lunedì 29 ottobre 2012

locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari

SSUU CIVILI, N. 11136, 4 LUGLIO 2012

 
principio di diritto: "La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell'ambito di applicazione della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all'art. 2032 cod. civ., sicchè, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore potrà ratificare l'operato del gestore e, ai sensi dell'art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla quota di proprietà indivisa".




SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 4 luglio 2012, n. 11136
Svolgimento del processo
F.C., in qualità di comproprietaria, nella misura della metà, di un immobile adibito ad uso commerciale, locato dall'altra comproprietaria N.A. a V.F., chiedeva, con ricorso ex art. 447-bis cod. proc. civ., l'accertamento del diritto a ricevere la metà del canone di locazione e la condanna del conduttore al pagamento di tale quota a far data dalla domanda giudiziale.
Il conduttore si costituiva assumendo di essere tenuto esclusivamente a pagare unitariamente il canone alla locatrice secondo il vincolo contrattuale assunto, dichiarandosi disponibile a stipulare nuovo contratto con entrambe le comproprietarie o a provvedere al versamento del canone su un libretto bancario o postale.
Anche la comproprietaria locatrice N. si costituiva chiedendo il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti e proponendo, in via subordinata, domanda riconvenzionale volta alla condanna dell'attrice al risarcimento dei danni.
Il giudice di primo grado accoglieva la domanda ritenendo applicabile alla fattispecie il modello negoziale del mandato senza rappresentanza e in particolare l'art. 1705 cod. civ., che consente al mandante, sostituendosi al mandatario, di esercitare i diritti di credito derivanti dal mandato. Condannava, pertanto, il V. a corrispondere all'attrice il 50% dei canoni maturati tra il mese di agosto del 2002 e la cessazione della locazione, con gli interessi legali sui canoni scaduti dalle scadenze al saldo; respingeva altresì le domande riconvenzionali della N., compensando tra le parti le spese processuali.
La sentenza veniva impugnata in via principale dal conduttore, il quale deduceva che il Tribunale aveva errato nel fare riferimento, ai fini della decisione, agli istituti della comunione e del mandato.
Resistevano all'impugnazione sia F.C. che N. A.; quest'ultima, oltre ad aderire alla impugnazione proposta dal V., proponeva appello incidentale condizionato.
La Corte d'appello di Genova, con sentenza depositata il 18 dicembre 2004, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva la domanda proposta dalla F. e rigettava l'impugnazione incidentale condizionata.
La Corte d'appello disattendeva, in primo luogo, l'eccezione di carenza di interesse all'impugnazione principale in capo al V., formulata dalla F.. La Corte d'appello rilevava che, non essendo stata disposta l'estromissione del conduttore nel giudizio di primo grado, non poteva dirsi venuto meno l'interesse di quest'ultimo a conseguire una situazione di certezza processuale idonea ad elidere la concorrenza della pretesa della N., fondata sul contratto di locazione, e della F., fondata sulla sua qualità di comproprietaria, e a sottrarlo al rischio di essere esposto a una duplicazione del pagamento di una quota pari alla metà del canone locativo.
La Corte d'appello rilevava quindi che la proprietà o la titolarità di altro diritto reale su un immobile non costituisce presupposto necessario e indefettibile per l'assunzione della qualità di locatore, essendo sufficiente, per la valida stipulazione di un contratto di locazione, che dell'immobile il locatore abbia la disponibilità e sia in grado di trasferirne la detenzione. Affermava quindi che, in presenza di una situazione di comproprietà, la locazione della cosa comune da parte di uno dei proprietari si perfeziona validamente e produce i suoi effetti contrattuali anche se il comproprietario locatore abbia travalicato i limiti dei poteri a lui spettanti a norma dell'art. 1105 cod. civ., nell'ambito della fruizione della cosa comune. Rilevava quindi che, poichè il contratto non produce effetti diretti nei confronti dei soggetti che di esso non siano parti, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, il comproprietario non locatore non acquista, come tale, la titolarità delle situazioni giuridiche attive e passive scaturenti dal contratto; nè acquista la legittimazione all'esercizio di azioni o comunque di pretese fondate sul contratto. Per converso, il conduttore adempie la fondamentale obbligazione di pagamento del canone mediante il pagamento dell'intera entità pecuniaria dovuta al comproprietario locatore, quali che siano i criteri in base ai quali, per legge o per convenzione, debbano essere ripartiti tra i comproprietari i frutti del bene.
La Corte d'appello affermava quindi di non condividere la soluzione adottata dal Tribunale, che aveva fondato la propria decisione sull'art. 1705 c.c., comma 2, a norma del quale, nel mandato senza rappresentanza, il mandante può agire contro il terzo per ottenere il soddisfacimento dei crediti sorti a favore del mandatario stesso in relazione alle obbligazioni assunte dal terzo con la conclusione del contratto, in tal modo sostituendosi al mandatario e ponendo in essere una revoca tacita del mandato. In particolare, la Corte territoriale riteneva che l'indicata disposizione non fosse stata citata in modo pertinente, atteso che nella fattispecie non poteva ravvisarsi alcun mandato, ma una gestione nel presunto interesse comune (validamente ed efficacemente compiuta, se del caso, anche all'insaputa degli altri interessati), fondata, nei rapporti tra l'autore della gestione e i destinatari dell'utilità di essa, sulla disciplina interna della comunione, rispetto alla quale il terzo, che abbia validamente conseguito la posizione giuridica di conduttore, versava in condizione di indifferenza e dalla cui evoluzione non poteva ricevere alcun pregiudizio. Pertanto, concludeva sul punto la Corte d'appello, fino a quando la struttura soggettiva della parte locatrice non fosse stata modificata con l'ingresso nella medesima del comproprietario originariamente non locatore, quest'ultimo non poteva esigere, nemmeno limitatamente alla parte corrispondente alla propria quota, il pagamento del canone nei confronti de conduttore.
Da qui l'accoglimento dell'appello e la riforma della sentenza impugnata, con elisione della condanna del conduttore V. F. al pagamento di una somma pari al 50% del canone a favore di F.C.
Per la cassazione di questa sentenza la F. ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi, cui hanno resistito, con distinti controricorsi, la N. e il V.
La seconda sezione civile della Corte ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite, osservando che le due contrapposte soluzioni assunte in primo e secondo grado si fondavano su orientamenti distinti di legittimità e che la questione della qualificazione giuridica del rapporto tra i comproprietari nel caso di locazione stipulata da uno solo di essi con riferimento alla produzione (o esclusione) degli effetti del contratto in capo al comproprietario non locatore, dovesse essere ritenuta questione di massima di particolare importanza.
La causa è quindi stata assegnata alle Sezioni Unite.
In prossimità dell'udienza di discussione la ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell'art. 100 cod. proc. civ., nonchè per vizio logico ed insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione, dolendosi del fatto che la Corte d'appello abbia ritenuto sussistente l'interesse all'impugnazione in capo all'appellante principale. Atteso che il conduttore, nel costituirsi in giudizio aveva professato una posizione di sostanziale indifferenza rispetto alla individuazione del beneficiario del pagamento del canone, sempre che, ovviamente, si convenisse sul fatto che, una volta effettuato il pagamento dell'importo dell'intero canone anche mediante versamento su un libretto di deposito, egli non fosse esposto al rischio della duplicazione del pagamento del 50% del detto importo in favore della originaria attrice, risultava chiaro, secondo la ricorrente, il difetto di interesse alla impugnazione della sentenza del Tribunale di Massa, che quella certezza aveva offerto, ponendo a suo carico l'obbligo di pagare, a far data dal mese di agosto 2002, il 50% del canone alla locatrice e alla comproprietaria.
1.1. Il primo motivo, all'esame del quale occorre procedere prima ancora della esposizione dei motivi ulteriori del ricorso e delle ragioni per le quali la questione è stata rimessa all'esame di queste Sezioni Unite, è infondato.
Invero, il conduttore, il quale aveva puntualmente adempiuto alla propria obbligazione di pagare il canone in favore della locatrice anche nella pendenza del giudizio di primo grado, essendo stato condannato dal Tribunale di Massa a corrispondere all'attrice il 50% del canone anche per i mesi dall'agosto 2002 al marzo 2004, per i quali il pagamento era stato già interamente effettuato alla locatrice, aveva senz'altro interesse a una revisione della statuizione della decisione di primo grado.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 832, 1100, 1101, 1102, 1103, 1104, 1105, 1108, 1372, 1703, 1705, 1710 e 1722 cod. civ., nonchè vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
2.1. La ricorrente sostiene che la Corte d'appello, pur partendo dalla corretta affermazione che la stipulazione di un contratto di locazione da parte di uno dei comproprietari può essere validamente realizzata solo con il consenso ed il rilascio della disponibilità del bene da parte dell'altro e, dunque, per conto di quest'ultimo con riferimento alla quota di sua spettanza, avrebbe poi errato nell'escludere l'applicabilità del regime giuridico del mandato senza rappresentanza e il legittimo esercizio del potere del mandante di richiedere direttamente l'esecuzione delle obbligazioni contrattuali nonchè la legittimazione attiva a richiedere la risoluzione del contratto ed il rilascio e quella passiva a resistere alle pretese del conduttore.
2.2. La ricorrente rileva poi che la Corte d'appello ha affermato il principio per cui, in presenza di una situazione di comproprietà, la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari si perfeziona validamente e produce i suoi effetti contrattuali, quand'anche il comproprietario locatore abbia travalicato i limiti dei poteri a lui spettanti a norma dell'art. 1105 cod. civ., nell'ambito della fruizione della cosa comune. Ritiene, quindi, che tale principio potrebbe essere condiviso a condizione che si dia per presupposto che il comproprietario-locatore abbia previamente ottenuto il consenso degli altri condomini (o quanto meno della maggioranza di essi) all'amministrazione e alla locazione del bene comune e la disponibilità del bene stesso per la locazione; che il medesimo comproprietario-locatore operi su mandato senza rappresentanza degli altri comproprietari, sicchè il contratto di locazione apparirà stipulato in nome del comproprietario locatore, ma anche per conto degli altri comproprietari, i quali avranno diritto a percepire i frutti o tramite il mandante ovvero direttamente dal momento in cui si sostituiranno a mandante; che non risultino pregiudicati i diritti di ciascun singolo comproprietario.
La Corte d'appello, invece, ha deciso la controversia in contrasto con tali presupposti di validità del principio applicato, e quindi in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alle facoltà spettanti al comproprietario non locatore, quanto meno con riferimento alla diretta percezione del canone di locazione.
2.3. Sotto altro profilo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte d'appello ritenuto che, poichè il contratto non produce effetti diretti nei confronti dei soggetti che di esso non siano parti se non nei casi espressamente previsti dalla legge, il comproprietario non locatore non acquista, come tale, la titolarità delle situazioni giuridiche attive e passive scaturenti da contratto e non acquista la legittimazione all'esercizio di azioni o comunque di pretese fondate sul contratto. Il principio sarebbe errato sia in linea generale, atteso che nei contratti stipulati dal mandatario senza rappresentanza questi acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dal contratto stipulato con il terzo a meno che il mandante, sostituendosi al mandatario, eserciti direttamente nei confronti del terzo i diritti di credito derivanti dal contratto stipulato in esecuzione del mandato; sia in riferimento al caso specifico del comproprietario non locatore che, sostituendosi al comproprietario locatore nella posizione concernente la sua quota di proprietà, può esercitare direttamente nei confronti del conduttore i correlativi diritti di credito, purchè non risultino lesi i diritti del conduttore e del mandatario. In sostanza, la Corte d'appello avrebbe errato nell'escludere in capo ad essa ricorrente ogni legittimazione all'esercizio di pretese e azioni fondate sul contratto di locazione.
