mercoledì 28 ottobre 2009

Ente territoriale, obbligo di assicurare le pari opportunità tra i sessi

T.A.R. Puglia - Lecce, Sezione I, Ordinanza 21 ottobre 2009, n. 792

"analogamente a quanto ritenuto dalla Sezione in analoghe fattispecie (T.A.R. Puglia, Lecce sez. I, ord. 23 settembre 2009 n. 740), la disposizione statutaria impone l’obbligo di assicurare la presenza in Giunta di Assessori di entrambi i sessi, non essendo assolutamente sufficiente un semplice “sforzo” teso a raggiungere un simile risultato; si tratta, pertanto, di una tipica obbligazione “di risultato” e non “di diligenza” che viene ad integrare un vincolo alla scelta degli assessori e che non può essere derogata dagli accordi politici"


T.A.R.

Puglia - Lecce

Sezione I

Ordinanza 21 ottobre 2009, n. 792

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

Sul ricorso numero di registro generale 1423 del 2009, proposto da:

****, rappresentati e difesi dall'avv. Valeria Pellegrino, con domicilio eletto presso Valeria Pellegrino in Lecce, via Augusto Imperatore, 16;

contro



Comune di Maruggio, rappresentato e difeso dall'avv. Ernesto Sticchi Damiani, con domicilio eletto presso Ernesto Sticchi Damiani in Lecce, via 95 Rgt Fanteria, 9;

nei confronti di



****, non costituiti in giudizio;

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

dei Decreti 27 giugno 2009 tutti aventi il prot. nn. 7653 con cui il Sindaco del Comune di Maruggio ha nominato gli Assessori facenti parte della Giunta Comunale, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale ed in particolare della deliberazione 27 giugno 2009 n. 24 con cui il Consiglio Comunale di Maruggio ha preso atto dell'elenco della Giunta e convalidato le elezioni di questi e del Sindaco.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Maruggio;

Visti gli artt. 19 e 21, u.c., della legge 6 dicembre 1971, n. 1034;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 21 ottobre 2009 il dott. Luigi Viola e uditi altresì l’Avv. Giovanni Pellegrino in sostituzione dell’Avv. Valeria Pellegrino per i ricorrenti e il Prof. Avv. Ernesto Sticchi Damiani per l’Amministrazione comunale di Mareggio;

Considerato:

-che, per quello che riguarda la legittimazione, la presenza tra i ricorrenti della Consigliera di Parità Regionale effettiva e della Consigliera di Parità Regionale supplente appare ampiamente sufficiente a legittimare la proposizione del gravame, ai sensi della previsione dell’art. 37, 2° comma del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (che prevede la possibilità, per i Consiglieri regionali di parità, di proporre impugnative al T.A.R. nei confronti dei provvedimenti che vengano ad integrare discriminazioni di carattere collettivo);

-che, per quello che riguarda il contraddittorio, l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli assessori non ancora evocati in giudizio può essere effettuata prima della decisione nel merito del ricorso, salva ed impregiudicata ogni valutazione in ordine all’effettiva sussistenza di una posizione sostanziale di controinteresse (anche gli Assessori appaiono, infatti, titolari della pretesa al rispetto delle disposizioni statutarie dell’ente e, quindi, di un interesse sostanziale che potrebbe portare ad una qualificazione della posizione in discorso anche in termini di cointeresse);

- che la previsione dell’art. 53 dello Statuto del Comune di Maruggio ("il viceSindaco e gli assessori sono nominati dal Sindaco fra i Consiglieri comunali e fra i cittadini non facenti parte del Consiglio, in possesso dei requisiti di candidabilità, compatibilità ed eleggibilità alla carica di Consigliere, assicurando condizioni di pari opportunità fra uomini e donne con la presenza di entrambi i sessi nella composizione della Giunta") appare essere evidentemente caratterizzata dalla natura precettiva e non programmatica;

-che, analogamente a quanto ritenuto dalla Sezione in analoghe fattispecie (T.A.R. Puglia, Lecce sez. I, ord. 23 settembre 2009 n. 740), la disposizione statutaria impone l’obbligo di assicurare la presenza in Giunta di Assessori di entrambi i sessi, non essendo assolutamente sufficiente un semplice “sforzo” teso a raggiungere un simile risultato; si tratta, pertanto, di una tipica obbligazione “di risultato” e non “di diligenza” che viene ad integrare un vincolo alla scelta degli assessori e che non può essere derogata dagli accordi politici;
-che l’applicazione della previsione statutaria non trova ostacolo nel fatto che le due donne presenti in Consiglio comunale abbiano declinato l’offerta di entrare a far parte della Giunta comunale, per motivi personali; la presenza in Giunta di Assessori di entrambi i sessi può, infatti, essere assicurata anche attraverso il ricorso alla possibilità di nominare esterni al Consiglio comunale prevista dalla normativa e dalla già citata previsione dello Statuto;

P.Q.M.

Accoglie l’istanza cautelare presentata da parte ricorrente e, per l’effetto, ordina al Sindaco diMaruggio di procedere all’integrazione della Giunta comunale attraverso la nomina di Assessori di entrambi i sessi, entro 30 (trenta) giorni dalla notificazione o comunicazione della presente ordinanza.

La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 21 ottobre 2009 con l'intervento dei Magistrati:

Aldo Ravalli, Presidente
Luigi Viola, Consigliere, Estensore
Massimo Santini, Referendario

lunedì 26 ottobre 2009

Prelazione urbana, rilevanza della difformita' per omessa informazione della provvigione

CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 27 maggio - 25 settembre 2009n. 20671

"rileva la previsione del pagamento della provvigione, contenuto nella denuntiatio, quando non sia stato più riprodotto nel rogito di vendita, comportando questo un'alterazione delle condizioni contrattuali, con la concessione, al terzo acquirente, di condizioni di pagamento più vantaggiose, non prevedendo più a suo carico tale pagamento; e di ciò, il conduttore, avente diritto alla prelazione, ha diritto ad una tempestiva ed esatta comunicazione"

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 27 maggio - 25 settembre 2009, n. 20671

(Presidente Di Nanni - Relatore Vivaldi)

Svolgimento del processo


La società S. R. & c. srl conveniva, davanti al tribunale di Venezia, la M.G. Junior sas di F. G. & C., quale locatrice, assumendo che era stato violato il suo diritto di prelazione per l'acquisto dell'immobile ad uso non abitativo, dalla stessa condotto in locazione.

La società convenuta, costituitasi, contestava il fondamento della domanda.

Il tribunale, con sentenza del 9.6.2003, accoglieva la domanda, sostituendo l'attrice nella posizione di acquirente dell'immobile in questione e condannando la convenuta alla restituzione dei canoni medio tempore percepiti.

Quest'ultima proponeva appello e la Corte di Appello, con sentenza del 5.9.2005, in totale riforma della sentenza impugnata, rigettava le domande proposte dalla S. R. & c. srl.

Ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi la S. R. & C. srl.

Resiste la M.G. Junior sas di F. G. & C..

Entrambe le parti hanno presentato memoria.




Motivi della decisione


Preliminarmente devono dichiararsi infondate le eccezioni proposte dall'odierna resistente.

Quanto a quella relativa alla proposizione di questioni nuove in questa sede e difetto di autosufficienza, deve rilevarsi che la ricorrente si è limitata - trascrivendo in ricorso il contenuto dei documenti ritenuti rilevanti e rispettando, quindi, il principio di autosufficienza - a riproporre questioni che hanno già formato oggetto dell'esame di merito, in ordine alle quali, mentre il primo giudice si è pronunciato in senso favorevole alla tesi prospettata dalla S. R. & C. snc, - in ordine alla proposta domanda di riscatto, sul presupposto della differenza tra denuntiatio e contenuto del contratto di vendita dell'immobile a terzi - il giudice di appello, viceversa, ha totalmente accolto l'impugnazione proposta dalla M.G. Junior sas, ritenendo conforme a diritto la condotta dell'attuale resistente.

La S. R. & C. snc, in questa sede, pertanto, lamenta l'erroneità della decisione impugnata, senza sollevare questioni nuove, non affrontate nelle fasi di merito.

Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia la violazione dell'art. 115, comma II, c.p.c. (art. 360, n. 3 e 5 ed in subordine n. 4 c.p.c..

Il motivo è fondato.

Correttamente la ricorrente ha denunciato l'erroneità della sentenza impugnata laddove ha ritenuto che costituisca prassi - integrante un fatto notorio - la circostanza che il venditore di un immobile “salvo patto contrario” proceda a propria cura e spese, alla cancellazione dell'ipoteca, sotto il profilo della violazione dell'art. 115, secondo comma, cod. proc. civ.

In questo caso, la Corte di cassazione deve esercitare il proprio controllo, ripercorrendo il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva operato dal giudice del merito (Cass. 9.9.2008 n. 22880).

Ora, la Corte di merito - al fine di escludere che vi fosse differenza fra denuntiatio e clausole del contratto di compravendita, che indicava l'esistenza di un'ipoteca iscritta sull'immobile oggetto della vendita, con obbligo di successiva cancellazione “nel più breve tempo possibile” - ha dato per acclarato la prassi indicata, sottolineando che questo avrebbe comportato un vantaggio anche per la conduttrice.

Ma una tale prassi non integra in alcun modo il fatto notorio, quale fatto acquisito alle conoscenze della collettività.

Inoltre, il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, introducendo, nel giudizio civile, prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati, né controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè - come già detto - come fatto acquisito alle conoscenze della collettività, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile.

Ne deriva che non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio, in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implichino cognizioni particolari, od anche soltanto la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrino nella scienza privata del giudice; e ciò perché quest'ultima, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio (v. anche Cass. 28.2.2008 n. 5232; Cass. 19.11.2007 n. 23978).

Nella specie, la circostanza che il venditore cancelli l'ipoteca gravante sull'immobile all'atto della vendita non può assurgere a fatto notorio, posto che questa appare soltanto una delle facoltà che le parti possono prevedere - nell'ambito della loro autonomia privata - come clausola contrattuale, dovendosi, invece, affermare che le parti avrebbero potuto diversamente convenire; e ciò nell'interesse anche dell'acquirente, che avrebbe potuto giovarsi dell'accollo dell'ipoteca, con conseguente diminuzione del prezzo di acquisto.

Erra, perciò, nuovamente, la Corte di merito che ha ritenuto che il conduttore avrebbe rifiutato di acquistare l'immobile non purgato dall'ipoteca, così esprimendosi “vuoi infine perché presumibilmente la stessa conduttrice giammai avrebbe sottoscritto un rogito senza prima ottenere la totale liberazione del bene”.

Con il secondo motivo denuncia la violazione dell'art. 360, n. 3 e 5 c.p.c. per contraddittorietà della motivazione; violazione dell'art. 2121 c.c. e art. 38, comma 11, l. n. 392/1918.

La ricorrente censura l'errato utilizzo delle presunzioni, quale mezzo di prova e la violazione dell'art. 38 della legge n. 392 del 1978.

Il motivo è fondato.

