lunedì 21 settembre 2009

Mantenimento dei figli, rilevanza dell'apporto casalingo

Sul mantenimento dei figli: gli artt. 148 e 155 c.c. prevedono l'assolvimento anche tramite l'apporto di lavoro casalingo (Cass. 1991/10901)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

Sentenza 22 maggio 2009, n. 11903

Svolgimento del processo

Con sentenza del 12.10.2001 - 19.12.2001, il Tribunale di Roma dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto, il ****, da D.C.R. con B.M., affidava i figli minori D. e F. alla B., alla quale anche assegnava la casa coniugale ed attribuiva l'assegno divorzile di L. 700.000 mensili, con decorrenza dal novembre 2001, nonchè il contributo di L. 1.600.000 mensili, oltre al 50% delle spese straordinarie, per il mantenimento della prole.

Con sentenza del 13.05-3.09.2004, la Corte di appello di Roma, decidendo, nel contraddittorio delle parti, sul gravame proposto dal D.C., in parziale riforma della sentenza di primo grado, determinava l'assegno divorzile, a decorrere dal maggio 2004, in Euro 300,00, mensili, annualmente rivalutabili, e disponeva che, in aggiunta al contributo economico di mantenimento per i due figli ancora minorenni, che confermava, l'appellante corrispondesse all'ex moglie il 50% delle necessarie spese straordinarie, sanitarie e scolastiche, limitatamente le prime a quelle non coperte dalla polizza assicurativa da lui pagata e le seconde a quelle eccedenti "il buono libro" erogato dal suo datore di lavoro.

La Corte osservava e riteneva tra l'altro:

che con il gravame il D.C. aveva contestato sia che ricorressero i presupposti per l'attribuzione alla B. dell'assegno divorzile e sia la congruità del contributo impostogli per il mantenimento dei due figli, che aveva chiesto di ridurre ad Euro 309,87, per ciascuno di loro che sebbene l'appellata non avesse provato il tenore della vita coniugale, tuttavia si poteva ritenere che le parti godessero di un discreto livello economico, dal momento che potevano fare conto sul rilevante reddito del marito, operaio dipendente della Banca d'Italia, e non dovevano sostenere oneri locativi, vivendo all'epoca nell'appartamento in comune proprietà - che esaminati gli atti e la documentazione fiscale prodotta dalle parti, doveva essere confermato il diritto della B. all'assegno in questione, dato il divario esistente tra le condizioni economiche degli ex coniugi, avendo fruito nel 2001 la medesima B., quale infermiera, di un reddito annuo netto pari a circa L. 30.000.000, ed il D.C., pari, invece, compresi gli straordinari, a L. 70.000.000;

- che l'entità dell'assegno poteva essere determinata in Euro 300,00, a decorrere dal mese di maggio 2004, considerando, oltre alle rispettive condizioni economiche, le diverse esigenze di ciascuna delle parti, la capacità contributiva del D.C., l'apporto personale dato dalla B. alla conduzione familiare, la durata ultraventennale del matrimonio che quanto al contributo per il mantenimento dei due dei tre figli della coppia, ancora conviventi con la madre e di anni 20 e 14, la quantificazione dei primi giudici, attuata, con decorrenza dall'ottobre 2001, in base alle situazioni reddituali delle parti ed alle esigenze della prole, doveva essere confermata considerata la capacità contributiva delle parti e tenuto conto che la B. già provvedeva alle esigenze dei figli mediante l'ospitalità nella casa da lei gestita e mediante l'accudimento quotidiano.

Avverso questa sentenza il D.C. ha proposto ricorso per cassazione notificato il 28-10-2005, fondato su due motivi. La B. non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
A sostegno del ricorso il D.C., premesso anche il richiamo delle contribuzioni convenute con la B. il 24.05.1996, all'atto della separazione personale omologata (L. 300.000 mensili in favore della moglie che all'epoca non lavorava, e complessive L. 1.700.000 mensili per i tre figli, di cui L. 500.000 per la figlia più piccola) e sottolineato pure che durante il giudizio di divorzio la moglie aveva iniziato a lavorare, deduce: 1. "Insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al primo motivo di appello in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del art. 5, comma 6, L. Div. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5".

Si duole conclusivamente che il diritto della B. all'assegno divorzile non sia stato escluso, sostenendo in sintesi: a) il mancato o insufficiente esame in merito al tenore della vita, sul quale nessun mezzo di prova era stato offerto dalla istante all'attitudine lavorativa della B. ed alla sufficienza del suo reddito professionale, proveniente da attività stabile e di natura pubblica, a soddisfare le sue esigenze anche di vita sociale a fatto che durante la convivenza coniugale la B. non aveva lavorato, per cui era stato costretto a svolgere lavoro straordinario al fatto che dopo il divorzio l'ex moglie aveva iniziato a lavorare e che di conseguenza il suo tenore di vita era migliorato a fronte del sensibile peggioramento del proprio al fatto che aveva dovuto pure sostenere spese alloggiativi che il principio di diritto applicato dai giudici di merito, secondo cui "l'assegno periodico di divorzio ha carattere esclusivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, intesa come insufficienza dei medesimi e conservargli un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, senza tuttavia che sia necessario uno stato di bisogno dell'avente diritto" (che, in ipotesi, potrebbe anche essere economicamente autosufficiente) si pone in contrasto con l'art. 23 Cost., ("nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge"), art. 29 Cost. ("La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio"), e art. 35 Cost. (rectius art. 36 Cost., sugli illustrati connotati della retribuzione) della Costituzione;

b. che è stato erroneamente e falsamente applicato il criterio secondo cui il coniuge deve mantenere l'analogo tenore di vita adottato in costanza di matrimonio e che aprioristicamente si è ritenuto che in dipendenza del divorzio la B. avesse subito un apprezzabile deterioramento delle sue condizioni di vita.

Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

Le doglianze che il ricorrente deduce si risolvono, infatti, o in inammissibili generiche ed apodittiche critiche e censure di fatto volte ad un diverso apprezzamento dei medesimi dati, non consentito in sede di legittimità, o in infondati rilievi di non aderenza della pronuncia alle rubricate norme che, invece, risultano ineccepibilmente applicate. In particolare, i giudici di merito hanno ritenuto che il presupposto normativo per concedere l'assegno periodico di divorzio fosse costituito dall'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, così irreprensibilmente attenendosi alle disposizioni contenute nell'art. 5, comma 6, Legge Div., di cui il D.C. non prospetta l'illegittimità costituzionale, sollevando, invece, la questione di costituzionalità, soltanto con improprio riferimento ai correlati orientamenti giurisprudenziali, insuscettibili di esserne autonomo e diretto oggetto, prima che con infondato richiamo a norme della Carta fondamentale con evidenza non pertinenti rispetto al citato articolo.

Del pari ineccepibilmente, anche per il profilo motivazionale, i giudici di merito hanno, inoltre, apprezzato il deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle condizioni economiche della B., sia facendo correttamente riferimento, in mancanza di prova da parte della richiedente, quale parametro di valutazione del pregresso tenore di vita, alla documentazione attestante i redditi dell'onerato (cfr. Cass. 200107068; 200413169) e sia giustamente ponendo a raffronto le condizioni personali ed economiche pregresse ed attuali di ciascuna delle parti, senza nemmeno trascurare le rispettive, diverse situazioni alloggiative.

2. "Violazione e falsa applicazione dell'art. 148 c.c.. Motivazione contraddittoria in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5".

Si duole della quantificazione del contributo economico impostogli per il mantenimento dei due figli, sostenendo essenzialmente che l'apporto appare eccessivo, considerando anche che entrambi i genitori devono contribuire in misura pari, onde non pervenire ad un regime contraddittorio rispetto alla ripartizione paritaria delle spese straordinarie che incomprensibile è il criterio di calcolo seguito, pure perchè, considerata la pari dazione economica materna, i figli verrebbero a fruire di apporti in denaro eccessivi e sproporzionati rispetto alle loro esigenze che fuori luogo è il richiamo all'ospitalità prestata dalla madre nella casa in comproprietà delle parti, in quanto insuscettibile di quantificazione economica - che la prestazione di attività personale o domestica a favore dei figli non costituisce per il genitore che la effettua o che li ospita motivo di esonero dai suoi obblighi.

Il motivo non ha pregio, dal momento che se da un canto si risolve di nuovo in critiche generiche, dall'altro non solo riconduce le doglianze all'erronea impostazione secondo cui gli artt. 148 e 155 c.c., limitano a dazioni economiche le modalità di assolvimento da parte dei genitori dell'obbligo di mantenere (educare ed istruire la prole di cui all'art. 147 c.c., smentita, invece, da tali norme che ne prevedono l'assolvimento anche tramite l'apporto di lavoro casalingo (Cass. 199110901), ma inoltre, sempre erroneamente, da risalto, in luogo del considerato apporto casalingo materno, all'ospitalità prestata ai figli dalla B. nella casa che le appartiene solo in parte.

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Non deve pronunciarsi sulle spese del giudizio di cassazione, non avendo l'intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte:

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2009.

venerdì 18 settembre 2009

RCA, coniuge in regime di comunione legale e capacità a testimoniare

Giurisprudenza costante della Cass. Civ.

"Emerge dunque dalla giurisprudenza di questa Corte la non configurabilità, in via astratta ed assoluta, di un divieto di testimonianza del coniuge in comunione legale dei beni, nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, dovendosi al contrario verificare, di volta in volta, la natura del diritto oggetto della controversia. E ciò tanto più si rivela necessario, ove si consideri che le norme sulla incapacità a testimoniare, introducendo una deroga al generale dovere di testimonianza, sono di stretta interpretazione (in tal senso, v. Cass., 14 gennaio 1980, n. 324) e che, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 247 cod. proc. civ., è stato espunto dall'ordinamento processuale civile il generale divieto di testimonianza del coniuge, ancorché separato, dei parenti o affini in linea retta e di coloro che siano legati ad una delle parti da vincoli di affiliazione (Corte cost., sentenza n. 248 del 1974). Non a caso, del resto, nella citata sentenza n. 62 del 1995 della Corte costituzionale, si è rilevato, nella parte in fatto della motivazione, che dall'ordinanza di rimessione emergevano elementi tali da indurre a ritenere rilevante la sollevata questione, essendosi precisato, da parte del giudice remittente, che i coniugi non avevano operato la scelta ex art. 162 cod. civ. e che, in relazione all'autovettura coinvolta nel sinistro, del quale in quel giudizio si discuteva, operava la presunzione di comunione legale del bene.
Orbene, venendo al caso di specie, occorre rilevare che oggetto della controversia in cui l'incapacità del coniuge in regime di comunione legale dei beni a deporre, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto operare era l'accertamento della responsabilità civile dell'altro coniuge a seguito di sinistro stradale. Si tratta, dunque, di un'obbligazione di natura extracontrattuale e personale, della quale, in linea di principio, la comunione legale non dovrebbe rispondere. Si potrebbe, invero, ipotizzare una corresponsabilità della comunione stessa, ai sensi dell'art. 2054, terzo comma, cod. civ.; tuttavia, una simile ipotesi richiederebbe un accertamento, in fatto, che consentisse di escludere che il veicolo sia di proprietà, o nella disponibilità, esclusiva di uno dei coniugi. Dalla sentenza impugnata, ma lo stesso ricorrente nell'atto introduttivo di questo giudizio dà atto della circostanza, emerge invece che il veicolo coinvolto nel sinistro era condotto dal proprietario. A fronte di tale accertamento in fatto, non è dunque sufficiente invocare il regime patrimoniale dei coniugi per inferirne la sussistenza di un interesse dell'altro coniuge idoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio e quindi la sua incapacità a deporre, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ."



LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
.
FATTO
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 9 marzo 1994, il Tribunale di Milano dichiarava la esclusiva responsabilità di F.C. nella causazione del sinistro stradale avvenuto il 9 maggio 1987 e lo condannava, in solido con la SIAD Assicurazioni s.p.a., al risarcimento dei danni (biologico, morale ed esborsi) in favore di M.C..
La Corte di appello di Milano, con sentenza in data 14 novembre 2000, in parziale riforma di quella del Tribunale e in parziale accoglimento dell'appello incidentale proposto dalla SIAD e dal F., dichiarava quest'ultimo responsabile dell'evento lesivo ai sensi dell'art. 2054, secondo comma, cod. civ., e lo condannava, in solido con la SIAD Assicurazioni s.p.a., al risarcimento in favore di M.C. della metà dei danni come liquidati dal primo giudice, dedotto quello relativo al danno morale, confermando per il resto la sentenza di primo grado.
Per quel che rileva nel presente giudizio di legittimità, la Corte di appello osservava che il Tribunale aveva ricostruito la dinamica dell'incidente ed aveva conseguentemente attribuito la responsabilità esclusiva del sinistro al F. sulla base della deposizione di un teste oculare che seguiva il M. a bordo della moto da questi condotta, ritenendo invece incapace a testimoniare, ex art. 246 cod. proc. civ., la teste C. perché coniuge del convenuto in regime di comunione legale. La Corte non condivideva la soluzione adottata in proposito dal Tribunale, sia perché la incapacità a testimoniare, come disciplinata dall'art. 246 cod. proc. civ., non può essere estesa oltre l'ambito delle persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, sia perché l'eventuale azione esecutiva del creditore può essere esercitata solo nei limiti di consistenza della quota di spettanza del debitore sui beni in comunione con il coniuge, la cui posizione rimane pertanto intangibile. La Corte riteneva pertanto la teste capace di deporre e procedeva alla ricostruzione del sinistro anche sulla base della sua deposizione, pervenendo ad una soluzione diversa da quella accolta dal Tribunale.
Per la cassazione di tale sentenza, ricorre M.C. sulla base di un unico motivo; non hanno svolto attività difensiva i soggetti cui il ricorso è stato notificato e cioè F.C., Meie Assicurazioni s.p.a., quale incorporante per fusione di Aurora Assicurazioni s.p.a., a sua volta incorporante per fusione di SIAD Assicurazioni s.p.a..
DIRITTO
Motivi della decisione
Con l'unico motivo di ricorso, il M. deduce violazione dell'art. 246 cod. proc. civ., in relazione agli artt.159 e 189, comma secondo, cod.civ.
La Corte di appello, sostiene il ricorrente, ha erroneamente interpretato il principio espresso dalla sentenza di questa Corte n. 324 del 1980, in quanto gli effetti della decisione si estendono comunque alla posizione patrimoniale di entrambi i coniugi, anche se limitatamente alla quota del 50% del patrimonio suscettibile di formarsi durante la comunione, onde il coniuge della parte in causa ha un interesse qualificato che potrebbe giustificare la sua partecipazione al giudizio in cui si discute di entità patrimoniali (precisamente l'obbligazione di risarcire il danno per il sinistro de quo) che incidono sul patrimonio comune. A sostegno di tale lettura della citata pronuncia, il ricorrente ricorda la sentenza della Corte costituzionale n. 62 del 1995, con la quale si è ritenuto costituzionalmente legittimo l'art. 246 cod. proc. civ., secondo cui non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione in giudizio, dovendosi inquadrare la ratio della norma, per una razionale assimilazione di dette persone alle parti, nello stesso principio vigente nell'ordinamento processuale civile che esclude la testimonianza delle parti in causa. L'art. 159 cod. civ., inoltre, stabilisce come regime patrimoniale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata ex art.162 cod. civ., la comunione dei beni, e cioè un "regime che, come la comunione in generale, fa sorgere quell'interesse conducente alla possibile legittimazione a partecipare al giudizio di cui è parte l'altro comunionista e quindi l'incompatibilità tra le due posizioni processuali", come peraltro già ritenuto dal Tribunale di Milano con la sentenza parzialmente riformata da quella impugnata.
Il ricorso è infondato e deve essere pertanto rigettato, anche se la motivazione della sentenza impugnata deve essere integrata.
Come già rilevato, la Corte d'appello di Milano ha escluso, nella specie, e cioè in una controversia avente ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni cagionati da un incidente stradale, la sussistenza di una causa di incapacità a testimoniare del coniuge del danneggiante, ancorché in regime di comunione legale dei beni, sulla base della duplice argomentazione che "l'incapacità a testimoniare, come disciplinata dall'art. 246 cod. proc. civ., non (può) essere estesa, per giurisprudenza costante (Cass. n. 324 del 1980), oltre l'ambito delle persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio" e che "l'eventuale azione esecutiva del creditore può essere esercitata solo nei limiti di consistenza della quota di spettanza del debitore sui beni in comunione con il coniuge, la cui posizione patrimoniale rimane pertanto intangibile".
Il ricorrente censura tali affermazioni rifacendosi, non solo alla diversa soluzione adottata sul punto dal giudice di primo grado, ma soprattutto ad una pronuncia della Corte costituzionale, la n. 62 del 1995, con la quale è stata dichiarata non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 159 cod. civ. e 246 cod. proc. civ., nella parte in cui prevede l'incapacità a testimoniare del coniuge in presunto regime di comunione legale dei beni, di cui alla sez. III del capo VI del libro I cod. civ., beni che possono esse incrementati o decurtati in dipendenza del giudizio in cui è parte in causa l'altro coniuge. Nella citata sentenza, ricorda il ricorrente, il Giudice delle leggi ha rilevato che "l'art. 159 cod. civ. non fa altro che disporre quale regime patrimoniale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma del successivo art. 162, la comunione dei beni. Regime che, come la comunione in generale, fa sorgere quell'interesse conducente alla possibile legittimazione a partecipare al giudizio di cui è parte altro comunista, e dunque all'incompatibilità fra due posizioni processuali, in funzione della quale è prevista l'incapacità a testimoniare di cui all'art.246 cod. proc. civ.". Da qui, ad avviso del ricorrente, la erroneità dell'apprezzamento della Corte d'appello di Milano in ordine alla ritenuta insussistenza, nella specie, di una causa di incapacità, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ.
In proposito, deve qui rilevarsi che, nella giurisprudenza di questa Corte, si è recentemente escluso che lo status di coniuge in comunione legale dei beni comporti, di per sé e sempre, ex art. 246 cod. proc. civ., la incapacità a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge. In particolare, si è ritenuto che "il coniuge in regime di comunione legale non è incapace a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, ove esse abbiano ad oggetto crediti derivanti dall'esercizio dell'impresa di cui sia titolare esclusivo l'altro coniuge, in quanto essi diventano comuni solo al momento dello scioglimento della comunione e nei limiti in cui ancora sussistano, non essendo egli, in questo caso, titolare di un interesse che ne legittimi la partecipazione al giudizio", con l'ulteriore precisazione che in siffatta ipotesi, il giudice non può escludere a priori l'attendibilità della testimonianza in considerazione del rapporto di coniugio, ma deve fare riferimento ad ulteriori elementi" (Cass., 5 marzo 2004, n. 4532). Si è altresì esclusa l'incapacità del coniuge del convenuto in regime di comunione legale dei beni quando oggetto della controversia sia la violazione della disciplina delle distanze di una costruzione dal confine, in quanto l'incremento eventuale del patrimonio comune non è strettamente connesso e dipendente dall'oggetto della lite, e perciò l'interesse del coniuge escusso è di mero fatto, influente sulla valutazione della sua attendibilità, ma inidoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio (Cass., 9 ottobre 1997, n. 9786).
Emerge dunque dalla giurisprudenza di questa Corte la non configurabilità, in via astratta ed assoluta, di un divieto di testimonianza del coniuge in comunione legale dei beni, nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, dovendosi al contrario verificare, di volta in volta, la natura del diritto oggetto della controversia. E ciò tanto più si rivela necessario, ove si consideri che le norme sulla incapacità a testimoniare, introducendo una deroga al generale dovere di testimonianza, sono di stretta interpretazione (in tal senso, v. Cass., 14 gennaio 1980, n. 324) e che, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 247 cod. proc. civ., è stato espunto dall'ordinamento processuale civile il generale divieto di testimonianza del coniuge, ancorché separato, dei parenti o affini in linea retta e di coloro che siano legati ad una delle parti da vincoli di affiliazione (Corte cost., sentenza n. 248 del 1974). Non a caso, del resto, nella citata sentenza n. 62 del 1995 della Corte costituzionale, si è rilevato, nella parte in fatto della motivazione, che dall'ordinanza di rimessione emergevano elementi tali da indurre a ritenere rilevante la sollevata questione, essendosi precisato, da parte del giudice remittente, che i coniugi non avevano operato la scelta ex art. 162 cod. civ. e che, in relazione all'autovettura coinvolta nel sinistro, del quale in quel giudizio si discuteva, operava la presunzione di comunione legale del bene.
Orbene, venendo al caso di specie, occorre rilevare che oggetto della controversia in cui l'incapacità del coniuge in regime di comunione legale dei beni a deporre, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto operare era l'accertamento della responsabilità civile dell'altro coniuge a seguito di sinistro stradale. Si tratta, dunque, di un'obbligazione di natura extracontrattuale e personale, della quale, in linea di principio, la comunione legale non dovrebbe rispondere. Si potrebbe, invero, ipotizzare una corresponsabilità della comunione stessa, ai sensi dell'art. 2054, terzo comma, cod. civ.; tuttavia, una simile ipotesi richiederebbe un accertamento, in fatto, che consentisse di escludere che il veicolo sia di proprietà, o nella disponibilità, esclusiva di uno dei coniugi. Dalla sentenza impugnata, ma lo stesso ricorrente nell'atto introduttivo di questo giudizio dà atto della circostanza, emerge invece che il veicolo coinvolto nel sinistro era condotto dal proprietario. A fronte di tale accertamento in fatto, non è dunque sufficiente invocare il regime patrimoniale dei coniugi per inferirne la sussistenza di un interesse dell'altro coniuge idoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio e quindi la sua incapacità a deporre, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ.
Senza dire che, nel caso di specie, l'azione è stata proposta nei confronti del danneggiante e della compagnia di assicurazioni presso la quale questi era obbligatoriamente assicurato per la responsabilità civile, sicché, in ogni caso, tenuto conto della entità dei danni cagionati, in alcun modo sarebbe ipotizzabile, in riferimento alla quota dell'altro coniuge, una incidenza sul patrimonio comune e, conseguentemente, una legittimazione di quest'ultimo a partecipare al giudizio.
Il ricorso deve quindi essere rigettato. Poiché le parti convenute non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio, non vi è luogo a provvedere sulle spese.
P.Q.M.
Per questi motivi
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Così deciso addì 3 giugno 2004
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 9 FEB. 2005

mercoledì 16 settembre 2009

Corte Costituzionale e P.A.,è vietato conferire incarichi ad esterni privi dei requisiti specifici

Sentenza 252/2009
"
Le questioni sollevate con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. sono fondate.
Il riconoscimento, a favore dei gruppi consiliari – e, per analogia di situazioni, delle Giunte regionali –, di un certo grado di autonomia nella scelta dei propri collaboratori esterni (v. sentenze n. 187 del 1990 e n. 1130 del 1988), non esime la Regione dal rispetto del canone di ragionevolezza e di quello del buon andamento della pubblica amministrazione.
Questa Corte, infatti, ha dichiarato che «la previsione dell'assunzione (sia pure a tempo determinato) di personale sfornito dei requisiti normalmente richiesti per lo svolgimento delle funzioni che è destinato ad espletare determina l'inserimento nell'organizzazione pubblica di soggetti che non offrono le necessarie garanzie di professionalità e competenza» (sentenza n. 27 del 2008).
Orbene, a parte la considerazione che la citata disposizione statale, contenuta nel d.lgs. n. 165 del 2001, non comprime affatto l'autonomia delle Regioni, ma si limita a stabilire dei criteri oggettivi di professionalità, che non mettono in discussione il carattere discrezionale della scelta dei collaboratori, c'è da dire che la Regione, per accentuare tale carattere ben può derogare ai criteri statali, purché preveda, però, in alternativa, altri criteri di valutazione, ugualmente idonei a garantire la competenza e professionalità dei soggetti di cui si avvale ed a scongiurare il pericolo di un uso strumentale e clientelare delle cosiddette esternalizzazioni.
Giudizio


Presidente AMIRANTE - Redattore MAZZELLA
Udienza Pubblica del 07/07/2009 Decisione del 23/07/2009
Deposito del 30/07/2009 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 4, c. 1°, e 5, c. 2°, della legge Regione Marche 29/04/2008, n. 7.
Massime:
Titoli:
Atti decisi: ric. 35/2008



SENTENZA N. 252

ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco AMIRANTE Presidente

- Ugo DE SIERVO Giudice

- Paolo MADDALENA “

- Alfio FINOCCHIARO “

- Franco GALLO “

- Luigi MAZZELLA “

- Gaetano SILVESTRI “

- Sabino CASSESE “

- Maria Rita SAULLE “

- Giuseppe TESAURO “

- Paolo Maria NAPOLITANO “

- Giuseppe FRIGO “

- Alessandro CRISCUOLO “

- Paolo GROSSI “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 5, comma 2, della legge della Regione Marche 29 aprile 2008, n. 7 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 10 agosto 1988, n. 34 “Finanziamento delle attività dei gruppi consiliari”), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 27 giugno 2008, depositato in cancelleria il 7 luglio 2008 ed iscritto al n. 35 del registro ricorsi 2008.

Visto l'atto di costituzione della Regione Marche;

udito nell'udienza pubblica del 7 luglio 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

uditi l'avvocato dello Stato Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso depositato in data 7 luglio 2008, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, con riferimento agli articoli 117, 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale, in via principale, della legge della Regione Marche 29 aprile 2008, n. 7 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 10 agosto 1988, n. 34 “Finanziamento delle attività dei gruppi consiliari”).

Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la predetta legge regionale presenterebbe evidenti profili di illegittimità costituzionale relativamente alle disposizioni contenute negli articoli 4, comma 1, e 5, comma 2, che consentono il conferimento di incarichi e l'instaurazione di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa presso i gruppi consiliari e le segreterie della Giunta regionale a personale esterno all'amministrazione regionale, indipendentemente dal possesso dei requisiti fissati dall'articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), come da ultimo modificato dall'articolo 3, comma 76, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), che costituirebbero, per espressa previsione contenuta nel comma 3 dell'articolo 1 del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001, principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione.

Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, inoltre, le disposizioni censurate violerebbero gli articoli 3 e 97 Cost., in quanto, da un lato, consentirebbero, nella sola Regione Marche, un'irragionevole facoltà di ricorso a soggetti privi della indispensabile professionalità e, dall'altro lato, lederebbero i principi di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione, atteso che lo svolgimento della funzione pubblica, normalmente e generalmente da espletare per il tramite del personale in servizio – da assumere per concorso, secondo un principio limitatamente derogabile – verrebbe affidato a soggetti privi dei requisiti fondamentali che ne dimostrano la capacità professionale e l'affidabilità nella cura di quella funzione.

2. – Si è costituita in giudizio la Regione Marche, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, deducendo l'infondatezza della questione.

Preliminarmente la Regione Marche fa presente che il Consiglio regionale ha approvato la legge 29 aprile 2008, n. 7, che introduce modifiche alla legge regionale n. 34 del 1988.

In particolare, la difesa della Regione Marche, dopo avere effettuato una ricostruzione analitica della normativa censurata, fa notare che la disciplina dello stato giuridico ed economico del personale delle Regioni e degli enti regionali è, per le Regioni a statuto ordinario, riconducibile all'art. 117, quarto comma, Cost. (sentenza n. 274 del 2003), di competenza regionale residuale.

L'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, proprio nel testo modificato dall'art. 3, comma 76, della legge n. 244 del 2007, poi, non si limiterebbe, secondo la difesa regionale, a porre principi fondamentali ma prevederebbe vincoli rigorosamente puntuali e dettagliati, dal momento che restringerebbe ulteriormente l'area dei soggetti cui possono essere conferiti incarichi di collaborazione esterna, attraverso la sostituzione del riferimento agli «esperti di comprovata esperienza» (di cui al vecchio testo) con quello, ancor più limitativo, ad esperti «di particolare e comprovata specializzazione universitaria», con conseguente vanificazione del residuo spazio di intervento normativo in materia da parte delle Regioni.

Osserva, ancora, la resistente che il finanziamento del personale esterno dei gruppi consiliari, attribuito alla piena autonomia del Consiglio regionale ai sensi dell'art. 18 dello statuto della Regione Marche e dell'art. 17 del regolamento dello stesso Consiglio (per il quale «l'Ufficio di presidenza garantisce ai gruppi consiliari l'esplicazione delle loro funzioni, a norma delle disposizioni contenute nella legge regionale»), costituirebbe, per espressa previsione dell'art. 6, primo comma, della legge regionale n. 34 del 1988, «spesa a carico del bilancio della Regione».

Anche sotto tale profilo, la censura dello Stato sarebbe destituita di fondamento, perché, afferma la Regione, disposizioni di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica potrebbero prescrivere solo criteri ed obiettivi, ma non imporre vincoli specifici e puntuali, mentre la disposizione di cui all'art. 3, comma 76, della legge n. 244 del 2007, che modifica il comma 6 dell'art. 7 del d.lgs. n. 165 del 2001, esige, come si è detto, che il personale esterno abbia una particolare e comprovata specializzazione universitaria: il legislatore statale, vincolando Regioni e Province autonome all'adozione di misure analitiche e di dettaglio, ne avrebbe compresso illegittimamente l'autonomia finanziaria, esorbitando dal compito di formulare i soli principi fondamentali della materia.

Secondo la Regione Marche, poi, le norme impugnate non violerebbero neppure i principi costituzionali di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, di cui agli artt. 3 e 97 Cost.

Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la violazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione si configurerebbe solo nei casi in cui la disciplina impugnata risultasse arbitraria o irragionevole e le stesse deroghe alla regola del concorso, da parte del legislatore, sarebbero ammissibili nei limiti segnati dall'esigenza di garantire il buon andamento dell'amministrazione o di attuare altri principi di rilievo degli uffici, di volta in volta, considerati. Tra tali uffici, secondo la Regione, dovrebbero ricomprendersi anche i gruppi consiliari i quali, in considerazione delle peculiari funzioni loro proprie o per esigenze di servizio, non sono in grado di ricorrere a personale proveniente dal ruolo unico regionale (art. 6, comma 1, della legge regionale n. 34 del 1988) e che, quindi, possono avvalersi di personale esterno.

Riferisce la Regione che l'incarico al personale esterno, per espressa previsione dell'art. 6, comma 4, della suddetta legge regionale n. 34 del 1988, «è conferito dall'ufficio di presidenza, su richiesta nominativa del Presidente del gruppo». L'ufficio di presidenza, ai sensi dell'art. 17, comma 2, dello statuto regionale, «assicura ai singoli gruppi, per l'assolvimento delle loro funzioni, la disponibilità di strutture, personale e servizi e assegna ad essi risorse a carico del bilancio del Consiglio, secondo le modalità indicate dalla legge regionale» e, per conferire incarichi a personale esterno, deve osservare quanto previsto dall'art. 10, comma 9, del regolamento interno del Consiglio regionale, per il quale «il conferimento dell'incarico a persone estranee all'amministrazione regionale deve essere corredato da un dettagliato curriculum professionale del prestatore, atto a dimostrare le esperienze specifiche nella materia o nel settore cui si riferisce l'incarico».

La specificità degli incarichi così conferiti sarebbe peraltro confermata dallo stesso art. 6, comma 4, lettera b), della legge regionale n. 34 del 1988, che esclude espressamente la possibilità che essi possano costituire un canale di accesso privilegiato all'impiego, prevedendo che «la durata dell'incarico non può superare quella della legislatura».

Per quanto concerne la norma di cui all'art. 5 della legge regionale n. 7 del 2008, la Regione Marche osserva che si tratta di una disposizione transitoria e giustificata da esigenze specifiche ed eccezionali, legate alla riorganizzazione delle strutture amministrative regionali.

In altri termini, la norma sarebbe ispirata alla finalità di permettere che, per l'esperienza e la professionalità acquisita, possano essere utilizzate unità di personale che appaiano in grado di assicurare funzionalità ed efficienza del servizio al quale vengono preposte, requisiti che sono oggetto di attenta e ponderata valutazione da parte dell'amministrazione regionale, tenuto conto, fra l'altro, che la normativa impugnata non prevede un conferimento obbligatorio (l'art. 5, comma 2, stabilisce infatti che tali rapporti «possono essere conferiti...»), e che, comunque, è stabilito che tali rapporti siano instaurati ai sensi dell'articolo 22, comma 3-bis, lettera b), della legge regionale 15 ottobre 2001, n. 20, quindi con tutte le garanzie poste da tale normativa.

La legge regionale n. 20 del 2001, infatti, per espressa previsione dell'art. 1, comma 1, «riordina la normativa regionale in materia di organizzazione e personale, in attuazione dei principi contenuti nel decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» e si premura di precisare, al comma 2, che «l'organizzazione amministrativa della Giunta regionale è disciplinata secondo i principi stabiliti dalla presente legge in modo di assicurare: […] c) l'imparzialità, la trasparenza e la tempestività dell'azione amministrativa», nonché «g) la formazione permanente del proprio personale, anche dirigenziale, per garantire una elevata motivazione all'innovazione organizzativa e per alimentare un continuo e coerente accrescimento ed aggiornamento professionale; h) la migliore utilizzazione delle risorse umane, il rispetto della parità e pari opportunità tra uomini e donne per l'accesso al lavoro e l'applicazione di condizioni uniformi di trattamento tra lavoratrici e lavoratori».

Peraltro, anche per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa l'ufficio di presidenza del Consiglio regionale, nel proporre il conferimento di incarico, è tenuto ad osservare il suddetto art. 10, comma 9, del regolamento del Consiglio, corredando il relativo provvedimento con «un dettagliato curriculum professionale del prestatore, atto a dimostrare le esperienze specifiche nella materia o nel settore cui si riferisce l'incarico».

Di qui, secondo la difesa della Regione, discenderebbe l'infondatezza e l'arbitrarietà del profilo di illegittimità eccepito dal ricorrente, laddove interpreta le norme impugnate nel senso di consentire «un'irragionevole facoltà di ricorso a soggetti privi della indispensabile professionalità».

La specificità degli incarichi così conferiti e muniti delle suddette garanzie sarebbe poi confermata dallo stesso art. 22 della legge regionale n. 20 del 2001, che esclude espressamente la possibilità che essi costituiscano un canale di accesso privilegiato all'impiego, prevedendo che «gli incarichi di cui al presente articolo cessano contestualmente alla cessazione dell'ufficio del Presidente o dei singoli componenti della Giunta regionale che li hanno proposti» (art. 22, comma 5).

Riferisce infine la Regione che anche altre normative regionali prevedono il ricorso ad esterni nell'assegnazione di personale per i gruppi consiliari, disciplinando autonomamente le relative modalità di impiego. In particolare, la resistente menziona la legge della Regione Lombardia 7 settembre 1996, n. 21 (Ordinamento della struttura organizzativa e della dirigenza del Consiglio regionale) e la legge della Regione Piemonte 8 giugno 1981, n. 20 (Assegnazione di personale ai gruppi consiliari), nel testo modificato dalla legge della Regione Piemonte 13 ottobre 1999, n. 26.

3. – Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, la Regione Marche ha illustrato ulteriormente le proprie conclusioni, chiedendo preliminarmente che la questione sia dichiarata inammissibile per mancata indicazione del parametro costituzionale, per omessa indicazione delle materie asseritamente coinvolte dalle disposizioni censurate e per genericità della motivazione.

Nel merito, la difesa della Regione ha sottolineato che il d.lgs. n. 165 del 2001, per effetto delle disposizioni contenute negli artt. 4 e 14 della stessa, non è applicabile a tutti gli organi di vertice delle amministrazioni pubbliche che siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, come i Consigli e le Giunte delle Regioni, per i quali sarebbe istituzionalizzato il ricorso ad uffici cosiddetti di diretta collaborazione, formati da persone qualificate assunte con contratti a tempo determinato; il che legittimerebbe l'estensione del predetto concetto di «uffici di diretta collaborazione» anche ai corrispondenti vertici regionali. Questo sistema, che troverebbe espressione in numerosi regolamenti governativi attuativi di tale scelta organizzativa per i diversi Ministeri, sarebbe la manifestazione esplicita dell'esigenza di dotare gli uffici di diretta collaborazione di personale che goda della fiducia attuale e concreta del titolare dell'organo politico.

La difesa della Regione sottolinea, infine, che una disposizione del proprio statuto (art. 48 della legge regionale statutaria 8 marzo 2005, n. 1) prevede espressamente, quanto al personale facente parte della struttura organizzativa del Consiglio, che, per la direzione delle strutture di maggiore complessità e per lo svolgimento di attività richiedenti particolari competenze e esperienze professionali, possono essere conferiti incarichi a tempo determinato anche a soggetti esterni all'amministrazione, nei limiti e con le modalità stabiliti dalla legge regionale. Di tale norma sarebbero espressione la già citata legge regionale n. 20 del 2001, nonché l'art. 10, comma 9, del regolamento interno del Consiglio regionale.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, con riferimento agli articoli 117, 3 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 5, comma 2, della legge della Regione Marche 29 aprile 2008, n. 7 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 10 agosto 1988, n. 34 “Finanziamento delle attività dei gruppi consiliari”), nella parte in cui consentono il conferimento di incarichi e l'instaurazione di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa presso i gruppi consiliari e le segreterie della Giunta regionale a personale esterno all'amministrazione regionale, indipendentemente dal possesso dei requisiti fissati dall'articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), come da ultimo modificato dall'articolo 3, comma 76, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008).

Le due disposizioni censurate modificano, rispettivamente, l'art. 6 della legge della Regione Marche 10 agosto 1988, n. 34 (Finanziamento delle attività dei gruppi consiliari) e l'art. 22-bis della legge della Regione Marche 15 ottobre 2001, n. 20 (Norme in materia di organizzazione e di personale della Regione).

La prima delle due disposizioni censurate stabilisce che i gruppi consiliari, in considerazione delle peculiari funzioni loro proprie o per esigenze di servizio, qualora non siano in grado di ricorrere a personale proveniente dal ruolo unico regionale, possono alternativamente avvalersi, nei limiti del contingente previsto dal precedente art. 4 e con spesa a carico del bilancio della Regione: a) di personale comandato dallo Stato ivi compreso il personale docente, amministrativo e ausiliario delle scuole, dagli enti locali o da altri enti pubblici, ai sensi dell'art. 56 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e della vigente normativa regionale; b) di personale esterno, limitatamente ad una unità per gruppo. L'incarico al personale esterno, prosegue la norma censurata, è conferito dall'ufficio di presidenza, su richiesta nominativa del Presidente del gruppo, alternativamente con rapporto di lavoro dipendente a termine o con rapporto di lavoro autonomo. La norma poi stabilisce che la durata dell'incarico non può superare quella della legislatura.

E' qui che interviene la disposizione censurata, introducendo la regola in base alla quale detto incarico può essere conferito indipendentemente dal possesso dei requisiti indicati al comma 6 dell'articolo 7 del decreto legislativo n. 165 del 2001.

La seconda norma censurata (inserita tra le disposizioni transitorie e finali) prevede, a sua volta, che gli uffici delle segreterie particolari della Giunta regionale, per sopperire alle proprie esigenze lavorative, possano essere integrati (oltre che con rapporti di lavoro subordinato a termine, ai sensi dell'art. 22) con due unità di personale esterne all'amministrazione. Con esse è possibile stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Anche per tale tipologia di contratti la norma introduce la regola in base alla quale detto incarico può essere conferito indipendentemente dal possesso dei requisiti indicati al comma 6 dell'articolo 7 del decreto legislativo n. 165 del 2001.

La suddetta disposizione statale, nel testo risultante a seguito delle numerose riforme avvicendatesi nel tempo, stabilisce che le amministrazioni pubbliche, per esigenze cui non è possibile far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, soltanto in presenza di alcuni presupposti di legittimità (l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno; la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata; devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione). Inoltre, si precisa che gli incarichi in oggetto possano essere conferiti solo ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, ammettendo che si possa prescindere da tale requisito esclusivamente in caso di stipulazione di contratti d'opera per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o da soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo o dei mestieri artigianali, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.

Deve darsi atto che, successivamente alla proposizione del ricorso, una delle norme novellate dalla disposizione censurata, l'art. 6 della legge regionale n. 34 del 1988, ha formato oggetto di due successivi interventi di modifica. L'art. 1, comma 1, della legge della Regione Marche 15 luglio 2008, n. 22 (Modifica all'art. 6, comma 4, della legge regionale 10 agosto 1988, n. 34 “Finanziamento dell'attività dei gruppi consiliari”) ne ha modificato alcuni aspetti marginali. A sua volta, la legge regionale del 4 agosto 2008, n. 27 (Modifiche alla legge regionale 15 ottobre 2001, n. 20 “Norme in materia di organizzazione e di personale della Regione”, alla legge regionale 30 giugno 2003, n. 14 “Riorganizzazione della struttura amministrativa del consiglio regionale” e alla legge regionale 10 agosto 1988, n. 34 “Finanziamento delle attività dei gruppi consiliari”), di poco successiva alla prima, ha ridisciplinato integralmente la materia, abrogando, con l'art. 12, la norma censurata e, con l'art. 7, riversandone integralmente il contenuto in altri due articoli della legge novellata, gli articoli 4 e 5.

Anche in seguito a tali sopravvenienze in entrambe le norme è rimasta tuttavia immutata la deroga dal rispetto dai criteri dettati dall'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, che costituisce il nucleo delle odierne questioni di costituzionalità. Conseguentemente, essendo rimasta sostanzialmente inalterata la disciplina censurata, deve ritenersi ancora sussistente l'interesse dello Stato al ricorso, dovendosi presumere che la stessa medio tempore abbia avuto applicazione.

Tornando alle questioni proposte, secondo la difesa erariale, le deroghe introdotte, dalla normativa di cui si tratta, ai criteri dettati in ambito nazionale dall'art. 7, comma 6, sopra citato contrasterebbero con quelli che, in forza di quanto statuito nell'art. 1 della stessa legge statale indicata come parametro interposto, costituirebbero dei principi fondamentali dell'ordinamento, ai sensi dell'art. 117 della Costituzione.

Esse poi violerebbero anche gli artt. 3 e 97 della Costituzione (irragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione).

2. – Le questioni, con riferimento all'art. 117 Cost., sono inammissibili. A prescindere dalla circostanza che tale parametro non è indicato in modo chiaro e autonomo nella delibera autorizzatoria, deve rilevarsi che il Presidente del Consiglio dei ministri, nel ricorso, non indica né quale materia sia quella incisa dalle norme censurate, né la stessa tipologia di competenza legislativa statale – principale o concorrente – a suo dire violata (vedi, per tutte, per l'inammissibilità di ricorsi privi della motivazione sulle materie asseritamente incise dalla normativa impugnata, ordinanza n. 175 del 2009 e sentenza n. 38 del 2007).

3. – Le questioni sollevate con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. sono fondate.

Il riconoscimento, a favore dei gruppi consiliari – e, per analogia di situazioni, delle Giunte regionali –, di un certo grado di autonomia nella scelta dei propri collaboratori esterni (v. sentenze n. 187 del 1990 e n. 1130 del 1988), non esime la Regione dal rispetto del canone di ragionevolezza e di quello del buon andamento della pubblica amministrazione.

Questa Corte, infatti, ha dichiarato che «la previsione dell'assunzione (sia pure a tempo determinato) di personale sfornito dei requisiti normalmente richiesti per lo svolgimento delle funzioni che è destinato ad espletare determina l'inserimento nell'organizzazione pubblica di soggetti che non offrono le necessarie garanzie di professionalità e competenza» (sentenza n. 27 del 2008).

Orbene, a parte la considerazione che la citata disposizione statale, contenuta nel d.lgs. n. 165 del 2001, non comprime affatto l'autonomia delle Regioni, ma si limita a stabilire dei criteri oggettivi di professionalità, che non mettono in discussione il carattere discrezionale della scelta dei collaboratori, c'è da dire che la Regione, per accentuare tale carattere ben può derogare ai criteri statali, purché preveda, però, in alternativa, altri criteri di valutazione, ugualmente idonei a garantire la competenza e professionalità dei soggetti di cui si avvale ed a scongiurare il pericolo di un uso strumentale e clientelare delle cosiddette esternalizzazioni.

Nella legislazione della Regione Marche, d'altro canto, non sono rinvenibili criteri di valutazione idonei a garantire che la scelta dei collaboratori esterni avvenga, nell'ipotesi in esame, secondo i canoni della buona amministrazione.