2.4. Da ultimo, la ricorrente sostiene che la Corte d'appello avrebbe errato anche là dove ha ricordato che è stato escluso che ai comproprietari diversi dal locatore possa competere l'azione di rilascio nei confronti del conduttore, salvo il loro diritto al risarcimento del danno verso il comproprietario locatore qualora la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi della comunione, richiamando a tal proposito, ma in modo incompleto e quindi non pertinente, Cass. n. 6292 del 1992.
3. Con il terzo motivo, a ricorrente, oltre alle disposizioni del codice menzionate nel secondo motivo, denuncia violazione degli artt. 2028, 2030 e 2032 cod. civ. e degli artt. 99, 329 e 342 cod. proc. civ., nonchè vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
La censura si riferisce alla parte della sentenza impugnata nella quale la Corte d'appello ha illustrato le ragioni per le quali non può trovare applicazione in relazione alla presente fattispecie la disciplina di cui all'art. 1705 cod. civ. In proposito, la ricorrente rileva, da un lato, che la Corte d'appello, nel ritenere non pertinente il principio affermato da Cass. n. 4587 del 1995 ("Il proprietario di un immobile locato ad un terzo da un mandatario senza rappresentanza può, nel revocare il mandato e sostituendosi al mandatario, esercitare ex art. 1705 cod. civ., comma 2, ogni diritto di credito derivante dal rapporto obbligatorio posto in essere e, quindi, anche il diritto di ricevere il pagamento dei canoni dal conduttore e legittimamente può, altresì agire in giudizio a tutela dei diritti stessi"), in base al quale il giudice di primo grado aveva invece risolto la controversia, avrebbe errato atteso che tale principio si attaglierebbe perfettamente al caso di specie;
dall'altro, che la Corte d'appello ha affermato ricorrere una ipotesi di gestione nel presunto interesse comune, come se la comproprietaria locatrice avesse posto in essere una gestione d'affari nell'interesse comune, valida anche se compiuta all'insaputa dell'altra comproprietaria.
Tale ultima ricostruzione, peraltro, sarebbe inammissibile, atteso che l'appellante principale aveva criticato la sentenza di primo grado per avere applicato al caso di specie la disciplina del mandato, ma mai aveva fatto riferimento all'istituto della gestione d'affari; errata, in quanto l'asserito gestore, senza il previo consenso e la disponibilità del bene comune non avrebbe potuto legittimamente nè amministrare nè disporre, e certamente non avrebbe potuto trasferire la detenzione della quota di proprietà di essa ricorrente attraverso la stipulazione di un contratto di locazione, che certamente non sarebbe stato valido se non ratificato dalla parte interessata; ed irrilevante, in quanto la gestione di affari si fonda proprio sul mandato senza rappresentanza e cioè su quell'istituto che la Corte d'appello ha invece ritenuto non applicabile nel caso di specie.
Ed ancora, la ricorrente rileva che la Corte d'appello avrebbe confusamente affermato che la gestione nell'interesse comune avrebbe dovuto trovare la propria regolamentazione nella disciplina interna della comunione fra l'autore della gestione e la destinataria dell'utilità stessa, senza investire il terzo, che verserebbe in una condizione di indifferenza e non potrebbe perciò ricevere pregiudizio. Ed avrebbe ulteriormente errato nell'affermare che la prova che nel caso di specie non si versasse in tema di mandato senza rappresentanza e che non potesse nemmeno trovare applicazione, e in via analogica, la norma dettata in tema di mandato, emergerebbe chiaramente dal rilievo che alla disciplina della comunione non potrebbe efficacemente sovrapporsi l'iniziativa unilaterale di un comproprietario qualificata alla stregua di revoca del mandato ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1705 cod. civ., comma 2. In proposito, la ricorrente richiama la sentenza n. 4587 del 1995, sottolineando che ciò che può fare un proprietario per l'intero, lo può certamente fare anche un comproprietario per la quota di canone corrispondente alla quota di comproprietà.
Da ultimo, la ricorrente rileva che l'esclusione dal contratto della comproprietaria e l'immodificabilità soggettiva del rapporto ex parte locatoris determinerebbe una limitazione ingiustificata dei diritti di godimento e patrimoniali rispetto all'immobile della comproprietaria non compatibile con il regime giuridico della comunione.
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 81, 100, 105, 416, 419, 434, 435, 436 e 447- bis cod. proc. civ., nonchè vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
Sul rilievo che la sentenza di primo grado non aveva accolto la domanda subordinata ed alternativa da essa proposta nei confronti della N. ed aveva rigettato le domande riconvenzionali che quest'ultima aveva proposto subordinatamente all'accoglimento della domanda alternativa, la ricorrente ritiene che la N. non avesse interesse a contraddire con lei nei giudizio di appello. E tuttavia, la N. aveva proposto un appello incidentale proprio nei confronti di essa ricorrente che era stato erroneamente esaminato dalla Corte d'appello ancorchè fosse inammissibile perchè tardivo.
5. Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione dell'art. 91 cod. proc. civ., nonchè vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
La ricorrente si duole del fatto che l'accoglimento dell'appello avversario non abbia consentito alla Corte d'appello di esaminare il suo appello incidentale con il quale aveva censurato la sentenza di primo grado per avere compensato le spese di lite pur essendo ella risultata vittoriosa.
6. Con riferimento alla questione sollevata con il secondo e il terzo motivo di ricorso, la Seconda Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte per l'assegnazione del ricorso a queste Sezioni Unite.
Premesso che la questione relativa alla legittimazione del comproprietario non locatore ad agire direttamente per l'esercizio dei diritti e dei poteri contrattuali derivanti dalla stipulazione del contratto da parte dell'altro comproprietario può essere giuridicamente qualificata secondo i due modelli prescelti rispettivamente dalla sentenza di primo grado (mandato senza rappresentanza - esercizio diretto da parte del mandante locatore non comproprietario del diritto ad esigere la quota del canone corrispondente alla titolarità del diritto reale pro quota) e di secondo grado (gestione utile nell'interesse comune con esclusione di qualsiasi interferenza del locatore non comproprietario nell'esercizio dei diritti contrattuali), l'ordinanza interlocutoria ha posto in evidenza che entrambe le prospettazioni si ritrovano negli orientamenti di legittimità e che si è delineato anche un terzo indirizzo, sull'equivalenza dei poteri gestori dei comproprietari in ordine al bene comune anche quando uno solo dei comunisti ne abbia trasferito il diritto di godimento.
In particolare, con riferimento all'applicabilità dell'art. 1705 cod. civ. ai rapporti di locazione, sul quale si è fondato il giudice di primo grado, esiste un orientamento secondo il quale il proprietario di un immobile locato ad un terzo da un suo mandatario senza rappresentanza può, nel revocare il mandato, esercitare ex art. 1705 c.c., comma 2, ogni diritto di credito derivante dal rapporto negoziale nonchè essere legittimato ad agire in giudizio per la riscossione del canone. Il mandante ai sensi dell'art. 1705 cod. civ. esercita in via diretta e non surrogatoria i diritti di credito sorti in capo al mandatario sulla base del contratto concluso, con la sola condizione di non pregiudicarlo. Oltre ai diritti di credito, nella giurisprudenza meno recente il diritto del mandante a sostituirsi al mandatario nell'esecuzione del contratto è stato esteso all'azione di risoluzione del contratto e al risarcimento dei danni nel confronti del terzo contraente.
L'altro orientamento sul quale si è fondato, invece, il giudice di secondo grado, formatosi specificamente in tema di comunione e di diritti del comproprietario non locatore, ha configurato la fattispecie come gestione utile nell'interesse comune. Le conseguenze della diversa impostazione sono di estrema rilevanza. I rapporti tra l'autore della gestione, che può aver validamente agito anche all'insaputa degli altri comunisti, sono direttamente ed esclusivamente regolati dalle norme della comunione e non possono incidere sulla sfera giuridica del terzo che rimane vincolato in via esclusiva con il locatore e non può subire interferenze o pregiudizio dai rapporti tra i comunisti stessi.
La locazione svolge pienamente i suoi effetti anche quando il locatore abbia violato i limiti dei poteri che gli spettano ex art. 1105 cod. civ. e seguenti del codice civile, essendo sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia la disponibilità della cosa locata. Gli altri comproprietari non possono agire per il rilascio o la rivendica del bene, salvo il diritto al risarcimento del danno nei confronti dell'altro comunista. Secondo questa impostazione, il pagamento del canone nelle mani del locatore ha pieno effetto liberatorio mentre l'altro comproprietario non è legittimato ad agire in giudizio per esercitare questo diritto.
Questa conclusione, abbracciata integralmente dal giudice d'appello, secondo l'ordinanza interlocutoria, contrasta con il più recente ma consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale sugli immobili oggetto di comunione, in difetto di prova contraria, concorrono pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari in virtù della presunzione che ognuno operi con il consenso degli altri. Da queste premesse consegue che ogni comproprietario è legittimato a stipulare il contratto ma anche ad agire per il rilascio dell'immobile comune, senza che sia necessaria la partecipazione degli altri condomini.
Gli elementi di contrasto sono, in conclusione, secondo l'ordinanza interlocutoria: l'applicabilità del regime giuridico del mandato senza rappresentanza alla locazione stipulata da uno dei comproprietari; i poteri di gestione dei comunisti in ordine alla locazione della cosa comune.
7. Prima di procedere alla disamina dei diversi orientamenti ora richiamati, appare opportuno rilevare che alla base di tutte e tre le prospettive interpretative vi sono due premesse comuni: che condizione necessaria per stipulare il contratto di locazione è la disponibilità della cosa comune da parte del comproprietario, corrispondente alla detenzione esclusiva e qualificata dell'immobile, trattandosi di un presupposto comune ad ogni locazione (Cass. n. 470 del 1997; Cass. n. 539 del 1997; Cass. n. 8411 del 2006); che, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del potere del singolo comproprietario che pone in essere un atto di ordinaria amministrazione sul bene comune, il contratto di locazione dell'intero bene comune stipulato da uno solo dei comunisti è valido ed efficace senza la necessità della preventiva allegazione o dimostrazione dell'esistenza di un idoneo potere rappresentativo.
Invero, la locazione può essere convenuta dal singolo comproprietario, anche all'insaputa degli altri, purchè il suddetto comproprietario abbia la disponibilità del bene comune e sia in grado di adempiere la fondamentale obbligazione de locatore, e cioè quella di consentire il godimento del bene al conduttore; la concessione in locazione di un immobile non costituisce, quindi, atto esclusivo del proprietario, potendo legittimamente assumere veste di locatore anche colui che abbia la mera disponibilità del bene medesimo (Cass. n. 14395 del 2004), sempre che tale disponibilità sia determinata da titolo non contrario a norme d'ordine pubblico (Cass. n. 4764 del 2005; Cass. n. 8411 del 2006; Cass. n. 12976 del 2010).
A fronte di questi tratti comuni vi sono differenze d'impostazione e di regime giuridico che conseguono in particolare dall'assunzione del modello della negotiorum gestio o del mandato, indifferentemente qualificato tacito o presunto anche se dal punto di vista dell'onere probatorio le differenze di disciplina non sono modeste, potendosi applicare la presunzione di consenso degli altri comunisti o quanto meno della maggioranza solo nel mandato presunto, mentre in quello tacito il potere di agire in qualità di mandatario è soggetto alle ordinarie regole di allegazione e prova dei fatti costitutivi dell'azione (od eccezione).