La Corte di merito, dopo avere enunciato correttamente i principii di diritto in materia di denuntiatio, ha poi, ritenuto irrilevante la circostanza che nella denuntiatio non fosse stata fatta menzione dell'ipoteca esistente sull'immobile, ricorrendo al fatto notorio - oggetto del precedente motivo - secondo il quale sarebbe prassi consolidata quella per cui il venditore avrebbe proceduto a sue spese alla cancellazione dell'ipoteca.

Ma, in tal modo motivando, è incorsa in più violazioni.

Il fatto notorio - come già detto -, nella specie, si è visto non sussistere per le considerazioni più sopra formulate.

Inoltre, la stessa Corte, nel considerare l'irrilevanza della detta menzione, ha anche fatto ricorso alla presunzione, secondo la quale la detta irrilevanza sarebbe stata determinata dalla circostanza che “presumibilmente la stessa conduttrice giammai avrebbe sottoscritto un rogito senza prima ottenere la totale liberazione del bene”.

Un tale ragionamento non è condivisibile.

Il ricorso alle presunzioni, infatti, può essere seguito, al fine di risalire da un fatto noto - come quello appunto ricavabile dal notorio - a quello ignoto.

Ma, se il notorio tale non è - come nella specie - la presunzione non può più costituire un mezzo di prova.

La prassi per la quale, secondo la Corte di merito, salvo patto contrario, la venditrice avrebbe provveduto a sue spese e cura alla cancellazione dell'ipoteca, pertanto, non integra, né il fatto notorio, né può costituire la base dalla quale ricavare il fatto ignoto.

Correttamente, pertanto, la ricorrente ha denunciato, ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c. la violazione dell'art. 2727 c.c. (v. in questo senso anche Cass. 26.6.2008 n. 17535).

Né, può farsi riferimento alla “operatività delle garanzie di legge”, poiché la previsione della cancellazione dell'ipoteca a carico della venditrice costituisce soltanto una delle clausole contrattuali che le parti, nell'esercizio della loro autonomia privata, possono convenzionalmente prevedere.

Con il terzo motivo denuncia ai sensi dell'art. 360, n. 3 e 5 c.p.c.: motivazione contraddittoria e violazione degli art. 38 e 39 l. 392/1918 in relazione agli artt. 1321, 1322, 1324, 1326 e 1329 c.c..

Con il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 38 l. 392/1918 e 1213, 1322, 1324 e 1326 c.c., in relazione agli artt. 360 n. 3 e 5 c.p.c..

Con il quinto motivo denuncia la violazione, ai sensi dell'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c, degli artt. 1180, 1213, 1312 e 1411 c.c..

Con il sesto motivo denuncia la violazione degli artt. 38-39 l. 392/1918 in relazione agli art. 1321, 1322, 1324 e 1326 c.c. e 360 n. 3 e n. 5 c.p.c..

Tali motivi, per l'intima connessione delle censure con gli stessi avanzate, possono essere esaminati congiuntamente.

Essi sono fondati per le ragioni e nei termini che si vanno ad esporre.

La Corte di merito, dopo avere accertato la sussistenza di una discrepanza fra denuntiatio e rogito - per il fatto di non contenere la prima, né la indicazione della esistenza dell'ipoteca e delle sue vicende come più sopra delineate, né l'indicazione dell'obbligo, da parte dell'acquirente, di pagare la somma di lire 25.800.000, a titolo di provvigione all'agente che aveva svolto l'intermediazione, nel termine fissato per il rogito, ed inoltre, - in ordine al pagamento dell'acconto di lire 50.000.000 - che, mentre, nella denuntiatio, era previsto il pagamento immediato, nel rogito, invece, si dava atto del versamento del prezzo di lire 430.000.000 “prima della stipula, ma non già dell'avvenuto pagamento dell'acconto il 07.07.2001 ovvero nei giorni immediatamente successivi” è passato a considerare ed a valutare la opportunità e convenienza dell'operazione come svolta.

Ora, costituisce ius receptum, come già detto, che - in tema di prelazione urbana - vada riconosciuto il diritto di riscatto, non solo nell'ipotesi in cui nella denuntiatio sia stato indicato al conduttore un prezzo superiore a quello risultante dalla vendita conclusa con il terzo, ma anche nel caso in cui, a parità di prezzo, siano state concesse al terzo acquirente condizioni di pagamento più vantaggiose, senza che della stessa sia stata data tempestiva ed esatta comunicazione al conduttore avente diritto alla prelazione (Cass. 6.8.2002 n. 11776; Cass. 9.12.1997 n. 12459; Cass. 16.4.1993 n. 4532; Cass. 1.7.1991 n. 7241).

Infatti, ai sensi dell'art. 38 della legge n. 392 del 1978, la denuntiatio deve indicare, non solo il corrispettivo, ma anche le altre condizioni alle quali la compravendita dovrebbe essere conclusa.

La rigorosità del contenuto della denuntiatio prescinde, quindi, dalla sua natura, poiché la completezza della stessa è posto come requisito essenziale dalla legge, e trova la sua giustificazione nel fatto che il conduttore deve essere posto nelle condizioni di valutare compiutamente la convenienza o meno dell'acquisto del bene locatogli (v. in questo senso anche Cass. 1.7.1991 n. 7241).

Ma una tale valutazione spetta al conduttore, non anche al giudice, che deve limitarsi a verificare la coincidenza o meno tra le condizioni contenute nella denuntiatio, al fine dell'esercizio del diritto di prelazione, e quelle contenute nel rogito di vendita a terzi.

Diversamente, il giudice si arroga un potere che gli è precluso, rientrando in quello dispositivo, spettante alle parti.

Al momento della denuntiatio, infatti, è operata una cristallizzazione dei valori che non può più essere mutata in sede di conclusione del contratto di vendita.

Nel caso in esame, la Corte di merito, invece, ha operato una tale valutazione affermando che “L'omessa indicazione dell'esistenza dell'ipoteca, ed il successivo obbligo assunto nel rogito dalla venditrice non si è risolto in un vantaggio a favore dell'acquirente ed in un pregiudizio per la conduttrice”, concludendo che “Non vi era necessità alcuna di darne notizia nella denuntiatio atteso che, comunque, la proprietaria avrebbe dovuto provvedere al trasferimento del bene libero da trascrizioni, iscrizioni e pesi di ogni genere”, e che “anche la conduttrice, al momento della stipula, avrebbe beneficiato del vantaggio”.

In ordine, poi, alle indicazioni, contenute nella denuntiatio, ma non riprodotte nell'atto di vendita dell'immobile all'odierna resistente, deve rilevarsi.

In tema di prelazione di immobili locati ad uso diverso da quello abitativo, la comunicazione della volontà di trasferire il bene a titolo oneroso non ha natura di proposta contrattuale (ovvero di mera informativa di un generico intento di avviare trattative negoziali), ma riveste carattere di atto formale di interpello, vincolato nella forma e nel contenuto; cosicché la corrispondente dichiarazione del conduttore, di esercizio della prelazione, non costituisce l'accettazione di una precedente proposta, e non comporta l'immediato acquisto dell'immobile.

Comporta, invece, la nascita dell'obbligo, a carico di entrambe le parti, di addivenire, entro un preciso termine, alla stipula del negozio di alienazione, con contestuale pagamento del prezzo indicato dal locatore.

Ne consegue, da un canto, che la ricordata comunicazione deve necessariamente provenire dal proprietario dell'immobile, e, dall'altro, che ogni possibilità di libera trattativa tra le parti deve essere incondizionatamente esclusa, essendo interdetta al conduttore ogni facoltà di incidere sul contenuto del contratto già predeterminato dal proprietario, pena la declaratoria di invalidità della prelazione (v. anche Cass. 17.11.1998 n. 11551).

Ora, nella specie, fra le condizioni contenute nella denuntiatio vi era quella per la quale il conduttore avrebbe dovuto pagare il costo della mediazione, indicata nella somma di lire 25.800.000.

Nel rogito di vendita tale condizione non è più riprodotta.

La Corte di merito, a tale proposito, ritiene che “Il pagamento della provvigione costituisce obbligazione che si pone al di fuori del rapporto contrattuale di compravendita, a cui di norma è estraneo, seppure collegato. La mancata indicazione, nel rogito, di tale rapporto è, perciò, del tutto consueta e normale”, aggiungendo “tra l'altro creditore, di tale obbligazione non era la venditrice, ma un soggetto terzo, che aveva piena libertà di decidere, quando e come chiedere e/o ricevere il pagamento del dovuto”.

Un siffatto ragionamento pecca sotto più profili.

In primo luogo è irrilevante - ai fini che qui interessano - la circostanza che l'obbligazione relativa al pagamento della provvigione si ponga all'interno od all'esterno del rapporto di cui si tratta.

Quella che rileva, invece, è che la previsione del pagamento della provvigione, contenuto nella denuntiatio, non sia stato più riprodotto nel rogito di vendita, comportando questo un'alterazione delle condizioni contrattuali, con la concessione, al terzo acquirente, di condizioni di pagamento più vantaggiose, non prevedendo più a suo carico tale pagamento; e di ciò non risulta sia stata data al conduttore, avente diritto alla prelazione, tempestiva ed esatta comunicazione.

Quanto, poi al fatto della irrilevanza della mancata indicazione, nel rogito, del rapporto di mediazione - perché “consueta e normale”, e dell'ulteriore circostanza secondo la quale, creditore di una tale obbligazione (quella relativa al pagamento della provvigione) non sarebbe stata “la venditrice, ma un soggetto terzo, che aveva piena libertà di decidere, quando e come chiedere e/o ricevere il pagamento del dovuto”, deve sottolinearsi che la posizione del mediatore non acquista alcun peso nella vicenda in esame.

Come già si è detto, in questa sede rileva soltanto la ricorrente alterazione delle condizioni contrattuali.

La motivazione adottata, sul punto, dalla Corte di merito, non tiene conto della oggettiva ed accertata differenza delle stesse, come previste nei due atti, tentando di fornire una spiegazione - che non le è richiesta - del perché questa alterazione - sia con riferimento all'ipoteca, sia in relazione al pagamento della provvigione - non altererebbe il meccanismo contrattuale.

Ciò che, invece, interessa è che una tale mancata previsione nel rogito di vendita - unitamente alla mancata menzione dell'ipoteca e delle sue vicende estintive nella denuntiatio (la cui mancata menzione e - viceversa - previsione nel rogito ha inciso sul prezzo di vendita, costituendone parte ) - abbiano impedito al prelazionario di valutare la vantaggiosità dell'affare, al fine dell'esercizio o meno del suo diritto di riscatto dell'immobile.

Di qui la correttezza delle violazioni denunciate.

Conclusivamente, il ricorso va accolto.

Non può essere accolta, invece, l'istanza, formulata dalla ricorrente, ai sensi dell'art. 384, secondo comma, c.p.c., di decisione nel merito, da parte di questa Corte di legittimità.

Ciò è consentito alla Corte di cassazione - operando la cassazione sostitutiva - quando, a seguito dell'accoglimento del ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.

Ma, a tal fine, non è sufficiente che gli elementi fattuali occorrenti per ricostruire la vicenda in questione siano stati acquisiti al processo nei gradi precedenti.

L'indagine diretta a stabilire la (eventuale) non necessità di ulteriori accertamenti di fatto essere, infatti, compiuta unicamente sul provvedimento impugnato, nel senso che da questo deve emergere la sufficienza degli accertamenti effettuati per poter decidere la causa nel merito (v. anche Cass. 14.5.2003 n. 745).