Non è richiamabile al riguardo, ad esempio, la disposizione di cui all'art. 11, comma 4, della legge regionale n. 27 del 2008 – che, peraltro, è disposizione successiva a quella impugnata – la quale si limita a dettare, per la individuazione dei collaboratori esterni, un criterio di preferenza in favore di quelli eventualmente già impiegati in precedenza, senza fissare alcun requisito attitudinale. Non lo è la disposizione di cui all'art. 10 del regolamento interno del Consiglio, secondo il quale il conferimento di un incarico a persone estranee all'amministrazione deve essere corredato da un dettagliato curriculum dell'interessato, dato che tale norma riguarda solo le consulenze tecnico professionali e le attività di studio. Né si può utilizzare la previsione dell'art. 1, comma 2, della legge regionale n. 20 del 2001 che détta criteri generici e non riferibili al personale di cui al successivo art. 22, comma 3-bis, della stessa legge. Neppure, infine, si può ricorrere alla disposizione di cui all'art. 48 della legge regionale statutaria n. 1 del 2005, che è riferibile solo agli incarichi richiedenti una alta professionalità e non a tutti i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

4. – In conclusione, entrambe le norme censurate, nel dispensare le amministrazioni dall'osservanza della disposizione di cui all'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, si pongono in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. La Regione Marche, nel disciplinare in modo autonomo le modalità di selezione del personale esterno destinato a collaborare con i gruppi consiliari e le segreterie della Giunta, non ha previsto alcun criterio selettivo alternativo a quelli dettati dalla legge statale. È consentito così l'accesso a tali uffici di personale esterno del tutto privo di qualificazione, in modo irragionevole e in violazione del canone di buon andamento della pubblica amministrazione.

Deve, dunque, essere dichiarata l'illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 1, e 5, comma 2, della legge della Regione Marche n. 7 del 2008, nella parte in cui, dette norme, consentono il conferimento di incarichi a personale esterno all'amministrazione regionale e l'instaurazione di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, indipendentemente dal possesso dei requisiti fissati dall'articolo 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001.

5. – Le indicate ragioni di illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge della Regione Marche n. 7 del 2008 valgono anche per gli interventi di modifica della stessa introdotti dai citati art. 1, comma 1, della legge regionale n. 22 del 2008 e dall'art. 7, comma 4, lettera b), della successiva legge regionale n. 27 del 2008.

Come si è detto, in entrambi i sopra descritti interventi di riforma, è stata sostanzialmente riprodotta, all'interno delle disposizioni concernenti il ricorso a personale esterno, la stessa deroga, per il ricorso da parte dei gruppi consiliari alla collaborazione di esterni, al rispetto dei requisiti soggettivi stabiliti dall'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, deroga che costituisce, come si è visto, il nucleo centrale della odierna questione di costituzionalità.

Pertanto, in conformità con quanto statuito da questa Corte in un analogo caso di avvicendamento nel tempo di norme sostanzialmente identiche (sentenza n. 74 del 2009) la pronuncia di illegittimità, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere estesa, in via consequenziale, a tali disposizioni sopravvenute, nella parte in cui – per il ricorso da parte dei gruppi consiliari alla collaborazione di esterni – prevedono la deroga al possesso dei requisiti soggettivi stabiliti dall'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001.

per questi motivi

la corte costituzionale

dichiara l'illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 1, e 5, comma 2, della legge della Regione Marche 29 aprile 2008, n. 7 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 10 agosto 1988, n. 34 “Finanziamento delle attività dei gruppi consiliari”), nella parte in cui consentono il conferimento di incarichi a personale esterno all'amministrazione regionale e l'instaurazione di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, indipendentemente dal possesso dei requisiti fissati dall'articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche);

dichiara altresì l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge della Regione Marche 15 luglio 2008, n. 22 (Modifica all'art. 6, comma 4, della legge regionale 10 agosto 1988, n. 34 “Finanziamento dell'attività dei gruppi consiliari”) e dell'art. 7, comma 4, lettera b), della legge della Regione Marche 4 agosto del 2008, n. 27 (Modifiche alla legge regionale 15 ottobre 2001, n. 20 “Norme in materia di organizzazione e di personale della Regione”, alla legge regionale 30 giugno 2003, n. 14 “Riorganizzazione della struttura amministrativa del consiglio regionale” e alla legge regionale 10 agosto 1988, n. 34 “Finanziamento delle attività dei gruppi consiliari”), nelle parti in cui dette norme consentono il conferimento di incarichi a personale esterno all'amministrazione regionale e l'instaurazione di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, indipendentemente dal possesso dei requisiti fissati dall'articolo 7, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 5, comma 2, della suddetta legge della Regione Marche n. 7 del 2008, sollevate, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 luglio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2009.

Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA

lunedì 14 settembre 2009

Privacy, no pubblicazione on line dati di salute

"le amministrazioni locali ritengano di valorizzare con propri regolamenti, anche l'utilizzo di reti telematiche per mettere a disposizione atti e documenti contenti dati personali, sono tenute comunque, nel rispetto dell'obbligo di adeguata motivazione degli atti amministrativi, a selezionare con estrema attenzione i dati personali da diffondere non solo alla luce dei princìpi di pertinenza, non eccedenza e indispensabilità rispetto alle finalità perseguite dai singoli provvedimenti, ma anche in relazione al divieto di diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute (cfr. Provv. 14 giugno 2007 e 19 aprile 2007 cit., rispettivamente punto 6.3 e 9);"

GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, PROVVEDIMENTO 25 giugno 2009

Lavoro pubblico: diffusione on-line di dati sullo stato di salute di un dipendente.

IL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI

Nella riunione odierna, in presenza del prof. Francesco Pizzetti, presidente, del dott. Giuseppe Chiaravalloti, vice presidente, del dott. Mauro Paissan e del dott. Giuseppe Fortunato, componenti e del dott. Filippo Patroni Griffi, segretario generale;

VISTO il decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali;

VISTA la segnalazione del 25 maggio 2009 con la quale la Sig.ra XY, dipendente della Provincia di Foggia, afferma che da una ricerca effettuata in Internet mediante il motore di ricerca Google ha riscontrato che il proprio nome e cognome è riportato in alcune determinazioni pubblicate sul sito Internet della medesima provincia;

VISTO l'accertamento preliminare effettuato dall'Ufficio del Garante in data 4 giugno 2009 in base al quale è stato verificato che due determinazioni del responsabile del settore risorse umane, organizzazione e metodo, aventi ad oggetto la richiesta dell'interessata di riconoscimento dell'infermità da causa di servizio e recanti informazioni personali anche sensibili della stessa, sono liberamente consultabili, non solo mediante il predetto motore di ricerca, ma anche direttamente sul sito istituzionale della Provincia di Foggia, agli indirizzi http://www.provincia.foggia.it/upload_determine/....pdf e http://www.provincia.foggia.it/upload_determine/....pdf;

RILEVATO che tali dati sono disponibili, integralmente e senza alcuna limitazione mediante la semplice operazione di visualizzazione del testo dei summenzionati documenti attraverso la consultazione di alcune delle pagine Internet del sito della Provincia, www.provincia.foggia.it, accessibili sia attraverso il predetto motore di ricerca, sia direttamente dall'home page dello stesso sito;

RILEVATO, altresì, che una delle determinazioni pubblicate riporta, accanto all'indicazione del nome e cognome dell'interessata, anche il giudizio medico-legale circa l'ascrivibilità "alla Tab, "A" cat. 8^ max" dell'infermità accertata nell'ambito del procedimento di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio;

CONSIDERATO che il nominativo della dipendente riportato nel testo delle determinazioni, unitamente al riferimento alla richiesta dell'interessata di riconoscimento della causa di servizio, nonché alla menzione della classificazione tabellare della menomazione complessiva riscontrata, che fa riferimento alle tabelle previste dalla vigente normativa in materia, recanti un elenco di specifiche lesioni e infermità, sono da ritenersi informazioni idonee a rivelare lo stato di salute dell'interessata (v. art. 2, c. 7, d.P.R. 29 ottobre 2001, n. 461 e tab. A allegata al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834; v. anche art. 6 decr. 12 febbraio 2004);

CONSIDERATO che la pubblicazione di tali informazioni configura una diffusione di dati idonei a rivelare lo stato di salute e che il Codice vieta la diffusione di queste informazioni (artt. 4, comma 1, lett. d) e m) e 22, comma 8 e 26, comma 5);

CONSIDERATO che i lavoratori, nel rapporto con il proprio datore di lavoro pubblico, hanno diritto di ottenere che il trattamento dei dati effettuato mediante l'uso di tecnologie telematiche sia conformato al rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell'interessato (artt. 2, comma 5, e 50 d.lg. 7 marzo 2005, n. 82 così come modificato dal d.lg. 4 aprile 2006, n. 159; cfr. anche Provv. 14 giugno 2007, consultabile sul sito Internet dell'Autorità www.garanteprivacy.it, doc. web n. 1417809);

RICHIAMATE le indicazioni fornite in passato dal Garante agli enti locali circa l'utilizzo delle tecnologie dell'informazione, in base alle quali le disposizioni legislative o regolamentari che prevedono forme di pubblicazione obbligatoria delle deliberazioni adottate o degli atti conclusivi di taluni procedimenti amministrativi "non autorizzano di per sé, a trasporre tutte le deliberazioni così pubblicate in una sezione del sito Internet dell'ente liberamente consultabile" (artt. 11 e 22 del Codice; Provv. 19 aprile 2007, doc. web n. 1407101, punto 6; Provv. 14 giugno 2007, cit. punto 6);

CONSIDERATO altresì che, ove le amministrazioni locali ritengano di valorizzare con propri regolamenti, anche l'utilizzo di reti telematiche per mettere a disposizione atti e documenti contenti dati personali, sono tenute comunque, nel rispetto dell'obbligo di adeguata motivazione degli atti amministrativi, a selezionare con estrema attenzione i dati personali da diffondere non solo alla luce dei princìpi di pertinenza, non eccedenza e indispensabilità rispetto alle finalità perseguite dai singoli provvedimenti, ma anche in relazione al divieto di diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute (cfr. Provv. 14 giugno 2007 e 19 aprile 2007 cit., rispettivamente punto 6.3 e 9);

RITENUTO, pertanto, che nella pubblicazione di atti e documenti, indipendentemente dalla modalità utilizzata, l'amministrazione provinciale deve astenersi da ogni forma di diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute degli interessati (art. 22, comma 8, del Codice);

CONSIDERATO che, sulla base delle informazioni allo stato acquisite, le pagine del sito Internet sopra menzionato risultano essere gestite dalla Provincia di Foggia, avente sede in Foggia, Piazza XX Settembre;

CONSIDERATO che il Garante, ai sensi dell'art. 154, comma 1, lett. d), del Codice, ha il compito di vietare, anche d'ufficio, il trattamento illecito o non corretto dei dati o di disporne il blocco e di adottare gli altri provvedimenti previsti dalla disciplina applicabile al trattamento dei dati personali;

RITENUTO necessario, anche in ragione della delicatezza delle informazioni oggetto di diffusione e del concreto rischio di un pregiudizio rilevante per la dipendente interessata, disporre in via d'urgenza il blocco del trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute della Sig.ra XY conoscibili sia mediante il motore di ricerca Google, che attraverso la consultazione delle determinazioni dirigenziali sul sito web della Provincia di Foggia, con conseguente obbligo per la Provincia di astenersi da ogni altra diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute dell'interessata;

RITENUTO di valutare, con separato provvedimento, gli estremi per contestare alla Provincia la violazione amministrativa prevista dall'art. 162, comma 2-bis, del Codice come modificato dalla legge 27 febbraio 2009, n. 14 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge n. 207 del 30 dicembre 2008;

TENUTO CONTO che, ai sensi dell'art. 170 del Codice, chiunque, essendovi tenuto, non osserva il provvedimento di blocco del Garante è punito con la reclusione da tre mesi a due anni;

VISTA la documentazione in atti;

VISTE le osservazioni dell'Ufficio, formulate dal segretario generale ai sensi dell'art. 15 del regolamento del Garante n. 1/2000 del 28 giugno 2000;

Relatore il dott. Giuseppe Fortunato;

TUTTO CIO' PREMESSO IL GARANTE:

ritenuta l'illiceità del trattamento, dispone, ai sensi dell'art. 154, comma 1, lett. d), del Codice, nei confronti della Provincia di Foggia o di altro soggetto che risulti titolare, contitolare o responsabile del trattamento dei dati in questione, con effetto dalla notifica del presente provvedimento, il blocco del trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute della Sig.ra XY conoscibili sia mediante il motore di ricerca Google, sia attraverso la consultazione delle determinazioni dirigenziali sul sito web della Provincia di Foggia www.provincia.foggia.it, con conseguente obbligo di astenersi da ogni altra diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute dell'interessata, fermo restando il rispetto delle richiamate esigenze di trasparenza delle deliberazioni dell'ente, in conformità alla legge.

Roma, 25 giugno 2009

IL PRESIDENTE
Pizzetti

IL RELATORE
Fortunato

IL SEGRETARIO GENERALE
Patroni Griffi

giovedì 10 settembre 2009

CALENDARIO SCOLASTICO ANNO 2009/2010

MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA, ORDINANZA 5 AGOSTO 2009, N. 74

Il calendario delle festività, in conformità alle disposizioni vigenti, relative all'anno scolastico 2009/2010, è il seguente:

tutte le domeniche;
il 1° novembre, festa di tutti i Santi;
l'8 dicembre, Immacolata Concezione;
il 25 dicembre Natale;
il 26 dicembre;
il 1° gennaio, Capodanno;
il 6 gennaio Epifania;
il 5 aprile, lunedì dopo Pasqua;
il 25 aprile, anniversario della Liberazione;
il 1° maggio, festa del Lavoro;
il 2 giugno, festa nazionale della Repubblica;
la festa del Santo Patrono.



CALENDARIO SCOLASTICO NAZIONALE PER L'ANNO 2009/2010.

Dipartimento per l'Istruzione

Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l'Autonomia Scolastica - Ufficio VI

IL MINISTRO

VISTO l'art. 74, comma 5, del Decreto Legislativo 16 aprile 1994, n. 297 e successive modificazioni, per il quale "Il Ministro della pubblica istruzione, sentito il Consiglio nazionale della pubblica istruzione, determina, con propria ordinanza, il termine delle attività didattiche e delle lezioni, le scadenze per le valutazioni periodiche ed il calendario delle festività e degli esami."

