in virtù gli artt. 20 decreto legislativo 1 settembre 2011 n. 150 e 30, comma VI, decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286. Per l’effetto, dispone che parte ricorrente provveda alla integrazione dell’atto introduttivo del giudizio o alla sua riedizione secondo il rito applicabile, con atto da depositare in Cancelleria entro e non oltre la data del 30 novembre 2011;
Letti e applicati gli artt. 20 d.lgs. 150/11, 30 d.lgs. 286/1998, 702-bis c.p.c.
Fissa l’udienza di comparizione delle parti in data 25 gennaio 2012 ore 9.00. L’udienza si terrà presso il Tribunale di Varese, P.zza Cacciatori delle Alpi n. 1, Piano Primo, stanza n. 102, Ufficio del Giudice dr. Giuseppe Buffone.
Invita la parte resistente a costituirsi entro e non oltre dieci giorni prima dell’udienza.
Dispone che, a cura di parte ricorrente, il ricorso originario, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza e all’atto di integrazione, sia notificato ai convenuti almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione.
Manda alla cancelleria perché si comunichi.
Varese lì 9 novembre 2011.
Il Giudice 

venerdì 18 novembre 2011

Stupefacenti, traffico, illegittimità della presunzione di adeguatezza della custodia in carcere


"... L’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure...."

Corte Costituzionale
Sentenza 22 luglio 2011, n. 231
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo MADDALENA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di B.B. con ordinanza del 5 novembre 2010, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 maggio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza depositata il 5 novembre 2010, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino ha proposto, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare la misura degli arresti domiciliari, o altra misura cautelare comunque meno afflittiva della custodia in carcere, in relazione al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, previsto dall’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
Il giudice a quo premette di dover decidere su un’istanza di revoca della misura cautelare della custodia in carcere, o di sostituzione della stessa con altra misura meno grave, proposta dal difensore di una persona imputata dei delitti di cui agli artt. 74 e 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. All’interessata – sottoposta a custodia in carcere a partire dal 22 aprile 2009 – erano stati contestati, in particolare, la partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e plurimi fatti di acquisto e vendita illeciti di tali sostanze: reati per i quali, con sentenza del 16 giugno 2010, emessa a seguito di giudizio abbreviato, ella era stata condannata in primo grado alla pena di nove anni di reclusione.
A sostegno dell’istanza, il difensore aveva dedotto che le esigenze cautelari, legate al pericolo di commissione di reati analoghi, dovevano ritenersi cessate o quantomeno affievolite, alla luce di un complesso di circostanze: quali, in specie, l’«efficacia deterrente» del lungo periodo di detenzione fino ad allora patito dall’imputata, la sua incensuratezza, il comportamento sostanzialmente collaborativo da lei tenuto nel corso del processo e l’esigenza di riallacciare i rapporti con i figli minori, interrotti dall’inizio della carcerazione preventiva. Il difensore aveva prodotto, altresì, la dichiarazione di disponibilità del responsabile di un istituto religioso ad accogliere l’imputata in regime di arresti domiciliari.
Ad avviso del giudice a quo, gli elementi addotti dalla difesa, seppure inidonei a dimostrare il venir meno delle esigenze cautelari, sarebbero comunque indicativi di una loro significativa attenuazione: ciò, anche alla luce delle peculiarità della vicenda concreta, che aveva visto il vincolo associativo svilupparsi in un ambito «sostanzialmente familiare» e in un periodo nel quale quasi tutti gli associati erano anche consumatori di sostanze stupefacenti. Le evidenziate circostanze farebbero ritenere, in specie, che il periculum libertatis possa essere adeguatamente fronteggiato con la misura degli arresti domiciliari in un luogo diverso da quello in cui le condotte criminose si erano sviluppate, quale l’istituto religioso indicato dal difensore.
All’accoglimento dell’istanza osterebbe, tuttavia, la preclusione, introdotta dalla novella legislativa modificativa dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza della quale, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per una serie di reati, – tra cui quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (evocato tramite il rinvio all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.) – «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari».