Appare opportuno altresì premettere che le pronunce di legittimità che hanno applicato l'art. 1705 cod. civ. al contratto di locazione stipulato dal locatore uti non dominus non si riferiscono ad un bene in comunione, del quale il locatore sia comproprietario, ma specificamente ad un bene altrui, con conseguente più agevole applicazione dell'istituto del mandato senza rappresentanza, e in particolare dell'art. 1705 c.c., comma 2. Questa norma stabilisce, infatti, in deroga al principio espresso nella prima parte del medesimo secondo comma, a tenore del quale "i terzi non hanno alcun rapporto con il mandante", che quest'ultimo possa esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato. Si tratta dell'esercizio di un potere di sostituzione piena del mandante al mandatario e non, come invece accade nella comunione, della partecipazione di un altro cointeressato titolare dello stesso potere di disposizione sul bene del "mandatario" locatore. La norma invocata non è dettata per disciplinare una fattispecie di titolarità comune di poteri gestori su un diritto o su un bene ma per ripristinare, attraverso la revoca del mandato, l'esclusiva titolarità del mandante in ordine all'atto di disposizione del proprio diritto o bene.
Coerentemente con la segnalata difficoltà di adattamento dell'effetto sostitutivo disciplinato dall'art. 1705 cod. civ. con il regime giuridico dell'amministrazione della cosa comune, le pronunce di questa Corte che hanno riconosciuto il potere del singolo comunista di stipulare un contratto di locazione relativo all'intero bene comune non hanno mai utilizzato l'art. 1705 cod. civ., nè per giustificare l'ingerenza nel contratto degli altri comproprietari, nè per escludere l'opponibilità ad essi del regolamento negoziale.
La validità ed efficacia della locazione è stata tratta da una lettura integrata dell'art. 1102 c.c. e dell'art. 1105 cod. civ., comma 1 dalla quale si desume una pari legittimazione a contrarre dei comproprietari e, per talune pronunce, una conseguente contitolarità del rapporto di locazione unita ad un pari potere di esercitare le azioni contrattuali anche dirette alla estinzione del vincolo negoziale. Gli orientamenti che si sono succeduti più che contrapporsi hanno costituito l'uno il substrato logico giuridico dell'altro. Eccentrico rispetto alla comunione rimane esclusivamente il ricorso all'art. 1705 cod. civ. che, come osservato, non è stato utilizzato per giustificare l'esercizio, da parte dei comproprietari esclusi, dei diritti e delle azioni relative all'atto di disposizione sul bene comune.
7.1. Prendendo dunque le mosse da quest'ultimo orientamento, recepito dalla sentenza di primo grado, occorre rilevare che lo stesso presenta aspetti problematici.
L'esame delle singole pronunce, infatti, evidenzia differenze significative in ordine all'ampiezza del potere di sostituzione del mandante. In pronunce meno recenti (Cass. n. 1306 del 1969; Cass. n. 3626 del 1980; Cass. n. 92 del 1990, con riferimento alla vendita di azioni) si ritiene che tale potere vada riferito a qualsivoglia categoria di diritti derivanti da un rapporto obbligatorio fino a poter esercitare le azioni volte all'estinzione del vincolo contrattuale (fattispecie in tema di azione di rilascio di immobile locato) in quanto si verrebbe a determinare la definitiva modificazione soggettiva di una parte del contratto.
Il principio, con riferimento espresso al diritto alla riscossione dei canoni, è confermato da Cass. n. 2029 del 1993 e da Cass. n. 4587 del 1995. Nella giurisprudenza più recente, però, la portata della regola, derogatoria rispetto al generale principio dell'ininfluenza nei confronti dei terzi del mandato senza rappresentanza, viene fortemente temperata con la limitazione alle azioni endocontrattuali dirette al soddisfacimento dei crediti derivanti dalle pattuizioni negoziali e con l'esclusione delle azioni di risoluzione del contratto e delle azioni di risarcimento dei danni (Cass. n. 7820 del 1998; Cass. n. 11118 del 1998; Cass. n. 1312 del 2005; Cass. n. 13375 del 2007; Cass., S.U., n. 24772 del 2008).
In particolare, nella citata pronuncia delle Sezioni Unite, si è stabilito, componendo il precedente contrasto, che la regola derogatoria è di stretta interpretazione e deve essere limitata all'esercizio dei diritti sostanziali acquistati dal mandatario con esclusione delle azioni di annullamento, rescissione, risoluzione e risarcimento del danno, in funzione sia del rispetto del principio sancito dall'art. 1372 cod. civ. che della tutela dell'affidamento del terzo che ha contratto esclusivamente con il mandatario.
In una linea interpretativa intermedia si pone Cass. n. 11014 del 2004, nella quale la Corte ha esteso il potere del mandante di sostituirsi al mandatario, nell'esercizio delle azioni rivolte al soddisfacimento dei crediti contrattuali alle ipotesi previste nell'art. 1588 cod. civ., ovvero al recupero della perdita e del deterioramento della cosa locata anche dovuti ad incendio. Tuttavia, la richiamata pronuncia di queste Sezioni Unite pone l'accento proprio sulla tutela dell'affidamento del terzo affermando che "il vero, insuperabile ostacolo che si frappone all'accoglimento della tesi (...) è dunque quello che vede totalmente pretermessa l'analisi della posizione contrattuale del terzo. Se nell'ottica mandante/mandatario la rilevanza sostanziale dell'interesse può far premio sulla titolarità (soltanto) formale (oltre che istantanea) del mandatario non può per converso trascurarsi che il terzo, nel contrattare con quest'ultimo (e soltanto con quest'ultimo) ripone un legittimo affidamento nel fatto che tutte le vicende successive al contratto, sul piano della fisiologia come della patologia degli effetti, andranno a dipanarsi tra di esse parti, senza alcun intervento ipotetico di terzi mandanti (....) (sicchè) ammettere la legittimità della translatio non solo sotto il profilo attivo del credito (sicuramente cedibile senza consenso) ma dell'intera posizione contrattuale formalmente costituitasi in capo al mandatario si risolve, nella sostanza (...) nell'ipotizzare una fattispecie di cessione senza consenso del contraente ceduto".
7.1.1. Con riferimento a tale orientamento deve rilevarsi che la concezione restrittiva del potere sostitutivo del mandante, nel mandato senza rappresentanza, in ordine all'esercizio dei diritti di credito derivanti dal contratto stipulato dal mandatario, per le complessive caratteristiche evidenziate, non sembra uno strumento agevolmente applicabile ai rapporti tra partecipanti alla comunione e terzi contraenti nell'ambito dei poteri di gestione del bene comune.
In particolare, può qui rilevarsi che il potere esercitato dal mandante ex art. 1705 cod. civ. è di natura sostitutiva, ancorchè non surrogatoria, mentre il comunista esercita il potere di coamministrazione che gli deriva dalla titolarità del diritto reale sul bene comune e, conseguentemente, non si pone in una relazione di netta alterità rispetto al mandatario che ha agito (anche e non solo) per suo conto; la limitazione, stabilita nella richiamata sentenza di queste Sezioni Unite, al solo esercizio dei diritti di credito derivanti dal contratto della translatio stabilita dall'art. 1705 cod. civ., in deroga alla regola generale, risulta fortemente riduttiva rispetto all'incisività, ampiamente riscontrata negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, degli interventi dei partecipanti alla comunione alle vicende del contratto concluso solo da uno di essi; la tutela dell'affidamento del terzo è del tutto pretermessa dall'applicazione dell'art. 1705 cod. civ. alla comunione, in quanto è esclusa la possibilità che il modello assunto possa reciprocamente favorire il terzo nel rapporto diretto col mandante, essendo prevista dalla norma codicistica esclusivamente la sua soggezione all'esercizio della facoltà potestativa del mandante ma non il correlativo potere di rivolgersi direttamente ad esso per le prestazioni cui sarebbe contrattualmente tenuto il mandatario (la regola generale contenuta nell'incipit del capoverso dell'art. 1705 cod. civ. "i terzi non hanno rapporto con il mandante" impedisce questa estensione della deroga che segue); qualsiasi interpretazione estensiva dell'indicato regime derogatorio che possa adattarsi al regime giuridico della comunione è attualmente impedito dall'intervento regolatore, univocamente restrittivo di cui alla citata sentenza n. 24772 del 2008.
7.2. L'orientamento nettamente maggioritario (Cass. n. 2158 del 1983; Cass. n. 250 del 1984; Cass. n. 3275 del 1996; Cass. n. 9113 del 1995; Cass. n. 7416 del 1999; Cass. n. 12327 del 1999; Cass. n. 537 del 2002; Cass. n. 14772 del 2004; Cass. n. 8996 del 2005; Cass. n. 2399 del 2008; Cass. n. 19929 del 2008; Cass. n. 480 del 2009; Cass. n. 6427 del 2009; Cass. n. 14530 del 2009; Cass. n. 11589 del 2010) presuppone un reciproco rapporto di rappresentanza tra i comunisti sottostante agli atti di ordinaria amministrazione compiuti dal singolo comproprietario e la presunzione del consenso fondata sul modello del mandato presunto o tacito. Il principio risulta espresso nei sensi seguenti: "sugli immobili oggetto di comunione concorrono, in difetto di prova contraria, pari poteri gestorii da parte di tutti i comproprietari, in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri. Ne consegue che il singolo condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile in comunione e che un condomino diverso da quello che ha assunto la veste di locatore è legittimato ad agire per il rilascio del bene stesso (senza che sia necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini), purchè non risulti l'espressa ed insuperabile volontà contraria degli altri comproprietari, la quale fa venire meno il presunto consenso della maggioranza" (così, Cass. n. 9113 del 1995).
Ciascuno dei comproprietari può, quindi, richiedere il rilascio del bene immobile presumendosi anche con riferimento alla vicenda estintiva del rapporto, il consenso degli altri (Cass. n. 2986 del 1987; Cass. n. 7416 del 1999; Cass. n. 12327 del 1999, Cass. n. 480 del 2009, avente ad oggetto una fattispecie di stipulazione comune del contratto ma di rilascio promosso da uno solo dei comproprietari; Cass. n. 6427 del 2009); la legittimazione è estesa allo sfratto per necessità (fondato sull'esclusiva esigenza di uno dei comunisti, Cass. n. 537 del 2002); la presunzione del consenso deve essere superata dall'espressa prova contraria del dissenso (Cass. n. 14772 del 2004; Cass. n. 8996 del 2005; Cass. n. 2399 del 2008);
nell'azione contrattuale promossa da uno dei comproprietari non è necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri (Cass. n. 19929 del 2008); anche nelle locazioni ultranovennali (e in particolare negli affitti di fondi rustici) si applicano gli stessi principi e ciascuno dei comproprietari può agire per il rilascio dell'immobile (Cass. n. 250 del 1984; Cass. n. 14772 del 2004).
Il reciproco potere di rappresentanza posto a fondamento del potere di ciascuno dei comproprietari di compiere atti di ordinaria e straordinaria amministrazione (locazione ultranovennale di natura agraria) trova indifferentemente giustificazione nel mandato presunto o tacito (Cass. n. 480 del 2009). In quest'ultima pronuncia, in particolare si afferma che la legittimazione ad agire del singolo comunista si fonda "sulla presunzione del consenso, insita nel comportamento passivo dei comproprietari in relazione ad un atto di ordinaria amministrazione, effettuato dal comproprietario resosi attivo a tutela di comuni interessi e così venuto ad assumere la figura del tacito mandatario o utile gestore". La presunzione del consenso può dunque costituire la base sia del mandato tacito che, invece, dovrebbe fondarsi sulla manifestazione del consenso per fatti concludenti, sia per la negotiorum gestio ove tale requisito non è necessario, essendo invece indispensabile che il gestor agisca in sostituzione di un interessato "che non sia in grado di provvedervi" (art. 2028 c.c., comma 1).
L'intercambiabilità e la concorrenza dei modelli utilizzati nella giurisprudenza di legittimità si giustifica su un'interpretazione dell'art. 1105 cod. civ., comma 1 che depotenzia il principio dell'amministrazione congiuntiva in funzione dell'interesse, di indubbio rilievo, di favorire la circolazione del bene comune e l'affidamento dei terzi contraenti. Attraverso la presunzione del consenso, fondato sull'inerzia dei non partecipi all'atto (ma, come può agevolmente riscontrarsi dalla lettura delle pronunce citate, spesso si tratta di non conoscenza e non di vera e propria inerzia, in quanto tale condizione presuppone la scelta di non intervenire), si limita, in concreto, l'applicabilità del principio maggioritario all'esercizio di un potere di veto, successivo all'atto di gestione del singolo, riducendo l'efficacia invalidante della mancanza preventiva della maggioranza alla sola ipotesi della prova del dissenso, conosciuto dal terzo, nella fase preparatoria e genetica dell'atto (Cass. n. 480 del 2009).