VISTO l'art. 138 del Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n.112, che delega alle Regioni la determinazione del calendario scolastico a far tempo dall'anno scolastico 2002/2003;

RITENUTO che, ferma restando la delega sopra richiamata, è propria del Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca la competenza relativa:
- alla determinazione, per l'intero territorio nazionale, della data della prova scritta, a carattere nazionale, compresa nell'esame di Stato conclusivo del primo ciclo di istruzione (prova di cui all'articolo 11, comma 4-ter del decreto legislativo 19 febbraio 2004,n.59);
- alla determinazione, per l'intero territorio nazionale, della data di inizio (prima prova) dell'esame di Stato conclusivo dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore;
- alla determinazione del calendario delle festività a rilevanza nazionale;

VISTO l'art. 74, comma 2, del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 e successive modificazioni, per il quale "Le attività didattiche, comprensive anche degli scrutini e degli esami, e quelle di aggiornamento, si svolgono nel periodo compreso tra il 1° settembre ed il 30 giugno con eventuale conclusione nel mese di luglio degli esami di maturità";

VISTO l'art. 184, commi 2 e 3, del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 e successive modificazioni, per i quali "L'esame di licenza media si sostiene in un'unica sessione con possibilità di prove suppletive per i candidati assenti per gravi e comprovati motivi. Le prove suppletive devono concludersi prima dell'inizio delle lezioni dell'anno scolastico successivo";

VISTA l'articolo 7, comma 2, dell'ordinanza ministeriale 29 luglio 1997, n. 445 ("Educazione in età adulta - Istruzione e formazione"), per il quale "Le prove d'esame, per coloro per i quali è previsto all'interno del patto formativo il conseguimento del titolo di licenza media, vengono predisposte al termine delle attività, anche in periodi non coincidenti con quelli dei corsi ordinari in relazione a specifici progetti finalizzati";

ATTESA l'esigenza di procedere agli adempimenti sopra menzionati per l'anno scolastico 2009/2010;

ACQUISITO il parere del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione espresso nell'adunanza del 22 giugno 2009;

ORDINA

Art. 1 - La prova scritta, a carattere nazionale, nell'ambito dell'esame di Stato conclusivo del primo ciclo di istruzione si svolge, per l'anno scolastico 2009/2010, per l'intero territorio nazionale ed in sessione ordinaria il giorno 17 giugno 2010, con inizio alle ore 8.30; in prima e seconda sessione suppletiva potrà essere espletata il giorno 28 giugno 2010 ed il giorno 3 settembre 2010, con inizio alle ore 8.30.

Art. 2 - Le sessioni speciali di esame di Stato conclusivo del primo ciclo di istruzione per gli studenti iscritti e frequentanti i Centri Territoriali Permanenti possono essere effettuate unicamente nei mesi di dicembre 2009 e febbraio 2010, in date da definirsi dal Ministero. Le istituzioni scolastiche interessate dovranno informarne i Direttori generali degli Uffici scolastici regionali i quali avranno cura di chiedere al Ministero il testo della prova scritta a carattere nazionale.

Art. 3 - L'esame di Stato conclusivo dei corsi di studio di istruzione secondaria di secondo grado per l'anno scolastico 2009/2010 ha inizio, per l'intero territorio nazionale, con la prima prova scritta, il giorno 22 giugno 2010, alle ore 8.30.

Art. 4 - Sessioni speciali di esami di qualifica professionale e di licenza di maestro d'arte possono essere effettuate anche nel corso dell'anno scolastico. Ciò al fine di venire incontro, nella misura più ampia e partecipata, alle esigenze di coloro che, in età adulta, intendano conseguire i rispettivi titoli di studio. L'individuazione delle date nelle quali tenere tali sessioni di esami è rimessa alle determinazioni organizzative delle singole istituzioni scolastiche, statali e paritarie.

Art. 5 - Il calendario delle festività, in conformità alle disposizioni vigenti, relative all'anno scolastico 2009/2010, è il seguente:

tutte le domeniche;
il 1° novembre, festa di tutti i Santi;
l'8 dicembre, Immacolata Concezione;
il 25 dicembre Natale;
il 26 dicembre;
il 1° gennaio, Capodanno;
il 6 gennaio Epifania;
il 5 aprile, lunedì dopo Pasqua;
il 25 aprile, anniversario della Liberazione;
il 1° maggio, festa del Lavoro;
il 2 giugno, festa nazionale della Repubblica;
la festa del Santo Patrono.

La presente ordinanza sarà inviata alla Corte dei Conti per la registrazione.

mercoledì 9 settembre 2009

Tassa rifiuti, illegittima l'applicazione dell'Iva

CORTE COSTITUZIONALE 24 luglio, Sentenza 238/2009
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

"Le caratteristiche strutturali e funzionali della TIA disciplinata dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 rendono evidente che tale prelievo presenta tutte le caratteristiche del tributo menzionate al punto 7.2.1. e che, pertanto, non è inquadrabile tra le entrate non tributarie, ma costituisce una mera variante della TARSU disciplinata dal d.P.R. n. 507 del 1993 (e successive modificazioni), conservando la qualifica di tributo propria di quest'ultima. A tale conclusione, del resto, si giunge anche considerando che, tra le possibili interpretazioni della censurata disposizione e dell'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, deve essere preferita quella che, negando la violazione del secondo comma dell'art. 102 Cost., appare conforme a Costituzione (sulla necessità, in generale, di privilegiare un'interpretazione costituzionalmente orientata, ex plurimis: sentenza n. 308 del 2008, ordinanze n. 146 e n. 117 del 2009)"


Presidente AMIRANTE - Redattore GALLO
Camera di Consiglio del 10/06/2009 Decisione del 16/07/2009
Deposito del 24/07/2009 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 2, c. 2°, secondo periodo, del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546, aggiunto dall'art. 3 bis, c. 1°, lett. b), del decreto legge 30/09/2005, n. 203, convertito, con modificazioni, in legge 02/12/2005, n. 248.
Massime:
Titoli:
Atti decisi: ord. 445/2008 e 21/2009


CORTE COSTITUZIONALE
SENTENZA N. 238

ANNO 2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco AMIRANTE Presidente

- Ugo DE SIERVO Giudice

- Paolo MADDALENA “

- Alfonso QUARANTA “

- Franco GALLO “

- Luigi MAZZELLA “

- Gaetano SILVESTRI “

- Sabino CASSESE “

- Maria Rita SAULLE “

- Giuseppe TESAURO “

- Paolo Maria NAPOLITANO “

- Giuseppe FRIGO “

- Alessandro CRISCUOLO “

- Paolo GROSSI “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promossi con ordinanze del 17 luglio 2008 dal Giudice di pace di Catania e del 7 novembre 2008 dalla Commissione tributaria provinciale di Prato, rispettivamente iscritte al n. 445 del registro ordinanze 2008 e al n. 21 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 e n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2009.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 giugno 2009 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio di opposizione all'esecuzione proposto ai sensi dell'art. 615 del codice di procedura civile, il Giudice di pace di Catania, con ordinanza depositata il 17 luglio 2008 (r.o. n. 445 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli artt. 25, primo comma, 102, secondo comma, e VI disposizione transitoria della Costituzione, questioni di legittimità dell'art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 – nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie relative alla debenza del canone […] per lo smaltimento di rifiuti urbani».

1.1. – Il Giudice di pace rimettente premette, in punto di fatto, che: a) il contribuente si è opposto, ai sensi dell'art. 615 cod.proc.civ., al diritto del Comune di Catania di procedere, a séguito della notificazione di una cartella di pagamento, alla riscossione coattiva «della tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani, oggi tariffa di igiene ambientale (TIA), per gli anni 1997, 1998, 1999 e 2000»; b) la convenuta s.p.a. SERIT Sicilia, agente della riscossione per la provincia di Catania, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adíto, essendo la controversia devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie, ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992.

1.2. – Il medesimo giudice rimettente premette altresí, in punto di diritto, che: a) «con l'emanazione del cosiddetto decreto Ronchi» (art. 49 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, recante «Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio») la tassa sui rifiuti solidi urbani (TARSU), disciplinata dall'art. 58 del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, è stata sostituita con un prelievo di natura non piú tributaria, ma privatistica, cioè con la tariffa di igiene ambientale (TIA), determinata in base al costo complessivo del servizio, «al fine di far pagare agli utenti il costo del reale servizio usufruito»; b) la natura non tributaria della TIA è desumibile sia dalla denominazione di «tariffa» sia dalla sua determinazione quantitativa in ragione della copertura del costo del servizio, a nulla rilevando – contrariamente a quanto affermato dalla Corte di cassazione con le sentenze n. 13902 del 2007 e n. 4895 del 2006 – né il fatto che la sua disciplina presenterebbe elementi di natura tributaria e non tributaria né il fatto che essa subentra alla TARSU, cioè ad una entrata avente indiscussa natura tributaria.

1.3. – Su tali premesse, il giudice a quo afferma che la norma censurata – nell'attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie, di natura non tributaria, in materia di TIA – «comporta lo snaturamento della giurisdizione tributaria e, quindi, la violazione» degli evocati parametri costituzionali, perché, come piú volte affermato dalla Corte costituzionale, «la giurisdizione del giudice tributario deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto» (sentenza n. 64 del 2008; ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006).

1.4. – Quanto alla rilevanza, il Giudice di pace osserva che la decisione sulla controversia «non potrà prescindere dall'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal convenuto, eccezione la cui fondatezza dipende dall'applicabilità, nel giudizio principale, della disposizione censurata».

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Giudice di pace di Catania ed ha chiesto dichiararsi manifestamente inammissibili, per difetto di motivazione, le questioni sollevate in riferimento al primo comma dell'art. 25 ed alla VI disposizione transitoria Cost., nonché manifestamente infondata quella sollevata in riferimento al secondo comma dell'art. 102 Cost. In particolare, in relazione a quest'ultima questione, la difesa erariale afferma che: a) l'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 ha soppresso, in attuazione di direttive comunitarie, la «tassa per lo smaltimento dei rifiuti urbani» ed ha istituito una «tariffa» per la copertura dei costi del servizio di smaltimento; b) l'art. 238 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nel quale – sempre per la difesa erariale – «è stata trasfusa la disciplina della tariffa», «non presenta […] caratteri di sostanziale diversità rispetto alla previgente “tassa per lo smaltimento dei rifiuti”, considerata la sostanziale identità del presupposto oggettivo e dei soggetti passivi, nonché la confermata obbligatorietà del prelievo»; c) l'obbligo del privato di pagare detta tariffa scaturisce, pertanto, da un fatto individuato direttamente dalla legge e non da un titolo contrattuale o da un fatto comunque fonte di un rapporto negoziale; d) inoltre, la tariffa prevede la copertura di costi (come ad esempio le spese di spazzamento delle strade) estranei alla logica della corrispondenza tra costi e benefici e riferibili, piuttosto, alla collettività; e) la tariffa, dunque, in considerazione della doverosità e del fondamento solidaristico della prestazione, va qualificata come “tassa”, cioè come una forma di finanziamento di un servizio pubblico attraverso l'imposizione dei relativi costi sull'area sociale che da tale servizio riceve, nel suo insieme, un beneficio.

3. – Nel corso di due giudizi riuniti aventi ad oggetto l'impugnazione, da parte del medesimo contribuente, di avvisi di pagamento della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 e relativa agli anni 2007 e 2008, la Commissione tributaria provinciale di Prato, con ordinanza depositata il 7 novembre 2008 (r.o. n. 21 del 2009), ha sollevato, in riferimento all'art. 102, secondo comma, Cost., questione di legittimità del citato art. 2, comma 2, secondo periodo, del d. lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie in materia di TIA.

3.1. – La Commissione tributaria rimettente premette, in punto di diritto, che: a) con le sentenze n. 130 e n. 64 del 2008 e con l'ordinanza n. 34 del 2006, la Corte costituzionale ha sottolineato che l'attribuzione della giurisdizione alle commissioni tributarie è imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto; b) la tariffa prevista dall'art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006 («già art. 49 d.Lgs. n. 22/1997») non ha natura tributaria, ma di «corrispettivo per il servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani» (comma 1) ed è costituita da due quote, una commisurata alle componenti essenziali del costo del servizio (investimenti, ammortamenti), l'altra «rapportata alla quantità dei rifiuti conferiti» (comma 4), cosí da assicurare «la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (stesso comma 4); c) il mero dato formale costituito dal fatto che il comma 15 del menzionato art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 richiama, per la riscossione coattiva della tariffa, le norme per la riscossione delle imposte sul reddito (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) non è sufficiente ad escludere che la suddetta tariffa abbia la natura di corrispettivo di un servizio, commisurato al costo di questo ed all'entità della sua fruizione da parte del privato; d) tuttavia, le sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 4895 del 2006, hanno affermato che, in forza della disposizione denunciata, le controversie relative alla debenza della TIA sono devolute alla giurisdizione delle commissioni tributarie.

3.2. – Su tali premesse, il giudice a quo afferma che tale ultima disposizione – nell'attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie, di natura non tributaria, in materia di TIA – si risolve nella creazione di un nuovo giudice speciale e, quindi, víola l'evocato parametro costituzionale.

4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto anche in questo giudizio ed ha chiesto dichiararsi la questione manifestamente inammissibile o, comunque, manifestamente infondata. Per la difesa erariale, l'inammissibilità deriva dal difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto nell'ordinanza di rimessione manca l'esposizione dei fatti di causa e dei termini della controversia; l'infondatezza deriva, invece – per le medesime considerazioni svolte nell'atto di intervento nel giudizio di costituzionalità promosso dal Giudice di pace di Catania – dalla natura tributaria della tariffa prevista dall'art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006.

Considerato in diritto

1. – Il Giudice di pace di Catania (r.o. n. 445 del 2008) dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 –, nella parte in cui dispone che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie relative alla debenza del canone […] per lo smaltimento di rifiuti urbani» e, quindi, della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall'art. 49 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/ CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).

Il Giudice di pace rimettente afferma che la disposizione denunciata víola: a) l'art. 25, primo comma, della Costituzione; b) la VI disposizione transitoria della Costituzione; c) l'art. 102, secondo comma, Cost. In particolare, tale ultimo parametro sarebbe violato, perché la disposizione censurata, attribuendo alla cognizione delle commissioni tributarie le controversie concernenti la TIA, la quale non è qualificabile come “tributo”, comporterebbe «lo snaturamento della giurisdizione tributaria […], imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto».

2. – La Commissione tributaria provinciale di Prato (r.o. n. 21 del 2009) dubita della legittimità costituzionale della medesima disposizione denunciata dal Giudice di pace di Catania.

Per il rimettente, la suddetta disposizione víola l'art. 102, secondo comma, Cost., perché attribuisce alla cognizione delle commissioni tributarie controversie che non hanno ad oggetto tributi e, pertanto, «si risolve nella creazione di un nuovo giudice speciale», vietata da tale parametro.

3. – L'identità della disposizione denunciata dai due giudici rimettenti e la parziale coincidenza sia delle censure prospettate, sia dei parametri costituzionali evocati, sia delle argomentazioni svolte nelle ordinanze di rimessione, rendono opportuna la riunione dei giudizi, al fine di esaminare e decidere congiuntamente le questioni.