Tale disposizione, secondo il corrente orientamento della giurisprudenza di legittimità, dovrebbe trovare applicazione – in forza del principio tempus regit actum, trattandosi di norma processuale – anche in rapporto alle misure cautelari da adottare per i fatti delittuosi commessi – come nel caso di specie – anteriormente alla data di entrata in vigore della novella legislativa.
Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della norma denunciata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.
Al riguardo, il giudice a quo rileva come questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, abbia già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., per contrasto con gli indicati parametri costituzionali, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Con la pronuncia ora ricordata – il cui iter argomentativo viene ampiamente ripercorso nell’ordinanza di rimessione – la Corte avrebbe individuato precisi limiti entro i quali la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari – sancita dalla norma censurata in deroga ai principi generali regolativi della materia – può ritenersi compatibile con il dettato costituzionale.
Si tratterebbe, da un lato, di limiti negativi derivanti dalla presunzione di non colpevolezza, a fronte dei quali detta disciplina derogatoria non può essere giustificata né dalla gravità astratta del reato – rilevante solo ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio – né della necessità di eliminare o ridurre l’allarme sociale causato dal reato medesimo, essendo questa una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile dell’allarme.
Dall’altro lato, sussisterebbero limiti positivi legati al rispetto del principio di ragionevolezza, posto alla base del giudizio di bilanciamento fra i diversi interessi tutelati dall’ordinamento. Affinché la disciplina in questione risulti costituzionalmente tollerabile, dovrebbe risultare enucleabile, in relazione a determinate fattispecie criminose, una regola di esperienza che consenta di formulare a priori una valutazione di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria, escludendo l’agevole ipotizzabilità di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a fondamento della presunzione. Si tratterebbe di una «prova di resistenza», da effettuare sulla base delle caratteristiche strutturali delle figure delittuose prese in considerazione: «prova di resistenza» che la Corte avrebbe in effetti espletato, con esito positivo, in rapporto ai delitti di mafia (ordinanza n. 450 del 1995).
Quanto alla figura criminosa che interessa, il delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 è una figura speciale del delitto di associazione per delinquere, che si differenzia da questo solo per la specificità del programma criminoso, costituito dalla commissione di più delitti tra quelli previsti dall’art. 73 del medesimo decreto. Le caratteristiche strutturali della fattispecie criminosa non divergerebbero, per il resto, da quelle del reato associativo comune. Per costante giurisprudenza, infatti, i suoi elementi essenziali sarebbero costituiti dal carattere indeterminato del programma criminoso e dalla permanenza della struttura, senza che occorra un accordo consacrato in manifestazioni di formale adesione né un’organizzazione con gerarchie interne e distribuzione di specifiche cariche e compiti: essendo sufficiente, al contrario, una qualunque forma organizzativa, sia pure rudimentale, deducibile dalla predisposizione di mezzi, anche semplici, per il perseguimento del fine comune.
Si sarebbe, dunque, al cospetto di una «fattispecie aperta», idonea ad abbracciare fenomeni criminali fortemente eterogenei tra loro, che spaziano dal grande sodalizio internazionale con struttura imprenditoriale, che controlla tanto la produzione che l’immissione sul mercato dello stupefacente, fino ad arrivare al gruppo attivo in ambito puramente locale e con organizzazione del tutto rudimentale, spesso limitata all’impiego di autovetture e telefoni cellulari. La giurisprudenza di legittimità ha, d’altra parte, ravvisato l’ipotesi criminosa in questione anche nel vincolo che accomuna, in maniera durevole, il fornitore della droga e coloro che la ricevono per rivenderla «al minuto», non ritenendo di ostacolo alla configurabilità del rapporto associativo la diversità degli scopi personali e la differente utilità che i singoli si propongono di ricavare.