Il giudice di rinvio, nel caso in esame, dovrà, invece, nuovamente valutare gli elementi di fatto acquisiti, alla luce dei principii di diritto enunciati.

Né è sufficiente che, sulle questioni esaminate, si sia pronunciato, il giudice di primo grado, per l'impossibilità della reviviscenza della sentenza di primo grado.

La sentenza pronunciata dal primo giudice è stata riformata da quella di secondo grado, in questa sede cassata.

Ne deriva che, per l'effetto sostitutivo della sentenza in questa sede impugnata, la pronuncia adottata dal secondo giudice toglie rilievo, nei limiti del principio tantum devolutum quantum appellatum, alla decisione di primo grado (v. anche Cass. 22.5.2006 n. 11928).

Le spese vanno rimesse al giudice del rinvio.




P.Q.M.


La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di Venezia in diversa composizione.

mercoledì 21 ottobre 2009

Potestà del Sindaco, inerzia, legittimazione di un Comitato

T.A.R.Puglia - Lecce Sezione I Sentenza 7 luglio 2009, n. 1786

Sussiste la “legittimazione” del comitato ricorrente a chiedere l’attivazione dei poteri sindacali di cui all’art. 217 TUS che può essere ricavata, in primo luogo, dalla lettura dell’art. 3-ter del decreto legislativo n. 152 del 2006 (codice dell’ambiente), come introdotto dal decreto legislativo n. 4 del 2008.

Tale disposizione, rubricata “principio dell’azione ambientale”, prevede infatti che “la tutela dell’ambiente … deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche e private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente”.

Viene in questo modo consacrato il modello di “governance ambientale”, ossia di un modello di gestione dei beni ambientali non più ispirato al classico modello gerarchico ma ad un nuovo stile di governo diversamente caratterizzato da un maggior grado di cooperazione ed interazione tra poteri pubblici da una parte ed attori non statuali dall’altra parte (realtà economica e realtà sociale).

La governance ambientale presuppone, in chiave di progressiva democratizzazione dei processi decisionali in subiecta materia e nell’ottica del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art., 118, quarto comma, Cost., necessità di visione comune intorno ad un problema, con il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati per raggiungere risultati migliori.

Ora, se si considera: da un lato, che la garanzia di un ambiente salubre costituisce condizione preliminare (e fondamentale) per consentire altresì un adeguato livello di tutela della salute pubblica; dall’altro lato, che lo stesso art. 217 TUS è sì preordinato al controllo della stessa salute pubblica ma, ancora più a monte, alla prevenzione o alla gestione di gravi fenomeni di inquinamento (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 2 ottobre 1985, n. 8465), ecco che ben può riconoscersi ad un comitato come quello in esame la legittimazione ad agire nella direzione sopra indicata.


T.A.R.

Puglia - Lecce

Sezione I

Sentenza 7 luglio 2009, n. 1786

N. 01786/2009 REG.SEN.
N. 00738/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 738 del 2009, proposto da:

Comitato Cittadino Referendario per la Tutela della Salute e del Lavoro Taranto Futura, rappresentato e difeso dall'avv. Nicola Russo, con domicilio eletto presso Tar Segreteria in Lecce, via F.Sco Rubichi 23;

contro

Comune di Taranto, non costituito;

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

del silenzio rifiuto del Sindaco del Comune di Taranto formatosi in ordine all'atto di significazione e diffida notificato il 30/10/2008, inerente la mancata adozione, ai sensi degli artt. 50 e 54 del decreto legislativo 267/2000, di ordinanze contingibili ed urgenti, al fine di prevenire, limitare ed eliminare i gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e, quindi, la salute dei cittadini, ma, soprattutto, al fine di evitare ulteriori gravi danni in materia ambientale, di sicurezza alimentare ovvero in materia igienico - sanitaria;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 03/06/2009 il dott. Massimo Santini e uditi per le parti l’Avv. Russo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO

Con istanza in data 30 ottobre 2008, il ricorrente comitato cittadino chiedeva al Sindaco del Comune di Taranto l’adozione di ogni atto utile ad evitare la grave situazione sanitaria dovuta all’inquinamento ambientale proveniente, in prevalenza, da lavorazioni di tipo industriali.

Dinanzi all’inerzia protratta del Sindaco, il predetto comitato interponeva gravame per la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato, in particolare per violazione del principio comunitario di massima precauzione degli artt. 50 e 54 del TUEL e dell’art. 217 del testo unico leggi sanitarie (TUS) e del conseguente obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso.

Alla camera di consiglio del 3 giugno 2009, dopo la precisazione delle conclusioni di parte ricorrente, la causa veniva infine trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Il ricorso è fondato e va accolto nei sensi e per le ragioni che di seguito si esporranno.

2. Circoscritta l’indagine ad una verifica sulla ricorrenza di un obbligo per il Comune di provvedere sulla domanda di parte ricorrente (atteso che non è possibile invocare in questa sede un giudizio circa la fondatezza della pretesa parallelamente azionata, e ciò per l’ampia discrezionalità di cui è intriso, come si vedrà, il potere amministrativo che si intende attivare) l’esame del Tribunale dovrà quindi articolarsi in due momenti:

a) appurare se effettivamente ricorra nel caso in esame un comportamento inerte della p.a.;

b) verificare che lo stesso non sia giustificato dalla manifesta infondatezza dell’istanza predetta: unico limite che la giurisprudenza ravvisa all’obbligo di provvedere dell’Amministrazione, infatti, è quello della manifesta infondatezza – o assurdità, genericità, etc. – della pretesa del privato.

2.1 Quanto al punto sub a) deve rilevarsi come, a fronte dell’istanza notificatagli dal comitato ricorrente il 30 ottobre 2008, non risulta che il Comune abbia mai adottato al riguardo alcun provvedimento.

2.2 Quanto al punto sub b), il giudizio di non manifesta infondatezza si svolgerà invece attraverso l’analisi di tre particolari profili: a) l’esistenza di uno specifico “potere amministrativo” in capo al Comune onde intervenire nel senso indicato; b) la sussistenza di “legittimazione” in capo al comitato ricorrente al fine di poter invocare l’esercizio di siffatto potere; c) la sussistenza – sebbene in chiave latamente intesa – dei “presupposti” per l’esercizio del potere stesso.

3. In ordine al primo aspetto va subito detto che l’esistenza di uno specifico “potere amministrativo” in capo al Comune deve essere riconducibile non al potere di ordinanza di cui agli artt. 50 e 54 del TUEL quanto, piuttosto, all’art. 217 del testo unico leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265 del 1934. Il ricorso al suddetto potere di ordinanza è infatti ammesso nei soli casi in cui non è possibile attivare le normali procedure, qui ancora esperibili per mancanza di indizi di segno contrario.

Ebbene, a norma del citato art. 217 “quando vapori, gas o altre esalazioni … provenienti da manifatture o fabbriche, possono riuscire di pericolo o di danno per la salute pubblica, il podestà (oggi il sindaco, ovviamente) prescrive le norme da applicare per prevenire o impedire il danno”.

Il sindaco agisce in questa veste quale autorità sanitaria locale chiamato ad esercitare poteri-doveri di controllo a tutela dell’ambiente e della salute pubblica, anche in caso di persistente inerzia dei competenti organismi regionali e statali nelle suddette materie: dunque, l’oggetto proprio dell’istanza di cui si chiede in questa sede l’adempimento.

Ai sensi degli art. 216 e 217 t.u. 27 luglio 1934 n. 1265, il sindaco è infatti titolare di un generale potere di vigilanza sulle industrie insalubri e pericolose che può anche concretarsi nella prescrizione di accorgimenti relativi allo svolgimento dell'attività, volti a prevenire, a tutela dell'igiene e della salute pubblica, situazioni di inquinamento, e tale potere è ampiamente discrezionale ed esercitabile in qualsiasi tempo, sia nel momento in cui è richiesta l'attivazione dell'impianto, sia in epoca successiva (T.A.R. Veneto, sez. II, 16 dicembre 1997, n. 1754).

Presupposto per l’esercizio di siffatto potere è la sussistenza di un concreto pericolo per l’ambiente e dunque per la salute pubblica, da valutare complessivamente a seguito di attenta ed approfondita istruttoria, e dunque previa consultazione ed avviso degli organismi competenti in materia sanitaria ed ambientale (ASL, ARPA, etc.), nei sensi ed alle condizioni previste dall’art. 16 della legge n. 241 del 1990.

Si sottolinea ancora come tale potere, il cui mancato esercizio in presenza dei prescritti presupposti (fenomeni di grave inquinamento ambientale e conseguente pericolo per la salute pubblica) determina tra l’altro i reati di danneggiamento e di omissione di atti d’ufficio ai sensi dell’art. 328, comma 1, c.p., sia tuttora esercitabile – per quieta giurisprudenza (T.A.R. Liguria, sez. I, 8 marzo 1996, n. 68; Cons. Stato, sez. V, 29 ottobre 1992, n. 1080) – anche in presenza di norme specifiche in materia di inquinamento come ad esempio il d.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 (cfr. T.A.R. Piemonte, sez. II, 5 febbraio 1998 , n. 37).

Da quanto sopra detto deriva dunque la sussistenza del primo requisito (sussistenza di potere amministrativo).

4. Quanto al secondo aspetto, la “legittimazione” del comitato ricorrente a chiedere l’attivazione dei poteri sindacali di cui all’art. 217 TUS può essere ricavata, in primo luogo, dalla lettura dell’art. 3-ter del decreto legislativo n. 152 del 2006 (codice dell’ambiente), come introdotto dal decreto legislativo n. 4 del 2008.

Tale disposizione, rubricata “principio dell’azione ambientale”, prevede infatti che “la tutela dell’ambiente … deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche e private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, del’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente”.

Viene in questo modo consacrato il modello di “governance ambientale”, ossia di un modello di gestione dei beni ambientali non più ispirato al classico modello gerarchico ma ad un nuovo stile di governo diversamente caratterizzato da un maggior grado di cooperazione ed interazione tra poteri pubblici da una parte ed attori non statuali dall’altra parte (realtà economica e realtà sociale).

La governance ambientale presuppone, in chiave di progressiva democratizzazione dei processi decisionali in subiecta materia e nell’ottica del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art., 118, quarto comma, Cost., necessità di visione comune intorno ad un problema, con il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati per raggiungere risultati migliori.

Ora, se si considera: da un lato, che la garanzia di un ambiente salubre costituisce condizione preliminare (e fondamentale) per consentire altresì un adeguato livello di tutela della salute pubblica; dall’altro lato, che lo stesso art. 217 TUS è sì preordinato al controllo della stessa salute pubblica ma, ancora più a monte, alla prevenzione o alla gestione di gravi fenomeni di inquinamento (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 2 ottobre 1985, n. 8465), ecco che ben può riconoscersi ad un comitato come quello in esame la legittimazione ad agire nella direzione sopra indicata.