4. – Le questioni sollevate dal Giudice di pace di Catania (r.o. n. 445 del 2008) sono manifestamente inammissibili.

4.1. – Con riferimento agli evocati art. 25, primo comma, Cost. e VI disposizione transitoria della Costituzione, il rimettente non indica le ragioni della denunciata illegittimità costituzionale. Da ciò consegue la manifesta inammissibilità di tali questioni.

4.2. – Con riferimento al parimenti evocato secondo comma dell'art. 102 Cost., il rimettente afferma che: a) il giudizio principale è stato instaurato ai sensi dell'art. 615 del codice di procedura civile, come opposizione al diritto del Comune di Catania di procedere alla riscossione coattiva del credito risultante da una cartella di pagamento notificata al debitore; b) tale credito riguarda «la tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani, oggi tariffa di igiene ambientale (TIA), per gli anni 1997, 1998, 1999 e 2000».

4.2.1. – In relazione all'affermazione sub a) – secondo cui il giudizio principale è stato instaurato ai sensi dell'art. 615 cod. proc. civ. –, va rilevato che sia l'art. 72, comma 5, del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, con riferimento alla TARSU, sia l'art. 49, comma 15, del d.lgs. n. 22 del 1997, con riferimento alla TIA, fanno espresso rinvio, per la disciplina della riscossione di tali prelievi, al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte su reddito). In particolare, l'art. 57, comma 1, alinea e lettera a), di detto decreto presidenziale stabilisce che «Non sono ammesse: […] a) le opposizioni regolate dall'art. 615 del codice di procedura civile, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni». Il rimettente, tuttavia, qualifica espressamente l'azione proposta dal contribuente non come opposizione agli atti esecutivi, ma come opposizione regolata dall'art. 615 cod. proc. civ., ed inoltre non precisa se essa abbia ad oggetto la pignorabilità dei beni. L'ordinanza, pertanto, è priva di motivazione sulle ragioni per le quali il Giudice di pace – nonostante il citato chiaro disposto dell'art. 57, comma 1, alinea e lettera a), del d.P.R. n. 602 del 1973 – ha ritenuto ammissibile, nella specie, detta opposizione. In difetto di tale motivazione, non appare evidente che il giudice a quo debba fare applicazione della disposizione denunciata e pertanto, non essendo stata dimostrata la rilevanza della sollevata questione, questa deve dichiararsi manifestamente inammissibile.

4.2.2. – Sempre in relazione all'affermazione sub a), va ulteriormente rilevato che l'art. 2, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce che «Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso di cui all'art. 50 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica». Nell'ordinanza di rimessione viene riferito che il giudizio principale riguarda la fase della esecuzione forzata tributaria successiva alla notifica della cartella di pagamento, e cioè proprio la fase per la quale la citata disposizione prevede la giurisdizione del giudice ordinario. Dopo tale premessa, tuttavia, il rimettente non fornisce alcuna motivazione sulle ragioni per le quali, nella specie, egli ritiene sussistere – in contrasto con il sopra citato art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 – la giurisdizione delle commissioni tributarie, in luogo di quella del giudice ordinario. Anche in questo caso, in difetto di siffatta motivazione, non appare evidente che il giudice debba fare applicazione della disposizione denunciata e pertanto, non essendo stata dimostrata – neppure sotto tale diverso profilo – la rilevanza della sollevata questione, questa deve dichiararsi manifestamente inammissibile.

4.2.3. – Infine, con l'affermazione sub b), il rimettente dichiara, ad un tempo, che il credito per il quale si procede alla riscossione coattiva riguarda solo la TARSU e che quest'ultimo prelievo, della cui natura tributaria egli non dubita, è stato successivamente sostituito dalla TIA, della cui natura tributaria, invece, dubita. La circostanza che le cartelle di pagamento poste a base dell'esecuzione forzata attengono esclusivamente alla TARSU, e non alla TIA, rende non rilevante la sollevata questione, la quale ha ad oggetto la norma, non applicabile nel giudizio a quo, con cui sono attribuite alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie in materia di TIA. Di qui la manifesta inammissibilità, anche sotto tale profilo, della questione.

5. – La difesa erariale ha eccepito la manifesta inammissibilità della questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Prato (r.o. n. 21 del 2009), affermando che l'ordinanza di rimessione, non avendo esposto i fatti di causa ed indicato i termini della controversia, è priva di motivazione sulla rilevanza.

L'eccezione non è fondata. Contrariamente a quanto dedotto dall'Avvocatura generale dello Stato, infatti, il rimettente ha chiaramente precisato che il giudizio principale ha ad oggetto l'impugnazione di «avvisi di pagamento […] relativi alla TIA (tariffa igiene ambientale) per gli anni 2007 e 2008, concernente l'immobile ove ha sede l'impresa individuale» del soggetto sottoposto a prelievo. Ciò è sufficiente ad evidenziare la rilevanza della questione, perché, per affermare la propria giurisdizione, il giudice a quo deve fare applicazione proprio della disposizione denunciata.

6. – Nel merito, la questione prospettata dalla Commissione tributaria provinciale di Prato non è fondata, perché il giudice rimettente muove dall'erroneo presupposto interpretativo che la TIA ha natura di corrispettivo privatistico di prestazioni contrattuali e non di tributo. Dall'erroneità di tale presupposto consegue la non fondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.

6.1. – Al riguardo, per precisare il thema decidendum, appare opportuno procedere ad una sintetica ricostruzione delle linee essenziali del complesso quadro normativo in cui si inserisce la disposizione denunciata.

L'evoluzione normativa in materia, per quanto qui interessa, è scandita da quattro diversi principali interventi legislativi.

6.1.1. – Il regio decreto 14 settembre 1931, n. 1175 (Testo unico per la finanza locale), prevedeva, originariamente, la corresponsione al Comune di un «corrispettivo per il servizio di ritiro e trasporto delle immondizie domestiche» ed attribuiva natura privatistica al rapporto tra utente e servizio comunale. Tale configurazione sinallagmatica del rapporto è stata, però, radicalmente mutata – con un primo significativo intervento del legislatore – dall'art. 10 della legge 20 marzo 1941, n. 366 (Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani), il quale ha attribuito ai Comuni la facoltà di istituire una «tassa» per la raccolta ed il trasporto delle immondizie e dei rifiuti ordinari (interni ed esterni), ponendo tale prelievo a carico dei soggetti occupanti i fabbricati posti nelle zone in cui si svolge (in regime di privativa comunale) il servizio di raccolta. L'art. 21 del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 (Attuazione delle direttive CEE numero 75/442 relativa ai rifiuti, numero 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi), ha poi sostituito (a decorrere dal 1° gennaio 1984, come successivamente stabilito dall'art. 25 del decreto-legge 28 febbraio 1983, n. 55, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 1983, n. 131) l'intera sezione II (artt. da 268 a 278) del capo XVIII (Proventi di servizi municipalizzati) del titolo III (Entrate comunali e provinciali) del suddetto r.d. n. 1175 del 1931. Con tale normativa e, in particolare, con la nuova formulazione dell'art. 268 del testo unico, il legislatore ha esteso e reso obbligatorie sia l'effettuazione dei vari servizi relativi allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani «interni», sia l'applicazione della «tassa» (che il comma 2 dell'art. 20 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 786, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 786, aveva già reso obbligatoria, con effetto dal 1° gennaio 1982, per i Comuni che avevano istituito il servizio) a carico di chiunque occupi o conduca locali, a qualunque uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui sono istituiti i servizi, ovvero aree adibite a campeggi, a distributori di carburante, a sala da ballo all'aperto, nonché a qualsiasi altra area scoperta ad uso privato e non costituente accessorio o pertinenza dei suddetti locali tassabili. In particolare, il legislatore, nel ridisciplinare il suddetto prelievo comunale, ha individuato nel «costo di erogazione del servizio» il limite massimo di gettito, «al netto delle entrate derivanti dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti sotto forma di materiali o energia»; e ciò in coerenza con la denominazione di «tassa» (art. 268, citato). Nella medesima prospettiva della natura pubblicistica del prelievo, l'art. 9 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, ha previsto, con effetto dal 1° gennaio 1989, che mediante la «tassa» venissero coperti (in tutto o in parte) anche i costi dei servizi di smaltimento (cioè di «conferimento, raccolta, spazzamento, cernita, trasporto, trattamento, ammasso, deposito, discarica sul suolo e nel suolo») non solo dei rifiuti «interni», ma anche di quelli «di qualunque natura e provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o soggette ad uso pubblico» (cosiddetti “esterni”) e che fossero tenuti al pagamento (sia pure in misura ridotta) anche gli occupanti di case coloniche e “case sparse” non ubicate nella zona di raccolta dei rifiuti. L'art. 8 dello stesso decreto-legge ha ribadito la qualificazione di «tassa» del prelievo, inserendo tale denominazione anche nella rubrica della citata sezione II del regio decreto.

6.1.2. – Un secondo essenziale intervento legislativo è costituito dal decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), efficace a decorrere dal 1° gennaio 1994, il quale – in attuazione del comma 4 dell'art. 4 della legge di delegazione 23 ottobre 1992, n. 421 – ha stabilito, all'art. 58, che, in relazione all'istituzione ed all'attivazione del servizio relativo allo «smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, svolto in regime di privativa» nelle zone del territorio comunale, i Comuni «debbono istituire una tassa annuale» (usualmente denominata “TARSU”), da applicarsi «in base a tariffa», secondo appositi regolamenti comunali, a copertura (dal cinquanta al cento per cento ovvero, per gli enti locali per i quali sussistono i presupposti dello stato di dissesto, dal settanta al cento per cento) del costo del servizio stesso, nel rispetto delle prescrizioni e dei criteri specificati negli artt. da 59 a 81 del medesimo decreto legislativo. Diversamente dal precedente regime, il prelievo non riguarda lo smaltimento dei rifiuti “esterni” ed il richiamo ai rifiuti solidi urbani «equiparati» (ai sensi dell'art. 60 del decreto legislativo) a quelli «interni» – richiamo originariamente contenuto nel comma 1 del citato art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 – è stato soppresso dalla lettera a) del comma 3 dell'art. 39 della legge 22 febbraio 1994, n. 146 (articolo che ha abrogato anche l'art. 60 del suddetto decreto legislativo). Solo con l'introduzione del comma 3-bis dell'art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993, ad opera dall'art. 3, comma 68, lettera b), della legge 28 dicembre 1995, n. 549, hanno acquistato rilevanza anche per la TARSU i rifiuti “esterni”, perché tale disposizione stabilisce che dal costo complessivo dei servizi di nettezza urbana gestiti in regime di privativa comunale va dedotta una quota «a titolo di costo dello spazzamento dei rifiuti solidi urbani di cui all'art. 2, terzo comma, numero 3), del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915» (cioè «i rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private, comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime, lacuali e sulle rive dei fiumi»). L'art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, ha ampliato, dal punto di vista quantitativo, l'incidenza del suddetto costo di spazzamento dei rifiuti “esterni”.

Quanto ai soggetti passivi, la tassa è dovuta (in solido tra i componenti del nucleo familiare o tra gli utilizzatori in comune degli immobili) da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti – ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde – esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa, ivi comprese le abitazioni coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata solo la strada di accesso (artt. 62 e 63). I soggetti passivi hanno «l'obbligo di denuncia» dell'occupazione o detenzione dei locali ed aree tassabili siti nel territorio del Comune (art. 70, specie commi 1 e 6). In connessione con l'obbligo di presentare tale dichiarazione di scienza, è attribuito al Comune il potere di «emettere» (nel senso di “notificare”, come chiarito dal comma 1 dell'art. 72) motivati avvisi di accertamento d'ufficio (in caso di omessa denuncia) o in rettifica (in caso di denuncia infedele o incompleta), entro specifici termini di decadenza (artt. 71, 73). È prevista l'esclusione o l'esonero dal tributo in determinati casi in cui gli immobili si trovino in condizione di non potere produrre rifiuti, mentre è, di regola, irrilevante la circostanza che il soggetto passivo abbia, in concreto, autonomamente provveduto allo smaltimento (art. 62, commi 2, 3 e 5). Il prelievo, dunque, è posto in relazione, da un lato, alla attitudine media ordinaria alla produzione quantitativa e qualitativa dei rifiuti per unità di superficie e per tipo di uso degli immobili e, dall'altro, alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento dei rifiuti da parte dei soggetti passivi. In particolare, la tassa, mediante determinazione tariffaria da parte del Comune, «può essere commisurata […] in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile di rifiuti solidi […] producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati e al costo dello smaltimento» (art. 65, comma 1, come sostituito dall'art. 3, comma 68, della legge 28 dicembre 1995, n. 549). Solo in via eccezionale ed alternativa è prevista la possibilità di commisurare la medesima tassa, «per i comuni aventi popolazione inferiore a 35.000 abitanti, in base alla qualità, alla quantità effettivamente prodotta, dei rifiuti solidi urbani e al costo dello smaltimento» (ibidem). È coerente con tale impostazione pubblicistica l'obbligo, imposto agli occupanti o detentori «degli insediamenti comunque situati fuori dall'area di raccolta», di utilizzare il servizio pubblico di nettezza urbana, conferendo i rifiuti urbani, «interni ed equiparati», nei «contenitori viciniori» (art. 59, comma 3). È compatibile con la medesima impostazione, anche la previsione di riduzioni della tassa per le zone in cui la raccolta non viene effettuata e per i casi di non svolgimento, svolgimento per periodi stagionali, nonché per i casi in cui l'utente dimostri di aver provveduto autonomamente allo smaltimento in periodi di protratto mancato svolgimento del servizio, ove l'autorità sanitaria competente abbia riconosciuto una situazione di danno o di pericolo di danno alle persone o all'ambiente secondo le norme e prescrizioni sanitarie nazionali (art. 59, commi 2, 4, 5, 6, secondo periodo). La natura pubblicistica e non privatistica del prelievo è ulteriormente evidenziata sia dalla regola secondo cui «L'interruzione temporanea del servizio di raccolta per motivi sindacali o per imprevedibili impedimenti organizzativi non comporta esonero o riduzione del tributo» (art. 59, comma 6, primo periodo); sia dal sopra citato comma 3-bis dell'art. 61 e successive modificazioni, che ha reso rilevante anche il costo dello spazzamento dei rifiuti esterni. Il d.lgs. n. 507 del 1993 prevede anche una «tassa giornaliera di smaltimento» dei rifiuti producibili mediante l'uso (autorizzato o no), per periodi inferiori a 183 giorni per anno solare, di locali od aree pubbliche, di uso pubblico, o aree gravate da servitú di pubblico passaggio (art. 77). Per la riscossione, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, e del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (art. 72). Ai sensi dell'art. 52, comma 5, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, il Comune ha facoltà di disciplinare con proprio regolamento l'affidamento a terzi delle fasi di liquidazione, accertamento e riscossione della tassa. Sanzioni specifiche sono previste dall'art. 76 (e successive modificazioni) per l'omessa o infedele denuncia e per la mancata presentazione o trasmissione di atti, documenti o dati richiesti dal Comune; sono comunque applicabili le disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria stabilite dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