Risulterebbero, quindi, evidenti le differenze strutturali tra il delitto in esame e i reati di mafia, in rapporto ai quali la Corte ha ritenuto giustificabile la presunzione assoluta posta dalla norma denunciata. Il delitto previsto dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 non sarebbe, infatti, necessariamente connotato da un forte radicamento nel territorio dell’associazione, da fitti collegamenti personali e da una particolare forza intimidatrice. Difetterebbero, soprattutto, le peculiarità «storiche e sociologiche», prima ancora che giuridiche, dell’associazione mafiosa, consistenti nell’adesione degli associati, senza possibilità di recesso, ad un sistema illegale parallelo a quello dello Stato, consolidato nel tempo e preesistente, nella sua struttura essenziale, rispetto ai singoli fenomeni associativi: sistema che, attraverso attività criminose che coinvolgono i più diversi settori della vita pubblica e privata, mira ad interferire con le istituzioni per assicurarsi «potere e stabilità». Caratteristiche, queste, che rendono possibile, per i reati di mafia, enucleare una regola di esperienza in base alla quale soltanto la custodia cautelare in carcere è idonea a preservare le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva, messe a rischio da simili reati.
Analoga generalizzazione sarebbe, per converso, impraticabile in rapporto al delitto previsto dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, il cui paradigma coprirebbe situazioni che incidono in misura sensibilmente differenziata sul bene protetto (l’ordine pubblico) e che, sotto il profilo cautelare, potrebbero essere fronteggiate anche con misure diverse dalla custodia in carcere, tenuto conto di plurimi elementi, anche sopravvenuti rispetto all’applicazione della misura: quali, ad esempio, l’allentarsi dei legami tra gli associati a seguito di prolungate detenzioni o il superamento dello stato personale di tossicodipendenza, che spesso favorisce la creazione di gruppi criminali dediti allo spaccio. Accadimenti, questi, viceversa non ipotizzabili in relazione ai delitti di mafia, i quali presupporrebbero, nella generalità dei casi, un patto inscindibile tra gli associati che resiste alle vicende giudiziarie, traducendosi in una «radicale scelta di vita alternativa alla legalità».
Una regola generalizzata di esperienza che giustifichi la presunzione sancita dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., con riferimento al delitto che interessa, non potrebbe essere ricavata neppure dal suo carattere di reato associativo, che lo accomuna a quello previsto dall’art. 416-bis del codice penale. Diversamente, non si spiegherebbe l’esclusione dal novero dei reati soggetti al regime cautelare speciale, in base alla novella legislativa del 2009, dei reati associativi comuni (fatta eccezione per l’ipotesi prevista dal sesto comma dell’art. 416 cod. pen.).
La presunzione in questione non potrebbe trovare fondamento, da ultimo, neanche nella natura dei reati-scopo dell’associazione e nella tutela particolarmente rigorosa accordata dal legislatore al bene della salute pubblica nei confronti del fenomeno dello spaccio di stupefacenti. Come già rimarcato, infatti, dalla sentenza n. 265 del 2010, la gravità astratta del reato, desunta dalla misura della pena o dalla natura dell’interesse tutelato, non può legittimare una preclusione alla verifica giudiziale del grado delle esigenze cautelari e all’individuazione della misura più idonea a fronteggiarle, rilevando solo ai fini della commisurazione della sanzione.
Alla luce di tali rilievi, la norma censurata, nella parte in cui estende la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare carceraria al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, violerebbe l’art. 3 Cost., sottoponendo ad un eguale trattamento situazioni differenti tra loro, senza che vi siano fondate ragioni per impedire la «piena individualizzazione» della coercizione cautelare.
La medesima disposizione si porrebbe, altresì, in contrasto con il principio di inviolabilità della libertà personale, sancito dall’art. 13, primo comma, Cost., imponendo il massimo sacrificio di tale bene primario all’esito di un giudizio di bilanciamento non corretto, in quanto non rispettoso del principio di ragionevolezza.
Essa lederebbe, infine, la presunzione di non colpevolezza, prevista dall’art. 27, secondo comma, Cost., affidando al regime cautelare funzioni proprie della pena, la cui applicazione presuppone un giudizio definitivo di responsabilità.