Alle stesse conclusioni (legittimazione a richiedere un provvedimento espresso) si perviene considerando che la giurisprudenza amministrativa ha tra l’altro riconosciuto l’obbligo di provvedere, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, anche nelle ipotesi in cui l’esercizio del potere amministrativo non richiede – come nella specie (art. 217 TUS) – che il relativo procedimento sia avviato ad iniziativa di parte privata.

Sussistono infatti casi in cui, per ragioni legate alla generale doverosità dell’azione amministrativa, nonché per ragioni di giustizia ed equità, si impone l’adozione di un provvedimento ad istanza di parte anche laddove tale iniziativa non sia prevista espressamente dalla legge (Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7975).

Secondo tale impostazione, “indipendentemente dall’esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione, in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad una esplicita pronuncia”.

Alla luce di quanto appena detto, se si considera anche qui che il suddetto modello di governance ambientale si fonda proprio sulla massima trasparenza dell’azione amministrativa e sulla più ampia partecipazione dei soggetti privati (preferibilmente organizzati mediante enti esponenziali) ai processi decisionali, deve giocoforza convenirsi sulla necessità che gli stessi soggetti privati possano agire, a tutela degli interessi della collettività in materia ambientale e sanitaria, anche mediante la richiesta di attivazione di determinati poteri pubblicistici.

Sussiste dunque per i motivi anzidetti anche il requisito della legittimazione, in capo al comitato ricorrente, a richiedere ed ottenere un provvedimento espresso in merito alla problematiche specificamente sollevate.

5. Quanto al terzo ed ultimo aspetto, la sussistenza dei “presupposti” – sebbene da intendersi in senso lato – può ben essere ricondotta alle analisi compiute da plurimi e qualificati organismi pubblici in materia sanitaria ed ambientale (ARPA, ASL di Brindisi, Lecce e Taranto, nonché Università di Bari) e prodotte nel presente giudizio: al riguardo sono stati forniti dati piuttosto allarmanti, costituiti in sostanza dalla presenza di patologie legate alla particolare incidenza di fattori di origine per l’appunto industriale.

Ciò non può che costituire, ovviamente, base di iniziale riflessione per l’attività che l’autorità comunale è chiamata nella specie ad esercitare, senza per questo precludere alla stessa la possibilità di attivare ulteriori canali istituzionali di consultazione a carattere tecnico-scientifico, nell’obiettivo condiviso di giungere ad una seria ed approfondita istruttoria.

6. Sulla scorta di questo sopra esposto, e nei sensi appena precisati, il presente ricorso merita dunque accoglimento, sebbene limitatamente al solo obbligo di provvedere, conseguendone l’ordine alla Amministrazione intimata di provvedere espressamente sull’istanza del comitato ricorrente, secondo quanto appena precisato, nel termine di giorni 90 dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza.

Le spese di giudizio vanno poste a carico dell’amministrazione soccombente e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Lecce, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 738/2009 indicato in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto assegna al Comune di Taranto il termine di 90 giorni, decorrente dalla comunicazione/notificazione della presente sentenza, per concludere con atto espresso il procedimento relativo alla diffida presentata dal comitato ricorrente il 30 ottobre 2008.

Liquida le spese di giudizio in euro 750 (settecentocinquanta), oltre IVA e CPA, da porre a carico dell’amministrazione soccombente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 03/06/2009 con l'intervento dei Magistrati:

Aldo Ravalli, Presidente

Carlo Dibello, Referendario

Massimo Santini, Referendario, Estensore

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 07/07/2009

lunedì 19 ottobre 2009

Avvocati, antiriciclaggio ed obblighi

Consiglio Nazionale Forense, circolare 15.10.2009 n° 24

Esatta delimitazione degli obblighi gravanti sui Consigli dell'ordine in attuazione della "Terza direttiva antiriciclaggio", in relazione al decreto legislativo correttivo della vigente normativa primaria in materia di obblighi antiriciclaggio (D.lgs. 21 novembre 2007, n. 231) che è in corso di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.



CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, CIRCOLARE 15 OTTOBRE 2009, N. 24

OGGETTO: normativa antiriciclaggio ed obblighi degli ordini professionali

Cari Presidenti,

è in corso di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo correttivo della vigente normativa primaria in materia di obblighi antiriciclaggio (decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, recante 'Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione", pubblicato il 14 dicembre 2007 in Gazzetta Ufficiale - Serie Generale n. 290 - Suppl. Ordinario n. 268).

In occasione del decreto correttivo, il legislatore ha precisato, a proposito dell'obbligo di informazione dell'UE7 in relazione alle eventuali violazioni della normativa di cui si abbia notizia, che tale obbligo grava sugli ordini "nell'ambito dell'esercizio delle loro funzioni istituzionali". Prendendo spunto da tale innovazione normativa, l'Ufficio studi del Consiglio nazionale ha elaborato un approfondimento relativo proprio alla esatta delimitazione degli obblighi gravanti sui Consigli dell'ordine, in attuazione della "Terza direttiva antiriciclaggio".

Si ritiene pertanto di fare cosa utile inviando il predetto approfondimento a tutti i Consigli dell'ordine, quale contributo per una più precisa comprensione della normativa in oggetto, anche al fine di favorire prassi applicative aderenti al dettato normativo e possibilmente omogenee sul territorio nazionale.

Con i più cordiali saluti,

Avv. Prof. Guido Alpa

ANTIRICICLAGGIO E OBBLIGHI DEGLI ORDINI PROFESSIONALI *

* In corso di stampa nella rivista Rassegna forense.

Sommario: 1. I nuovi obblighi in capo agli ordini professionali. La funzione di controllo. 2. L'effettiva portata delia funzione di controllo. 3. Modulazione degli obblighi in relazione allo svolgimento della funzione di "filtro ". 4. Conclusioni.

1. I nuovi obblighi in capo agli ordini professionali. La funzione di controllo.

Una delle significative novità della terza direttiva antiriciclaggio e della correlata normativa di recepimento consiste nella introduzione di prescrizioni che si traducono in altrettanti obblighi in capo agli ordini professionali, accanto alla ridefinizione dei doveri che gravano sugli iscritti negli albi professionali. Tra tali nuovi obblighi, particolare preoccupazione ha suscitato l'introduzione di un generale obbligo di vigilanza degli ordini nei confronti degli iscritti, con riferimento al rispetto, da parte di questi ultimi, degli obblighi posti dalla normativa antiriciclaggio. L'art. 8, comma 1, d. lgsl. n. 231 del 2007 dispone infatti che: "Il Ministero della giustizia esercita l'alta vigilanza sui collegi e gli ordini professionali competenti, in relazione ai compiti di cui al presente comma. I collegi e gli ordini professionali competenti, secondo i principi e le modalità previste dall'ordinamento vigente, promuovono e controllano l'osservanza da parte dei professionisti (...) degli obblighi stabiliti dal presente decreto". Ci si è chiesti in particolare in quale modo gli ordini possano controllare l'osservanza degli obblighi da parte dei professionisti, posto che la normativa non conferisce agli stessi ordini particolari poteri ispettivi o di indagine. A dire il vero l'art. 37 della Direttiva 2005/60/CE impone agli Stati membri di assicurare alle Autorità competenti adeguati poteri e risorse per lo svolgimento della funzione di controllo sull'osservanza, da parte dei destinatari della normativa, degli obblighi antiriciclaggio. La disposizione peraltro, attribuisce ai Paesi membri, in sede di recepimento, la facoltà di consentire che le funzioni di vigilanza siano assolte da organismi di autoregolamentazione, purché ad essi siano attribuiti i poteri e le risorse adeguati per l'effettivo svolgimento di tali funzioni (par. 5).

Il richiamo all'impianto ordinamentale vigente operato dal citato art. 8 conduce a ritenere che il suddetto obbligo possa essere inteso probabilmente come una specificazione concreta della generale funzione di vigilanza volta appunto a garantire "il corretto esercizio della professione a tutela dell'affidamento della collettività"1 e non attribuisca nuovi particolari poteri. Una più chiara individuazione della effettiva portata dell'obbligo di controllo non può peraltro prescindere da una interpretazione sistematica di tale disposizione, in necessaria correlazione con le altre disposizioni del decreto legislativo che prevedono compiti in capo agli ordini professionali.

L'art. 9, comma 1 introduce l'obbligo di osservare il segreto d'ufficio: "Tutte le informazioni in possesso (...) degli ordini professionali e degli altri organi di cui all'articolo 8, relative all'attuazione del presente decreto, sono coperte dal segreto d'ufficio anche nei confronti della pubblica amministrazione. Sono fatti salvi i casi di comunicazione espressamente previsti dalla legislazione vigente. Il segreto non può essere opposto all'autorità giudiziaria quando le informazioni richieste siano necessarie per le indagini o i procedimenti relativi a violazioni sanzionate penalmente".

L'art. 9, comma 5 dispone che "Le amministrazioni interessate e gli ordini professionali forniscono alla UIF le informazioni e le altre forme di collaborazione richieste". L'art. 9, comma 6 dispone che "...gli ordini professionali informano la UIF delle ipotesi di omissione delle segnalazioni di operazioni sospette e di ogni fatto che potrebbe essere

correlato a riciclaggio o finanziamento del terrorismo, rilevate nei confronti dei soggetti di cui agli articoli 10, comma 2, 11, 12, 13 e 14".

L'art. 54, comma 1 prevede che "I destinatari degli obblighi e gli ordini professionali adottano misure di adeguata formazione del personale e dei collaboratori al fine della corretta applicazione delle disposizioni del presente decreto"2.

2. L'effettiva portata della funzione di controllo.

Ai fini del corretto inquadramento delle funzioni assegnate agli ordini nella terza direttiva antiriciclaggio occorre innanzi tutto rilevare che il grado di coinvolgimento degli ordini professionali (per lo più indicati nel testo della direttiva con il riferimento a "organismi di autoregolazione") è dalla direttiva costruito con una certa elasticità, lasciando gli Stati membri liberi di conformare la propria legislazione interna di recepimento nel modo ritenuto più opportuno. Il che appare coerente con le dinamiche proprie di tale modo di produzione del diritto comunitario, considerato che, tranne il particolare caso di direttive self executing, le direttive impegnano appunto gli Stati con riferimento alle finalità complessive della disciplina, lasciando alla fonte interna la scelta dei mezzi più opportuni per realizzare quelle finalità. Nel caso di specie la discrezionalità del legislatore nazionale si presenta dotata di un'ampia latitudine: basti pensare che è rimessa alla decisione dello Stato membro anche la individuazione della autorità destinataria delle segnalazioni operate dai professionisti. Questa autorità può essere infatti sia l'autorità nazionale preposta alla cura del settore (in Italia la Unità di informazione finanziaria presso la Banca d'Italia - UIF - che ha ereditato le funzioni già proprie dell'Ufficio italiano cambi), sia il proprio ordine professionale. Dal combinato disposto degli artt. 22 e 23 della direttiva, emerge infatti come il soggetto destinatario della segnalazione di operazione sospetta sia di norma l'UIF, ma in deroga a tale regola lo Stato membro può prevedere che destinatario dell'informazione sia l'organismo di autoregolazione delle varie categorie professionali. Il legislatore italiano, nel recepire tale disposizione, ha in qualche modo confermato la flessibilità della soluzione sul punto adottata, riservando ad una fonte subordinata l'individuazione degli "ordini professionali che possono ricevere (...) la segnalazione di operazione sospetta dai propri iscritti". Un decreto del Ministro dell'economia, di concerto con il Ministro della giustizia, opera tale scelta, che deve ritenersi subordinata al consenso dell'ordine professionale considerato. Allo stato attuale, solo il Consiglio nazionale del notariato, sulla base di una espressa manifestazione di volontà in tal senso, è stato autorizzato a ricevere le segnalazioni dei propri iscritti3.