6.1.3. – Un terzo intervento legislativo si è realizzato con l'entrata in vigore (dal 1° gennaio 1999) dell'art. 49 del cosiddetto “decreto Ronchi”, cioè del d.lgs. n. 22 del 1997 (successivamente modificato dall'art. 1, comma 28, della legge 9 dicembre 1998, n. 426, e dall'art. 33 della legge 23 dicembre 1999, n. 488), il quale – in dichiarata attuazione delle direttive 91/156/CEE, 91/689/CEE e 94/62/CE – ha stabilito l'obbligo dei Comuni di effettuare, in regime di privativa, la gestione dei rifiuti urbani ed assimilati e, in particolare, ha previsto l'istituzione, da parte dei Comuni medesimi, di una «tariffa» per la copertura integrale dei costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale. Tale tariffa – usualmente denominata tariffa di igiene ambientale (TIA) – «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all'entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). Con regolamento del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, viene elaborato il metodo normalizzato per definire le componenti dei costi e determinare la tariffa di riferimento (comma 5). Il metodo normalizzato è stato approvato con il regolamento di cui al d.P.R. 27 aprile 1999, n. 158. È tenuto al pagamento della tariffa «chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale» (comma 3). La tariffa è ridotta nei casi in cui il produttore di rifiuti assimilati dimostri (mediante attestazione rilasciata da chi effettui il recupero) di aver avviato detti rifiuti al recupero (comma 14). La tariffa è applicata e riscossa dal soggetto che gestisce il servizio (commi 9 e 13). Diversamente dalla normativa sulla TARSU, l'art. 49 del “decreto Ronchi”, pertanto: a) evita di qualificare espressamente il prelievo come “tributo” o “tassa”, pur mantenendo il riferimento testuale alla «tariffa»; b) stabilisce che la TIA deve sempre coprire l'intero costo del servizio di gestione dei rifiuti; c) dispone che detta tariffa è dovuta anche per la gestione dei rifiuti “esterni” (come già statuiva l'abrogato art. 268 del r.d. n. 1175 del 1931, quale sostituito dall'art. 21 del d.P.R. n. 915 del 1982, in relazione all'art. 9 del decreto-legge n. 66 del 1989, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 144 del 1989); d) non reca, con riguardo alla TIA, specifiche disposizioni in tema di accertamento, liquidazione e sanzioni. Analogamente alla TARSU, anche per la TIA la riscossione volontaria e coattiva della tariffa può essere effettuata tramite ruolo, secondo le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973 e del d.P.R. n. 43 del 1988 (comma 15 del medesimo art. 49). Lo stesso art. 49 ha soppresso la TARSU «a decorrere dai termini previsti dal regime transitorio», da disciplinarsi con il suddetto regolamento ministeriale (comma 1) al fine di garantire la graduale applicazione del metodo normalizzato e della tariffa ed il graduale raggiungimento dell'integrale copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani da parte dei Comuni (commi 1 e 5). Resta comunque ferma la possibilità, per i Comuni, di deliberare l'applicazione della tariffa, «in via sperimentale», in sostituzione della TARSU, anche prima di tali termini (commi 1-bis e 16). La completa soppressione della TARSU e la sua sostituzione con la TIA, inizialmente fissata a decorrere dal 1° gennaio 1999, è stata via via differita dal legislatore, il quale, preso atto della difficoltà di rendere operativa, per i vari Comuni, l'abolizione del prelievo soppresso, ha previsto, con numerose disposizioni contenute soprattutto nelle varie leggi finanziarie, un articolato regime transitorio, che concede termine ai Comuni - da ultimo, fino a tutto il 2008 - per sostituire la TARSU con la TIA, secondo uno scadenzario differenziato, in ragione sia del grado di copertura dei costi dei servizi raggiunto dai diversi Comuni sia della popolazione dei Comuni stessi (comma 184 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, quale modificato dall'art. 5, commi da 1 a 2-quinquies del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 208, recante «Misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell'ambiente», convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2009, n. 13).

6.1.4. – La quarta rilevante modifica legislativa del prelievo è costituita dall'art. 238 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), in vigore dal 23 aprile 2006, il quale ha soppresso la tariffa di cui all'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, sostituendola con la diversa «tariffa per la gestione dei rifiuti urbani» (come testualmente indicato nella rubrica dell'articolo), che una disposizione successiva (l'art. 5, comma 2-quater, del citato decreto-legge n. 208 del 2008) denomina «tariffa integrata ambientale (TIA)». Tale tariffa integrata deve essere determinata ad opera dell'autorità d'àmbito territoriale ottimale (AATO), prevista dall'art. 201 dello stesso decreto legislativo, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del regolamento ministeriale (da emanarsi, a sua volta, entro sei mesi dalla sopra indicata data di entrata in vigore della parte quarta del decreto legislativo e, quindi, dell'art. 238 in essa compreso) con il quale sono fissati i criteri generali per la definizione delle componenti dei costi e la determinazione della tariffa (commi 3 e 6). La tariffa integrata è dovuta da chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali, o aree scoperte ad uso privato o pubblico non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, che producano rifiuti urbani (comma 1, primo periodo). Detta tariffa, in particolare, è «commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base di parametri […] che tengano anche conto di indici reddituali articolati per fasce di utenza e territoriali» (comma 2), e costituisce «il corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e ricomprende anche i costi indicati dall'art. 15 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36» (comma 1, secondo periodo) – cioè «i costi di realizzazione e di esercizio dell'impianto per lo smaltimento in discarica, i costi sostenuti per la prestazione della garanzia finanziaria ed i costi stimati di chiusura, nonché i costi di gestione successiva alla chiusura per il periodo fissato dalla legge – oltre ai «costi accessori relativi alla gestione dei rifiuti urbani quali, ad esempio, le spese di spazzamento delle strade» (comma 3, secondo periodo). La medesima tariffa «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti, nonché da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). È espressamente previsto che la tariffa «è applicata e riscossa dai soggetti affidatari del servizio di gestione integrata» (comma 3) e che la sua riscossione, volontaria o coattiva, «può» essere effettuata secondo le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, «mediante convenzione con l'Agenzia delle entrate» (comma 12). La soppressione della precedente tariffa di igiene ambientale ha effetto dalla data di entrata in vigore dello stesso art. 238, ma, fino alla completa attuazione della nuova tariffa integrata (cioè con l'emanazione del sopra menzionato regolamento ministeriale ed il compimento degli adempimenti per l'applicazione della tariffa), «continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti» (comma 10). Nel caso in cui il regolamento ministeriale non sia stato adottato entro il 30 giugno 2009, i Comuni possono ugualmente «adottare la tariffa integrata ambientale TIA […] ai sensi delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti» (art. 5, comma 2-quater, del decreto-legge n. 208 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 13 del 2009).

6.2. – Da tale ricostruzione normativa emerge che, per il periodo dal 1999 a tutto il 2008, in alcuni Comuni è applicabile la TARSU ed in altri la tariffa di igiene ambientale (TIA). Fino al 2009, poi, non risulta, allo stato, ancora applicabile dai Comuni la tariffa integrata ambientale di cui all'art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006. La rilevata formale diversità delle fonti istitutive delle due suddette tariffe (ancorché entrambe usualmente denominate, in breve, TIA), la successione temporale delle fonti, la parziale diversità della disciplina sostanziale di tali prelievi, il fatto che la tariffa integrata espressamente sostituisce la tariffa di igiene ambientale, nonché la circostanza che i giudizi riuniti a quibus, pendenti presso la Commissione tributaria provinciale di Prato, hanno ad oggetto solo avvisi di accertamento della tariffa di igiene ambientale per gli anni d'imposta 2007 e 2008 sono tutti elementi che impediscono di ritenere che la questione sollevata dalla suddetta Commissione tributaria riguardi, oltre alla tariffa di igiene ambientale, anche la tariffa integrata ambientale. Ne deriva che lo scrutinio di legittimità costituzionale va limitato alla norma che attribuisce alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative alla debenza della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 e non anche di quelle relative alla debenza della tariffa integrata ambientale (TIA) prevista dall'art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006.

7. – Cosí delimitato il thema decidendum, va rilevato che, nel porre la questione di legittimità costituzionale, il rimettente muove da due diversi assunti: a) che la giurisdizione tributaria, ai sensi dell'evocato parametro, deve avere ad oggetto solo controversie tributarie; b) che la TIA prevista dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 ha natura non tributaria, ma di corrispettivo contrattuale.

7.1. – Il primo dei due assunti del rimettente è esatto. Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la giurisdizione del giudice tributario «deve ritenersi imprescindibilmente collegata» alla «natura tributaria del rapporto» (ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006), con la conseguenza che l'attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi tale natura comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali posto dall'art. 102, secondo comma, Cost. (sentenze n. 141 del 2009; n. 130 e n. 64 del 2008).

La decisione della sollevata questione esige, dunque, che si proceda alla qualificazione della natura della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, in quanto solo il riconoscimento della natura tributaria di tale prelievo può escludere la dedotta illegittimità costituzionale della disposizione denunciata.

7.2. – Il secondo assunto del rimettente, circa la natura di corrispettivo privatistico, propria della suddetta tariffa di igiene ambientale, è erroneo, come sopra osservato, ove si proceda al raffronto tra la sua disciplina positiva e la nozione di tributo, quale elaborata dalla giurisprudenza costituzionale.

7.2.1. – Questa Corte, mediante numerose pronunce, ha indicato i criteri cui far riferimento per qualificare come tributari alcuni prelievi. Tali criteri, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina i prelievi stessi, consistono nella doverosità della prestazione, nella mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis: sentenze n. 141 del 2009; n. 335 e n. 64 del 2008; n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005).

7.2.2. – Con specifico riferimento alla disciplina della tariffa di igiene ambientale, va preliminarmente preso atto che non è individuabile, allo stato, un'univoca giurisprudenza di legittimità sulla natura di tale tariffa, anche se pare maggiormente attestato l'orientamento che le riconosce natura tributaria. Infatti, ad una pronuncia della Corte di cassazione civile che ha qualificato come non tributaria tale prestazione pecuniaria (sezioni unite, ordinanza n. 3274 del 2006), hanno fatto séguito altre decisioni della stessa Corte che, con varie motivazioni e differenze linguistiche, hanno invece ricondotto detta prestazione nel novero dei tributi (sezioni unite: ordinanza n. 3171 del 2008, sentenze n. 13902 del 2007 e n. 4895 del 2006; sezioni semplici: sentenze n. 5298 e n. 5297 del 2009, n. 17526 del 2007). Al fine di determinare la natura (tributaria o extratributaria) della TIA, oggetto di contrastanti opinioni anche nella dottrina, è perciò necessario procedere ad un autonomo ed analitico esame delle caratteristiche di tale prelievo. Al riguardo, non rilevano né la formale denominazione di «tariffa», né la sua alternatività rispetto alla TARSU, né la possibilità di riscuoterla mediante ruolo.

Quanto all'irrilevanza della denominazione, lo stesso art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce espressamente che i tributi vanno individuati indipendentemente dal nomen iuris («comunque denominati»). Inoltre, il termine «tariffa» – nella tradizione propria della legislazione tributaria – ha un valore semantico neutro, nel senso che non si contrappone necessariamente a termini quali «tassa» e «tributo», tanto che anche l'art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 testualmente prevede che la TARSU (cioè una «tassa» e, quindi, un «tributo») si applica «in base a tariffa». Va comunque rilevato che, contrariamente a quanto sembrano ritenere il rimettente e la difesa erariale, il termine «corrispettivo» non compare, con riguardo alla TIA, nel cosiddetto “decreto Ronchi”, ma solo nell'art. 238, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006 ed è riferito esclusivamente alla tariffa integrata ambientale, estranea alla questione di legittimità in esame.

Quanto alla regola stabilita dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, secondo cui la TIA si applica in luogo della TARSU, va osservato che un tributo (come, nella specie, la TARSU) può ben essere surrogato da un altro tributo o sostituito da una entrata non tributaria, non incontrando il legislatore, al riguardo, alcun vincolo logico o giuridico (nel limite della non manifesta irragionevolezza).

Quanto, infine, alla possibilità per il Comune, prevista dal medesimo art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, di procedere alla riscossione della TIA mediante ruolo, deve sottolinearsi che il ricorso a tale modalità di riscossione è solo facoltativo, e, comunque, ancorché tipico delle entrate tributarie, è consentito dalla legge anche per le entrate extratributarie.

Per una corretta valutazione della natura della tariffa di igiene ambientale (TIA), è invece opportuno muovere dalla constatazione che tale prelievo, pur essendo diretto a sostituire la TARSU, è disciplinato in modo analogo a detta tassa, la cui natura tributaria non è mai stata posta in dubbio né dalla dottrina né dalla giurisprudenza. Conseguentemente, deve procedersi ad una approfondita comparazione tra il prelievo tributario sostituito e quello che lo sostituisce, sotto i profili della struttura, della funzione e della disciplina complessiva della fattispecie dei prelievi.

7.2.3. – Dalla comparazione tra la TARSU e la TIA emergono le forti analogie dei due prelievi. Entrambi mostrano un'identica impronta autoritativa e somiglianze di contenuto con riguardo alla determinazione normativa, e non contrattuale, della fonte del prelievo.

7.2.3.1. – In primo luogo, quanto al fatto generatore dell'obbligo del pagamento e ai soggetti obbligati - come si è già rilevato al punto 6.1.2. - la TARSU è dovuta, per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa, e comprese le abitazioni coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata solo la strada di accesso (artt. 62 e 63). Analogamente, la TIA - come sottolineato al punto 6.1.3. - è dovuta, per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale, da «chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale» (art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 22 del 1997). Le differenze tra le due fattispecie sono, perciò, minime: la “occupazione o detenzione” di superfici ed il riferimento ai soli rifiuti “interni”, per la TARSU; la “occupazione o conduzione” di superfici ed il riferimento anche ai rifiuti “esterni”, per la TIA. Esse non sono, comunque, tali da far venir meno la comune circostanza che il fatto generatore dell'obbligo di pagamento è legato non all'effettiva produzione di rifiuti da parte del soggetto obbligato e alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento, ma esclusivamente all'utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti ed alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento.

7.2.3.2. – In secondo luogo, in relazione ad entrambi i pagamenti, sussiste una medesima struttura autoritativa e non sinallagmatica, che emerge sotto svariati e concorrenti profili. In particolare, con riguardo ai due suddetti prelievi: a) i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti devono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono, in regime, appunto, di privativa, sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessi unilateralmente fissata; b) i soggetti tenuti al pagamento dei relativi prelievi (salve tassative ipotesi di esclusione o di agevolazione) non possono sottrarsi a tale obbligo adducendo di non volersi avvalere dei suddetti servizi; c) la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente del servizio.