2. – È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
La difesa dello Stato ricorda come questa Corte abbia affermato – in particolare, con l’ordinanza n. 450 del 1995 – che mentre l’apprezzamento delle esigenze cautelari deve essere lasciato al giudice, la scelta della misura può bene essere operata in via generale dal legislatore, nei limiti della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei beni coinvolti.
La particolare gravità del delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, la pericolosità sociale degli associati e la grave minaccia per la collettività che può derivare dalla reiterazione della condotta accomunerebbero, d’altro canto, il delitto in questione a quelli di tipo mafioso, rispetto ai quali la Corte, con la medesima ordinanza, ha ritenuto ragionevole l’imposizione della misura carceraria.
La norma censurata non lederebbe neppure l’art. 13, primo comma, Cost., essendo stato rispettato il principio della riserva di legge in materia di provvedimenti restrittivi della libertà personale; né, da ultimo, si comprenderebbe come detta norma possa essere ritenuta incompatibile con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, enunciata dall’art. 27, secondo comma, Cost., trattandosi di disposizione che, disciplinando in modo non irragionevole l’adozione delle misure cautelari, opera su un piano diverso da quello dell’irrogazione della sanzione penale.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino dubita della legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia in carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, previsto dall’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
Il rimettente reputa estensibili ai procedimenti relativi a detto reato le ragioni che hanno indotto questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, a dichiarare costituzionalmente illegittima la norma censurata in riferimento a taluni delitti a sfondo sessuale (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale).
Al pari di tali delitti, neppure quello previsto dall’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 potrebbe essere, infatti, assimilato, sotto il profilo in esame, ai delitti di mafia, in relazione ai quali tanto questa Corte che la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, stabilita dalla norma censurata. Per quanto gravi, i fatti che integrano tale delitto presenterebbero disvalori ampiamente differenziabili sul piano della condotta e, soprattutto, potrebbero bene proporre anche esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con misure diverse dalla custodia carceraria.
La presunzione censurata, di conseguenza, si porrebbe in contrasto – conformemente a quando deciso dalla citata sentenza n. 265 del 2010 – con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), nonché con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.).
2. – La questione è fondata, nei termini di seguito specificati.
3. – Con la sentenza n. 265 del 2010, questa Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui configura una presunzione assoluta – anziché soltanto relativa – di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti a sfondo sessuale: in particolare, per i reati di induzione o sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale e atti sessuali con minorenne (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.).
Ad analoga declaratoria di illegittimità costituzionale questa Corte è altresì pervenuta, successivamente all’odierna ordinanza di rimessione, con la sentenza n. 164 del 2011, nei riguardi della medesima norma, nella parte in cui assoggetta a detta presunzione assoluta anche il delitto di omicidio volontario (art. 575 cod. pen.).
3.1. – In entrambe le occasioni, la Corte ha rilevato come i limiti di legittimità delle misure cautelari – nell’ambito della cui disciplina si colloca la disposizione scrutinata – risultino espressi, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) – oltre che dalle riserve di legge e di giurisdizione (art. 13, secondo e quarto comma, Cost.) – anche e soprattutto dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), a fronte della quale le restrizioni della libertà personale dell’indagato o dell’imputato nel corso del procedimento debbono assumere connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità.
I principi costituzionali di riferimento implicano che la disciplina della materia debba essere ispirata al principio del «minore sacrificio necessario» (sentenza n. 295 del 2005): la compressione della libertà personale va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare, in corrispondenza, criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, coerenti e adeguate alle esigenze configurabili nei singoli casi concreti.
Questo insieme di indicazioni costituzionali trova puntuale espressione nella disciplina generale dettata in materia dal codice di procedura penale. A fronte della tipizzazione di un “ventaglio” di misure, di gravità crescente (artt. 281-285), il criterio di «adeguatezza» (art. 275, comma 1) – dando corpo al principio del «minore sacrificio necessario» – impone al giudice di scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso di specie.