Con ciò si vuole segnalare che la misura del coinvolgimento degli ordini professionali interessati dalla disciplina antiriciclaggio può essere diversa, e che dunque gli obblighi previsti dal decreto legislativo n. 231 del 2007 in capo agli ordini possono conseguentemente diversificarsi, in correlazione con il grado di coinvolgimento di cui si è fatto cenno. Potremmo cioè distinguere tra obblighi che gravano comunque in capo agli ordini professionali, ed obblighi che invece gravano solo su alcuni di essi, in relazione allo svolgimento o meno della funzione di "filtro" da questi assunta (intendendo con l'espressione atecnica "filtro" riferirci al potere-dovere dell'ordine di ricevere la segnalazione e di trasmetterla all'UIF senza ritardo, privata del nome del segnalante).

Come si è accentato, nella formulazione dell'art. 8, comma 1, d. lgsl. cit., il richiamo all'impianto ordinamentale vigente lascia intendere che il suddetto obbligo possa essere letto come una specificazione concreta della generale funzione di vigilanza disciplinare. In altre parole, gli ordini "promuovono e controllano" l'osservanza degli obblighi antiriciclaggio nell'ambito delle attribuzioni già previste dall'ordinamento, non essendone qui previste dellealtre, e pertanto il richiamo all'ordinamento vigente non può che condurci a ritenere che tali funzioni siano da inquadrarsi nel più generale potere di vigilanza dell'ordine sull'iscritto, e dunque risolversi nella potestà disciplinare. Se, nell'ambito dei propri poteri di cognizione esercitati nel quadro del controllo disciplinare, emerge a carico di un iscritto una violazione di un obbligo previsto dalla normativa antiriciclaggio, l'ordine dovrà tenerne conto nelle comminazione di eventuali sanzioni, atteso che la responsabilità disciplinare è collegata dall'ordinamento alla violazione di ogni dovere professionale, abbia esso fonte nella legge o nel codice deontologico. A tale norma si collega strettamente l'obbligo di informare l'UIF di eventuali omissioni di segnalazione. L'art. 9, comma 6 dispone infatti che "...gli ordini professionali informano la UIF delle ipotesi di omissione delle segnalazioni di operazioni sospette e di ogni fatto che potrebbe essere correlato a riciclaggio o finanziamento del terrorismo, rilevate nei confronti dei soggetti di cui agli articoli 10, comma 2, 11, 12, 13 e 14". Ove l'ordine, nell'ambito dell'esercizio della funzione disciplinare, dovesse rilevare un'ipotesi di omissione di segnalazione a carico di un iscritto, sarebbe certamente tenuto ad informarne l'UIF. Tale previsione appare una necessaria specificazione del generale obbligo di collaborazione con l'UIF: l'art. 9, comma 5 dispone che "Le amministrazioni interessate e gli ordini professionali forniscono alla UIF le informazioni e le altre forme di collaborazione richieste". A conferma dell'interpretazione qui offerta, si segnala che, in sede di adozione del decreto legislativo correttivo del d. lgsl. n. 231 del 2007, il legislatore ha precisato, a proposito dell'obbligo di informazione dell'UIF in relazione alle eventuali violazioni della normativa di cui si abbia notizia, che tale obbligo grava sugli ordini "nell'ambito dell'esercizio delle loro funzioni istituzionali"4. Tale precisazione era stata peraltro espressamente richiesta dagli ordini professionali, ed in particolare dal Consiglio nazionale forense5.

3. Modulazione degli obblighi in relazione allo svolgimento della funzione di "filtro".

E di tutta evidenza, dunque, che la posizione di soggezione dell'ordine rispetto ai doveri introdotti dalla terza direttiva sia molto diversa a seconda che l'ordine si sia assunto la responsabilità di ricevere le segnalazioni e ritrasmetterle all'UIF, o viceversa abbia preferito evitare tale ruolo di filtro. Nel primo caso possono essere di gran lunga più frequenti le occasioni concrete di collaborazione tra tale ente e l'UIF.

Seguendo la stessa logica, pare doversi necessariamente declinare in termini differenziati l'obbligo di osservare il segreto d'ufficio, che sarà particolarmente significativo e penetrante nel caso in cui l'ordine svolgerà le funzioni di filtro, mentre resterà norma residuale e di occasionale applicazione negli altri casi.

L'art. 9, comma 1 dispone che "Tutte le informazioni in possesso (...) degli ordini professionali e degli altri organi di cui all'articolo 8, relative all'attuazione del presente decreto, sono coperte dal segreto d'ufficio anche nei confronti della pubblica amministrazione. Sono fatti salvi i casi di comunicazione espressamente previsti dalla legislazione vigente. Il segreto non può essere opposto all'autorità giudiziaria quando le informazioni richieste siano necessarie per le indagini o i procedimenti relativi a violazioni sanzionate penalmente".
Anche con riguardo agli obblighi di formazione del personale, la lettera della norma assume una valenza diversa in un contesto di "ordine-filtro" piuttosto che in un diverso contesto. L'art. 54, comma 1 prevede come detto che "I destinatari degli obblighi e gli ordini professionali adottano misure di adeguata formazione del personale e dei collaboratori al fine della corretta applicazione delle disposizioni del presente decreto". È chiaro che ben maggiore rilevanza assume tale obbligo per quegli ordini professionali che, ai sensi di apposito decreto ministeriale, sono chiamati a ricevere le segnalazioni di operazioni sospette e ad inoltrarle all'UIF. In questo caso sarà opportuno costituire in seno all'ente un'apposita unità organizzativa preposta alla ricezione e all'inoltro all'UIF delle segnalazioni; tale unità organizzativa deve potersi avvalere di personale qualificato, oltre che doverosamente tenuto al rispetto del segreto d'ufficio.

Da ultimo, anche l'obbligo di fornire "dati statistici ed informazioni sulle attività rispettivamente svolte nell'anno solare precedente" entro il 30 marzo di ogni anno (art. 5, comma 3) deve essere letto alla luce dell'interpretazione sistematica qui offerta: l'obbligo assume particolare pregnanza per l'ordine che raccoglie le segnalazioni e le inoltra all'UIF, accumulando pertanto un certo bagaglio informativo, mentre la situazione appare assai diversa per l'ordine che non svolga la funzione di "filtro" (allo stato, sia il Consiglio nazionale forense che il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili). In questo secondo caso l'obbligo di informazione non può ritenersi di per sé inesistente, ma è chiaro che riguardando solo gli elementi eventualmente acquisiti nel corso della funzione disciplinare, potrà essere nei fatti inattuabile, nel senso che potrà certamente capitare che nell'ambito dell'esercizio della funzione disciplinare nel corso dell'anno precedente non vi siano occasioni di rilevare violazioni della normativa antiriciclaggio. Lo conferma anche la specificazione, contenuta nell'art. 5, comma 3, lett. b, del tipo di dati richiesti: "...il numero di segnalazioni...ed il seguito dato a tali segnalazioni, il numero di casi investigati, di persone perseguite, di persone condannate per reati di riciclaggio...e gli importi dei beni congelati, sequestrati o confiscati...". Si tratta di dati che difficilmente possono entrare nel bagaglio di conoscenze dell'ordine professionale, a meno che questo non svolga una funzione di "filtro" (ma anche in questo caso si può dubitare della pratica applicabilità della fattispecie, essendo i dati richiesti tipico oggetto di indagini ed investigazioni compiute da Guardia di Finanza e DIA). Nel caso del "numero di segnalazioni" è ovvio che l'ordine che non svolga il ruolo di filtro non potrà mai entrare in possesso di elementi di conoscenza. A conferma delle indicazioni qui prospettate, appare opportuno richiamare il citato art. 37 della direttiva. Sotto questo profilo non vi è dubbio che il legislatore italiano non abbia recepito pienamente le disposizioni comunitarie, laddove queste, nel consentire agli Stati di includere gli ordini tra le autorità di vigilanza e controllo, ha comunque imposto che in questo caso "Gli Stati membri assicurano che le autorità competenti dispongano di poteri adeguati, compresa la facoltà di esigere la comunicazione di ogni informazione pertinente per il controllo dell'osservanza degli obblighi prescritti e di effettuare verifiche, e siano dotate di risorse adeguate per l'assolvimento delle loro funzioni" (art, 37 comma 2).

Né può in alcun modo ritenersi che i "poteri adeguati" possano essere desunti da un'interpretazione evolutiva dell'art. 8, comma 1, secondo il quale, come detto, i collegi e gli ordini promuovono e controllano l'osservanza degli obblighi da parte dei professionisti. Poteri del genere dovrebbero essere specificamente e tassativamente descritti dal legislatore, a meno di non violare manifestamente il principio di legalità. A fronte di questi poteri infatti sussistono posizioni giuridiche di diritto soggettivo che mai possono essere limitate se non in virtù di una espressa disposizione, di talché un'eventuale violazione di tale basilare regola finirebbe per tradursi nella violazione del diritto di esercitare liberamente la professione. Pare piuttosto che il legislatore italiano si sia volutamente mosso nella opposta direzione, escludendo il conferimento in capo agli ordini di particolari e nuove specifiche funzioni ispettive o di controllo, con il già commentato richiamo ai principi ed alle modalità previste dall'ordinamento vigente.

4. Conclusioni.

In conclusione, pare doversi dire in termini generali che gli obblighi previsti dalla vigente disciplina antinciclaggio assumono consistenza diversa a seconda dello svolgimento o meno, da parte dell'ordine, della funzione di ricezione delle segnalazioni e di inoltro all'UIF delle stesse.

Per ciò che concerne la mancata attribuzione di specifici poteri ispettivi in capo all'ordine, la stessa è da intendersi connessa funzionalmente con la riconduzione della generica funzione di controllo dell'ordine in materia di obblighi antiriciclaggio al contesto della vigilanza disciplinare. L'art. 8. comma 1, d. lgsl. cit., deve pertanto ritenersi attuabile solo nei limiti riferiti, e comunque al di fuori di ogni previsione di attribuzione di ulteriori poteri ispettivi, informativi e di controllo. Per ciò che concerne l'art. 5, comma 3, D. lgsl., cit., l'obbligo di informazione ivi previsto deve ritenersi concretamente operante soprattutto per gli ordini che hanno assunto la funzione di "filtro" delle segnalazioni, mentre nel caso del Consiglio nazionale forense e del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili lo stesso non può trovare applicazione, considerato il peculiare oggetto dell'informativa, che presuppone di necessità un ruolo più attivo dell'ente. Tutt'al più, come nel caso dell'art. 8, comma 1, l'obbligo di riferire entro il 30 marzo di ogni anno deve intendersi come ipotesi assolutamente residuale, che vale a coprire i casi in cui, esercitando la funzione disciplinare, l'ordine sia venuto a conoscenza di qualcuno degli elementi indicati nell'art. 5, comma 3. In caso negativo, e cioè mancando in capo ai Consigli nazionali alcun dato da segnalare, è chiaro che l'obbligo di informazione dell'UIF rimane privo di contenuto e dunque inattuabile.

