giovedì 29 marzo 2007

Distanze minime tra i fabbricati, la regola della "distanza lineare"


Quanto alle modalità di calcolo della distanza, la giurisprudenza civile e amministrativa,reputa il Collegio che, anche accettando, in linea di principio, il criterio del computo in modo "lineare" e non "radiale" della distanza minima tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, il D.M. cit. sottolinei che la distanza debba essere "assoluta" e prescritta "in tutti i casi". Si deve pertanto convenire che debba essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (C.d.S., V, 16/2/79 N. 89) ed indipendentemente dal fatto che la parete sopraelevata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (Cass., II, 3/8/99 n. 8383, nonché TAR Emilia-Romagna, II, 30/3/06 n. 348).




T.A.R.

Toscana

Sezione III

Sentenza 22 gennaio 2007, n. 55

(Pres A. Radesi. - Est. G. Di Nunzio)

N. 55 REG. SENT.
ANNO 2007
N. 621 REG. RIC.
ANNO 2001

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA TOSCANA - III^ SEZIONE -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 621/01 proposto da L. R. e L. M. rappresentati e difesi dall’avv. Vittorio Chierroni, ed elettivamente domiciliati in Firenze, via Dei Rondinelli n. 2, presso lo Studio Legale Lessona

contro

- il Comune di K. costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dagli avv.ti M. Dalle Luche e Marco Orzalesi, ed elettivamente domiciliato in Firenze via Dei Servi n. 38, presso lo Studio Gracili

e nei confronti

- R. X.
- R. A.
- R. Y.
- S. S.

tutte rappresentate e difese dall’ Avv. Luisa Gracili, ed elettivamente domiciliate in Firenze, via dei Servi n. 38 presso lo Studio Gracili Associato

PER L’ANULLAMENTO

della concessione edilizia rilasciata dal dirigente della Direzione del Territorio e Pianificazione Ambientale del Comune di K. del 6/7/2000, n. 206 e di ogni altro atto a detta concessione comunque presupposto, connesso, o consequenziale

PER L’ACCERTAMENTO

di tutti i danni subiti dai ricorrenti a seguito dell’adozione e della esecuzione del suddetto provvedimento, nonché

PER LA CONDANNA

del Comune di K. e dei controinteressati al pagamento di tutti i suddetti danni.

Visto il ricorso e la relativa documentazione;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata e delle controinteressate;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle proprie difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Uditi, alla pubblica udienza del 9/11/2006 - relatore il Consigliere Giuseppe Di Nunzio -, gli avv.ti V. Chierroni, M. Dalle Luche e C. Picchiotti delegata da L. Gracili;

Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:

FATTO

A seguito di istanza presentata in data 5/4/2000 dalle sigg.re R. X., R. A., R. Y. e S. S., il Dirigente dell’U.O. Edilizia del Comune di K., in data 6/7/2000, rilasciava la concessione edilizia n. 206 per la "ristrutturazione edilizia, rifacimento della copertura e formazione di sottotetto a fabbricato di civile abitazione unifamiliare in via Castellacci n. 3, su terreno censito in catasto alla zona censuaria di K. sui mappali n. 805 e 886 del Foglio n. 7".

Con ricorso notificato all’Ente in data 8 marzo 2001 i sigg.ri L. R. e L. M. chiedono che questo TAR annulli la concessione edilizia n. 206/2000 e condanni il Comune di K. e le controinteressate al risarcimento di tutti i danni subiti.

Viene dedotta la seguente censura.

Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9 del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 e degli artt. 9, 22, 25 e 34 delle N.T.A. di P.R.G.C. del Comune di K..

Eccesso di potere per violazione del giusto procedimento, carenza di istruttoria, di motivazione, illogicità.

L’Amministrazione e i controinteressati resistono in giudizio.

DIRITTO

I ricorrenti, vicini frontisti l’edificio oggetto della impugnata concessione edilizia, deducono il seguente unico motivo di gravame:

Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9 del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 e degli artt. 9, 22, 25 e 34 delle N.T.A. di P.R.G.C. del Comune di K..

Eccesso di potere per violazione del giusto procedimento, carenza di istruttoria, di motivazione, illogicità.

Punto nodale della causa petendi è il disposto della disciplina locale sulle distanze tra edifici, lamentandosi i ricorrenti che l’intervento comportante la sopraelevazione dell’edificio vicino sia collocato illegittimamente a distanza inferiore ai 10 metri.

Tale disposto è dato dai seguenti punti D3 e D4 dell’art. 9, c. 6°, delle N.T.A. del Comune di K.:

D3 – Distanza minima dei fabbricati di nuova costruzione tra loro.

D4 – distanza tra edifici.

Si applicano i disposti di cui all’art. 9 D.M. 2.4.68 n. 1444 ad esclusione degli interventi di straordinaria manutenzione, restauro conservativo, ristrutturazione edilizia, ristrutturazione urbanistica senza modifiche planovolumetriche".

L’a. 9 D.M. 1444/68 cit., a sua volta – per la parte che quì interessa, ovvero quella inerente le costruzioni in zone diverse dalla "A" e "C" (la costruzione de qua è in zona "B") – prevede:

"Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti".

In punto di fatto, la contestata sopraelevazione comporta un aumento della altezza dell’edificio di circa 1,5 metri; dal ché consegue che si realizza un aumento di volumetria (circa da 266 a 300 mc).

Si sottolinea anche come si siano realizzati tre nuovi vani di misura superiore a 15 mq e un bagno.

Ciò posto, non rileva che la sopraelevazione in questione sia qualificata nuova costruzione o ristrutturazione edilizia, in quanto, anche in quest’ultima ipotesi, comportando "modifiche planovolumetriche", richiede, per il richiamo effettuato dal cit a. 9 N.T.A., il rispetto delle distanze di cui all’ cit. D.M. 1444/68. E’, cioè, la normativa urbanistica locale che scioglie il nodo dell’applicabilità o meno al caso de quo del rispetto della distanza minima di 10 metri previsto dalla normativa statale per le nuove edificazioni nelle zone "B", La soluzione scelta è – appunto – la applicabilità di tale limite anche in caso di ristrutturazione con modifiche planovolumetriche.

Peraltro, il richiamo delle parti resistenti all’a. 4 n. 52/99 sulla qualificazione delle sopraelevazioni come ristrutturazioni è inconferente perché detta qualificazione è effettuata al limitato fine dell’individuazione del titolo edilizio necessario e non incide sulla disciplina in materia di distanze.

Bisogna quindi dedurre che per l’intervento de quo doveva essere rispettata la distanza di 10 metri ex a. 9 D.M. 1444/68.

Quanto alle modalità di calcolo della distanza, la giurisprudenza civile e amministrativa non è esente da talune incertezze e discordanze, evidenziate nelle memorie depositate dalle parti costituite.

Reputa comunque il Collegio che, anche accettando, in linea di principio, il criterio del computo in modo "lineare" e non "radiale" della distanza minima tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, il D.M. cit. sottolinei che la distanza debba essere "assoluta" e prescritta "in tutti i casi". Si deve pertanto convenire che debba essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (C.d.S., V, 16/2/79 N. 89) ed indipendentemente dal fatto che la parete sopraelevata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (Cass., II, 3/8/99 n. 8383, nonché TAR Emilia-Romagna, II, 30/3/06 n. 348).

Ne consegue che nel caso di specie il limite de quo è stato illegittimamente violato.

La domanda di annullamento della concessione edilizia impugnata deve quindi essere accolta.

La domanda di risarcimento dei danni deve essere respinta.

I ricorrenti, invero, non assolvono l'onere, a loro carico vertendosi in materia di danno extracontrattuale, di provarne i presupposti.

Non è, in particolare dimostrato l'elemento psicologico del dolo o della colpa inscusabile, essendo la normativa in materia non del tutto limpida ed essendovi orientamenti giurisprudenziali - come già notato - tali da poter ingenerare talune incertezze.

Per quanto, infine, riguarda le spese del giudizio, queste possono essere integralmente compensate tra le parti, considerate le incertezze giurisprudenziali in materia.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sezione III^, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, così provvede:

ACCOGLIE la domanda di annullamento del provvedimento impugnato;

RESPINGE la domanda di risarcimento dei danni;

Compensa le spese del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Firenze, il 9/11/06, dal Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana, in Camera di Consiglio, con l’intervento dei signori:

Dott. Angela RADESI - Presidente
Dott. Giuseppe Di Nunzio - Consigliere, est.
Dott. Raffaele Potenza - Consigliere
F.to Angela Radesi

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 22 gennaio 2007.

Firenze, lì 22 gennaio 2007.

sabato 24 marzo 2007

Responsabilità patrimoniale della pubblica amministrazione per i danni causati dall’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa

Con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati dall’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, il Consiglio di Stato conferma l’orientamento favorevole a restare all'interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell'illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, (Cons. Stato, VI, 23 giugno 2006 n. 3981; 9 novembre 2006 n. 6607; IV, 6 luglio 2004 n. 5012; 10 agosto 2004 n. 5500).