Il principio ha trovato applicazione in numerose pronunce che, pur prendendo le mosse da contratti stipulati da tutti i comproprietari, hanno avuto ad oggetto l'esercizio di azioni endocontrattuali o rivolte all'estinzione del rapporto poste in essere da uno solo di essi (Cass. n. 14772 de 2004 e Cass. n. 19929 del 2008, entrambe relative alla validità della disdetta inviata da uno solo dei comproprietari locatori). Anche in queste pronunce, la derivazione della legittimazione del singolo proprietario non viene desunta dalla stipulazione congiunta del contatto e dall'espressa qualità di parte contrattuale dell'agente, ma dall'applicazione del generale principio della parità dei poteri gestori tra comproprietari e dalla presunzione del consenso da parte del non partecipante all'esercizio dell'azione, senza distinzioni tra atti meramente conservativi come la disdetta alla scadenza o azioni tendenti ad una modifica del regime contrattuale (azione di rilascio per necessità, diniego di rinnovo alla prima scadenza etc.).
Al riguardo si devono segnalare Cass. n. 8996 del 2005, relativa alla validità ed efficacia della disdetta di un comproprietario prò quota in ordine ad un affitto agrario e Cass. n. 5077 del 2010, che utilizza il principio dei pari poteri gestori dei comproprietari in funzione dell'affidamento del terzo. In tale pronuncia viene ritenuta valida ed efficace la cessione del contratto da parte del conduttore originario ad un terzo ancorchè tardivamente contestata dai locatori, perchè medio tempore i canoni corrisposti (per due mensilità) dal cessionario erano stati accettati da parte di uno dei locatori. Sempre a tutela dell'affidamento dei conduttori, Cass. n. 2399 del 2008 ha ritenuto che gli effetti dell'intimazione di sfratto per morosità eseguita da uno dei locatori potessero essere paralizzati dalla successiva lettera di dissenso dell'altro comproprietario, peraltro contitolare del contratto, ritenendo sufficiente a tal fine non la partecipazione in giudizio del comunista dissenziente ma la produzione da parte del conduttore della lettera costituente la prova contraria alla presunzione del consenso che sorregge le iniziative negoziali unilaterali del comproprietario.
La tutela dell'affidamento del terzo conduttore è quindi basata proprio sul tradizionale principio del reciproco rapporto di rappresentanza tra i comunisti. Questa configurazione dei rapporti interni alla comunione non ha più soltanto la funzione di estendere gli effetti del contratto anche ai comunisti che non lo abbiano stipulato, fornendo loro il potere di esercitare le conseguenti azioni contrattuali, ma risulta idonea a garantire all'adempimento del terzo contraente piena efficacia liberatoria. La presunzione del consenso dovrebbe operare in suo favore nell'ipotesi in cui si trovi esposto ad iniziative od azioni contrattuali da parte di un comproprietario (non rileva se contitolare del contratto) riferite ad obbligazioni già adempiute. Allo stesso modo può operare la manifestazione espressa del dissenso in ordine ad iniziative unilaterali di uno dei comunisti volte a far cessare gli effetti del contratto o a creare, in altro modo, un pregiudizio al conduttore.
Un'utilizzazione equilibrata del principio della parità dei poteri dei comproprietari può, per l'orientamento in esame, operare anche a favore del terzo per la rilevanza dei comportamenti negoziali adottati reiteratamente nella concreta regolazione degli interessi, in sede di esecuzione del contratto. Secondo questa linea interpretativa, non è quindi più necessario ricorrere alla negotiorum gestio con la obbligata forzatura di equiparare i comproprietari ignari all'interessato impossibilitato a provvedere ai propri affari, per tutelare l'affidamento del terzo.
L'applicazione del principio, apparentemente contrapposto, del consenso presunto e reciproco di ciascuno dei comproprietari, all'atto di amministrazione compiuto dal singolo può determinare effetti analoghi. All'interno di questa più ampia concezione della parità dei poteri gestori dei comproprietari, che consente anche al terzo di confidare sulla legittimazione (derivante dalla presunzione del consenso) a contrarre del comproprietario locatore, problema aperto è quello di come debba essere disciplinato l'esercizio diretto dei diritti contrattuali da parte di un comproprietario diverso dal locatore. Il principio del consenso presunto potrebbe fornire un criterio di equilibrio nel rapporto tra gli interessi dei comunisti e l'affidamento del terzo con riferimento alla manifestazione della volontà di contrarre o di estinguere il vincolo, ma risulterebbe meno efficace se si tratti di valutare la validità e l'efficacia della unilaterale imposizione di modalità di adempimento del contratto diverse da quelle pattuite o usualmente praticate e divenute negoziali per facta concludentia.
Al riguardo la Corte ha ritenuto la legittimazione passiva di uno qualsiasi dei comproprietari di un immobile locato ad uso commerciale in ordine all'indennità di avviamento commerciale. In particolare nella motivazione è stato affermato che "se il singolo condomino può stipulare un contratto di locazione obbligatorio anche per gli altri ogni condomino, anche diverso dal locatore, è direttamente obbligato con riferimento all'intero svolgimento del rapporto locativo. Anche se i precedenti specifici riguardano la legittimazione attiva del condomino non locatore per l'azione di rilascio, poichè tale legittimazione dipende dalla diretta imputazione a tutti i condomini degli effetti ordinari del contratto stipulato da uno di loro, ne consegue che tutti devono ritenersi egualmente legittimati anche passivamente nei confronti delle istanze e delle azioni del conduttore". In questo senso, sembra riemergere il regime giuridico della negotiorum gestio, che pone a carico dell'interessato le obbligazioni assunte in suo nome nonchè i costi patrimoniali della gestione dell'affare, fornendo al terzo contraente una tutela pressochè integrale.
7.2.1. L'orientamento ora esaminato muove da una premessa che ha prestato e presta il fianco ad una critica sostanzialmente radicale, che il Collegio condivide. Desta invero perplessità la prospettazione dei rapporti tra comunisti in termini di mandato disgiuntivo presunto, da escludersi in un sistema fondato sulla regola organizzativa opposta dell'amministrazione congiuntiva; così come il ricorso al mandato tacito risulta inappagante in quanto nell'ipotesi, molto frequente, della locazione stipulata da uno dei comunisti all'insaputa degli altri, non vi è alcuna possibilità di identificare il comportamento concludente di questi ultimi rivolto a consentire la stipula della locazione. In particolare, tale orientamento muove dal fatto noto, costituito dalla stipulazione del contratto di locazione da parte di un solo comproprietario, per risalire, quale conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, al fatto ignoto, costituito dalla esistenza di un mandato tacito conferito dagli altri condomini. Orbene, una simile presunzione non appare adeguatamente motivata, atteso che la stessa è destinata ad operare in presenza di una norma che per gli atti di ordinaria amministrazione, tra i quali rientra la stipulazione di un contratto di locazione infranovennale della cosa comune, richiede una deliberazione dei partecipanti alla comunione e quindi una manifestazione espressa di volontà.
7.3. Il terzo dei richiamati orientamenti (espresso da Cass. n. 5890 del 1982; Cass. n. 2158 del 1983; Cass. n. 6292 del 1992, ma che è stato recentemente riproposto da Cass. n. 483 del 2009) si fonda sui comuni presupposti della validità della locazione della cosa comune stipulata soltanto da uno dei comproprietari (Cass. n. 5890 del 1982 cit.) e sull'esistenza di un reciproco rapporto di rappresentanza tra i partecipanti alla comunione, ma si differenzia dall'altro orientamento in ordine agli effetti della contitolarità del diritto di proprietà nei confronti del terzo conduttore.
Nella pronuncia più rilevante ed ampiamente argomentata (Cass. n. 6292 del 1992), si afferma il principio per cui "la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari sorge validamente e svolge i suoi effetti contrattuali, anche se il locatore abbia violato i limiti dei poteri spettantigli ex artt. 1105 e ss. cod. civ., senza che agli altri partecipanti che gli hanno lasciato la completa disponibilità della cosa possa competere azione di rilascio o di rivendica nei confronti del conduttore, il quale di conseguenza resta obbligato alla esecuzione del contratto ed al pagamento del canone fino alla riconsegna del bene al comproprietario locatore e non può derogarvi in ragione della successiva opposizione degli altri comproprietari del bene locato, configurando questa una molestia di diritto di cui dare comunicazione al locatore ai sensi e per gli effetti previsti dagli artt. 1585 e 1586 cod. civ.". Ai comproprietari non locatori spetta esclusivamente, secondo tale pronuncia, il risarcimento del danno.
L'orientamento enunciato è radicale in ordine alla estraneità degli altri comproprietari rispetto al contratto di locazione. Nella motivazione viene spiegato che il terzo non è liberato dalle sue obbligazioni contrattuali (compreso il rilascio del bene alla cessazione degli effetti del contratto) se le adempie nei confronti degli altri comproprietari, essendo tenuto, nell'ipotesi di sostituzione dei medesimi nell'esercizio dei diritti endocontrattualì, a sollecitare l'intervento del locatore al fine di tenerlo garantito dalle molestie di diritto ai sensi dell'art. 1585 cod. civ.. Nella fattispecie decisa dalla richiamata pronuncia, il conduttore, nonostante l'avvenuto rilascio del bene su intimazione dei comproprietari non locatori, è stato dichiarato tenuto a pagare il canone fino al rilascio nelle mani della parte locatrice risultante dal contratto con la quale si era negozialmente vincolato.
Questo orientamento risulta confermato nella recente pronuncia n. 483 del 2009, secondo la quale "l'affitto di un fondo rustico per la durata minima di legge (quindici anni, ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 1) stipulato, ancorchè verbalmente, da parte di uno dei comproprietari che ne abbia la disponibilità, sorge validamente e svolge i suoi effetti contrattuali, anche se il locatore abbia violato i limiti dei poteri di amministrazione a lui spettanti a norma degli artt. 1105 e 1108 cod. civ., senza che agli altri partecipanti possa competere azione di rilascio e tantomeno di revindica nei confronti del conduttore, salvo il diritto al risarcimento dei danni verso il condomino locatore, qualora la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi della comunione".
Questa sentenza, estendendo l'efficacia della locazione stipulata da un solo comproprietario anche ai contratti di durata ultranovennale, incontestatamente rientranti negli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, in primo luogo, si allontana ulteriormente dal principio maggioritario stabilito nell'art. 1105 cod. civ. In secondo luogo, ribadisce il principio della presunzione del consenso del comproprietario non partecipante alla stipula del contratto, con riferimento ad una fattispecie in cui il terzo conduttore (fratello del comunista non locatore e figlio del comproprietario locatore) era incontestatamente al corrente della contitolarità del diritto di proprietà sull'immobile. In terzo luogo, precisa che la prova contraria, nonostante la equivocità dei fatti noti da cui desumere il consenso presunto, poteva essere fornita esclusivamente mediante la dimostrazione da parte del comproprietario non locatore della propria manifestazione di dissenso prima della stipula del contratto.
Essendo mancata questa prova, il contratto di affitto è pienamente efficace ed opponibile al comproprietario non locatore che ne aveva invocato la nullità. Peraltro, a sostegno della soluzione adottata, la Corte indica gli orientamenti che fondano la validità ed efficacia del contratto di locazione stipulato da uno solo dei comproprietari, sul reciproco rapporto di rappresentanza tra di essi e sulla concorrenza di pari poteri gestori, giustificata sulla base della comunanza d'interessi tra tutti i contitolari del bene, anche se, da queste premesse non fa discendere un potere d'ingerenza diretta dei comunisti non locatori sul contratto ma, al contrario, con riferimento all'art. 1108 cod. civ., che richiede maggioranze qualificate per gli atti che eccedono l'ordinaria amministrazione, afferma che "in caso di violazione del precetto unici rimedi a favore del comproprietario che non ha prestato il consenso alla locazione ultranovennale dell'intero bene sarebbero di natura risarcitoria, stanti i principi dell'apparenza del diritto, dell'affidamento del terzo e della buona fede".