(Giuseppe Colavitti)

_______________

1 Corte costituzionale 24 ottobre - 3 novembre 2005, n. 405.

2 Sebbene la disposizione sembri assumere particolare rilievo per quegli ordini professionali che, ai sensi dell'emanando decreto ministeriale, saranno chiamati a ricevere le segnalazioni di operazioni sospette e ad inoltrarle all'UIF, la formulazione ampia della norma e la presenza, come detto, di obblighi comunque gravanti sugli ordini (a prescindere dalla predetta funzione di ricezione) lascia ritenere che la stessa valga da subito anche per gli ordini forensi.

3 Decreto MEF in data 27 febbraio 2009.

4 L'art. 4 del d. lgsl. recante Modifiche all'articolo 9 del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231) dispone infatti: "1. Ali 'articolo 9, il comma 6 è sostituito dal seguente: "6. Le autorità di vigilanza di settore, le amministrazioni interessate, e gli ordini professionali nell'ambito dell'esercizio delle loro funzioni istituzionali informano la UIF delle ipotesi di violazione delle disposizioni del presente decreto che potrebbero essere correlate a riciclaggio o finanziamento del terrorismo rilevate nei confronti dei soggetti di cui agli articoli 10, comma 2, 11, 12, 13 e 14.".

5 Nell'estate del 2009 il Consiglio nazionale forense ha approvato la proposta di una serie di emendamenti allo "schema del decreto legislativo recante modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, recante attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione, a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 25 gennaio 2006, n. 29" (cfr. Consiglio nazionale forense, Proposta di emendamenti al Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231 - "Antiriciclaggio", Documento approvato dal Consiglio nazionale forense in data 10 luglio 2009, in Rassegna forense, n. 1/2009).

venerdì 16 ottobre 2009

Prova scritta, esame d'avvocato, necessità di ri-correggere la prova scritta con commissione in composizione diversa

T.A.R. - Puglia-Lecce - Sezione I - Ordinanza 9 settembre 2009, n. 710

Applicazione del principio secondo cui il provvedimento negativo di non ammissione alla prova orale dell’esame di avvocato può essere censurato nel caso in cui (giusta parere pro-veritate) emerga un errore valutativo della commissione esaminatrice, specie per quel che concerne la sussistenza di un difetto di coordinamento nella stesura dell’elaborato scritto o l'adeguatezza delle soluzioni prescelte dal candidato oppure per errata valutazione di insufficienza della prova


T.A.R.

Puglia-Lecce

Sezione I

Ordinanza 9 settembre 2009, n. 710

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

Sul ricorso numero di registro generale 1213 del 2009, proposto da:

G. A., rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Meo, con domicilio eletto presso Giovanni Pellegrino in Lecce, via Augusto Imperatore, 16;

contro

Ministero della Giustizia, Sottocommissione Esami Avvocato Presso La Corte D'Appello di Lecce, Sottocommissione Esami Avvocato Presso La Corte D'Appello di Reggio Calabria, rappresentati e difesi dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge in Lecce, via Rubichi;

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

dei provvedimenti di giudizio analitici e sintetici con cui la Sottocommissione distrettuale per gli esami di Avvocato, presso la Corte d'Appello di Reggio Calabria per la sessione 2008/2009, ha valutato insufficienti gli elaborati del ricorrente; nonchè di ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e/o consequenziale, ed in particolare del verbale 18 dicembre 2008 nel quale sono indicati i criteri generali di valutazione che la Commissione Centrale ha fissato e del verbale del 26 febbraio 2009 della Sottocomissione presso la Corte di Appello di Reggio Calabria, nel quale sono riportate le operazioni di correzione degli elaborati del ricorrente;.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Sottocommissione Esami Avvocato Presso La Corte D'Appello di Lecce;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Sottocommissione Esami Avvocato Presso La Corte D'Appello di Reggio Calabria;

Visti gli artt. 19 e 21, u.c., della legge 6 dicembre 1971, n. 1034;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 09/09/2009 il dott. Carlo Dibello e uditi per le parti i difensori avv.ti Francesco Meo e Simona Libertini;

Considerato che i pareri pro veritate allegati dal ricorrente costituiscono indice sintomatico di un errore valutativo della commissione, specie per quel che concerne il ravvisato difetto di coordinamento nella stesura dell’elaborato di diritto civile e la ritenuta inadeguatezza delle soluzioni prescelte dal candidato, oltre che per la valutazione di insufficienza della prova di diritto penale, entrambe decisamente sovvertite dagli autori dei pareri in questione;

P.Q.M.

Accoglie la suindicata domanda cautelare e, per l’effetto, ordina che la commissione giudicatrice effettui il riesame degli elaborati del ricorrente in diversa composizione

La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 09/09/2009 con l'intervento dei Magistrati:

Carlo Dibello, Presidente, Estensore

Massimo Santini, Referendario

Claudia Lattanzi, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 09/09/2009.

giovedì 15 ottobre 2009

Processo Civile, principio di non contestazione di cui all'art. 115, I comma, c.p.c. (riformato con Legge 69/09)

Tribunale di Rovigo - Sezione di staccata di Adria - Sentenza 10 settembre 2009

"Il principio di non contestazione non trova, tuttavia, universale applicazione, ma incontra limiti estrinseci nel corpus codicistico: non è invocabile:
1) nell’ipotesi di contumacia, avendo ritenuto il legislatore di mantenere un atteggiamento agnostico nei confronti della scelta processuale di non costituzione, di per sé considerata neutra ai fini della formazione giudiziale della prova;
2)per i diritti indisponibili;
3)per i contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam, rispetto ai quali la mancanza di forma determina una nullità del contratto rilevabile d’ufficio (art. 1421 c.c.)."



Tribunale di Rovigo

Sezione di staccata di Adria

Sentenza 10 settembre 2009

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Condominio Girasole ha agito al fine di veder accertata una servitù “pedonale e carrabile, di larghezza pari 4 m. di cui 2 gravanti sul fondo di proprietà del Condominio Girasole e altri 2 gravanti sul fondo di proprietà” attorea, asserendo che si tratterebbe di una “servitù comune” e conseguentemente la condanna alla rimozione dei paletti, catenelle e posti auto posizionati sull’area di proprietà attorea, oltre al risarcimento del danno subito.

Non ha tempestivamente allegato, tuttavia, il fatto costitutivo del diritto: né l’usucapione, né la destinazione di padre di famiglia, né il contratto o il provvedimento giudiziale.

Il convenuto “Condominio Luciana”, da parte sua, con laconico e tardivo atto di costituzione si è limitato ad affermare l’intervenuta usucapione (in via di eccezione) dei “manufatti” posizionati “sul passaggio comune”; i singoli condomini sono rimasti contumaci.

Nella memoria istruttoria parte attrice ha prodotto un atto di compravendita del 30 agosto 1972; parte convenuta costituita ha contestato formalmente l’esistenza della servitù e ha prodotto atto di compravendita del 12 dicembre 1968.

L’attività istruttoria ha acclarato che i paletti, le catenelle e ciò che era stato apposto sull’area in contestazione – poi rimosso dal “Condominio Luciana” durante il processo - non erano in loco da oltre vent’anni, ma erano state posizionate nel 1995 (teste P. S. e G. A.).

L’eccezione di usucapione deve pertanto essere respinta.

Sulla base del principio di non contestazione l’attore ritiene che le domande attore siano meritevoli di accoglimento; parte convenuta costituita ritiene al contrario che l’onere probatorio gravante sulla controparte non sia stato assolto.

Ritiene il Giudice opportuno lasciar traccia di alcune precisazioni di natura processuale, non sono sterili dissertazioni stilistiche, ma canoni ermeneutici utili alla decisione della controversia.

Innanzi tutto è dato incontrovertibile della più recente giurisprudenza (a decorrere dalla nota sentenza a Sezioni Unite della Suprema Corte, n. 761/2002) che il principio di non contestazione – che trova la sua fonte nel dovere di probità processuale (art. 88 c.p.c.), di semplificazione ed economia del processo, nel rispetto del giusto processo (art. 111 Cost.) e di auto responsabilità delle parti (art. 167, I comma c.p.c.) - rappresenti un incontrovertibile pilastro del processo civile.

Nella recente riforma del codice di rito esso è stato canonizzato nell’art. 115, I comma c.p.c.

Il principio di non contestazione non trova, tuttavia, universale applicazione, ma incontra limiti estrinseci nel corpus codicistico: non è invocabile nell’ipotesi di contumacia, avendo ritenuto il legislatore di mantenere un atteggiamento agnostico nei confronti della scelta processuale di non costituzione, di per sé considerata neutra ai fini della formazione giudiziale della prova; né lo è per i diritti indisponibili ovvero per i contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam, rispetto ai quali la mancanza di forma determina una nullità del contratto rilevabile d’ufficio (art. 1421 c.c.).

Sulla scorta di quanto detto potrà facilmente evidenziarsi che anche volendo ricorrere al principio sopra enucleato, in nessun caso le domande attoree potrebbero essere accolte, poiché i condomini – titolari passivi della domanda di accertamento dell’esistenza del diritto reale minore e di inibitoria all’utilizzo dell’area – sono rimasti contumaci.

Del pari, volendo assumere la fonte della servitù – tardivamente allegata dalla parte attrice (così come tardivamente contestata dalla parte convenuta costituita) – nel contratto prodotto, dovrà accertarsi che dallo stesso nulla è evincibile attesa la difformità delle parti, dei mappali in oggetto e della natura non costitutiva di una servitù della parte del contratto avente ad oggetto la gestione del bene compravenduto.

Inoltre, se anche la fonte del diritto reale fosse un contratto doveva essere prodotto l’atto negoziale (trascritto) e il principio di non contestazione in alcun modo potrebbe essere invocato per sopperire alla mancata produzione documentale (che, per quanto consta, coincide con la sua inesistenza secondo il noto principio processuale: quod non est in actiis non est in mundo).

Al di là delle doverose precisazioni processuali, resta qualche dubbio a monte sulla prospettazione attorea.

Posto che la servitù costituisce un peso su un fondo a favore di un altro non è configurabile una servitù sul bene di proprietà attorea: non può accertarsi una servitù gravante in parte sul bene del Condominio Girasole e in parte sul bene del Condominio Luciana (in applicazione del generale principio nemine res sua servit).

Più verosimile è che tra i beni di proprietà dei due condomini possa essersi formata una destinazione comune dell’area che ha determinato una comunione tra tutti i proprietari.

Deve altresì accertarsi la cessazione della materia del contendere in riferimento alla domanda di eliminazione dei paletti, catene e quant’altro esistente sull’area di asserita proprietà attorea, posto che quest’ultima ha confermato che è già avvenuta la rimozione.

Per quanto concerne le spese del giudizio, atteso che le domande attoree sono state respinte - ad eccezione di quella per la quale è cessata la materia del contendere sulla base di un comportamento processuale della parte convenuta che implica un riconoscimento dell’illegittimità delle stesse – e l’eccezione riconvenzionale di usucapione rigettata, si ritiene sussistano giusti motivi per la integrale compensazione.

