venerdì 18 settembre 2009

RCA, coniuge in regime di comunione legale e capacità a testimoniare

Giurisprudenza costante della Cass. Civ.

"Emerge dunque dalla giurisprudenza di questa Corte la non configurabilità, in via astratta ed assoluta, di un divieto di testimonianza del coniuge in comunione legale dei beni, nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, dovendosi al contrario verificare, di volta in volta, la natura del diritto oggetto della controversia. E ciò tanto più si rivela necessario, ove si consideri che le norme sulla incapacità a testimoniare, introducendo una deroga al generale dovere di testimonianza, sono di stretta interpretazione (in tal senso, v. Cass., 14 gennaio 1980, n. 324) e che, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 247 cod. proc. civ., è stato espunto dall'ordinamento processuale civile il generale divieto di testimonianza del coniuge, ancorché separato, dei parenti o affini in linea retta e di coloro che siano legati ad una delle parti da vincoli di affiliazione (Corte cost., sentenza n. 248 del 1974). Non a caso, del resto, nella citata sentenza n. 62 del 1995 della Corte costituzionale, si è rilevato, nella parte in fatto della motivazione, che dall'ordinanza di rimessione emergevano elementi tali da indurre a ritenere rilevante la sollevata questione, essendosi precisato, da parte del giudice remittente, che i coniugi non avevano operato la scelta ex art. 162 cod. civ. e che, in relazione all'autovettura coinvolta nel sinistro, del quale in quel giudizio si discuteva, operava la presunzione di comunione legale del bene.
Orbene, venendo al caso di specie, occorre rilevare che oggetto della controversia in cui l'incapacità del coniuge in regime di comunione legale dei beni a deporre, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto operare era l'accertamento della responsabilità civile dell'altro coniuge a seguito di sinistro stradale. Si tratta, dunque, di un'obbligazione di natura extracontrattuale e personale, della quale, in linea di principio, la comunione legale non dovrebbe rispondere. Si potrebbe, invero, ipotizzare una corresponsabilità della comunione stessa, ai sensi dell'art. 2054, terzo comma, cod. civ.; tuttavia, una simile ipotesi richiederebbe un accertamento, in fatto, che consentisse di escludere che il veicolo sia di proprietà, o nella disponibilità, esclusiva di uno dei coniugi. Dalla sentenza impugnata, ma lo stesso ricorrente nell'atto introduttivo di questo giudizio dà atto della circostanza, emerge invece che il veicolo coinvolto nel sinistro era condotto dal proprietario. A fronte di tale accertamento in fatto, non è dunque sufficiente invocare il regime patrimoniale dei coniugi per inferirne la sussistenza di un interesse dell'altro coniuge idoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio e quindi la sua incapacità a deporre, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ."



LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
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FATTO
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 9 marzo 1994, il Tribunale di Milano dichiarava la esclusiva responsabilità di F.C. nella causazione del sinistro stradale avvenuto il 9 maggio 1987 e lo condannava, in solido con la SIAD Assicurazioni s.p.a., al risarcimento dei danni (biologico, morale ed esborsi) in favore di M.C..
La Corte di appello di Milano, con sentenza in data 14 novembre 2000, in parziale riforma di quella del Tribunale e in parziale accoglimento dell'appello incidentale proposto dalla SIAD e dal F., dichiarava quest'ultimo responsabile dell'evento lesivo ai sensi dell'art. 2054, secondo comma, cod. civ., e lo condannava, in solido con la SIAD Assicurazioni s.p.a., al risarcimento in favore di M.C. della metà dei danni come liquidati dal primo giudice, dedotto quello relativo al danno morale, confermando per il resto la sentenza di primo grado.
Per quel che rileva nel presente giudizio di legittimità, la Corte di appello osservava che il Tribunale aveva ricostruito la dinamica dell'incidente ed aveva conseguentemente attribuito la responsabilità esclusiva del sinistro al F. sulla base della deposizione di un teste oculare che seguiva il M. a bordo della moto da questi condotta, ritenendo invece incapace a testimoniare, ex art. 246 cod. proc. civ., la teste C. perché coniuge del convenuto in regime di comunione legale. La Corte non condivideva la soluzione adottata in proposito dal Tribunale, sia perché la incapacità a testimoniare, come disciplinata dall'art. 246 cod. proc. civ., non può essere estesa oltre l'ambito delle persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, sia perché l'eventuale azione esecutiva del creditore può essere esercitata solo nei limiti di consistenza della quota di spettanza del debitore sui beni in comunione con il coniuge, la cui posizione rimane pertanto intangibile. La Corte riteneva pertanto la teste capace di deporre e procedeva alla ricostruzione del sinistro anche sulla base della sua deposizione, pervenendo ad una soluzione diversa da quella accolta dal Tribunale.
Per la cassazione di tale sentenza, ricorre M.C. sulla base di un unico motivo; non hanno svolto attività difensiva i soggetti cui il ricorso è stato notificato e cioè F.C., Meie Assicurazioni s.p.a., quale incorporante per fusione di Aurora Assicurazioni s.p.a., a sua volta incorporante per fusione di SIAD Assicurazioni s.p.a..
DIRITTO
Motivi della decisione
Con l'unico motivo di ricorso, il M. deduce violazione dell'art. 246 cod. proc. civ., in relazione agli artt.159 e 189, comma secondo, cod.civ.
La Corte di appello, sostiene il ricorrente, ha erroneamente interpretato il principio espresso dalla sentenza di questa Corte n. 324 del 1980, in quanto gli effetti della decisione si estendono comunque alla posizione patrimoniale di entrambi i coniugi, anche se limitatamente alla quota del 50% del patrimonio suscettibile di formarsi durante la comunione, onde il coniuge della parte in causa ha un interesse qualificato che potrebbe giustificare la sua partecipazione al giudizio in cui si discute di entità patrimoniali (precisamente l'obbligazione di risarcire il danno per il sinistro de quo) che incidono sul patrimonio comune. A sostegno di tale lettura della citata pronuncia, il ricorrente ricorda la sentenza della Corte costituzionale n. 62 del 1995, con la quale si è ritenuto costituzionalmente legittimo l'art. 246 cod. proc. civ., secondo cui non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione in giudizio, dovendosi inquadrare la ratio della norma, per una razionale assimilazione di dette persone alle parti, nello stesso principio vigente nell'ordinamento processuale civile che esclude la testimonianza delle parti in causa. L'art. 159 cod. civ., inoltre, stabilisce come regime patrimoniale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata ex art.162 cod. civ., la comunione dei beni, e cioè un "regime che, come la comunione in generale, fa sorgere quell'interesse conducente alla possibile legittimazione a partecipare al giudizio di cui è parte l'altro comunionista e quindi l'incompatibilità tra le due posizioni processuali", come peraltro già ritenuto dal Tribunale di Milano con la sentenza parzialmente riformata da quella impugnata.
Il ricorso è infondato e deve essere pertanto rigettato, anche se la motivazione della sentenza impugnata deve essere integrata.
Come già rilevato, la Corte d'appello di Milano ha escluso, nella specie, e cioè in una controversia avente ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni cagionati da un incidente stradale, la sussistenza di una causa di incapacità a testimoniare del coniuge del danneggiante, ancorché in regime di comunione legale dei beni, sulla base della duplice argomentazione che "l'incapacità a testimoniare, come disciplinata dall'art. 246 cod. proc. civ., non (può) essere estesa, per giurisprudenza costante (Cass. n. 324 del 1980), oltre l'ambito delle persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio" e che "l'eventuale azione esecutiva del creditore può essere esercitata solo nei limiti di consistenza della quota di spettanza del debitore sui beni in comunione con il coniuge, la cui posizione patrimoniale rimane pertanto intangibile".