La rilevata comune struttura autoritativa dei prelievi non viene meno per il fatto che, riguardo alla TARSU, il d.lgs. n. 507 del 1993 individua quale soggetto attivo del tributo il Comune e disciplina specificamente la fase di accertamento e di liquidazione della tassa, prevedendo sanzioni e interessi (artt. 71, 73 e 76); mentre, riguardo alla TIA, l'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, da un lato identifica nel gestore del servizio il soggetto che la applica e riscuote (commi 9 e 13) e, dall'altro, non reca alcuna disciplina specifica in tema di accertamento, di liquidazione della prestazione dovuta, di contenzioso e di sanzioni e interessi per omesso o ritardato pagamento. Non può negarsi, infatti, che, sia per la TARSU che per la TIA, il soggetto attivo del prelievo è il Comune; e ciò anche nel caso in cui il regolamento comunale affidi a terzi l'accertamento e la riscossione dei due prelievi e la relativa legittimazione a stare in giudizio. In particolare - come visto al punto 6.1.2. - già per la TARSU il Comune aveva la possibilità, con proprio regolamento, di affidare a terzi l'accertamento e la riscossione dei tributi, ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e di delegare ad essi il potere di essere «parti del processo tributario», ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992, senza che con ciò venisse meno l'originaria posizione di soggetto attivo del Comune stesso. La normativa riguardante la TIA si differenzia sul punto solo per il fatto che essa pone un collegamento ex lege tra la gestione del servizio e i poteri di accertamento, con la conseguenza che il solo fatto dell'affidamento a terzi della gestione del servizio comporta la delega a questi dei poteri di accertamento e del potere di stare in giudizio in luogo del Comune, analogamente a quanto avviene per la TARSU.

Con riguardo, poi, alla disciplina dell'accertamento e della liquidazione della TIA, la lacunosità delle statuizioni contenute nel comma 9 dell'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 (il quale si limita a prevedere che «la tariffa è applicata dai soggetti gestori nel rispetto della convenzione e del relativo disciplinare») può essere colmata con l'esercizio del potere regolamentare comunale previsto per le entrate «anche tributarie» dal citato art. 52 del d.lgs. n. 446 del 1997 o in via di interpretazione sistematica. Analogamente, nulla osta a che, per le sanzioni ed interessi relativi all'omesso o ritardato pagamento della TIA, possano applicarsi le norme generali in tema di sanzioni amministrative tributarie. Cosí come, con riguardo al contenzioso, è evidente che ad entrambi i prelievi si applica il comma 2 dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, che attribuisce, appunto, alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative, in generale, alla debenza dei tributi e, specificamente del «canone […] per lo smaltimento dei rifiuti urbani».

Non contraddice tale conclusione il fatto che fonti secondarie prevedano, per il pagamento della TIA, l'emissione di semplici «bollette che tengono luogo delle fatture […] sempreché contengano tutti gli elementi di cui all'art. 21» del d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 1, comma 1, del citato decreto ministeriale n. 370 del 2000), e cioè l'emissione di atti formalmente diversi da quelli espressamente indicati dall'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 come impugnabili davanti alle Commissioni tributarie. In tale caso, infatti, è possibile, in via interpretativa - come, del resto, ha già affermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 17526 del 2007, con specifico riferimento alla TIA –, un'applicazione estensiva dell'elenco di cui al citato art. 19, al fine di considerare impugnabili anche atti che, pur con un diverso nomen iuris, abbiano la stessa funzione di accertamento e di liquidazione di tributi svolta dagli atti compresi in detto elenco; con l'ovvio corollario che le suddette «bollette», avendo natura tributaria, debbono possedere i requisiti richiesti dalla legge per gli atti impositivi.

7.2.3.3. – In terzo luogo, sono analoghi i criteri di commisurazione dei due prelievi. La TARSU – quantomeno per i Comuni con popolazione non inferiore a 35.000 abitanti – è commisurata «in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani […] producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati, e al costo dello smaltimento» (art. 65, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993). La TIA, in forza dell'art. 49, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 1997, è suddivisa in una parte fissa (concernente le componenti essenziali del costo del servizio – ivi compreso quello dello spazzamento delle strade –, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti) ed una parte variabile (rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all'entità dei costi di gestione). I criteri di determinazione di tali due parti della TIA sono contenuti nel citato d.P.R. n. 158 del 1999, che prevede indici costruiti, tra l'altro, sulla quantità totale dei rifiuti prodotti nel Comune, sulla superficie delle utenze, sul numero dei componenti il nucleo familiare delle utenze domestiche, su coefficienti di potenziale produzione di rifiuti secondo le varie attività esercitate nell'àmbito delle utenze non domestiche. Risulta evidente, pertanto, che il suddetto «metodo normalizzato» per la determinazione della TIA è pienamente coerente con i criteri fissati dalla legge per la commisurazione della TARSU, la quale, certamente, non può definirsi “corrispettivo”, neppure in relazione ai criteri stabiliti dall'art. 117, comma 1, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, per le tariffe dei servizi pubblici resi dagli enti locali. Per entrambi i prelievi, infatti, rileva la potenziale produzione dei rifiuti, valutata per tipo di uso delle superfici tassabili. In particolare, per quanto riguarda la TIA, va sottolineato che, ai sensi dell'art. 49, comma 14, del d.lgs. n. 22 del 1997, perfino l'autonomo avviamento a recupero dei rifiuti, da parte del produttore di essi, non comporta l'esclusione dal pagamento, ma determina una riduzione proporzionale della sola parte variabile di tale tariffa. Questa disposizione è, per alcuni aspetti, analoga al comma 2 dell'art. 67 del d.lgs. n. 507 del 1993, secondo cui il regolamento comunale «può» prevedere riduzioni della TARSU nel caso in cui gli «utenti dimostrino di avere sostenuto spese per interventi tecnico-organizzativi comportanti un'accertata minore produzione di rifiuti od un pretrattamento volumetrico, selettivo o qualitativo che agevoli lo smaltimento o il recupero da parte del gestore del servizio». I due prelievi, pertanto, sono dovuti, sia pure in misura ridotta, anche nel caso in cui il produttore di rifiuti dimostri di aver adeguatamente provveduto allo smaltimento. Il che esclude per entrambi la sussistenza di un rapporto di sinallagmaticità tra pagamento e servizio di smaltimento dei rifiuti.

7.2.3.4. – In quarto luogo, come sopra accennato, la TIA – analogamente alla TARSU nella disciplina risultante dal disposto del comma 3-bis dell'art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993 (riportato al punto 6.1.2.) e dell'art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 – ha la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo “interni” (cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio), ma anche “esterni” (cioè «rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico», come ricordato al punto 6.1.3., in relazione agli artt. 7, comma 2, lettere c, d, e 49, comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997, per la componente fissa della TIA). Ha la funzione, cioè, di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e, quindi, non riconducibili a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente. L'unica sostanziale differenza sul punto tra i due prelievi si riduce al fatto che, mentre per la TARSU il gettito deve corrispondere ad un ammontare compreso tra l'intero costo del servizio ed un minimo costituito da una percentuale di tale costo determinata in funzione della situazione finanziaria del Comune (art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993); per la TIA il gettito deve, invece, assicurare sempre l'integrale copertura del costo dei servizi (art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997). Tuttavia, tale differenza non è sufficiente a caratterizzare in senso privatistico la TIA, perché nulla esclude che una pubblica spesa (come il costo di un servizio utile alla collettività) possa essere integralmente finanziata da un tributo. Come si è già osservato al punto 6.1.2., anche la TARSU può coprire il cento per cento del costo del servizio di smaltimento dei rifiuti ed in tal caso essa non muta, per ciò solo, la sua natura da pubblicistica a privatistica. In altri termini, la mera circostanza che la legge assegni a un pagamento la funzione di coprire integralmente i costi di un servizio non è sufficiente ad attribuire al medesimo pagamento la natura di prezzo privatistico.

7.2.3.5. – In quinto luogo, con riferimento alla disciplina complessiva della TIA, va rilevato che l'art. 49, comma 17, del d.lgs. n. 22 del 1997 ha espressamente tenuto ferma l'applicabilità del tributo provinciale «per l'esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene dell'ambiente» previsto dall'art. 19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (cosiddetto TEFU), anche dopo la soppressione della TARSU e la sua sostituzione con la TIA. Poiché il TEFU è stato configurato dal legislatore come un'addizionale della TARSU, ne consegue che, una volta soppressa quest'ultima, esso deve necessariamente determinarsi con riferimento ai criteri di quantificazione della TIA e deve, perciò, essere qualificato come un tributo addizionale della TIA stessa. Ciò evidenzia un ulteriore elemento di omogeneità e continuità tra la TARSU e la TIA.

7.2.3.6. – In sesto luogo, infine, un altro significativo elemento di analogia tra la TIA e la TARSU è costituito dal fatto che ambedue i prelievi sono estranei all'àmbito di applicazione dell'IVA. Infatti, la rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l'entità del prelievo - quest'ultima commisurata, come si è visto, a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni - porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell'assoggettamento ad IVA ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e caratterizzato dal pagamento di un «corrispettivo» per la prestazione di servizi. Non esiste, del resto, una norma legislativa che espressamente assoggetti ad IVA le prestazioni del servizio di smaltimento dei rifiuti, quale, ad esempio, è quella prevista dall'alinea e dalla lettera b) del quinto comma dell'art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui, ai fini dell'IVA, «sono considerate in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici», le attività di «erogazione di acqua e servizi di fognatura e depurazione, gas, energia elettrica e vapore». Se, poi, si considerano gli elementi autoritativi sopra evidenziati, propri sia della TARSU che della TIA, entrambe le entrate debbono essere ricondotte nel novero di quei «diritti, canoni, contributi» che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006; come ribadito dalla sentenza della Corte di giustizia CE del 16 settembre 2008, in causa C-288/07) esclude in via generale dall'assoggettamento ad IVA, perché percepiti da enti pubblici «per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità» (come si desume a contrario dalla sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008), sempre che il mancato assoggettamento all'imposta non comporti una distorsione della concorrenza (distorsione, nella specie, non sussistente, in quanto il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa). Non osta a tali conclusioni il secondo periodo del comma 13 dell'art. 6 della legge n. 133 del 1999, il quale stabilisce, con una formula meramente negativa, che «Non costituiscono, altresí, corrispettivi agli effetti dell'IVA le somme dovute ai comuni per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani reso entro» la data del 31 dicembre 1998 «e riscosse successivamente alla stessa, anche qualora detti enti abbiano adottato in via sperimentale il pagamento del servizio con la tariffa, ai sensi dell'articolo 31, comma 7, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1998, n. 448». Questa disposizione non può interpretarsi nel senso che, a partire dal 1999, sia la TARSU sia la tariffa sperimentale (cioè la TIA adottata prima della definitiva soppressione della TARSU) entrino nell'àmbito di applicazione dell'IVA. Si deve escludere, infatti, che tali prelievi, pur restando invariata la loro disciplina sostanziale, mutino natura, divenendo entrambi corrispettivi, solo in forza di una norma dagli effetti meramente temporali. Tale norma, ragionevolmente interpretata, ha il solo effetto di ribadire la non assoggettabilità ad IVA dei due prelievi fino a tutto il 1998 e non quello di provvedere anche per il periodo successivo, per il quale non può che trovare applicazione la disciplina generale in tema di IVA. Non rileva, al riguardo, la diversa prassi amministrativa, perché la natura tributaria della TIA va desunta dalla sua complessiva disciplina legislativa.

7.2.4. – È appena il caso di rilevare che la riscontrata omogeneità tra i due prelievi in esame è compatibile sia con le direttive comunitarie di cui il d.lgs. n. 22 del 1997 istitutivo della TIA costituisce attuazione (91/156/CEE, 91/689/CEE e 94/62/CE), sia con il principio comunitario “chi inquina paga” (ribadito dall'art. 15 della direttiva comunitaria 2006/12/CE), sia con le leggi di delegazione in forza delle quali il suddetto decreto legislativo è stato emanato (artt. 1 e 38 della legge 22 febbraio 1994, n. 146; artt. 1, 6 e 43 della legge 6 febbraio 1996, n. 52). Nessuna di tali disposizioni, infatti, impone al legislatore di configurare in termini privatistici il rapporto tra utente e gestore del servizio di smaltimento dei rifiuti. Quanto al diritto comunitario, esso, con tutta chiarezza, si limita a richiedere che la legislazione nazionale garantisca un ragionevole collegamento tra la produzione di rifiuti e la copertura del costo per il loro smaltimento, secondo un principio di proporzionalità, in modo che tale costo sia posto a carico, per una parte significativa, del produttore dei rifiuti. Ed ove questa attribuzione di costi sia rispettata, resta indifferente per il diritto comunitario se essa sia realizzata dal legislatore mediante l'istituzione di un tributo o la previsione di un corrispettivo privatistico. Quanto alle leggi di delegazione, esse si limitano ad autorizzare il legislatore delegato ad apportare «modifiche» al d.lgs. n. 507 del 1993, al fine di attuare le direttive comunitarie, e non impongono affatto di trasformare la natura del prelievo da tributaria ad extratributaria.

8. – Le sopra indicate caratteristiche strutturali e funzionali della TIA disciplinata dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 rendono evidente che tale prelievo presenta tutte le caratteristiche del tributo menzionate al punto 7.2.1. e che, pertanto, non è inquadrabile tra le entrate non tributarie, ma costituisce una mera variante della TARSU disciplinata dal d.P.R. n. 507 del 1993 (e successive modificazioni), conservando la qualifica di tributo propria di quest'ultima. A tale conclusione, del resto, si giunge anche considerando che, tra le possibili interpretazioni della censurata disposizione e dell'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, deve essere preferita quella che, negando la violazione del secondo comma dell'art. 102 Cost., appare conforme a Costituzione (sulla necessità, in generale, di privilegiare un'interpretazione costituzionalmente orientata, ex plurimis: sentenza n. 308 del 2008, ordinanze n. 146 e n. 117 del 2009).

Le controversie aventi ad oggetto la debenza della TIA, dunque, hanno natura tributaria e la loro attribuzione alla cognizione delle commissioni tributarie, ad opera della disposizione denunciata, rispetta l'evocato parametro costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 –, sollevate, in riferimento agli artt. 25, primo comma, e 102, secondo comma, della Costituzione, nonché alla VI disposizione transitoria della Costituzione, dal Giudice di pace di Catania, con l'ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione del d.lgs. n. 546 del 1992, sollevata, in riferimento all'art. 102, secondo comma, Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Prato, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2009.

Il Cancelliere
F.to: MILANA

Address

Studio Legale avv. Santo De Prezzo Erchie (Brindisi - Italy) via Principe di Napoli, 113
DPR SNT 58E29 L280J - P.I. 00746050749 - phone +39 0831 767493 - mob. +39 347 7619748