P.Q.M.

Il Tribunale di Rovigo, sezione Distaccata di Adria, nella persona del Giudice Unico dott. Mauro Martinelli, definitivamente pronunciando nella causa rubricata al n. 425 del Ruolo Generale degli Affari Contenziosi del 2000, ogni diversa domanda, eccezione, istanza o deduzione disattesa o comunque assorbita, così provvede:

1.

RIGETTA la domanda di accertamento dell’esistenza della servitù di passaggio come descritta nell’atto di citazione e di condanna dei convenuti all’utilizzo del passaggio secondo le modalità descritte nel medesimo atto;
2.

DICHIARA cessata la materia del contendere in relazione alla domanda di eliminazione del materiale e manufatto esistente sul “passaggio comune e/o sul fondo attoreo”;
3.

RESPINGE la domanda di risarcimento del danno formulata dalla parte attrice;
4.

RESPINGE l’eccezione riconvenzionale di usucapione;
5.

DICHIARA integralmente compensate le spese del giudizio.

Adria, 10 settembre 2009

IL GIUDICE

Dott. Mauro Martinelli

mercoledì 7 ottobre 2009

Principi di derivazione Comunitaria, applicazione immediata ex art. 1 legge n. 241/1990

Consiglio di Stato , sez. V, sentenza 19.06.2009 n° 4035

" Sulla base dei principi elaborati dalla Sezione e affermati anche nella sentenza impugnata, l'amministrazione è tenuta a privilegiare l'applicazione dei principi -di derivazione comunitaria e costantemente applicati dalla Corte di giustizia europea di concorrenza, di parità di trattamento, di trasparenza, di non discriminazione, di mutuo riconoscimento e proporzionalità.

Tali principi, anche in virtù dell'articolo 1 della legge n. 241 del 1990, non solo si applicano direttamente nel nostro ordinamento, ma debbono informare il comportamento dell'amministrazione, anche quando non è tenuta ad azionare formalmente la procedura dell'evidenza pubblica.

Infatti, il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabili detti principi anche alle concessioni di beni pubblici, ponendo in rilievo che " la sottoposizione ai principi di evidenza trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione di area demaniale si fornisce un'occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai ricordati principi di trasparenza e non discriminazione"(decisione n. 168 del 2005, ma in via generale vedasi anche sez. VI, 15 febbraio 2002 n. 934)."

Consiglio di Stato

Sezione V

Sentenza 19 giugno 2009, n. 4035

Svolgimento del processo

1. Con provvedimento commissariale il SISRI di Lecce ha revocato alla società T. S.p.a. l'assegnazione del suolo di metri quadri 60.800 circa, situato nell'agglomerato industriale di Gallipoli.

La società D.L. Costruttori ha chiesto, con istanza del 16 aprile 2007, l'assegnazione del lotto, suo tempo assegnato alla T. S.p.a., dichiarandosi disponibile ad acquistare le opere realizzate dalla precedente assegnataria.

Il consorzio formulava le condizioni per l'assegnazione, ma la società D.L., con nota dell'8 maggio 2007, proponeva, senza espressamente rinunciare all'assegnazione del suolo, l'avvio di una procedura di finanza di progetto per la realizzazione di rustici industriali, chiedendo altresì espressamente, " alla luce di tale intenzione, la proroga temporale per ogni decisione, finalizzata all'inserimento del progetto nella Vs programmazione e all'elaborazione secondo il disposto dell'articolo 153 del decreto legislativo n. 163 2006, della ns proposta".

Il consorzio, con nota n. 1308 del 16 maggio 2007, ha comunicato all'impresa: "La proposta da voi formulata prevede realisticamente la possibilità di valorizzare i manufatti insistenti sull'area de qua prospettandone il pressoché totale utilizzo", precisando che, essendo la richiesta "subordinata, da parte di questo ente, alla concessione da voi invocata di una proroga temporale per ogni decisione, finalizzata all'inserimento del progetto della vostra programmazione e all'elaborazione secondo il disposto dell'articolo 153 del decreto legislativo n. 163 del 2006, per la nostra proposta, sono a chiedere in via preliminare a qualsiasi altro discorso la disponibilità da parte vostra a voler corrispondere per nostro nome e conto al precedente concessionario, la citata somma di Euro 197.932,12".

Con nota del 22 maggio 2007, la società D.L. ha accettato espressamente la richiesta di anticipazione della somma richiesta.

Con deliberazione n. 98 del 16 maggio 2007, il consorzio ha chiesto parere al proprio legale di fiducia in ordine alla proposta di finanza di progetto presentata dalla società D.L. e, con deliberazione n. 102 del 22 maggio 2007, il progetto, redatto dalla ditta D.L., veniva inserito dal consorzio SISRI medesimo nel proprio Programma triennale delle opere pubbliche.

2. Con nota 1576 del 14 giugno 2007, il consorzio ha comunicato alla società D.L. che "non si ritiene più interessato alla procedura di progetto di finanza, pur in presenza di un pregevole puntuale parere legale che ne ha illustrato gli aspetti positivi, in quanto è stata ritenuta favorevole per il consorzio e quindi meritevole di valutazione, la richiesta di assegnazione del suolo ex T.", presentata da altro soggetto.

Pertanto, il consorzio, con autorizzazione n. 159 del 14 giugno 2007, ha aderito alla proposta delle società D. Srl e M.C. S.n.c., che avevano offerto una maggiorazione in danaro del 20% sul prezzo di assegnazione, assegnando loro il lotto, con deliberazione n. 121 del 19 giugno 2007.

3. La società D.L. Costruttori ha, quindi, proposto ricorso innanzi al Tar Puglia per l'annullamento dei provvedimenti di assegnazione dei suoli alla società D. e M.C., espressamente prospettando il duplice interesse alla prosecuzione della procedura di finanza di progetto e in alternativa all'assegnazione dei suoli, cui asseriva di non aver mai rinunciato.

4. Durante la fase cautelare del giudizio, la società D.L., con nota del 24 luglio 2007, aveva presentato al consorzio, nell'eventualità dell' accoglimento dell'istanza cautelare, di essere ancora interessato all'opzione dell'assegnazione del lotto.

Il commissario straordinario del consorzio, con deliberazione n. 162 del 7 agosto 2007, dando esecuzione all'ordinanza del TAR n. 744 del 2007, ha deliberato nuovamente l'assegnazione in favore di D. e di M.C..

La società D.L. Costruttori ha proposto motivi aggiunti per l'annullamento anche di tale deliberazione.

5. Il TAR per la Puglia, con la sentenza ora impugnata, ha accolto il ricorso incidentale proposto dalle società D. e M.C., ha dichiarato l'improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse del ricorso originario e ha accolto il ricorso per motivi aggiunti.

6. Propongono ora appello le società D. Srl e M.C. S.n.c., deducendo un unico articolato motivo, che si sostanzia in ciò, che il consorzio era libero di assegnare ad altri il suolo e di valutare, nel contempo, la possibilità di avviare una procedura di finanza di progetto.

La società D.L. Costruttori ha presentato controricorso, con appello incidentale, deducendo l'erroneità della sentenza, laddove ha ritenuto illegittima la scelta della procedura di finanza di progetto e laddove ha rigettato la richiesta risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale.

7. La causa è stata trattenuta in decisione all'udienza del 20 marzo 2009.

Motivi della decisione

1. L'appello principale non è fondato.

2.1 La fattispecie che viene all'esame del collegio diverge da quelle sulle quali si è formata la giurisprudenza giustamente seguita dal primo giudice e che ora si intende riaffermare.

Infatti, come si ricava agevolmente dalle circostanziate premesse in fatto, nel caso di specie quel che viene imputato all'amministrazione non è l'omessa pubblicità o il mancato avvio della procedura dell'evidenza pubblica per l'assegnazione del terreno in questione oppure la mancata preferenza del concessionario precedente a parità di condizioni (Cons. St. VI, 25 gennaio 2005 n. 168; V, 31 maggio 2007 n. 2825). Si tratta, invece, del caso in cui l'amministrazione, dopo aver portato avanti le trattative per l'assegnazione della consistenza patrimoniale, ha deciso, a fronte di un'offerta più conveniente, di emanare la concessione a favore dell' impresa appellante principale, senza darsi carico delle conseguenze che questo avrebbe comportato sulla situazione soggettiva dell'impresa appellante incidentale e sulla validità del provvedimento concessorio; sicché, viene in rilievo il comportamento dell'amministrazione nella sua duplice veste di contraente e di concedente.

2.2 La Sezione osserva che l'amministrazione, nella sua veste di contraente, non ha osservato la regola, valevole anche per i soggetti pubblici, di cui all'art. 1337 del codice civile -secondo cui il contraente si deve comportare secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto laddove ha interrotto la trattativa con l'appellante incidentale senza fornire nessuna giustificazione; sebbene vi sia la prova in atti che quest'ultima era disposta ad accettare le stesse condizioni dell'appellante principale. Sicché, vi è stata da parte dell'amministrazione la lesione dell'affidamento che l'impresa aveva riposto sulla conclusione della negoziazione a suo favore, che poi sarebbe culminato nella stesura del disciplinare integrativo dell'atto di concessione.

2.3 Tuttavia, nel caso di specie, il comportamento dell'amministrazione, laddove non ha tenuto il contegno proprio del buon contraente, ridonda anche sulla validità del provvedimento concessorio.

Infatti, sulla base dei principi elaborati dalla Sezione e affermati anche nella sentenza impugnata, l'amministrazione è tenuta a privilegiare l'applicazione dei principi -di derivazione comunitaria e costantemente applicati dalla Corte di giustizia europea di concorrenza, di parità di trattamento, di trasparenza, di non discriminazione, di mutuo riconoscimento e proporzionalità.

Tali principi, anche in virtù dell'articolo 1 della legge n. 241 del 1990, non solo si applicano direttamente nel nostro ordinamento, ma debbono informare il comportamento dell'amministrazione, anche quando non è tenuta ad azionare formalmente la procedura dell'evidenza pubblica.

Infatti, il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabili detti principi anche alle concessioni di beni pubblici, ponendo in rilievo che " la sottoposizione ai principi di evidenza trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione di area demaniale si fornisce un'occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai ricordati principi di trasparenza e non discriminazione"(decisione n. 168 del 2005, ma in via generale vedasi anche sez. VI, 15 febbraio 2002 n. 934).

2.4 Venendo al ricorso principale proposto, risulta evidente, sulla base delle indicate premesse in fatto e della documentazione ivi passata in rassegna (e comunque presente in atti), che, al di là di quanto statuito dalla sezione in sede cautelare risulta che: nessuna procedura competitiva è stata compiuta; la deliberazione 7 agosto 2007 n. 162 del commissario straordinario non ha dato luogo ad alcuna procedura competitiva in contraddittorio fra i soggetti interessati all'assegnazione del lotto, essendosi limitata a fornire una motivazione ex post a determinazioni già a suo tempo adottate; nessuna valutazione è stata data all'interesse manifestato dall'impresa appellante incidentale alla nota nella quale manifestava la disponibilità ad offrire lo stesso prezzo offerto dalle odierne appellanti principali.