Il ricorrente censura tali affermazioni rifacendosi, non solo alla diversa soluzione adottata sul punto dal giudice di primo grado, ma soprattutto ad una pronuncia della Corte costituzionale, la n. 62 del 1995, con la quale è stata dichiarata non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 159 cod. civ. e 246 cod. proc. civ., nella parte in cui prevede l'incapacità a testimoniare del coniuge in presunto regime di comunione legale dei beni, di cui alla sez. III del capo VI del libro I cod. civ., beni che possono esse incrementati o decurtati in dipendenza del giudizio in cui è parte in causa l'altro coniuge. Nella citata sentenza, ricorda il ricorrente, il Giudice delle leggi ha rilevato che "l'art. 159 cod. civ. non fa altro che disporre quale regime patrimoniale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma del successivo art. 162, la comunione dei beni. Regime che, come la comunione in generale, fa sorgere quell'interesse conducente alla possibile legittimazione a partecipare al giudizio di cui è parte altro comunista, e dunque all'incompatibilità fra due posizioni processuali, in funzione della quale è prevista l'incapacità a testimoniare di cui all'art.246 cod. proc. civ.". Da qui, ad avviso del ricorrente, la erroneità dell'apprezzamento della Corte d'appello di Milano in ordine alla ritenuta insussistenza, nella specie, di una causa di incapacità, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ.
In proposito, deve qui rilevarsi che, nella giurisprudenza di questa Corte, si è recentemente escluso che lo status di coniuge in comunione legale dei beni comporti, di per sé e sempre, ex art. 246 cod. proc. civ., la incapacità a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge. In particolare, si è ritenuto che "il coniuge in regime di comunione legale non è incapace a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, ove esse abbiano ad oggetto crediti derivanti dall'esercizio dell'impresa di cui sia titolare esclusivo l'altro coniuge, in quanto essi diventano comuni solo al momento dello scioglimento della comunione e nei limiti in cui ancora sussistano, non essendo egli, in questo caso, titolare di un interesse che ne legittimi la partecipazione al giudizio", con l'ulteriore precisazione che in siffatta ipotesi, il giudice non può escludere a priori l'attendibilità della testimonianza in considerazione del rapporto di coniugio, ma deve fare riferimento ad ulteriori elementi" (Cass., 5 marzo 2004, n. 4532). Si è altresì esclusa l'incapacità del coniuge del convenuto in regime di comunione legale dei beni quando oggetto della controversia sia la violazione della disciplina delle distanze di una costruzione dal confine, in quanto l'incremento eventuale del patrimonio comune non è strettamente connesso e dipendente dall'oggetto della lite, e perciò l'interesse del coniuge escusso è di mero fatto, influente sulla valutazione della sua attendibilità, ma inidoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio (Cass., 9 ottobre 1997, n. 9786).
Emerge dunque dalla giurisprudenza di questa Corte la non configurabilità, in via astratta ed assoluta, di un divieto di testimonianza del coniuge in comunione legale dei beni, nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, dovendosi al contrario verificare, di volta in volta, la natura del diritto oggetto della controversia. E ciò tanto più si rivela necessario, ove si consideri che le norme sulla incapacità a testimoniare, introducendo una deroga al generale dovere di testimonianza, sono di stretta interpretazione (in tal senso, v. Cass., 14 gennaio 1980, n. 324) e che, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 247 cod. proc. civ., è stato espunto dall'ordinamento processuale civile il generale divieto di testimonianza del coniuge, ancorché separato, dei parenti o affini in linea retta e di coloro che siano legati ad una delle parti da vincoli di affiliazione (Corte cost., sentenza n. 248 del 1974). Non a caso, del resto, nella citata sentenza n. 62 del 1995 della Corte costituzionale, si è rilevato, nella parte in fatto della motivazione, che dall'ordinanza di rimessione emergevano elementi tali da indurre a ritenere rilevante la sollevata questione, essendosi precisato, da parte del giudice remittente, che i coniugi non avevano operato la scelta ex art. 162 cod. civ. e che, in relazione all'autovettura coinvolta nel sinistro, del quale in quel giudizio si discuteva, operava la presunzione di comunione legale del bene.
Orbene, venendo al caso di specie, occorre rilevare che oggetto della controversia in cui l'incapacità del coniuge in regime di comunione legale dei beni a deporre, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto operare era l'accertamento della responsabilità civile dell'altro coniuge a seguito di sinistro stradale. Si tratta, dunque, di un'obbligazione di natura extracontrattuale e personale, della quale, in linea di principio, la comunione legale non dovrebbe rispondere. Si potrebbe, invero, ipotizzare una corresponsabilità della comunione stessa, ai sensi dell'art. 2054, terzo comma, cod. civ.; tuttavia, una simile ipotesi richiederebbe un accertamento, in fatto, che consentisse di escludere che il veicolo sia di proprietà, o nella disponibilità, esclusiva di uno dei coniugi. Dalla sentenza impugnata, ma lo stesso ricorrente nell'atto introduttivo di questo giudizio dà atto della circostanza, emerge invece che il veicolo coinvolto nel sinistro era condotto dal proprietario. A fronte di tale accertamento in fatto, non è dunque sufficiente invocare il regime patrimoniale dei coniugi per inferirne la sussistenza di un interesse dell'altro coniuge idoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio e quindi la sua incapacità a deporre, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ.
Senza dire che, nel caso di specie, l'azione è stata proposta nei confronti del danneggiante e della compagnia di assicurazioni presso la quale questi era obbligatoriamente assicurato per la responsabilità civile, sicché, in ogni caso, tenuto conto della entità dei danni cagionati, in alcun modo sarebbe ipotizzabile, in riferimento alla quota dell'altro coniuge, una incidenza sul patrimonio comune e, conseguentemente, una legittimazione di quest'ultimo a partecipare al giudizio.
Il ricorso deve quindi essere rigettato. Poiché le parti convenute non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio, non vi è luogo a provvedere sulle spese.
P.Q.M.
Per questi motivi
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Così deciso addì 3 giugno 2004
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 9 FEB. 2005

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