Sotto il profilo dell’elemento oggettivo dell’illecito, si rileva che la ricorrente ha dimostrato che, in assenza dell’illegittimità commessa dall’amministrazione, avrebbe ottenuto l’aggiudicazione dell’appalto, in quanto le uniche due A.T.I., che la precedevano in graduatoria, avrebbero dovuto essere escluse.

Sussiste, dunque, il danno per non aver potuto eseguire i lavori e non aver tratto il relativo utile di impresa e tale danno si pone in rapporto di diretta causalità con la accertata illegittimità.

Spetta, quindi, al giudice valutare, in relazione ad ogni singola fattispecie, la configurabilità concreta della colpa, che spetta poi all'amministrazione superare; inoltre, in assenza di discrezionalità o in presenza di margini ridotti di essa, le presunzioni semplici di colpevolezza saranno più facilmente configurabili, mentre in presenza di ampi poteri discrezionali ed in assenza di specifici elementi presuntivi, sarà necessario uno sforzo probatorio ulteriore, gravante sul danneggiato, che potrà ad esempio allegare la mancata valutazione degli apporti resi nella fase partecipativa del procedimento o che avrebbe potuto rendere se la partecipazione non è stata consentita.

Consiglio di Stato, 9.3.2007


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.1114/2007

Reg.Dec.

N. 7325 Reg.Ric.

ANNO 2005

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello proposto dalla costituenda A.T.I. tra Tekno Domus s.r.l. ed E.S. Progetti e Sistemi s.r.l., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall' avv.to Roberto Maria Bisceglia, ed elettivamente domiciliato presso l’avv. Carmela Esposito, in Roma, via Isacco Newton, n. 34;

contro

Ministero per i beni e le attività culturali – Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta, non costituitosi in giudizio;

e nei confronti di

A.T.I. tra AR.FE.GA. s.a.s. e Marine Sub s.a.s., non costituitisi in giudizio;

A.T.I. costituenda tra Forte Costruzioni s.r.l., Laguna Sub s.n.c. e Studio associato Andreia, non costituitasi in giudizio;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione I, n. 2786/2005;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 16-1-2007 relatore il Consigliere Roberto Chieppa.

Udito l'Avv. Bisceglia;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

F A T T O E D I R I T T O

1. L’associazione temporanea di imprese costituenda tra Tekno Domus s.r.l. ed E.S. s.r.l. Progetti e Sistemi ha partecipato alla gara indetta dalla Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta per l'affidamento dei "lavori di indagini geofisiche, scavo archeologico della base militare della flotta Misenum", classificandosi terza.

Con ricorso proposto al Tar Campania ha contestato l'ammissione alla gara delle due associazioni temporanee di impresa, che la hanno preceduta nella graduatoria finale formata dall'amministrazione procedente.

Dopo che gli atti impugnati erano stati sospesi a con ordinanza di questa Sezione n. 5582/2004, con sentenza n. 2786/2005 il Tar ha respinto il ricorso, ritenendo che:

a) il bando di gara non imponeva il possesso della attestazione SOA nella categoria OS25 in capo alla mandante, in caso questa fosse in possesso del requisito ulteriore previsto dalla lex specialis e consistente nell’aver effettuato lavorazioni di scavo archeologico su fondo marino per un importo di Euro 143.579,08;

b) tale previsione era legittima in presenza di lavorazioni per un importo inferiore alla soglia dei 150.000 Euro, di cui all’art. 28 del d.P.R. n. 34/2000, norma che non aveva alcuna necessità di espresso richiamo nel bando per essere applicata.

L’A.T.I. costituenda tra Tekno Domus s.r.l. ed E.S. s.r.l. Progetti e Sistemi ha impugnato tale decisione, deducendo che le due associazioni, classificate prima e seconda, avrebbero invece dovuto essere escluse dalla procedura perché le due imprese mandanti non erano in possesso di (adeguata) attestazione SOA.

L’associazione appellante ha anche sostenuto l’inapplicabilità dell’art. 28 del d.P.R. n. 34/2000 e ha riproposto la domanda di risarcimento del danno, anche respinta in primo grado.

L’amministrazione appellata e le imprese controinteressate, regolarmente intimate, non si sono costituite in giudizio.

All’odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione.

2. Oggetto del presente giudizio è la procedura di gara, indetta dalla Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta per l'affidamento dei "lavori di indagini geofisiche, scavo archeologico della base militare della flotta Misenum".

L’A.T.I. appellante si è classificata terza, ma ha interesse al ricorso, in quanto i motivi proposti coinvolgono le A.T.I. posizionate come prima e seconda della graduatoria finale.

Le contestazioni riguardano la necessità, o meno, del possesso dell’attestazione SOA nella categoria OS25 e, in particolare, se tale attestazione fosse stata sostituita, o solo integrata, dall’ulteriore requisito dell’aver effettuato lavorazioni di scavo archeologico su fondo marino per un importo di Euro 143.579,08.

Al riguardo, si rileva che il bando di gara ha previsto, al punto 3, le seguenti "Lavorazioni di cui si compone l'intervento:

Categoria prevalente: Categoria OS25, classifica II: Scavo archeologico e attività strettamente connessa Euro 395.232,09;

Categoria scorporabile: Categoria OG2, classifica II: Restauro di beni immobili sottoposti a tutela Euro 256.777,97;

Ulteriori lavorazioni: Impianti elettrici Euro 47.989,94”.

Era poi aggiunto che “Il concorrente dovrà dimostrare, ai fini della qualificazione alla categoria prevalente, di aver eseguito nell'ultimo quinquennio lavori di indagini, ricerca, sorbonatura, rilevamento di strutture archeologiche sommerse per un importo non inferiore ad Euro 143.579,08.”

Con riferimento alle attestazioni SOA, era, altresì, specificato che “Le lavorazioni relative alla categoria OG2 possono essere eseguite dal concorrente solo se in possesso di attestazione Soa” e che alla domanda di partecipazione dovesse essere allegata, a pena di esclusione “l’attestazione, rilasciata da società di attestazione di cui al d.P.R. n. 34/2000 regolarmente autorizzata, in corso di validità, che documenti il possesso della qualificazione nelle categorie OS25 e OG2 per classifica adeguata ai lavori da assumere” (v. pag. 2 del Disciplinare di gara, richiamato dal bando).

Il Collegio ritiene che il bando richiedesse il possesso dell’attestazione SOA per la categoria OS25 e che tale requisito era solo integrato, ma non sostituito, dalla dimostrazione dell’effettuazione di lavori di indagini, ricerca, sorbonatura, rilevamento di strutture archeologiche sommerse per un importo non inferiore ad Euro 143.579,08.

Il bando si limita a consentire che tali ultime lavorazioni siano effettuate dall’impresa mandante, ma in alcun modo esonera questa dal possesso dell’attestazione SOA (che anzi è richiesta tra la documentazione da produrre a pena di esclusione).

Del resto, è questa l’unica interpretazione legittima della lex specialis, (comunque impugnata in via subordinata dalla ricorrente), in quanto la categoria OS25 era quella prevalente e, ai sensi degli artt. 8 e 13 della legge n. 109/94 e dell’art. 95 del d.P.R. n. 554/99, i lavori appartenenti alla categoria prevalente non sono scorporabili e le imprese partecipanti all’ATI devono essere in possesso dei prescritti requisiti di qualificazione relativi alla categoria prevalente.

Il bando si limitava, quindi, a consentire che i lavori eseguiti sulle strutture sommerse potessero essere eseguiti da imprese mandanti in Ati, senza però escludere la necessità dell’attestazione SOA.

Il giudice di primo grado ha espressamente attribuito portata “dirimente” all’applicabilità dell’art. 28 del d.P.R. n. 3472004, anche se non espressamente richiamato dal bando.

Tuttavia, tale disposizione si applica agli “appalti di lavori pubblici di importo pari o inferiore a 150.000” e non è questo il caso in esame.

Il giudice di primo grado ha riferito tale soglia alle lavorazioni speciali di indagini, ricerca, sorbonatura, rilevamento di strutture archeologiche sommerse, per le quali era richiesto una pregressa esperienza per lavori di importo non inferiore ad Euro 143.579,08; ma tale importo non era certo quello dell’appalto, che era invece di euro 700.000,00 e, quindi, di gran lunga superiore al limite previsto per l’applicabilità del citato art. 28.

Tale erronea valutazione ha condotto il Tar a ritenere applicabile la norma, stravolgendo in questo modo il tenore del bando di gara, che non la richiamava.

In accoglimento del motivo di appello, deve, quindi, ritenersi che l’aggiudicazione della gara sia illegittima, in quanto le A.T.I. classificate ai primi due posti della graduatoria dovevano essere escluse per il mancato possesso in capo alle imprese mandati della necessaria attestazione SOA per la categoria prevalente OS25.

3.1. L’annullamento dell’aggiudicazione non è satisfattivo della pretesa della ricorrente, in quanto, come da questa dedotta e non contestato, i lavori in questione sono stati eseguiti dall’A.T.I. aggiudicataria o comunque si trovano in uno stato che non consente il subentro di altra impresa.

Deve, quindi, essere esaminata la domanda di risarcimento del danno, riproposta in appello.