Da tali coordinate si discosta vistosamente la disciplina dettata dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen. – inserita tramite una serie di interventi novellistici – la quale stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari; assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa.
Proprio per i marcati profili di eccezione rispetto al regime ordinario, la disciplina derogatoria – riferita, ai suoi esordi, ad un ampio ed eterogeneo parco di figure criminose – era stata limitata, a partire dal 1995 e in una prospettiva di recupero delle garanzie, ai soli procedimenti per i «delitti di cui all’articolo 416-bis del codice penale o ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo» (art. 5, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n. 332, recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa»).
Così circoscritta, essa aveva superato il vaglio tanto di questa Corte (ordinanza n. 450 del 1995), che della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). Entrambe le Corti avevano, infatti, in vario modo valorizzato la specificità dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta (come reati associativi entro un contesto di criminalità organizzata di tipo mafioso, o come reati a questo comunque collegati) valeva a rendere «ragionevoli» le presunzioni in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della sola custodia carceraria: trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a neutralizzare il periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato e associazione.
Con l’intervento novellistico del 2009 (art. 2, comma 1, lettere a e a-bis, del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009), il legislatore ha compiuto «un “salto di qualità” a ritroso», riespandendo l’ambito di applicazione della disciplina eccezionale a numerose altre fattispecie penali, in larga misura eterogenee fra loro quanto a oggettività giuridica (fatta eccezione per i delitti “a sfondo sessuale”), struttura e trattamento sanzionatorio.
3.2. – Ciò posto, questa Corte, nelle citate sentenze n. 265 del 2010 e n. 164 del 2011, ha ricordato che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010)».
Sotto tale profitto, né ai delitti a sfondo sessuale dianzi indicati (sentenza n. 265 del 2010) né al delitto di omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011) poteva estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata in rapporto ai delitti di mafia: ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).
Pur nella loro indubbia gravità e riprovevolezza – la quale peserà opportunamente nella determinazione della pena inflitta all’autore, quando ne sia riconosciuta in via definitiva la colpevolezza – i delitti in discorso possono essere, e spesso sono, fatti meramente individuali, che trovano la loro matrice in pulsioni occasionali o passionali, ovvero in situazioni maturate nell’ambito di specifici contesti (familiare, scolastico, dei rapporti socio-economici, e così via dicendo). Di conseguenza, in un numero tutt’altro che marginale di casi, le esigenze cautelari – pur non potendo essere completamente escluse – sarebbero suscettibili di trovare idonea risposta anche in misure diverse da quella carceraria, che valgano a neutralizzare il “fattore scatenante” o ad impedirne la riproposizione. E così, anzitutto, quanto ai fatti legati a particolari contesti, tramite misure che valgano comunque ad operare una forzosa separazione da questi dell’imputato o dell’indagato: arresti domiciliari in luogo diverso dall’abitazione (art. 284 cod. proc. pen.), eventualmente accompagnati da particolari strumenti di controllo (quale il cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis); obbligo o divieto di dimora o anche solo di accesso in determinati luoghi (art. 283); allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis).
3.3. – Alla luce di tali rilievi, questa Corte ha quindi concluso che la norma impugnata violava, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.
Al fine di ricondurre il sistema a sintonia con i valori costituzionali, la Corte ha ritenuto che non fosse, peraltro, necessario rimuovere integralmente la presunzione de qua, ma solo il suo carattere assoluto, che implicava una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del “minore sacrificio necessario”. La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede, per contro, i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso.
4. – Le considerazioni dianzi ricordate risultano valevoli, con gli opportuni adattamenti e precisazioni, anche in rapporto al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope: delitto al quale il regime cautelare speciale risulta esteso tramite il richiamo “mediato” alla norma processuale di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.
4.1. – Pur nella particolare gravità che il fatto assume nella considerazione legislativa, anche nel caso in esame la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria non può considerarsi, in effetti, rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla «struttura stessa» e alle «connotazioni criminologiche» della figura criminosa.