7.2.1. Secondo questo indirizzo giurisprudenziale (seguito dalla sentenza impugnata), il comproprietario locatore assume rispetto ai comunisti che non hanno partecipato al momento genetico del contratto la qualità giuridica del gestore di affari e non dei mandatario (all'interno della duplice, concorrente prospettazione del mandato presunto o del mandato tacito). Da questa configurazione del rapporto tra comproprietari deriva, ai sensi dell'art. 2031 c.c., comma 1, che gli altri comunisti sono tenuti all'adempimento delle obbligazioni conseguenti alla stipula del contratto, salvo che il gestor abbia agito nonostante il divieto della maggioranza dei comproprietari o dell'altro titolare della medesima quota. L'assunzione delle obbligazioni contrattuali (prima tra tutte, nella locazione, il trasferimento della detenzione della cosa comune) non determina, però, come nel mandato la contitolarità della posizione di locatori da parte dei comunisti. Essi non divengono parti del contratto stipulato dal gestor e le violazioni, commesse da quest'ultimo, delle regole di formazione della volontà all'interno della comunione, non sono opponibili al terzo che resta vincolato, fino alla cessazione degli effetti del contratto, al regolamento d'interessi originario.
Questa prospettazione ha il vantaggio di tutelare l'affidamento del terzo nel regolamento d'interessi originariamente sottoscritto, in quanto solo dalla ratifica si determinano gli effetti propri del mandato (art. 2032 cod. civ.). Nella fase della gestione utile, il terzo che non sia a conoscenza, nel momento genetico del contratto, del divieto della maggioranza dei comunisti o del veto del comproprietario titolare di quota di pari valore di quella dello stipulante, non è tenuto a subire gli effetti delle sopravvenute modifiche della volontà di contrarre che si verificano tra i comproprietari dell'immobile locato.
8. Tale essendo il quadro delle soluzioni giurisprudenziali offerte in materia da questa Corte, il Collegio ritiene che la fattispecie in esame debba essere ricondotta nell'ambito di applicazione delle disposizioni concernenti la gestione di affari altrui, consentendo tale disciplina di offrire una soluzione che valga a contemperare gli interessi e le posizioni dei vari soggetti coinvolti.
8.1. Occorre innanzitutto rilevare che l'esistenza di una situazione di contitolarità del bene da parte del gestore non è di ostacolo all'applicazione dell'art. 2028 cod. civ., atteso che risulta impossibile negare che il partecipante della comunione che amministra la cosa comune curi l'interesse non solo proprio ma anche degli altri (Cass. n. 10732 del 1993).
Ciò premesso, "elemento caratterizzante la gestione di affari è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente nell'interesse altrui, in assenza di un obbligo legale o convenzionale di cooperazione; a tal fine, si richiede innanzitutto l'absentia domini, da intendersi non già come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus; tale requisito non è peraltro sufficiente ai fini della configurabilità della gestione di affari, occorrendo altresì l'utilità della gestione (cosiddetta utiliter coeptum), la quale sussiste quando sia stata esplicata un'attività che, producendo un incremento patrimoniale o risolvendosi in un'evitata diminuzione patrimoniale, sarebbe stata esercitata dallo stesso interessato quale buon padre di famiglia, se avesse dovuto provvedere efficacemente da sè alla gestione dell'affare" (Cass. n. 12280 del 2007; con riferimento al concetto di absentia domini, Cass. n. 12304 del 2011). La gestione di affari consiste, dunque, nel compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente posti in essere dal gestore nell'altrui interesse in assenza di ogni rapporto contrattuale in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui (Cass. n. 4623 del 2001; Cass. n. 18626 del 2003).
Gli elementi della gestione d'affari sono, quindi, l''animus aliena negotia gerendi; l'utilità della gestione; la impossibilità dell'interessato di svolgere l'affare o, comunque, la mancanza della prohibitio domini; l'esistenza dell'interesse altrui.
Con riferimento al primo, in una risalente ma ancora attuale pronuncia di questa Corte, si è affermato che "nella gestione d'affari l''animus aliena negotia gerendi, cioè il proposito di agire per conto e vantaggio di altri, non deve necessariamente risultare da dichiarazione espressa del dominus negotii, ma può risultare anche dalle circostanze di fatto; quanto poi al requisito dell'utiliter coeptum, e sufficiente che la gestione sia utilmente intrapresa, e cioè sia stata spiegata un'attività che lo stesso dominus avrebbe esercitato agendo da buon padre di famiglia se avesse dovuto provvedere efficacemente da sè alla gestione dell'affare" (Cass. n. 550 del 1964; in senso conforme, v. anche Cass. n. 4821 del 1980; Cass. n. 1365 del 1989). Può quindi ritenersi che sussista l'indicato requisito nel caso in cui chi sia nella disponibilità di un bene in parte di altri ne disponga concedendolo in locazione, essendo siffatta iniziativa contrattuale, in assenza di opposizioni da parte degli altri comproprietari, chiaramente riferibile anche all'interesse di questi ultimi. D'altra parte, non può non rilevarsi che l'art. 2032 cod. civ., nel consentire la ratifica dell'operato del gestore da parte dell'avente diritto, anche se la gestione è stata compiuta da persona che credeva di gestire un affare proprio, vale a ridimensionare seriamente la rilevanza del requisito soggettivo con il quale il gestore ha proceduto alla gestione.
Quanto agli altri due requisiti dell'istituto in esame, la loro ricorrenza è senz'altro verificabile nel caso del contratto di locazione, trattandosi di atto di disposizione in genere di ordinaria amministrazione (ma, si è visto, che in alcune pronunce di questa Corte l'utilità dell'affare è stata ravvisata anche in ipotesi di contratti ultranovennali) destinato a far fruttare il bene comune e rispetto al qua le deve ritenersi sussistente anche l'interesse del comproprietario non locatore che non abbia manifestato opposizione.
Nell'ambito della gestione d'affari può inoltre aggiungersi, riguardo al presupposto della absentia domini, che tale requisito è stato ritenuto sussistente non solo allorchè l'interessato versi in una condizione di impedimento, che si traduca in una impossibilità materiale rispetto alla cura dei propri affari, ma anche qualora l'interessato stesso non manifesti, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nei propri affari (Cass. n. 3143 del 1984).
Non vi è, pertanto, ostacolo formale a ricondurre la fattispecie della locazione del bene comune da parte di un solo comproprietario nell'ambito della disciplina della gestione d'affari.
8.2. In più, deve osservarsi che la soluzione offerta dalle disposizioni in tema di gestione di affari appare poi la più idonea a contemperare le posizioni di tutti i soggetti coinvolti.
Il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore e il conduttore è infatti efficace, rilevando l'opposizione del comproprietario non locatore solo nel caso in cui venga manifestata e portata a conoscenza del conduttore prima della stipula del contratto (art. 2031 c.c., comma 2), sicchè, come si è appena osservato, il conduttore è posto al riparo da sopravvenuti contrasti che dovessero insorgere tra i comproprietari in ordine alla gestione del bene comune.
Il comproprietario non locatore, da parte sua, ove sia a conoscenza della intenzione del gestore di addivenire ad una locazione del bene comune, può manifestare preventivamente il proprio dissenso, il che lo esonererebbe, ai sensi dell'art. 2031, comma 2, dal dovere di adempiere le obbligazioni che il gestore abbia assunto, anche in nome proprio, e di rimborsargli le spese sostenute. Il comproprietario non locatore, inoltre, ai sensi dell'art. 2032 cod. civ., ed è questo l'aspetto che maggiormente rileva ai fini della soluzione del caso di specie, ha la facoltà di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario locatore, e l'esercizio di tale potere comporta gli effetti che sarebbero derivati da un mandato, anche se la gestione è stata compiuta da un soggetto che credeva di gestire un affare proprio.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è ripetutamente affermato che "ai sensi degli artt. 2031 e 2032 cod. civ., la gestione di affari, che non abbia comportato la spendita del nome del dominus, può produrre, ancorchè ratificata, effetti nei rapporti fra il dominus ed il gestore, ma non può in alcun caso valere a far subentrare il primo nel rapporto negoziale che il secondo abbia instaurato in nome proprio con il terzo" (Cass. n. 3479 de 1978; Cass. n. 11637 del 1991; Cass. n. 12102 del 2003) e che, proprio in base a tale principio si è precisato che "il contratto che il comproprietario di un immobile abbia stipulato nell'asserita qualità di proprietario esclusivo è inidoneo a produrre effetti diretti nei rapporti fra gli altri comproprietari ed il terzo contraente, in quanto nella gestione di affari non rappresentativa la ratifica non fa subentrare il dominus in luogo del gestore nel rapporto costituito da quest'ultimo in nome proprio con i terzi e i soggetti del rapporto restano quelli originari" (Cass. n. 3479 de 1978 cit.). In questo senso, si è quindi affermato, con riguardo ad un fabbricato appartenente per porzioni distinte a due proprietari, che "il comportamento dell'uno, consistente nel concedere in locazione l'intero immobile e nel provvedere a riscuoterne il canone, è qualificabile come negotiorum gestio di tipo rappresentativo, secondo la previsione degli artt. 2028 e segg. cod. civ., fino a quando il secondo non manifesti, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nel proprio affare, con la conseguenza che, ove intervenga tale divieto, deve riconoscersi a detto secondo proprietario, divenuto anch'egli locatore e creditore del canone (per la parte di sua spettanza) per effetto di quella gestione, il diritto di ottenere direttamente dal locatario il pagamento della quota del canone medesimo, tenendo conto che fra più creditori di una prestazione divisibile non si presume il vincolo di solidarietà" (Cass. n. 3143 del 1984).
Dalla motivazione di tale pronuncia si evince che, in quel caso, la gestione rappresentativa era stata desunta implicitamente dal mero dato oggettivo che il comproprietario locatore avesse concesso in locazione l'intero bene (nel caso di specie, un'attività alberghiera); appare, peraltro, evidente come la soluzione della implicita rappresentatività della gestione non possa essere seguita, comportando essa ancora il riferimento ad un mandato presunto, in assenza di contemplatio domini; il che presterebbe il fianco alle critiche già riferite in precedenza.
Tuttavia, è innegabile che, pur in presenza di una gestione non rappresentativa, che si svolga quindi senza alcuna contemplatio domini, la ratifica determina, dal suo manifestarsi, gli effetti che sarebbero derivati da un mandato (art. 2032 cod. civ.). E tra gli effetti del mandato vi è proprio quello di cui all'art. 1705 c.c., comma 2, che abilita il comproprietario non locatore a richiedere, per il tempo successivo alla ratifica, il pagamento prò quota del canone al conduttore. La ratifica, giova soggiungere, non necessita di formalità particolari, ben potendo essere espressa dalla domanda che, come nella specie, il comproprietario non locatore rivolga al conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, di vedersi attribuito il 50% dei canoni per il periodo successivo alla ratifica.
Ovviamente, ove si tratti di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore non potrà svolgere altre azioni derivanti dal contratto, essendo la facoltà del mandatario di sostituirsi al mandante limitata dall'art. 1705 c.c., comma 2, ai crediti derivanti dal contratto stipulato dal mandatario.
8.3. In conclusione, la questione sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite deve essere risolta con l'affermazione del seguente principio di diritto: "La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell'ambito di applicazione della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all'art. 2032 cod. civ., sicchè, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore potrà ratificare l'operato del gestore e, ai sensi dell'art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla quota di proprietà indivisa".
9. In applicazione del principio ora richiamato, il ricorso deve essere accolto, atteso che la Corte d'appello di Genova ha del tutto omesso di verificare se nella condotta della comproprietaria non locatrice fosse ravvisabile una ratifica del contratto di locazione sottoscritto dall'altra comproprietaria.
L'accoglimento del ricorso comporta la cassazione della sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame della controversia alla luce dell'indicato principio di diritto, ad altra sezione della Corte d'appello di Genova.
10. La cassazione con rinvio della sentenza impugnata comporta l'assorbimento delle ulteriori censure svolte dalla ricorrente, atteso che le stesse involgono questioni relative allo svolgimento del giudizio di appello e all'omesso esame delle stesse da parte di quel giudice, che potranno essere prese in considerazione in sede di rinvio.
Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte di cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e il terzo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d'appello di Genova.