Con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati dall’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, questa Sezione ha già aderito a quell’orientamento favorevole a restare all'interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell'illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, (Cons. Stato, VI, 23 giugno 2006 n. 3981; 9 novembre 2006 n. 6607; IV, 6 luglio 2004 n. 5012; 10 agosto 2004 n. 5500).

Sotto il profilo dell’elemento oggettivo dell’illecito, si rileva che la ricorrente ha dimostrato che, in assenza dell’illegittimità commessa dall’amministrazione, avrebbe ottenuto l’aggiudicazione dell’appalto, in quanto le uniche due A.T.I., che la precedevano in graduatoria, avrebbero dovuto essere escluse.

Sussiste, dunque, il danno per non aver potuto eseguire i lavori e non aver tratto il relativo utile di impresa e tale danno si pone in rapporto di diretta causalità con la accertata illegittimità.

3.2. Per quanto concerne, l’elemento soggettivo, sulla base dei richiamati precedenti giurisprudenziali, va ribadito che non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa della p.a... Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell'amministrazione peri danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.

Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile.

Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.

Si deve, peraltro, tenere presente che molte delle questioni rilevanti ai fini della scusabilità dell'errore sono questioni di interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche, inerenti la difficoltà interpretativa che ha causato la violazione; in simili casi il profilo probatorio resta in larga parte assorbito dalla questio iuris, che il giudice risolve autonomamente con i propri strumenti di cognizione in base al principio iura novit curia.

Spetta, quindi, al giudice valutare, in relazione ad ogni singola fattispecie, la configurabilità concreta della colpa, che spetta poi all'amministrazione superare; inoltre, in assenza di discrezionalità o in presenza di margini ridotti di essa, le presunzioni semplici di colpevolezza saranno più facilmente configurabili, mentre in presenza di ampi poteri discrezionali ed in assenza di specifici elementi presuntivi, sarà necessario uno sforzo probatorio ulteriore, gravante sul danneggiato, che potrà ad esempio allegare la mancata valutazione degli apporti resi nella fase partecipativa del procedimento o che avrebbe potuto rendere se la partecipazione non è stata consentita.

Va, infine, precisato che alcun elemento contrario alla effettuata ricostruzione della nozione di colpa della p.a. può trarsi dalla giurisprudenza comunitaria.

Con una recente sentenza la Corte di Giustizia ha sanzionato lo Stato del Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei soggetti lesi in seguito alle violazioni del diritto comunitario che regolano la materia dei pubblici appalti alla allegazione della prova, da parte dei danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto pubblico siano stati commessi colposamente o dolosamente (Corte Giust., 14 ottobre 2004, C-275/03).

Tuttavia, tale decisione appare riferirsi all’onere della prova in relazione all’elemento soggettivo della responsabilità della p.a. e non alla esigenza di accertare la responsabilità, prescindendo dalla colpa dell’amministrazione.

Come illustrato, nell’ordinamento italiano la possibilità per il privato danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della p.a. l’onere di dimostrare l’esistenza di un errore scusabile, senza alcuna lesione, quindi, dei principi comunitari.

Inoltre, va considerato che la stessa Corte di Giustizia, pur non facendo riferimento alla nozione di colpa della p.a., utilizza, a fini risarcitori, il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario, sulla base degli stessi elementi, descritti in precedenza e utilizzati nel nostro ordinamento per la configurabilità dell’errore scusabile (Corte Giust. CE, 5 marzo 1996, C- 46 e 48/93, Brasserie du Pecheur, in cui, al punto 78, viene riconosciuto che alcuni degli elementi indicati per valutare se vi sia violazione manifesta e grave sono riconducibili alla nozione di colpa nell'ambito degli ordinamenti giuridici nazionali).

Precisata la nozione di colpa della p.a., si tratta ora di applicare i suesposti principi alla fattispecie in esame.

Nel caso di specie, l’amministrazione ha ammesso alla procedura due A.T.I., che non avevano i requisiti per partecipare, violando lo stesso bando da lei predisposto.

Né può essere invocata la poca chiarezza della lex specialis, in quanto questa è stata appunto approvata dalla stessa amministrazione.

Va, infine, evidenziato che non esclude la colpa la circostanza che il giudice di primo grado abbia dato ragione all'amministrazione con decisione ribaltata in appello, in quanto anche il Tar può incorrere in errore (come nel caso di specie, causa l’erronea applicazione dell’art. 28 del d.P.R. n. 34/00) e comunque non appare ragionevole dare rilevanza ad un fatto successivo a quello che ha generato l'illecito; aderendo a tale impostazione, la sussistenza della colpa sarebbe ravvisabile nelle sole ipotesi in cui il privato ottenga ragione in entrambi i gradi del giudizio, finendo il giudizio di primo grado ad essere quello decisivo.

Si è trattato, quindi, di un evidente errore, che in alcun modo può essere ritenuto scusabile e ciò conduce a ritenere sussistente l’elemento della colpa dell’amministrazione appellata.

3.3. Sotto il profilo della quantificazione del danno, la ricorrente ha indicato il criterio del 25 % dell’offerta presentata, quale mancato ammortamento delle spese generali di azienda (15 %) e mancato utile che l’impresa avrebbe tratto dall’aggiudicazione dell’appalto (10 %).

Il criterio indicato non corrisponde a quello utilizzato dalla prevalente giurisprudenza (10 % dell’importo offerto dal ricorrente).

Tuttavia, la giurisprudenza ha anche precisato che il danno derivante ad una impresa dal mancato affidamento di un appalto è quantificabile nella misura dell’utile non conseguito (10 %), solo se e in quanto l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta (come nel caso di specie) è da ritenere che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile, (Cons. Stato, V, 24 ottobre 2002 n. 5860; VI, 9 novembre 2006 n. 6607).

In applicazione di detto principio, il danno risarcibile deve essere ridotto al 5 % dell’importo offerto e corrisponde ad euro 27.727,95 (5 % di euro 544.559,19).

Tale somma deve intendersi già attualizzata e deve essere aumentata, in via equitativa, ad Euro 35.000,00 in considerazione dell’ulteriore danno, consistente nell’incidenza del mancato svolgimento del rapporto con la p.a. sui requisiti di qualificazione e di valutazione, invocabili in successive gare (cfr., sempre, Cons. Stato, VI, 9 novembre 2006 n. 6607); l’aumento è in questo caso particolarmente rilevante, in considerazione della specificità dei lavori in questione e della difficoltà di svolgere lavori dello stesso tipo ai fini della formazione di una pregressa esperienza dell’impresa.

4. In conclusione, l’appello deve essere accolto con conseguente annullamento dell'atto impugnato, in riforma della sentenza di primo grado.

L’amministrazione appellata deve essere, altresì condannata al risarcimento del danno, quantificato nella complessiva somma di euro 35.000,00, oltre agli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino all’effettivo soddisfo.

Alla soccombenza dell’amministrazione appellata seguono le spese di giudizio, mentre devono essere compensate le spese con le ATI controinteressate.

P. Q. M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie il ricorso in appello indicato in epigrafe e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, annulla gli atti impugnati e condanna l’amministrazione appellata al risarcimento del danno nei sensi di cui in parte motiva.

Condanna l’amministrazione appellata alla rifusione, in favore della Società appellante, delle spese di giudizio, quantificate in Euro 7.000,00, oltre IVA e CP, compensando le spese con le controinteressate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 16-1-2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Giovanni Ruoppolo Presidente

Carmine Volpe Consigliere

Giuseppe Romeo Consigliere

Luciano Barra Caracciolo Consigliere

Roberto Chieppa Consigliere Est.

Presidente

GIOVANNI RUOPPOLO

Consigliere Segretario

ROBERTO CHIEPPA GIOVANNI CECI

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il...09/03/2007

(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)

Il Direttore della Sezione

MARIA RITA OLIVA

CONSIGLIO DI STATO

In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta)

Addì...................................copia conforme alla presente è stata trasmessa

al Ministero..............................................................................................

a norma dell'art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642

Il Direttore della Segreteria

N.R.G. 7325/2005





Obbligo di valutazioni comparative delle P.A. per incarichi esterni


L'art. 32 del D.L. n. 223/2006, convertito in L. n. 248/2006, impone alle amministrazioni pubbliche, ivi inclusi gli enti locali, di procedere a valutazioni comparative prima di conferire incarichi di collaborazione esterna, nei limiti in cui questi sono ammissibili. La norma in effetti ha modificato in parte l’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, per cui le disposizioni predette si applicano anche agli enti locali, ai sensi dell’art. 1, ultimo comma, del T.U. n. 165/2001

Tribunale Regionale Puglia, sezione di Lecce, 14 febraio 2007


REPUBBLICA ITALIANA

In nome del popolo italiano

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

PER LA PUGLIA

LECCE

SECONDA SEZIONE

Registro Dec.: 494/07

Registro Generale: 169/2007

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Seconda Sezione di Lecce, nelle persone dei signori Magistrati:

ANTONIO CAVALLARI - Presidente

TOMMASO CAPITANIO - Referendario , relatore

PATRIZIA MORO - Referendario

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Visto il ricorso n. 169/2007, proposto da Rita Caretto, rappresentata e difesa dagli avv. A. O. e L. B., con domicilio eletto presso lo studio del primo, in LECCE,

contro

  • COMUNE DI CELLINO SAN MARCO, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avv. C. M.,
  • AZIENDA U.S.L. BR/1, in persona del Direttore Generale p.t., rappresentata e difesa dall’avv. A. A., con domicilio eletto presso la Segreteria TAR, in Lecce, Via Rubichi, 23/A,

e nei confronti di

I. M., non costituita,

per l'annullamento, previa sospensione dell'esecuzione,

  • della deliberazione della AUSL BR/1 del 10.11.2006, prot. n. 3048, pubblicata all’Albo Pretorio dal 14.11.2006 al 28.11.2006, con cui veniva conferito alla Sig.ra I. M. incarico professionale provvisorio di Operatore non sanitario – Assistente agli alunni disabili – in regime di collaborazione coordinata e continuativa per l’attività inerente al servizio d’integrazione agli handicappati presso la scuola dell’obbligo del Comune di Cellino San Marco con decorrenza dalla data di effettivo servizio sino al 30.06.2007;
  • di ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e conseguente ed, in particolare, ove occorre 1) della nota del 23.10.2006, prot. n. 10124, conosciuta successivamente, con cui il Sindaco del Comune di Cellino San Marco comunicava alla AUSL BR/1 il nominativo della Sig.ra Martina Iolanda, quale soggetto idoneo, a parere dello stesso, ad espletare il servizio di assistenza alla alunna T.L., 2) della nota del 16.01.2007 dell’AUSL BR/1 in riscontro all’istanza di riesame e ritiro in via di autotutela del provvedimento impugnato in via principale, proposta dalla Sig.ra C. R. in data 27.11.2006.


Visto con il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli atti tutti della causa;

Vista la domanda cautelare proposta unitamente al ricorso;

Visto l'atto di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate;

Uditi nella camera di consiglio del 14 febbraio 2007 il relatore, Ref. Tommaso Capitanio, e, le parti costituite, .

Considerato che nel ricorso sono dedotti i seguenti motivi:

  • Violazione dell’art. 12 della Legge n. 241/1990 e dell’art. 32 del D.L. 223/2006. Invalidità derivata.
  • Erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto.


Considerato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue.

Con il provvedimento impugnato, l’AUSL BR/1 (che, a far tempo dall’1.1.2007 ha assunto la denominazione di AUSL BR, a seguito della riforma del SSR di cui alle LL.RR. n. 25/2006 e n. 39/2006) ha affidato alla controinteressata sig.ra M. l’incarico di operatore non sanitario-assistente agli alunni disabili per il corrente anno scolastico, nel quadro delle attività di integrazione scolastica dei portatori di handicap (L.R. n. 16/1987 e s.m.i.).

Tale provvedimento è stato adottato dall’AUSL in quanto i Comuni appartenenti all’ATO n. 4 hanno delegato all’Azienda Sanitaria le funzioni assistenziali in favore degli alunni diversamente abili, ai sensi dell’art. 68 della L.R. n. 19/2006.

I nominativi dei soggetti a cui affidare gli incarichi sono stati però segnalati dai vari Comuni e nel caso di specie dal Comune di Cellino San Marco.

Il provvedimento in epigrafe viene censurato dalla ricorrente per due ordini di ragioni:

  • in primo luogo perché l’Amministrazione ha violato le disposizioni di cui all’art. 12 della L. n. 241/1990 (nella parte in cui impone alle P.A. di predeterminare e rendere noti tempestivamente i criteri e le modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi nell’attribuzione a privati di benefici economici di qualsiasi genere) e dell’art. 32 della L. n. 248/2006, recante la conversione in legge del D.L. n. 223/2006 (il quale, dopo aver stabilito precisi limiti al conferimento di incarichi di collaborazione esterna da parte delle P.A. di cui al D.Lgs. n. 165/2001, impone ogni caso alle stesse Amministrazioni di procedere a valutazioni comparative prima di conferire gli incarichi stessi);
  • in secondo luogo, perché il Comune di Cellino San Marco non ha tenuto conto, nell’istruttoria della pratica, di alcuni elementi fattuali assolutamente determinanti (ossia, il fatto che la ricorrente aveva presentato domanda di conferimento dell’incarico per cui è causa prima dell’inizio del presente anno scolastico, mentre la controinteressata aveva presentato analoga istanza nel 2005 senza però rinnovarla nel 2006; nonché la circostanza che dal curriculum vitae della sig.ra M., peraltro non sottoscritto dall’interessata nelle forme di cui al DPR n. 445/2000, non si evince una migliore preparazione professionale della controinteressata).

Si sono costituiti il Comune, che eccepisce preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, e l’AUSL, la quale eccepisce preliminarmente la nullità della notifica, per essere stato il ricorso notificato all’AUSL BR/1, ossia ad un soggetto giuridico non più esistente alla data della notifica.

Poiché il Tribunale ritiene di dover accogliere il ricorso, vanno esaminate le eccezioni preliminari.

Per ciò che attiene alla questione della giurisdizione, si osserva che nella vicenda che ne occupa non viene in evidenza la contestazione in sé dell’atto di conferimento dell’incarico, bensì la legittimità del procedimento che ha preceduto il conferimento stesso.

In base a quanto stabilito dal predetto art. 32 del c.d. decreto Bersani del luglio 2006, il conferimento di incarichi di collaborazione esterna da parte delle P.A. (ivi inclusi gli enti locali e le Aziende sanitarie) deve avvenire previo esperimento di procedure para-selettive e non già in base alla sola valutazione di idoneità del prescelto (quindi non si tratta di incarichi che possono essere conferiti intuitu personae). Se così è, ne consegue che, in base ai consueti canoni di riparto, la giurisdizione per le controversie inerenti la procedura ad evidenza pubblica finalizzata al conferimento degli incarichi de quibus spetta al giudice amministrativo.

Che poi il rapporto lavorativo del personale impiegato nell’assistenza scolastica in favore degli alunni portatori di handicap sia disciplinato dal vigente CCNL di Comparto non rileva ai fini della giurisdizione per le controversie inerenti la contestazione del procedimento finalizzato al conferimento degli incarichi.

Per quanto attiene, invece, al problema della nullità della notifica, si tratta di eccezione infondata, in quanto:

  • a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 5 della L.R. n. 39/2006, nella Regione Puglia le AUSL sono ridotte ad una per ciascuna provincia, il che ha determinato la fusione delle Aziende sanitarie che esistevano nell’ambito della stessa provincia (ad esempio, AUSL LE/1 e AUSL LE/2, confluite nell’AUSL LE) e la necessità di prevedere un regime transitorio per la definizione delle operazioni di fusione (vedasi commi 2 e 3 dell’art. 5);
  • per le AUSL che già includevano il territorio dell’intera provincia, però, la riforma ha determinato solo la modifica della denominazione, essendo rimasti immutati la sede, l’ambito territoriale di competenza, il management, etc. L’AUSL di Brindisi ricade in questa casistica, come si evince chiaramente dall’art. 5, comma 1, della L.R. n. 39/2006;
  • l’art. 160 c.p.c. stabilisce che “La notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data, salva l'applicazione degli articoli 156 e 157”. Per cui, a parte l’efficacia sanante della costituzione in giudizio della parte intimata, la nullità della notifica può essere dichiarata solo quando dal tenore letterale dell’atto non si riesca ad individuare il soggetto destinatario della notifica;
  • nel caso di specie, invece, tale incertezza non sussiste sotto alcun profilo, avendo l’ex AUSL BR/1 cambiato solo la denominazione, per cui è assolutamente certo che la ricorrente ha voluto notificare il ricorso all’Azienda USL che ha sede in Brindisi (la quale è una sola), alla via Napoli, n. 8.



Passando quindi all’esame del merito, il Tribunale ritiene di dover accogliere il ricorso in quanto:

  • non c’è dubbio che il citato art. 32 del D.L. n. 223/2006, convertito in L. n. 248/2006, imponga alle amministrazioni pubbliche, ivi inclusi gli enti locali, di procedere a valutazioni comparative prima di conferire incarichi di collaborazione esterna, nei limiti in cui questi sono ammissibili. La norma in effetti ha modificato in parte l’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, per cui le disposizioni predette si applicano anche agli enti locali, ai sensi dell’art. 1, ultimo comma, del T.U. n. 165/2001;
  • nel caso di specie, mentre non c’è dubbio circa l’ammissibilità dell’incarico (e ciò in relazione all’inderogabile esigenza di garantire l’assistenza scolastica agli alunni portatori di handicap ed all’assenza di personale da contrattualizzare ai sensi dell’art. 68 della L.R. n. 19/2006), sussistono invece i denunciati vizi di difetto di istruttoria e, conseguentemente, di motivazione, soprattutto per quanto riguarda l’operato del Comune (l’AUSL, in effetti, si è limitata a recepire la segnalazione del civico ente di Cellino San Marco, per cui la deliberazione del D.G. n. 3048/2006 è affetta solo da illegittimità derivata);
  • in effetti, dalla documentazione esibita in giudizio non risulta né l’avvenuta pubblicizzazione di un bando o avviso relativo al conferimento dell’incarico per cui è causa, né la predisposizioni di criteri valutativi, né, infine, l’osservanza dei criteri a cui il Comune, nella nota n. 10124 del 23.10.2006, asserisce di essersi attenuto (ordine cronologico delle domande pervenute e valutazione dei curricula). In particolare, non si dà conto dell’avvenuto esame della domanda della sig.ra C. e della valutazione comparativa del curriculum professionale della stessa (al riguardo, le valutazione espresse nella difesa tecnica del Comune costituiscono un’inammissibile motivazione postuma, non rientrante nell’alveo di applicazione dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990).