È ben vero che, nelle ipotesi descritte dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, diversamente che nei casi precedentemente scrutinati da questa Corte, non si è di fronte a un reato suscettibile di presentarsi come fatto meramente individuale ed episodico: trattandosi, al contrario, di un reato che – come la generalità delle fattispecie di tipo associativo – presuppone uno stabile vincolo di appartenenza del soggetto a un sodalizio criminoso, volto al compimento di una pluralità non predeterminata di delitti. Questa sola caratteristica non è, tuttavia, ancora sufficiente a costituire un’adeguata base logico-giuridica della presunzione di cui si discute. Lo dimostra eloquentemente già la semplice circostanza che lo stesso legislatore ordinario abbia ritenuto di dover includere fra i reati soggetti al regime cautelare censurato solo talune particolari figure associative, e non anche quella generale dell’associazione per delinquere, prevista dall’art. 416 cod. pen. (fatta eccezione per i casi in cui essa è menzionata dal richiamato art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., in quanto diretta a commettere determinati reati-fine: in pratica, alla data di entrata in vigore della novella del 2009, le sole ipotesi di cui al sesto comma dello stesso art. 416).
Questa Corte, d’altro canto – nel ritenere assistita da adeguato fondamento razionale la presunzione de qua in rapporto al delitto di associazione di tipo mafioso – ha già avuto modo di porre in evidenza come tale conclusione si giustifichi alla luce non del mero vincolo associativo a scopi criminosi, quanto piuttosto delle particolari caratteristiche che esso assume nella cornice di detta fattispecie (sentenze n. 164 del 2011 e n. 265 del 2010).
Il delitto di associazione di tipo mafioso è, infatti, normativamente connotato – di riflesso ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica” alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea – per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell’uomo – «a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine», minimizzando «il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia).
Altrettanto non può dirsi per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. Quest’ultimo si concreta, infatti, in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine (i delitti previsti dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990). Per consolidata giurisprudenza, essa non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, essendo viceversa sufficiente una qualunque organizzazione, anche rudimentale, di attività personali e di mezzi economici, benché semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune. Il delitto in questione prescinde, altresì, da radicamenti sul territorio, da particolari collegamenti personali e soprattutto da qualsivoglia specifica connotazione del vincolo associativo, tanto che, ove questo in concreto si presentasse con le caratteristiche del vincolo mafioso, il reato ben potrebbe concorrere con quello dell’art. 416-bis cod. pen. (come già ritenuto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione: sentenza 25 settembre 2008-13 gennaio 2009, n. 1149).
Si tratta, dunque, di fattispecie, per così dire, “aperta”, che, descrivendo in definitiva solo lo scopo dell’associazione e non anche specifiche qualità di essa, si presta a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i più diversi ed eterogenei: da un sodalizio transnazionale, forte di una articolata organizzazione, di ingenti risorse finanziarie e rigidamente strutturato, al piccolo gruppo, talora persino ristretto ad un ambito familiare – come nel caso oggetto del giudizio a quo – operante in un’area limitata e con i più modesti e semplici mezzi.
Proprio per l’eterogeneità delle fattispecie concrete riferibili al paradigma punitivo astratto, ricomprendenti ipotesi nettamente differenti quanto a contesto, modalità lesive del bene protetto e intensità del legame tra gli associati, non è dunque possibile enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le «connotazioni criminologiche» del fenomeno, secondo la quale la custodia carceraria sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. In un significativo numero di casi, al contrario, queste ultime potrebbero trovare risposta in misure diverse e meno afflittive, che valgano comunque ad assicurare – nei termini in precedenza evidenziati – la separazione dell’indiziato dal contesto delinquenziale e ad impedire la reiterazione del reato.