lunedì 11 giugno 2012

LIBRETTO BANCARIO, ESTINZIONE SI, DECESSO COINTESTATARIO


Corte di cassazione Sezione I civile Sentenza 29 ottobre 2002, n. 15231
 
"anche nel caso di più creditori, a firma disgiunta, ciascuno di essi è abilitato  a chiedere l'adempimento dell'intera obbligazione, con effetto liberatorio verso tutti i creditori, una volta che fosse stato conseguito da uno solo di essi (articolo 1292 c.c.)."

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 25 giugno 1997 il tribunale di Ragusa condannò il Banco di Sicilia a pagare a Pxxxx Angela la somma di lire 38.350.000, oltre interessi, costituita per lire 18.350.000 dal saldo di un libretto di deposito a risparmio e per lire 20.000.000 dall'importo di un buono fruttifero, entrambi cointestati con firma separata alla Pxxxxo e a Panebianco Antonina, quest'ultima deceduta il 9 maggio 1994.

Ritenne il tribunale che la banca depositaria non potesse rifiutare la liquidazione intera dei depositi cointestati con firma separata, in favore di uno soltanto per il caso di morte dell'altro, trattandosi di obbligazione solidale attiva, che sopravvive alla sopravvenuta incapacità di agire o alla morte di uno dei contitolari.

Propose appello la banca deducendo che la vigente legislazione e la normativa bancaria uniforme, in applicazione del principio che alla cointestazione inerisce un mandato reciproco che si estingue con la morte di uno dei cointestatari-mandanti, stabiliscono che in tale evenienza il pagamento dell'istituto bancario debba essere fatto solo per la metà delle somme e non per l'intero.

L'appellata resistette alla impugnazione, che la Corte di appello di Catania ha accolto, con sentenza 25 ottobre 1999, determinando in lire 19.175.000 oltre interessi l'obbligazione di pagamento della appellante.

Ha rilevato la corte di merito che, mentre la cointestazione determina una situazione di titolarità plurisoggettiva, regolata dalle norme che disciplinano la comunione di diritti reali sui beni, in forza delle quali nessun partecipante può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri, la separazione delle firme integra la facoltà di ciascun cointestatario del deposito di prelevare disgiuntamente, anche oltre i limiti delle rispettive quote, con l'obbligo corrispondente della banca di adempiere alla restituzione di quanto depositato, con effetto liberatorio nei confronti di tutti i cointestatari.

Tale regime permane però sino alla morte di uno di essi; non essendo, infatti, la solidarietà dal lato attivo mai presunta, in quanto richiede un titolo negoziale o legale, che la stabilisca - tant'è che in tema di contratti bancari solo per il conto corrente intestato a più persone l'articolo 1854 c.c. prevede la regola della solidarietà attiva e passiva per i saldi del conto - è principio generale che, in difetto di espressa previsione normativa, occorra una specifica fonte negoziale, tutte le volte che si voglia affermare la solidarietà.

Nella specie era mancata una specifica clausola che avesse tenuto conto non solo della "firma separata", ma dell'intero contesto convenzionale in cui essa fosse inserita, a nulla giovando il patto di esercizio disgiunto del potere di prelievo del deposito bancario accessorio della cointestazione. Posto, infatti, che in mancanza della clausola "a firma separata" o di quella "a firma congiunta" ciascun cointestatario del deposito potrebbe solo ritirare le somme corrispondenti alla propria quota, della quale è contitolare ai sensi dell'articolo 1101 c.c., la funzione della "firma separata" faculta i cointestatari, con effetto nei confronti della banca, partecipe dell'accordo, al prelievo disgiunto, anche oltre i limiti della quota, attraverso lo scambio reciproco della autorizzazione ad esercitare il diritto anche al di là di quei limiti, in deroga alla regola codicistica dell'articolo 1102 c.c.

Ne consegue che, corrispondendo la clausola "a firma separata" ad una pattuizione che ha ad oggetto la reciproca gestione di interessi propri della sfera giuridica di ciascun cointestatario, deve soggiacere alle regole generali dei negozi gestori, fra cui quello del mandato, che di tali negozi è la forma centrale, che sancisce la estinzione del negozio per la morte o sopravvenuta incapacità di agire di una delle parti.

Ha poi negato la corte di merito che possa trovare applicazione nella specie l'articolo 1723 c.c., secondo cui il mandato conferito anche nell'interesse del mandatario non si estingue per la morte o la sopravvenuta incapacità del mandante; posto che la cointestazione a firma separata implica una pattuizione in cui l'attribuzione dell'esercizio disgiunto della facoltà di prelievo trova la sua ragione causale nella pari facoltà che ciascun cointestatario riceve dagli altri, ognuno assume la veste di mandante e mandatario in una inscindibile unità soggettiva funzionale, sicché la morte del mandatario estingue anche il mandato in rem propriam, per il venir meno della possibilità fisica di una esecuzione da parte del soggetto in cui il mandante ha riposto la sua fiducia, sia pure in una vicenda afferente ad un interesse comune.

Ha, infine, escluso il giudice di appello l'applicabilità degli articoli 1835, 1836, 2021, 1993 c.c., richiamati dalla appellata al pari delle norme bancarie uniformi e di quelle tributarie in tema di successione mortis causa, invece invocate dalla appellante.

Ha proposto ricorso per cassazione Pxxxxo Angela con due motivi; resiste con controricorso il Banco di Sicilia.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 345 c.p.c.

Premette che la corte territoriale sia andata ultra petita laddove ha rinvenuto in norme e principi generali di diritto comune il fondamento della sua statuizione, in luogo delle norme bancarie uniformi e di quelle tributarie in materia di successione mortis causa. La violazione del principio tantum devolutum quantum appellatum avrebbe comportato la lesione del diritto di difesa della ricorrente, per non essere stata posta in condizione di argomentare su temi trattati dal giudice.

Con il secondo motivo è denunziata la violazione nonché la falsa applicazione degli articoli 1101, 1102, 1854 e 1723 c.c.; deduce la ricorrente che è fuori luogo il richiamo agli articoli 1101 e 1102 c.c., che regolano la comunione dei beni e non le obbligazioni. Semmai a dovere essere applicato sarebbe l'articolo 1298 II comma c.c. la cui presunzione di uguaglianza dei creditori in solido opera tra loro e non può essere fatta valere dal debitore che è liberato dalla obbligazione con l'adempimento nei confronti di uno dei creditori.