In ragione di quanto precede, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento degli atti impugnati.

Sussistono tuttavia giusti motivi per disporre la compensazione delle spese fra le parti costituite.

Sentiti i difensori delle parti costituite in ordine alla possibilità di definire nel merito il presente giudizio con sentenza in forma semplificata, ai sensi degli artt. 3 e 9 della L. 21/7/2000, n. 205.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Seconda Sezione di Lecce – accoglie il ricorso in epigrafe.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Lecce, nella Camera di Consiglio del 14 febbraio 2007.

Dott. Antonio Cavallari - Presidente

Dott. Tommaso Capitanio - Estensore

Pubblicata il 19 febbraio 2007

C.I.A.(autosmaltimento rifiuti), comunicazione inizio attività e rispetto norme tecniche


L'autosmaltimento, a norma dell'articolo 32, decreto legislativo n. 22 del 1997, può essere effettuato decorsi novanta giorni dalla comunicazione d'inizio attività alla provincia a condizione però che siano rispettate le norme tecniche dettate per tale attività dal Governo in persona dei Ministri competenti (Ambiente, Industria Commercio, Artigianato ecc). I decreti ministeriali devono individuare per ciascun tipo di attività le quantità di rifiuti, i procedimenti, i metodi e le condizioni di smaltimento. Senza l'adozione dei decreti ministeriali non è possibile avvalersi della procedura semplificata e l'interessato è obbligato a richiedere l'autorizzazione. Ora, mentre per le attività di recupero di cui all'articolo 33 sono stati adottati decreti ministeriali, analoga iniziativa non è stata assunta per l'autosmaltimento. Pertanto, non si tratta di una violazione meramente formale, non essendo demandato all'arbitrio del singolo la scelta delle quantità o delle condizioni ritenute più idonee per l'autosmaltimento. A seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 152 del 2006, la disciplina in materia non ha subito modificazioni più favorevoli. Pres. Papa - Est. Petti - Ric. Rando.


A norma degli articoli 27 e 28 decreto Ronchi (d. l.vo n. 22/1997) sia la mera realizzazione di un impianto di smaltimento che la stessa attività di smaltimento devono essere autorizzate. L'obbligo dell'autorizzazione è inderogabile solo per l'attività di smaltimento vero e proprio ossia per il conferimento in discarica mentre può essere derogato da procedure semplificate per quanto riguarda le attività di recupero e quelle di autosmaltimento. Tuttavia non è sufficiente una qualsivoglia generica autorizzazione, ma ciascuna attività deve essere esplicitamente assentita con la procedura specificamente prevista per essa ed alle condizioni appositamente stabilite, non potendo essere demandato all'arbitrio del singolo la scelta delle quantità o delle condizioni ritenute più idonee per l'autosmaltimento. La disciplina in materia non ha subito modificazioni più favorevoli a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 152 del 2006. Pres. Papa - Est. Petti - Ric. Rando.


Nel ricorso in cassazione possono essere introdotti solo documenti relativi a cause estintive del reato che non richiedono accertamenti fattuali, allo ius superveniens ed in genere documenti sopravvenuti non attinenti al merito (Cass. giugno del 1999 Calascibetta). Nella fattispecie è stata respinta l'istanza avanzata in sede di discussione diretta alla produzione di nuovi documenti, tendenti, secondo il difensore, alla dimostrazione in via interpretativa dell'esistenza di un'autorizzazione implicita. Si tratterebbe quindi di un documento che richiede comunque un'indagine di merito e che non può essere esaminato separatamente dagli altri documenti, e d'altra parte, sarebbe irrilevante perché l'autorizzazione deve essere esplicita. Pres. Papa - Est. Petti - Ric. Rando.

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 18 dicembre 2006 (Ud. 08/11/2006), Sentenza n. 41290


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dai sigg. magistrati:

Dott. Enrico Papa presidente
Dott. Ciro Petti consigliere
Dott. Vincenzo Tardino consigliere
Dott. Alfredo Maria Lombardi consigliere
Dott. Franco Amedeo consigliere


Ha pronunciato la seguente


SENTENZA

Sul ricorso proposto dal difensore di Rando Francesco, nato a Genova il 12 agosto del 1937, avverso la sentenza del tribunale di Roma del 26 settembre del 2003;

udita la relazione svolta dal consigliere dott. Ciro Petti;

sentito il P.M. nella persona del sostituto procuratore generale dott. Vittorio Meloni, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso

sentito il difensore avv. Gian Michele Gentile il quale ha concluso per l'accoglimento del ricorso


letti il ricorso e la sentenza denunciata, osserva quanto segue


IN FATTO


Con sentenza deI 26 settembre del 2003, il tribunale di Roma condannava Rando Francesco alla pena, condizionalmente sospesa, di € 8000,00 di ammenda, quale responsabile, in concorso di circostanze attenuanti generiche, del reato di cui all'articolo 51 comma 1 lettera a) del D. L.vo n 22 del 5 febbraio 1997, per avere, nella sua qualità di responsabile della società "E Giovi", con sede in Roma, la quale gestiva la discarica di Malagotta, effettuato senza la prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt 27, 28, 31 e 33 del decreto legislativo citato, attività di smaltimento del percolato, tramite trattamento di inertizzazione mediante l'uso di calce viva, al fine di renderlo palabile e depositarlo nella discarica stessa, limitatamente al periodo compreso tra il 2 marzo del 2001 ed il 12 dicembre del 2002.


Il tribunale, dopo avere precisata che il trattamento innanzi indicato consisteva in un'operazione di smaltimento di cui all'allegato B) lettera d ) del decreto legislativo n. 22 del 1997 e per ciò necessitava di specifica autorizzazione, osservava che non era applicabile l'articola 32 del decreto citato perché non risultavano ancora emanate norme tecniche per quanto concerneva il trattamento del percolato; che l'autorizzazione rilasciata in precedenza all'imputato era scaduta a norma dell'articolo 57 decreto Ronchi a seguito del decorso del quadriennio successivo all'entrata in vigore del decreto citato; che i provvedimenti autorizzativi successivi al marzo del 2001 e fino al mese di dicembre del 2002 non riguardavano gli impianti relativi alla raccolta ed al trattamento del percolato e quindi l'attività di autosmaltimento doveva ritenersi illecita fino al dicembre del 2002.


Ricorre per cassazione l'imputato sulla base di un unico articolato motivo.


IN DIRITTO


Preliminarmente va respinta l'istanza avanzata in sede di discussione diretta alla produzione di nuovi documenti, tendenti, secondo il difensore, alla dimostrazione in via interpretativa dell'esistenza di un'autorizzazione implicita. Invero i documenti esibiti per la prima volta in sede di legittimità non sono ricevibili perché il nuovo codice di rito non ha previsto all'articolo 613 c.p.p., diversamente dall'abrogato articolo 533, tale facoltà, giacché il legislatore del 1988 ha voluto esaltare il ruolo di pura legittimità della Corte suprema, la quale procede non ad un esame degli atti, ma soltanto alla valutazione della logicità della motivazione e della sua correttezza sotto il profilo giuridico. In cassazione possono essere introdotti solo documenti relativi a cause estintive del reato che non richiedono accertamenti fattuali, all'ius superveniens ed in genere documenti sopravvenuti non attinenti al merito (Cass. giugno del 1999 Calascibetta). Nella fattispecie, peraltro, secondo quanto riferito dallo stesso difensore, dalla nuova documentazione si dovrebbe desumere in via interpretativa l'esistenza di un'autorizzazione implicita. Si tratterebbe quindi di un documento che richiede comunque un'indagine di merito e che non può essere esaminato separatamente dagli altri documenti, e d'altra parte, sarebbe irrilevante perché l'autorizzazione deve essere esplicita.


Ciò premesso, con l'unico motivo di ricorso il difensore deduce la violazione della norma incriminatrice nonché contraddittorietà della motivazione desumibile dal testo del provvedimento. Il ricorrente, dopo avere premesso che il processo di trattamento in questione non è chimico - fisico, come ritenuto dal tribunale, ma unicamente fisico, posto che la possibilità di ricovero di tali rifiuti liquidi in discarica si realizza solo attraverso la loro solidificazione e la loro palabilità, osserva che tale operazione non costituisce trattamento perché non mira al recupero o alla riutilizzazione del rifiuto; che pertanto è errato il riferimento all'allegato b) del decreto Ronchi, perché, per il ricovero in discarica di quel percolato reso palabile, non era necessaria alcuna autorizzazione. In ogni caso l'autorizzazione si poteva considerare contenuta nei decreti deI 2001 che avevano avuto ad oggetto la discarica in questione. Sostiene infine che illegittimamente il tribunale aveva escluso l'applicabilità dell'articolo 32 del decreto dianzi citato per la ritenuta mancata formale adozione delle norme tecniche di cui all'articolo 31 del medesimo decreto: infatti l'esistenza delle condizioni tecniche di sicurezza, peraltro già esistenti nella prassi, era stata di fatto constatata dalla provincia allorché aveva concesso l'autorizzazione del 1987.