4.2. – Né può considerarsi significativa, in senso contrario, la circostanza che la fattispecie associativa prevista dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 risulti accomunata all’associazione di tipo mafioso nella sottoposizione alla disciplina stabilita all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.: disposizione alla quale – come accennato – la norma censurata preliminarmente rinvia al fine di individuare i delitti soggetti allo speciale regime cautelare di cui si discute.
Per corrente rilievo, infatti, la predetta disciplina risponde a una logica distinta ed eccentrica rispetto a quella sottesa alla disposizione sottoposta a scrutinio. Il richiamato art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. prevede una deroga all’ordinaria regola (recata dal comma 3 dello stesso articolo ed espressione del cosiddetto principio di accessorietà) che vorrebbe attribuite le funzioni di indagine, di esercizio dell’azione penale e di sostegno dell’accusa nei procedimenti di primo grado all’ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente, devolvendole a quello presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.
Si tratta di norma ispirata da ragioni di opportunità organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione alla tipicità e alla qualità delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma che non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative a tutti procedimenti per i quali quella deroga è stabilita. Ne è evidente riprova l’eterogeneità della lista delle fattispecie criminose cui la norma stessa fa riferimento, che già primo visu evidenzia come il relativo criterio di selezione non consista affatto in una particolare “qualità” del periculum libertatis. Detta lista – mentre non include, ad esempio, l’associazione per delinquere finalizzata a commettere rapine a mano armata o estorsioni – abbraccia invece figure quali l’associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale») o l’associazione diretta a commettere i delitti di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen., in materia di contraffazione di marchi o altri segni distintivi e di commercio di prodotti con segni mendaci (ciò a seguito dell’interpolazione dell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. operata dall’art. 15, comma 4, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia»).
4.3. – Contrariamente a quanto assume l’Avvocatura dello Stato, la presunzione assoluta censurata non può neppure rinvenire, da ultimo, la sua base di legittimazione costituzionale nella gravità astratta del delitto associativo che qui viene in rilievo, desumibile dalla severità della pena edittale, o nell’esigenza di eliminare o ridurre situazioni di allarme sociale, correlate alla pericolosità della diffusione del traffico e del consumo di sostanze stupefacenti rispetto a beni quali l’ordine pubblico e la salute individuale. A tale riguardo, non si può, infatti, che ribadire quanto già affermato da questa Corte nelle precedenti pronunce sul tema (sentenze n. 164 del 2011 e n. 265 del 2010). In primo luogo, cioè, che la gravità astratta del reato, considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura dell’interesse protetto, è elemento significativo in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente ai fini della determinazione della sanzione, ma inidoneo a fungere da elemento preclusivo della verifica del grado delle esigenze cautelari e all’individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte. In secondo luogo, poi, che il contenimento dell’allarme sociale causato dal reato non può essere annoverato tra le finalità della custodia cautelare, costituendo una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme.
5. – Alla luce delle considerazioni che precedono, la presunzione assoluta sancita dalla norma censurata va dunque trasformata, anche in rapporto al delitto oggetto dell’odierno scrutinio, in presunzione solo relativa.
L’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
6. – Giova precisare che non interferisce con l’odierno thema decidendum il problema dell’operatività o meno del regime cautelare previsto dalla norma censurata in rapporto all’ipotesi – che non risulta ricorrere nel giudizio a quo – contemplata dal comma 6 dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (associazione finalizza a commettere fatti di «lieve entità» ai sensi dell’art. 73, comma 5, del medesimo decreto): problema che trae origine dalla sancita applicabilità a tale fattispecie delle disposizioni generali in tema di associazione per delinquere (delitto non assoggettato, come detto, al regime cautelare speciale). Qualora si opti, infatti, per la soluzione negativa, all’ipotesi in parola non si applicherebbe neppure la presunzione relativa di adeguatezza della sola custodia in carcere, nei termini stabiliti dalla presente sentenza, rimanendo la fattispecie integralmente soggetta alla disciplina ordinaria in punto di trattamento cautelare.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 luglio 2011.
F.to:
Paolo MADDALENA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2011.

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