Contesta l'applicazione della disciplina del mandato, essendo mancante nella specie la sua causa tipica - il compimento di atti giuridici di una parte per conto dell'altra - la natura delle obbligazioni e la previsione del compenso, ed invoca le norme particolari dei contratti bancari (articoli 1834 e seguenti c.c.) osservando, con riguardo al deposito bancario a risparmio con libretto nominativo destinato a più persone, che, potendo le clausole essere modificate solo con il consenso di tutti i contraenti, la banca non incorre in responsabilità adempiendo nei confronti di uno per l'intero; come per il conto corrente cointestato.

Da tali norme e solo da esse avrebbe dovuto trarsi la disciplina da applicarsi analogicamente alla specie.

Non ha pregio il primo motivo, che, prospettando come denunzia di violazione dell'articolo 345 c.p.c., si è poi esplicitato con riferimento ad una supposta violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato, con l'assunto che il Banco di Sicilia avrebbe fondato le sue doglianze avverso la sentenza di prime cure, invocando espressamente la prassi bancaria, siccome trasfusa nelle norme bancarie uniformi, e le disposizioni tributarie in materia di successioni mortis causa; mentre la corte etnea "si è sPxxxxta oltre i motivi di censura sottopostile dall'appellante ed ha finito per accogliere il gravame per ragioni sostanzialmente diverse da quelle sollecitate con l'appello, giustificando il suo operato officioso con un generico richiamando a norme e principi generali di diritto comune".

Va osservato a riguardo che, a fronte della doglianza mossa dalla banca appellante alla sentenza di primo grado, con cui aveva sostenuto il "contrasto di quella decisione con la vigente legislazione e con la normativa bancaria uniforme, che, ispirandosi al principio secondo cui alla cointestazione inerisce un mandato reciproco, che si estingue con la morte di uno dei cointestatori-mandanti, consentiva in tale evenienza il pagamento da parte dell'istituto depositario di metà soltanto delle dette somme, in ossequio anche alla normativa fiscale vigente" (foglio 4 della sentenza impugnata), la corte di merito è pervenuta alle conclusioni censurate, proprio sulla scorta dei generali principi codicistici e in particolare di quelle sui negozi gestori, fra cui il mandato, nei quali ha rinvenuto il potere del prelievo disgiunto, anche oltre i limiti della quota, per ciascuno dei cointestatari del liberato di deposito e del buono fruttifero.

Tanto giova a disattendere in punto di fatto il motivo del ricorso, che è peraltro infondato in diritto, dal momento che non viola il disposto dell'articolo 112 c.p.c., cui sostanzialmente si richiama la ricorrente, il giudice che, restando nell'ambito della causa pretendi e del petitum, sorregga la decisione con argomentazioni diverse da quelle addotte dalla parte (Cassazione 2572/99; 1940/98; 3100/97).

Fondato è, invece, il secondo motivo.

Contrariamente a quanto ritenuto dai primi giudici, i quali avevano affermato che la cointestazione a firma separata obbligasse la banca - anche dopo la morte di uno dei cointestatari e in caso di opposizione da parte dei suoi eredi - alla intera liquidazione dei depositi, richiesta da uno degli aventi titolo, integrando la fattispecie una ipotesi di obbligazione solidale attiva, che sopravvive alla morte e alla sopravvenuta incapacità di agire del contitolare; la corte territoriale ha rilevato che la cointestazione dei depositi bancari esaminati esprimesse una situazione di titolarità plurisoggettiva che, in mancanza di diverse specifiche clausole pattizie, deve ritenersi regolata dalle norme che in via generale disciplinano la comunione della proprietà e degli altri diritti reali, alla cui stregua le quote dei partecipanti si presumono uguali e nessuno di essi può estendere il proprio diritto sulla cosa comune in danno degli altri.

La firma separata, invece, integra la facoltà di ciascun cointestatario del deposito di prelevare disgiuntamente dallo stesso, anche oltre i limiti delle rispettive quote di appartenenza delle somme depositate; facoltà cui fa riscontro l'obbligo della banca depositaria di adempiere alla restituzione totale o parziale delle somme depositate, in relazione al separato esercizio del diritto di prelievo effettuato da ciascun cointestatario; con efficacia liberatoria nei confronti di tutti.

Tale situazione, però, a giudizio della corte etnea, che pure ha considerato meritare la disciplina della solidarietà attiva, ai sensi dell'articolo 1292 c.c., non permane in quei termini in caso di decesso di uno dei cointestatari: essa, infatti, rileva che non si può "obliterare il dato di partenza, costituito dalla contitolarità del deposito espressa dalla cointestazione e correlata alla regola generale, secondo cui la solidarietà dal lato attivo non è mai presunta, ma richiede un titolo che la stabilisca, dove per titolo va intesa la fonte (negoziale o legale) della solidarietà stessa e non certo la sua semplice enunciazione"; principio "confermato proprio in materia di rapporti contrattuali bancari dall'articolo 1854 c.c., che, per il caso di conto corrente intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere operazioni anche separatamente, pone espressamente la regola che gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto". Con l'effetto che siffatta regola, con la sua limitazione alle sole operazioni bancarie in conto corrente, mentre ribadisce la necessità di un autonomo titolo, quale fondamento della solidarietà, postula d'altro canto la ricerca di una specifica fonte negoziale, tutte le volte che si sostenga la solidarietà, pur in difetto di una espressa previsione normativa.

Pertanto, rileva la sentenza impugnata, se in mancanza del patto di esercizio disgiunto del potere di prelievo, la cointestazione avrebbe trovato nelle regole generali sulla comunione la disciplina legale, la funzione di quel patto sarebbe stata, invece, "di scambiarsi reciprocamente l'autorizzazione ad esercitare il diritto, anche oltre i limiti della titolarità pro quota di ciascuno".

Se, però, il contenuto di esso non può essere modificato da uno solo dei paciscenti, "non è men vero che, trattandosi di una pattuizione avente ad oggetto la reciproca gestione di interessi propri della sfera giuridica di ciascun cointestatario, deve soggiacere alle regole generali dei negozi gestori, fra cui quella - espressamente codificata - in tema di mandato, che della categoria è la figura negoziale centrale, nonché quella più compiutamente disciplinata, che sancisce la estinzione del negozio per la morte (o per la sopravvenuta incapacità di agire) di una delle parti".

E la morte, conclude la corte di merito, "producendo la estinzione della pattuizione contenuta nella clausola a firma separata, impedisce l'ulteriore esercizio del diritto da parte dei cointestatari superstiti, oltre i limiti della loro titolarità pro quota sulle somme depositate al momento del detto evento estintivo".

Tale tesi non può in alcun modo essere condivisa, né nella premessa, né nel passaggio argomentativo che ha portato alla conclusione impugnata.

È sicuramente condivisibile, trovando puntuale riscontro negli articoli 1292 e 1294 c.c., la affermazione che nelle obbligazioni la solidarietà dal lato attivo non si presume, necessitando di un titolo negoziale o dalla espressa previsione legale. Nella specie il titolo è appalesato dalla cointestazione dei depositi bancari, congiunta alla facoltà dei contitolari di operare disgiuntamente, in tutti i movimenti attivi e passivi, sino alla estinzione del rapporto; cointestazione che esprime il patto tra costoro e l'istituto di credito, intervenuto in unico contesto e che disciplinò il rapporto sin dal suo nascere, il quale si sviluppò, come nessuno contesta che sia avvenuto, attraverso comportamenti in linea con esso e cioè con prelievi e depositi sempre compiuti con firma disgiunta e liberamente, senza, cioè, corrispondenza con le quote di pertinenza di ciascuno.

Un titolo così concepito e in tal modo osservato era idoneo a realizzare e di fatto realizzò una obbligazione solidale attiva, abilitando più creditori a chiedere l'adempimento dell'intera obbligazione, con effetto liberatorio verso tutti i creditori, una volta che fosse stato conseguito da uno solo di essi (articolo 1292 c.c.).

Ciò posto, nessun effetto sulla natura della obbligazione e sulla disciplina che ne è derivata, sia, quanto al lato attivo, in termini di abilitazione alla riscossione integrale, sia, quanto al passivo, in termini di totale liberazione, è stata in grado di produrre la morte di uno dei cointeressati, nei riguardi dei suoi aventi causa e ancor meno nei confronti dell'istituto di credito, che, essendo stato obbligato per l'intero, verso chiunque dei contitolari, prima di quell'evento, nessuna ragione ha in seguito maturato per supporre che la sua obbligazione si sia modificata.

Fondata è, pertanto, la doglianza della ricorrente, circa la falsa applicazione degli articoli 1101, 1102 e 1723 c.c.; improprio appalesandosi il richiamo della sentenza impugnata alle norme sulla comunione dei diritti reali e sul mandato, compiuto per sorreggere la costruzione giuridica di una fattispecie complessa, che, movendo dalla comunione - in considerazione della cointestazione dei depositi bancari - sarebbe evoluta verso una ipotesi di obbligazione solidale, a cagione della previsione della firma separata, con l'ulteriore inserimento di un negozio giuridico, quale il mandato, che si è ritenuto di rinvenire nella funzione pratica che con la pattuizione si era inteso raggiungere, quella cioè "di scambiarsi reciprocamente l'autorizzazione ad esercitare il diritto anche oltre i limiti della titolarità della quota di ciascuno"; ma che le parti de plano avevano inteso conseguire, in dipendenza della solidarietà attiva che il rapporto obbligatorio con l'istituto di credito aveva configurato.

Né ha pregio l'argomento che nei rapporti contrattuali bancari solo nel conto corrente cointestato gli interessati sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto, posto che, se per quel rapporto il fondamento della solidarietà attiva è nella legge, per quello in esame titolo giustificativo è il negozio che, sorto con quel carattere, non fu né poteva essere influenzato dalla morte di uno dei cointestatari, proprio perché l'abilitazione a prevalere sino all'intero costoro non ricevevano da reciproche autorizzazioni, in funzione dell'interesse proprio di chi le concedeva o comune a quello dell'autorizzato, ma dalla natura della obbligazione, che consentiva la pienezza dei diritti derivati dal rapporto, in considerazione dell'interesse esclusivo del soggetto autore dell'operazione, al di fuori di rapporto gestori, che, al contrario, suppongono interessi altrui, in tutto o in parte.

La sentenza impugnata va pertanto cassata; e poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, rispetto a quelli compiuti dal giudice di merito, la causa può essere decisa, con la condanna del Banco di Sicilia al pagamento in favore di Pxxxxo Angela delle intere somme portate dal libretto di deposito e dal buono fruttifero, con gli interessi legali dal 9 novembre 1995, data della richiesta stragiudiziale formulata dalla ricorrente all'istituto di credito (foglio 15 della sentenza impugnata).