Il motivo è infondato.


A norma dell'articolo 5 del decreto Ronchi Io smaltimento deve essere effettuato in condizioni di sicurezza e costituisce la fase residuale dell'attività di gestione dei rifiuti. A norma dell'articolo 6 lettera g) del citato decreto, per smaltimento si intendono tutte le operazioni indicate nell'allegato B) che sono quindici e sono costituite per Io più da sistemi e tecnologie di smaltimento, fatta eccezione per quelle indicate sotto i punti d) 14 e d) 15, che costituiscono operazioni preliminari e temporanee preordinate all'espletamento di quelle precedenti. La più semplice operazione di smaltimento è costituita dal mero deposito sul suolo e nel suolo di cui al punto d/l) senza alcun trattamento. A norma degli articoli 27 e 28 decreto Ronchi sia la mera realizzazione di un impianto di smaltimento che la stessa attività di smaltimento devono essere autorizzate. Tuttavia l'obbligo dell'autorizzazione è inderogabile solo per l'attività di smaltimento vero e proprio ossia per il conferimento in discarica mentre può essere derogato da procedure semplificate per quanto riguarda le attività di recupero e quelle di autosmaltimento. L'esercizio dell'attività di smaltimento senza l'autorizzazione o, nei casi in cui è consentita, senza l'adozione della procedura semplificata è sanzionata a norma dell'articolo 51 decreto legislativo n. 22 del 1997, il quale dispone che "chiunque effettua un'attività di raccolta, trasporto, ... smaltimento ecc in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt 27, 28, 29, 30, 31, 32 e 33 è punito.." Dall'uso del termine "prescritta" si evince che non è sufficiente una qualsivoglia generica autorizzazione, ma ciascuna attività deve essere esplicitamente assentita con la procedura specificamente prevista per essa ed alle condizioni appositamente stabilite. L'autosmaltimento, a norma dell'articolo 32, può essere effettuato decorsi novanta giorni dalla comunicazione d'inizio attività alla provincia a condizione però che siano rispettate le norme tecniche dettate per tale attività dal Governo in persona dei Ministri competenti (Ambiente, Industria Commercio, Artigianato ecc). I decreti ministeriali devono individuare per ciascun tipo di attività le quantità di rifiuti, i procedimenti, i metodi e le condizioni di smaltimento. Senza l'adozione dei decreti ministeriali non è possibile avvalersi della procedura semplificata e l'interessato è obbligato a richiedere l'autorizzazione. Ora, mentre per le attività di recupero di cui all'articolo 33 sono stati adottati decreti ministeriali, analoga iniziativa non è stata assunta per l'autosmaltimento. L'imputato quindi non poteva avvalersi della procedura semplificata. Non si tratta di una violazione meramente formale, come sostiene il difensore, perché non può essere demandato all'arbitrio del singolo la scelta delle quantità o delle condizioni ritenute più idonee per l'autosmaltimento.


La disciplina anzidetta non ha subito modificazioni più favorevoli per l'imputato a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n 152 del 2006.


Nella fattispecie, il tribunale si è attenuto a tali principi e, con motivazione esente da vizi logici, ha accertato che 'l'imputato non era in possesso dell'autorizzazione prescritta per l'attività dì autosmaltimento e, d'altra parte, non poteva optare per la procedura semplificata per la mancata adozione dei decreti indicati nell'articolo 31 del decreto legislativo n. 22 del 1997.


Per il rigetto del ricorso il ricorrente è tenuto al pagamento delle spese processuali


P. Q. M

la Corte

Letto l'art. 616 c.p.p.,

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma l'8 novembre del 2006

Il consigliere estensore Il Presidente

Ciro Petti Enrico Papa

giovedì 22 marzo 2007

Destinazione agricola su delibera regionale di modifica del PUG





TAR Lombardia-Milano, sez. II, sentenza 24.11.2006 n° 2487



T.A.R.

Lombardia - Milano

Sezione II

Sentenza 24 novembre 2006, n. 2487

(Pres. Spadavecchia, Est. De Berardinis)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA LOMBARDIA

(Sezione II)

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso R.G. n. 3083/99 proposto dalla società X. S.n.c. di G. L. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore sig. G. L., rappresentata e difesa dagli avv.ti Antonio Romano, Michele Romano e Pietro Romano e con domicilio eletto presso il loro studio, in Y., via dei Martiri 3

contro la

Regione Lombardia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Piera Pujatti e con domicilio eletto presso l’Avvocatura Regionale, in Milano, via Filzi 22

nonché contro il

Comune di Y., in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Mario Viviani e con domicilio eletto presso il suo studio, in Milano, Galleria S. Babila 4/A

per l’annullamento

della deliberazione della Giunta Regionale della Lombardia n. 41192 del 29 gennaio 1999, nonché della deliberazione del Consiglio Comunale di Y. n. 36 del 26 maggio 1999 e di ogni atto preordinato e connesso

VISTO il ricorso con i relativi allegati;

VISTI gli atti di costituzione in giudizio della Regione Lombardia e del Comune di Y.;

VISTE le memorie ed i documenti prodotti dalle parti a sostegno delle rispettive tesi;

VISTI gli atti tutti della causa;

NOMINATO relatore, alla pubblica udienza del 12 ottobre 2006, il Referendario dr. Pietro De Berardinis ed udito lo stesso;

UDITI i procuratori presenti delle parti costituite, come da verbale;

RITENUTO in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

La società ricorrente, X. S.n.c., quale proprietaria di un terreno situato in Passirana di Y., esteso per mq. 11.084 e contraddistinto al foglio catastale n. 4, mappali n. 54a e 55b, si duole della deliberazione con la quale la Regione Lombardia, in modifica della precedente determinazione comunale, ha destinato siffatto terreno a zona agricola, nonché dell’accoglimento, da parte del Comune, della modifica in discorso.

In particolare la società espone che, mentre nel previgente P.R.G. comunale la destinazione agricola del terreno in esame si giustificava in funzione dello stato dei luoghi ed in specie in forza della presenza di una cascina agricola, successivamente quest’ultima è stata sostituita da un moderno fabbricato a carattere produttivo ed anche l’assetto urbanistico all’intorno è stato del tutto modificato, sicchè la rinnovata destinazione agricola conferita al terreno de quo dalla deliberazione del Consiglio Comunale n. 67 del 3 luglio 1997, recante l’adozione del nuovo P.R.G., appariva fortemente criticabile.

Perciò l’esponente presentava un’apposita osservazione, chiedendo la modifica del relativo azzonamento, da area agricola ad area con attrezzature terziarie private prevalenti, da attuare mediante un piano di lottizzazione convenzionato. Il Consiglio Comunale, con deliberazione n. 23 del 20 marzo 1998, accoglieva l’osservazione della predetta esponente e la richiesta a mezzo di essa formulata.

Senonchè la Regione, in sede di esame del nuovo P.R.G. del Comune di Y., ai fini della sua approvazione, con deliberazione della Giunta n. VI/41192 del 29 gennaio 1999 riteneva di stralciare la destinazione a carattere commerciale-terziario del "P.L. Dt-3", conferita al terreno in parola dal Comune in accoglimento dell’osservazione della società, riconducendo il terreno stesso a "zona E – agricola".

Con deliberazione n. 36 in data 26 maggio 1999 il Consiglio Comunale di Y. decideva, ai sensi dell’art. 10 della l. n. 1150/1942 e per gli effetti di cui all’art. 13 della l.r. n. 23/1997, di accogliere integralmente le modifiche d’ufficio proposte dalla Regione.

Ritenendo la scelta urbanistica attuata con la succitata deliberazione consiliare n. 36 del 26 maggio 1999 ingiustamente lesiva dei propri interessi, la X. S.n.c. con il ricorso in epigrafe ha impugnato la stessa, nonché la deliberazione della Giunta Regionale n. VI/41192 del 29 gennaio 1999, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:

- violazione dell’art. 10 della l. n. 1150/1942 in relazione alla deliberazione regionale del 18 aprile 1997, n. VI/27498, violazione dell’art. 10 della l. n. 241/1990, sviamento di potere e difetto di motivazione, perché, in base alla deliberazione regionale n. VI/27498, la Regione può proporre solo le modifiche d’ufficio al P.R.G. di cui all’art. 10, secondo comma, lett. a), b), c) e d) della l. n. 1150/1942 e le altre che non comportino sostanziali innovazioni, inoltre il provvedimento regionale impugnato manca di specifica motivazione e non è supportato da accertamenti, né dall’esame dell’osservazione della società esponente;

- violazione dell’art. 10 della l. n. 1150/1942 in relazione all’art. 13 della l.r. n. 23/1997, in quanto con la deliberazione consiliare gravata il Comune, pur dissentendo dalle modifiche proposte dalla Regione, le ha accettate e, anziché difendere la propria scelta urbanistica, si è uniformato a quella della Regione;

- contraddittorietà nel contesto della stessa deliberazione regionale e sviamento di potere, in quanto il P.L. Dt-3 (stralciato dal provvedimento regionale impugnato) ricadeva in zona a vocazione edificabile e non comprometteva paesaggio ed ambiente, inoltre non c’era alcun rischio di erosione dei suoli, infine per il terreno limitrofo, avente destinazione produttivo–commerciale, è stata accolta (senza obiezioni regionali) l’osservazione tesa all’ampliamento con accorpamento di terreno agricolo.

Si è costituita la Regione Lombardia, depositando documenti ed una memoria per l’udienza di merito e chiedendo la reiezione del gravame, attesa la sua infondatezza.

Si è costituito in giudizio, altresì, il Comune di Y., depositando memoria e documenti e chiedendo la reiezione del ricorso, in quanto infondato.

Nell’imminenza dell’udienza di discussione, la X. S.n.c., che già aveva depositato una memoria illustrativa il 12 giugno 2004, ha depositato un’ulteriore memoria riepilogativa, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già rese.

All’udienza del 12 ottobre 2006 la causa è stata riservata dal Collegio per la decisione.

DIRITTO

Con il ricorso in epigrafe la ricorrente censura la deliberazione della Giunta Regionale della Lombardia n. VI/41192 del 29 gennaio 1999, contenente proposta di modifiche d’ufficio del nuovo P.R.G. del Comune di Y., nonché la deliberazione del Consiglio Comunale di Y. n. 36 del 26 maggio 1999, recante approvazione definitiva del P.R.G. mediante recepimento integrale delle suddette modifiche d’ufficio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 della l.r. n. 23/1997, nella parte in cui viene attribuita al terreno di proprietà della medesima ricorrente, sito in Passirana di Y., la destinazione a zona agricola.

Il gravame è articolato in una pluralità di motivi, che investono sia la succitata deliberazione regionale, sia l’approvazione del P.R.G. da parte del Comune di Y..

Nello specifico, con il primo motivo di ricorso viene censurata la deliberazione regionale recante proposta di modifiche d’ufficio al P.R.G., in quanto, in buona sostanza, la Regione, nel caso de quo, sarebbe intervenuta violando i limiti che essa stessa si è imposta in linea generale, con la precedente delibera n. VI/27498 del 18 aprile 1997, per ciò che riguarda i poteri di intervento attivabili in sede di approvazione dello strumento urbanistico comunale. Ed infatti, mentre nella disciplina conseguente alla deliberazione n. n. VI/27498 la Regione può esercitare proposte di modifiche d’ufficio al P.R.G. nelle sole ipotesi di cui all’art. 10, secondo comma, lett. da a) a d), della l. n. 1150/1942, nonché nelle sole ipotesi di modifiche non implicanti innovazioni sostanziali (art. 10, secondo comma, prima parte, della l. n. 1150 cit.), nel caso in esame, invece:

a) la deliberazione regionale gravata non menziona alcuno dei valori per la cui tutela sono conferiti i poteri di cui all’art. 10. secondo comma, lett. da a) a d), cit.;

b) la modifica voluta dalla Regione è stata giustamente ritenuta dal Comune di Y., in sede di recepimento della stessa, quale innovazione sostanziale.

Se ne ricaverebbe l’illegittimità della delibera regionale gravata, per avere essa oltrepassato i limiti entro cui l’ordinamento vigente consente la possibilità di un intervento della Regione modificativo del P.R.G. adottato dal Comune.

La censura non può essere accolta.

In argomento, occorre premettere che la deliberazione della Giunta Regionale ora in esame (n. VI/41192 del 29 gennaio 1999) giustifica la riconduzione dell’area di cui si discute alla destinazione a "zona E – agricola" con duplice ordine di motivi:

- in primo luogo, per assicurare un ordinato sviluppo inteso alla tutela del paesaggio e dei valori ambientali, tenendo anche conto del fatto che il nuovo P.R.G. dichiara di perseguire una politica di contenimento delle espansioni, e dunque, in particolare, per l’esigenza di evitare la proliferazione di interventi edilizi distribuiti "a pioggia", che, se non circoscritti e disincentivati, determinebbero fenomeni di progressiva erosione del suolo senza le opere di urbanizzazione necessarie per il corretto sviluppo di parti rilevanti del territorio comunale, pregiudicando la valorizzazione ed il recupero del patrimonio agricolo esistente;

- inoltre, in quanto l’introduzione del P.L. Dt-3, effettuata dal Comune di Y. in seguito all’accoglimento dell’osservazione della ricorrente, è stata considerata non coerente con la disciplina di cui alla citata deliberazione n. VI/27498.

Sotto questo aspetto, la difesa della Regione ha osservato come la modifica di azzonamento effettuata del Comune in accoglimento dell’osservazione della ricorrente ed accompagnata dall’introduzione di un P.L., non possa ritenersi atto sottratto alle garanzie procedimentali di partecipazione previste per i Piani Regolatori Generali.

Orbene, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 20 giugno 2005, n. 1004), anche di questo Tribunale (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 7 settembre 2006, n. 1943), qualora un provvedimento amministrativo si basi su una pluralità di motivazioni, la fondatezza di una censura investente una di tali motivazioni non rende illegittimo l’intero provvedimento ove questo sia basato anche su altra motivazione immune da censure.

Applicando tale principio al caso di specie, si può pertanto prescindere dall’esaminare sia la questione del carattere di innovazione sostanziale o meno delle modifiche d’ufficio proposte dalla Regione, sia quella, connessa con la precedente, della legittimità o meno, alla stregua della deliberazione regionale n. VI/27498, dell’introduzione di un P.L., per l’area de qua, in sede di accoglimento dell’osservazione della ricorrente.

Ciò, perché la delibera regionale gravata si basa anche su un’altra motivazione – quella di evitare la proliferazione di interventi edilizi "a pioggia" – di cui è indubbia la riconducibilità all’art. 10, secondo comma, lett. c), della l. n. 1150/1942.

Quest’ultima disposizione prevede, infatti, il potere della Regione di proporre le modifiche d’ufficio al P.R.G. riconosciute indispensabili per assicurare la tutela del paesaggio, nonché di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici.

La giurisprudenza costante (cfr., ex plurimis, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 17 ottobre 2005, n. 3816) afferma che l’attribuzione ad una data area della destinazione a zona agricola ben può essere dettata da finalità di tutela ambientale.

Se ne desume che, nella vicenda in esame, l’attribuzione ad opera della Regione, in sede di proposta di modifiche d’ufficio del P.R.G., al terreno di proprietà della società ricorrente, della destinazione a zona agricola (destinazione dettata esplicitamente da ragioni, tra l’altro, di tutela ambientale) sia pienamente riconducibile alla previsione di cui all’art. 10, secondo comma, lett. c), della l. n. 1150/1942.

Ne consegue l’infondatezza della doglianza della ricorrente.

Sul punto va anzi aggiunto che la riconduzione della fattispecie in esame all’art. 10, secondo comma, lett. c), della l. n. 1150/1942 dimostra, altresì, che la doglianza basata sull’asserito carattere di innovazione sostanziale della modifica contestata, oltre che non decisiva (per ciò che si è detto prima), è anche infondata. Infatti, secondo la costante giurisprudenza (C.d.S., Sez. IV, 24 dicembre 1999, n. 1943; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 14 settembre 2005, n. 3630), le modifiche finalizzate – com’è nel caso di specie – alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, essendo, per l’appunto, distintamente previste dalla lett. c) del secondo comma dell’art. 10 cit., non soggiacciono al limite concernente il divieto di innovazioni sostanziali posto dalla prima parte del secondo comma del medesimo art. 10.

Quindi, la doglianza della ricorrente è infondata anche sotto l’aspetto ora analizzato.

Sempre con il primo motivo di ricorso, la delibera regionale gravata viene censurata, altresì, sotto i profili del difetto di motivazione e della violazione dell’art. 10 della l. n. 241/1990, in quanto, da un lato, la stessa non indicherebbe le argomentazioni, né sarebbe supportata dagli accertamenti tecnici necessari per superare la diversa valutazione urbanistica effettuata dal Comune; d’altro lato, in sede regionale non sarebbe stato compiuto l’esame specifico della osservazione presentata al Comune dalla ricorrente, come sarebbe stato, invece, doveroso, ai sensi dell’art. 10 della l. n. 241/1990.

Le censure ora esposte non possono trovare accoglimento.

Ed invero, per quanto concerne l’asserito difetto di motivazione, osserva in primo luogo il Collegio che le modifiche d’ufficio introdotte dalla Regione in sede di approvazione del P.R.G. al fine di tutelare l’ambiente non richiedono una diffusa analisi argomentativa (così C.d.S., Sez. IV, 19 gennaio 2000, n. 245 relativa ad un caso in cui – del tutto analogamente a quello in esame – la Regione ha ripristinato la preesistente classificazione a zona agricola).