Ricorrono giusti motivi per la compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
La corte rigetta il primo motivo; accoglie il secondo; cassa la sentenza impugnata e, provvedendo nel merito, condanna il Banco di Sicilia al pagamento in favore di Pxxxxo Angela della intera somma portata dal libretto di deposito e dal buono fruttifero, con gli interessi legali dal 9 novembre 1995 al soddisfo; compensa le spese processuali.

martedì 6 marzo 2012


Consiglio di Stato Sezione V 
Sentenza 14 febbraio 2012, n. 722


"la trasmissione via fax, nel caso in esame, era mezzo idoneo di comunicazione degli atti della procedura concorsuale; che la trasmissione con modalità Zetafx è sistema idoneo alla stregua del fax tradizionale; che v’è prova in atti dell’avvenuta ricezione da parte dell’appellante della comunicazione di aggiudicazione sin dal 23 dicembre 2010; che l’impresa appellante non ha fornito alcuna prova circa la mancata ricezione della suddetta comunicazione.
Ne consegue l’irricevibilità del ricorso di primo grado notificato a distanza di 4 mesi dalla conoscenza dell’aggiudicazione definitiva, con conseguente inammissibilità del ricorso, correttamente dichiarata" 


Consiglio di Stato
Sezione V
Sentenza 14 febbraio 2012, n. 722
N. 00722/2012REG.PROV.COLL.
N.             08538/2011       REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 74 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 8538 del 2011, proposto da:
*** S.r.l., rappresentata e difesa dagli avvocati Giuseppe Inglese, Stefano Vinti e Paola Chirulli, con domicilio eletto presso Stefano Vinti in Roma, via Emilia 88;
contro
la Provincia di Savona, rappresentata e difesa dagli avvocati Gianluca Contaldi e Gianluca Ercole, con domicilio eletto presso Gianluca Contaldi in Roma, via Pierluigi Da Palestrina, 63;
nei confronti di
*** S.r.l., rappresentata e difesa dall'avv. Mario Alberto Quaglia, presso il quale è elettivamente domiciliata in Roma, via Giosuè Carducci, 4;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LIGURIA - GENOVA: SEZIONE II n. 00864/2011, resa tra le parti, concernente AFFIDAMENTO LAVORI DI ADEGUAMENTO IDRAULICO E FUNZIONALE DEL PONTE DENOMINATO "DELLE FABBRICHE" - (RISARCIMENTO DANNI)
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Provincia di Savona e della Servizi e Costruzioni S.r.l.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 22 novembre 2011 il Consigliere Doris Durante;
Uditi per le parti gli avvocati Inglese, Contaldi e Quaglia;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. - Con disciplinare di gara del 19 novembre 2010, la Provincia di Savona, indiceva una gara mediante procedura aperta per l’aggiudicazione dei “lavori di adeguamento idraulico e funzionale del ponte denominato delle fabbriche e del corpo stradale in località Caragna in Comune di Calizzano”, da aggiudicarsi ai sensi dell’art. 82, comma 2, del d. lgv. n. 163 del 2006 secondo il criterio del prezzo più basso sull’elenco prezzi.
La gara veniva aggiudicata alla *** S.r.l., che aveva offerto la migliore offerta tra le imprese rimaste in gara, con il ribasso percentuale del 21,12%.
Nel rispetto dei termini di legge, interveniva l’aggiudicazione definitiva, la stipula del contratto e la consegna dei lavori.
Dell’intervenuta aggiudicazione definitiva, veniva data comunicazione dalla stazione appaltante a tutti i concorrenti con nota del 22 dicembre 2010.
2.- Con ricorso notificato nel maggio 2011, la società *** s.r.l., la cui offerta era stata esclusa perché ritenuta anomala, impugnava davanti al TAR Liguria l’aggiudicazione dell’appalto in favore della Servizi e Costruzioni S.r.l., assumendo che la soglia dell’anomalia non fosse stata individuata correttamente.
3.- Il TAR Liguria con sentenza n. 864 del 31 maggio 2011 dichiarava il ricorso inammissibile, accogliendo l’eccezione di tardività del gravame formulata dall’aggiudicataria e dalla Provincia di Savona, avendo constatato che la ricorrente aveva avuto conoscenza dell’aggiudicazione definitiva già dal 23 dicembre 2010, data in cui la stazione appaltante aveva comunicato via fax l’esito della procedura.
4.- *** s.r.l., con l’atto di appello in esame, ha impugnato la sentenza di cui chiede l’annullamento o la riforma, con conseguente annullamento dell’aggiudicazione e declaratoria giudiziale di inefficacia del contratto a suo tempo stipulato.
Essa appellante assume l’erroneità della sentenza del TAR, in quanto il rapporto di trasmissione fax non sarebbe idoneo a dimostrare l’effettivo invio dell’atto di aggiudicazione, non recando indicazioni circa il contenuto del documento trasmesso; deduce la violazione della l. n. 241 del 1990, perché, comunque, la comunicazione non indicherebbe l’autorità alla quale presentare ricorso ed i termini per ricorrere e ripropone la censura di erroneo calcolo della soglia di anomalia.
5.- Si sono costituite in giudizio la Provincia di Savona e la *** S.r.l. che hanno chiesto il rigetto dell’appello.
6.- Le parti hanno scambiato memorie difensive e, alla camera di consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare di sospensione dell’efficacia della sentenza appellata, le parti sono state avvisate circa la possibilità di definire il giudizio con sentenza in forma semplificata.
7.- L’appello è infondato e va rigettato.
7.1- In base alla più recente normativa (d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445) il fax è strumento ordinario di comunicazione di atti e documenti, in quanto soddisfa sia la forma scritta che la fonte di provenienza. In forza dell’art. 43, comma 6, un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente.
In materia di procedure ad evidenza pubblica, l’art. 77 del d. lgv. n. 163 del 2006 stabilisce che è in facoltà delle stazioni appaltanti e degli operatori economici inviare le comunicazioni via telefax, purché di ciò si dia comunicazione nel bando o nell’invito.
Sulla scorta della normativa citata, la giurisprudenza ha ritenuto che il rapporto di trasmissione via fax è strumento idoneo a garantire con sufficiente certezza l’effettività della comunicazione e, quindi, a far decorrere i termini di impugnativa, senza che il soggetto che ha trasmesso il fax debba fornire ulteriore prova oltre quella risultante dal rapporto di trasmissione che indichi le regolari avvenute trasmissione e ricezione. Grava, invece, sul ricevente che assume la mancata ricezione fornirne la prova contraria (Cons. Stato, sez. V, 18 agosto 2010, n. 5845; 24 aprile 2002, n. 2202).
7.2 - Nel caso di specie, la comunicazione via fax è avvenuta in conformità di espressa previsione del bando di gara.
Quanto al suo perfezionamento, esso risulta dal rapporto di trasmissione datato 23 dicembre 2010, depositato in giudizio dalla Provincia di Savona, attestante l’invio a mezzo fax della nota 22 dicembre 2010 prot. n. 9373 recante comunicazione dell’aggiudicazione definitiva.
Dal rapporto emerge, infatti, con evidenza che la comunicazione dell’aggiudicazione definitiva è stata inviata tramite via fax a diverse imprese tra le quali la *** s.r.l., alla quale l’invio è avvenuto alle ore 12,49 del 23 dicembre 2010.
Trattasi, invero, di rapporto cumulativo (cioè attestante l’invio della medesima comunicazione ad una pluralità di imprese tra cui anche la *** s.r.l.), determinato dal fatto che, in considerazione del numero elevato dei destinatari, l’invio del documento è stato effettuato a mezzo l’ausilio di un programma informatico (il software Zetafx che consente l’invio massivo di fax direttamente da personal computer), programma della cui funzionalità non v’è ragione di dubitare, atteso che nel rapporto generato da tale sistema sono presenti tutti gli elementi identificativi della comunicazione effettuata via fax, cioè il mittente, l’oggetto, il nome o la denominazione dell’impresa destinataria; la data e l’ora di invio; l’esito della trasmissione (inviato, tentato, fallito).
Tali elementi, contrariamente a quanto asserisce l’appellante, danno la prova dell’avvenuta trasmissione con esito positivo della comunicazione di aggiudicazione, sicché essa appellante, era a conoscenza dell’aggiudicazione definitiva sin dal 23 dicembre 2010 ed il ricorso proposto nel mese di maggio è tardivo.
7.3- Pretestuosa è la obiezione dell’appellante circa l’incertezza del documento trasmesso, mancando la relativa fotografia, in quanto la riproduzione della prima pagina è solo un’opzione del sistema, la cui assenza non condiziona la validità della comunicazione allo stesso modo in cui sono provate le comunicazioni a mezzo servizio postale, malgrado non sia noto il contenuto del documento trasmesso.
7.4- Quanto poi, alla presenza nel documento di trasmissione della dicitura “fallito”, essa si riferisce agli invii non andati a buon fine e non già a quelli cui corrisponde sulla stessa linea, come per l’appellante, la dicitura “inviato”.
Ad ogni buon conto, la prova del perfezionamento della trasmissione via fax avvenuta il 23 dicembre 2010, risulta comprovata dalla Provincia di Savona, malgrado non fosse suo onere, mediante deposito in giudizio delle note di ricevimento del documento di altre imprese comprese nello stesso rapporto di trasmissione in cui compare l’impresa appellante.
7.4- In conclusione, deve ritenersi che la trasmissione via fax, nel caso in esame, era mezzo idoneo di comunicazione degli atti della procedura concorsuale; che la trasmissione con modalità Zetafx è sistema idoneo alla stregua del fax tradizionale; che v’è prova in atti dell’avvenuta ricezione da parte dell’appellante della comunicazione di aggiudicazione sin dal 23 dicembre 2010; che l’impresa appellante non ha fornito alcuna prova circa la mancata ricezione della suddetta comunicazione.
Ne consegue l’irricevibilità del ricorso di primo grado notificato a distanza di 4 mesi dalla conoscenza dell’aggiudicazione definitiva, con conseguente inammissibilità del ricorso, correttamente dichiarata dal TAR Liguria.
8.- La censura posta in via subordinata dall’appellante, relativa alla circostanza che la comunicazione inviata dalla Provincia di Savona mancherebbe, comunque, del termine e dell’Autorità cui proporre ricorso, costituendo domanda nuova, perché non proposta in primo grado, è inammissibile per il divieto dello ius novorum e, comunque, infondata alla stregua di giurisprudenza consolidata secondo la quale l’omessa indicazione del termine entro cui ricorrere non è evenienza di per sé sufficiente a giustificare l’inosservanza del predetto termine, tanto più laddove il destinatario sia un professionista per sua natura avveduto circa le conseguenze derivanti dalla piena conoscenza di un atto ritenuto lesivo.
9.- Per quanto esposto, risultando inammissibile il ricorso di primo grado, l’appello non può che essere respinto con conferma della sentenza di primo grado, cui consegue la preclusione dell’esame delle censure di merito non esaminate dal giudice di primo grado e riproposte con l’atto di appello.
10.- Quanto alle spese del grado di giudizio, sussistono giusti motivi, per disporne la compensazione tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 novembre 2011 con l'intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Trovato, Presidente
Francesco Caringella, Consigliere
Carlo Saltelli, Consigliere
Francesca Quadri, Consigliere
Doris Durante, Consigliere, Estensore

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/02/2012

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