Inoltre, il Collegio rinvia a quanto già detto sopra circa l’ammissibilità che l’azzonamento a zona agricola sia dettato da finalità di tutela ambientale: finalità che, per l’area in esame, la Regione ha puntualmente indicato, rinvenendole, come si è visto, nell’esigenza di evitare la proliferazione degli interventi edilizia "a pioggia".

In proposito, si aggiunge che, per costante giurisprudenza (cfr. da ultimo, C.d.S., Sez. IV, 20 settembre 2005, n. 4828), la zona agricola possiede anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone dell'insediamento urbano ed assumendo, per tale via, la funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano. Pertanto, la modifica apportata dalla Regione appare coerente con la finalità che la deliberazione gravata individua, e cioè di assicurare, nella fase attuativa del nuovo P.R.G., un ordinato sviluppo, inteso alla tutela del paesaggio e dei valori ambientali particolarmente rilevanti nel territorio comunale.

In questo senso va quindi condivisa l’obiezione della difesa regionale sull’irrilevanza della mancanza di coltivazioni nell’area della ricorrente ai fini della dimostrazione della presunta illogicità della scelta regionale di mantenerne la destinazione a zona agricola.

Del resto, come si è già visto, la modifica in parola appare coerente, altresì, con la politica che la deliberazione gravata riconosce essere propria del P.R.G. adottato, ossia quella di un contenimento delle espansioni.

In ordine, poi, alla censura di violazione dell’art. 10 della l. n. 241/1990, per non avere la Regione esaminato specificamente l’osservazione della ricorrente, si rileva in contrario che, per la giurisprudenza consolidata, essendo le osservazioni presentate nei riguardi del P.R.G. dei semplici apporti collaborativi, la loro reiezione non richiede una specifica motivazione (T.A.R. Lombardia, Brescia, 2 settembre 1993, n. 717) e ciò quand’anche – come nel caso in esame – esse siano state accettate con deliberazione del Consiglio Comunale (C.d.S., Sez. IV, 7 dicembre 2000, n. 6507; id., 6 marzo 1990, n. 153). Tale conclusione si giustifica con il fatto che, ai sensi dell’art. 10, secondo comma, della l. n. 1150/1942, le osservazioni dei privati al P.R.G adottato, seppur accettate dal Comune, non entrano a far parte del Piano se non a seguito del loro eventuale recepimento nello strumento urbanistico per effetto di una specifica modifica che l’Ente territoriale a ciò deputato – di regola, la Regione – ritenga di apportarvi (C.d.S., n. 6507/2000 cit.).

In definitiva, pertanto, anche le censure appena esaminate, pure esse formulate con il primo motivo di ricorso, risultano infondate.

Passando all’esame del secondo motivo di ricorso, con esso si censura la deliberazione del Consiglio Comunale di Y. n. 36 del 26 maggio 1999, che, a detta della ricorrente, sarebbe illegittima per aver recepito le modifiche della Regione, pur avendo il Consiglio Comunale, sempre a detta della società ricorrente, ben individuato il contrasto dell’intervento regionale con l’art. 10 della l. n. 1150/1942.

La doglianza non è meritevole di accoglimento.

In proposito, è sufficiente osservare che il Consiglio Comunale di Y., nella deliberazione impugnata, ha sottolineato come le modifiche proposte dalla Regione (con un’eccezione, che però non riguarda la fattispecie in esame) in buona sostanza non intaccassero le scelte fondamentali del P.R.G., ma tendessero a cancellare alcune delle modifiche introdotte in sede di controdeduzioni alle osservazioni presentate nei riguardi del Piano adottato e quindi, come condivisibilmente rileva la difesa comunale, a confermare le previsioni contenute nel P.R.G. adottato ed a ristabilire l’originaria impostazione di questo.

Da un lato, pertanto, non si può condividere l’osservazione contenuta nel ricorso, secondo cui la preponderanza della Regione rispetto alla scelta urbanistica comunale non sarebbe giustificata né dall’esigenza di evitare la compromissione di valori di esclusiva competenza regionale, né da quella di salvaguardare i valori corrispondenti ai criteri di impostazione del P.R.G., in quanto, al contrario, la modifica apportata dalla Regione nel caso di specie è tesa sia a preservare i valori ambientali, sia a garantire una più spiccata coerenza nell’attuazione dei criteri di impostazione del nuovo P.R.G..

D’altronde, non si possono invocare, come fa la ricorrente, le considerazioni contenute nella deliberazione consiliare gravata, nelle quali il Consiglio Comunale si duole dei toni, ritenuti troppo aspri, con cui la Regione aveva censurato la scelta comunale di introdurre un P.L. in sede di accoglimento dell’osservazione presentata dalla ricorrente stessa. Si tratta, infatti, a ben vedere, di argomenti che attengono non alla sfera giuridica, ma a quella della dialettica politica tra i due Enti territoriali interessati: dunque, come correttamente osserva la difesa regionale, tali considerazioni non valgono ad inficiare la delibera regionale, né costituiscono un elemento di contraddizione intrinseca dell’atto comunale.

Passando, infine, al terzo motivo di ricorso, con esso si deducono la contraddittorietà nel contesto della deliberazione regionale, nonchè lo sviamento di potere, per un triplice ordine di ragioni.

In primo luogo, perché il P.L. Dt-3, stralciato dalla Regione, ricadeva in zona a vocazione edificabile e per nulla compromettente la tutela del paesaggio e dell’ambiente.

Inoltre, per la sussistenza di un errore su un presupposto di fatto rilevante, in quanto l’area interessata ricadrebbe in una zona completamente urbanizzata, sicchè l’esigenza sulla quale si fonda l’intervento regionale – quella di evitare la proliferazione di interventi edilizi al fine di scongiurare l’erosione di suoli privi di opere di urbanizzazione – sarebbe in realtà frutto di un travisamento dei fatti e di un difetto di istruttoria.

Infine, perché per il terreno limitrofo a quello della società ricorrente, destinato ad attività produttiva-commerciale, il Comune ha accolto l’osservazione volta all’ampliamento, altresì con accorpamento di un terreno agricolo, senza che la Regione intervenisse sul punto.

Nessuna delle doglianza ora elencate può essere condivisa.

In particolare, la documentazione in atti, compresa quella fotografica (cfr. in specie le foto allegate alla perizia del geom. Viscomi, depositata in data 21 settembre 2006), non supporta l’asserzione per la quale ci si troverebbe in zona a sicura vocazione edificabile e dove non verrebbe compromessa la tutela del paesaggio e dei valori ambientali.

Tale documentazione mostra, infatti, che l’area di proprietà della ricorrente si inserisce in un ambito in cui, a fronte del centro abitato, si situano aree verdi alternate ad insediamenti produttivi e commerciali (capannoni, ecc.): è così confermata la funzione dell’azzonamento agricolo sopra citata, di costituire un polmone dell’insediamento urbano, decongestionando e contenendo l’espansione dell’aggregato urbano (C.d.S., n. 4828/2005 cit.).

Non può, quindi, assumere rilevanza, in proposito, il fatto che sussistano zone limitrofe a quella della ricorrente già urbanizzate, atteso che, come osserva la difesa comunale, la scelta pianificatoria per cui è causa è ispirata proprio dall’esigenza di conservare inedificate le aree agricole, evitando il processo di saldatura con i vicini nuclei già edificati.

Quest’ultima osservazione sembra idonea a superare altresì il rilievo della sussistenza, nella zona in esame, di adeguate opere di urbanizzazione, alla luce del fatto che la deliberazione regionale impugnata richiama nelle sue premesse la finalità del nuovo P.R.G. di contenere le espansioni dell’aggregato urbano: pertanto anche quest’ultima, al pari della valorizzazione e del recupero del patrimonio agricolo esistente, si appalesa come una motivazione, ispirata a fini di tutela paesaggistica ed ambientale, che supporta la deliberazione de qua.

Le considerazioni ora esposte valgono, altresì, a superare la doglianza di difetto di istruttoria formulata in riferimento all’ampliamento accordato all’insediamento limitrofo, destinato ad attività produttivo-commerciale, con accorpamento di un terreno agricolo, senza trascurare, peraltro, che per la suddetta area limitrofa vi era già una previgente destinazione produttivo-commerciale e quindi si trattava dell’esigenza – del tutto diversa da quella fatta valere dalla società ricorrente – di adeguare gli spazi a disposizione dell’insediamento produttivo che già esisteva.

In definitiva, perciò, il ricorso è nel suo complesso infondato e, come tale, va respinto.

Sussistono, comunque, giusti motivi per la compensazione delle spese, attesa la complessità delle questioni trattate.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sede di Milano, Seconda Sezione, così definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge.

Compensa le spese.

Demanda alla Segreteria per gli adempimenti di competenza.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla competente Autorità amministrativa.

Così deciso in Milano, il 12 ottobre 2006, dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione II, in camera di consiglio, con l’intervento dei signori magistrati:

CARMINE SPADAVECCHIA Presidente

DANIELE DONGIOVANNI Referendario

PIETRO DE BERARDINIS Ref., estensore

Depositata in Segreteria in data 24 novembre 2006.




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