2.5 Va da sé che l'amministrazione aveva l'obbligo di avviare, a fronte di un'offerta per lei più vantaggiosa, una procedura competitiva, sia pure informale, per l'individuazione dell'affidatario acquirente.

3. In conclusione l'appello principale va rigettato e la sentenza va confermata.

4. Il rigetto dell'appello principale comporta l'improcedibilità dell'appello incidentale.

4.1 Infatti, nessuna prova consistente viene addotta per porre in dubbio quanto accertato dal primo giudice circa l'inidoneità del progetto presentato al fine di avviare il procedimento di cui all'articolo 153 del nuovo Codice sui contratti pubblici (decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163). Inoltre, tale alternativa diventa obbiettivamente impraticabile per l'amministrazione, laddove l'accoglimento dell'appello principale rende obbligatoria la prosecuzione del procedimento, sia pure su base competitiva, di assegnazione. Infine, l'alternativa diventa impraticabile a fronte di un'offerta di acquisto più vantaggiosa, anche rispetto alla finanza di progetto, da parte dell'impresa appellante principale.

Da tutto ciò discende l'improcedibilità dell'appello incidentale proposto.

4.2 Parimenti improcedibile diventa la domanda tesa ad ottenere il risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, che pure sussiste.

Infatti la caducazione del provvedimento di assegnazione a favore dell'appellante principale, cui segue l'obbligo per l'amministrazione di avviare il procedimento su basi competitive, costituisce per l'impresa una forma di risarcimento in forma specifica, ai sensi dell'articolo 2058 del codice civile, così come richiamato dall'articolo 7 della legge n. 205 del 2000. Infatti viene conservato integralmente il suo interesse pretensivo, costituito dalla possibilità di diventare assegnataria del bene.

5. Al rigetto dell'appello segue la condanna dell'appellante alle spese di giudizio, che si liquidano in cinquemila euro.

P.Q.M.

il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sezione quinta, definitivamente pronunciando, così provvede:

rigetta l'appello principale e per l'effetto conferma integralmente la sentenza impugnata;

dichiara improcedibile l'appello incidentale.

Condanna la società M.C. e D., in solido tra loro, al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in cinquemila euro, a favore della società D.L. Costruzioni.

Così deciso in Roma, il 20 marzo 2009, nella camera di consiglio composta dai signori:

Presidente Raffaele Carboni

Consigliere G.Paolo Cirillo Est.

Consigliere Marzio Branca

Consigliere Nicola Russo

Consigliere Gabriele Carlotti

giovedì 1 ottobre 2009

S.R.L., il Presidente del Tribunale non ha più il potere di ordinare la convocazione dell’assemblea dei soci

Tribunale di Novara
"il nuovo art. 2479 c.c., in materia di convocazione dell’assemblea da parte dei soci, svolge nelle s.r.l. un ruolo equivalente a quello previsto dall’art. 2367 c.c. nelle s.p.a., che perciò non è suscettibile di applicazione analogica"


Tribunale di Novara
Sezione Civile
Ordinanza 21 aprile 2009, n. 151
(Presidente Delegato dott.sa Vincenza Lanteri)
...omissis...

Il Giudice Istruttore, sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 14 aprile 2009 ed esaminati gli atti, rileva che:

la richiesta di disporre ex art. 2367 c.c. “la convocazione dell’assemblea della società La Santina s.r.l. con il seguente o.d.g.: 1 ) revoca dell’attuale amministratore unico sig.ra Tizia; 2) nomina nuovo amministratore” deve essere rigettata in quanto inammissibile.

Devesi rilevare che la domanda della Cssg s.p.a. si basa su di una errata applicazione analogica, non consentita dalle disposizioni del Codice Civile, dell’art. 2367, comma 2, c.c., dettato in tema di società per azioni, in rapporto ad una società a responsabilità limitata, cioè La S. s.r.l.

La disciplina contenuta nell’art. 2367 c.c. è, infatti, estranea alle s.r.l. in forza della riformulazione dell’art. 2479 c.c. posta in essere a seguito delle modifiche del diritto societario attuate tramite i D.Lgs. nn. 5 e 6 del 17.01.03; in questo modo, tramite il mutamento della precedente disciplina, non solo è stato abrogato il precedente art. 2486 c.c. con conseguente eliminazione di qualsivoglia richiamo alle disposizioni del summenzionato art. 2367, comma 2, c.c. in ambito di s.p.a., ma gli artt. 2479 e 2479-bis, che disciplinano oggi le decisioni dei soci e l’assemblea nelle s.r.l., contengono previsioni autonome ed esaustive relative alle sole s.r.l. che non consentono il ricorso all’applicazione analogica delle norme sulle s.p.a.

Inoltre l’art. 2479 c.c., secondo cui “i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione”, prevede la possibilità di deliberare sugli argomenti proposti da tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale nonché il diritto, strumentale, di convocare l’assemblea, creando un sistema di norme chiuso, riguardanti le sole s.r.l. e nel quale non trova alcuno spazio la possibilità di rinvio alle corrispondenti disposizioni in tema di s.p.a., laddove non espressamente disposto; pertanto il nuovo art. 2479 c.c., in materia di convocazione dell’assemblea da parte dei soci, svolge nelle s.r.l. un ruolo equivalente a quello previsto dall’art. 2367 c.c. nelle s.p.a., che perciò non è suscettibile di applicazione analogica.
P.Q.M.
respinge

il ricorso per convocazione di assemblea depositato in data 6 febbraio 2009 proposto da Cssg s.p.a. e, per l’effetto

condanna

la ricorrente a rifondere a La Santina s.r.l. le spese di causa.

Amministratore locale, Manduria, portata dell'obbligo di astensione alle discussioni ed alle votazioni di delibere

T.A.R.Puglia - Lecce Sezione I - Sentenza 18 luglio 2009, n. 1884

"L’art. 78 del TUEL prevede che "gli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado".
La ratio dell’obbligo di astensione dell’amministratore locale va ricondotta come noto al principio costituzionale dell’imparzialità amministrativa.
La giurisprudenza costante ritiene che siffatto obbligo sussista in tutti i casi in cui i soggetti tenuti alla sua osservanza siano portatori di interessi personali, che possano trovarsi in posizione di conflittualità o anche solo di divergenza rispetto a quello, generale, affidato alle cure dell'organo di cui fanno parte (T.A.R. Sicilia Palermo, sez. II, 22 febbraio 2005, n. 198 T.A.R. Lombardia Brescia, 13 gennaio 2000, n. 7 Consiglio Stato, sez. IV, 25 settembre 1995, n. 755).
Quanto al requisito della correlazione immediata e diretta (cui fa espressamente riferimento la disposizione in parola), la giurisprudenza, che il Collegio condivide, ritiene sufficiente che l’amministratore, o un suo parente o affine fino al quarto grado, sia proprietario di aree oggetto della disciplina urbanistica deliberata (T.A.R. Liguria Genova, 3 giugno 2005, n. 798). "

T.A.R.
Puglia - Lecce
Sezione I
Sentenza 18 luglio 2009, n. 1884
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce - Sezione Prima
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 797 del 2008, proposto da:
X. Srl, rappresentato e difeso dall'avv. Angelo Vantaggiato, con domicilio eletto presso Angelo Vantaggiato in Lecce, via Zanardelli 7;
contro
Comune di Manduria, rappresentato e difeso dall'avv. Gianluigi Pellegrino, con domicilio eletto presso Gianluigi Pellegrino in Lecce, via Augusto Imperatore, 16;
nei confronti di
Coppola Maria Rosaria, non costituita;
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
della delibera di C.C. n.8 del 1.02.08, comunicata il 6.03.08, nella parte in cui il Comune di Manduria, approvando definitivamente la variante al Piano di Recupero dell'edificio tra Vico 1° Y. S.r.l., " limitava" la possibilità della Ricorrente, nell'esercizio della sua attività turistico-ricettiva, di somministrare alimenti e bevande "alle sole persone alloggiate, ai loro ospiti ed a coloro che sono ospitati nella struttura ricettiva", nonchè di ogni altro atto connesso, consequenziale e presupposto;
il provvedimento, prot. n.245/08 del 7.08.08, notificato in data 8.08.08, nella parte in cui il Dirigente dell'Area Tecnica - Servizio Urbanistica e Gestione del Territorio - del Comune di Manduria, rilasciando alla X. S.r.l. il permesso di costruire per il progetto di restauro e risanamento dell'immobile sito tra Vico 1° Y. e via Senatore Lacaita di proprietà della Società X. S.r.l., "limitava" la possibilità della Ricorrente, nell'esercizio della sua attività turistico-ricettiva, di somministrare alimenti e bevande "alle sole persone alloggiate, ai loro ospiti ed a coloro che sono ospitati nella struttura ricettiva in occasioni di manifestazioni e convegni organizzati", nonchè di ogni altro atto connesso, consequenziale e presupposto;.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Manduria;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 03/06/2009 il dott. Massimo Santini e uditi per le parti gli Avv.ti Vantaggiato e Valeria Pellegrino;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
La società ricorrente è proprietaria di un immobile sito in Manduria.
In data 10 agosto 2005 la società stessa presentava progetto di variante al piano di recupero relativo al predetto immobile, al fine di esercitarvi attività turistico-ricettiva, previo mutamento della destinazione d’uso da civile abitazione e struttura commerciale (supermarket) a struttura per l’appunto alberghiera.
Con nota in data 23 febbraio 2006 il responsabile dell’ufficio urbanistico del predetto comune esprimeva parere favorevole al progetto.
Dopo un lungo e travagliato iter, ed a seguito di diverse richieste istruttorie e di chiarimenti forniti dall’interessata, in data 1° febbraio 2008 veniva poi adottata la delibera qui impugnata nella parte in cui, nell’approvare definitivamente il progetto di recupero dell’immobile, limitava tuttavia la possibilità della società ricorrente, nell’esercizio della sua attività turistico-ricettiva, di somministrare alimenti e bevande "alle sole persone alloggiate, ai loro ospiti ed a coloro che sono ospitati nella struttura ricettiva". Nella sostanza, l’amministrazione ha inteso riservare la fruibilità dell’attività di ristorazione, svolta all’interno della struttura alberghiera, ai soli ospiti interni.
La società interponeva dunque ricorso giurisdizionale, in particolare avverso la indicata limitazione, per i seguenti motivi:
a) difetto assoluto di motivazione, nella parte in cui in alcun modo emergono le ragioni di fatto e di diritto che avrebbero indotto l’amministrazione comunale ad introdurre le predetta limitazione. Tale omessa motivazione sussisterebe anche in relazione alla mancata risposta alle osservazioni formulate dalla società ricorrente nel corso del procedimento de quo. L’amministrazione non avrebbe pertanto adeguatamente contemperato i diversi interessi pubblici e privati in giuoco;
b) sviamento di potere nella parte in cui antepone le esigenze della pianificazione commerciale rispetto a quella urbanistica: in altre parole, il rilascio della concessione edilizia sarebbe condizionato da valutazioni estranee ad interessi di natura urbanistico-edilizia;
c) violazione dell’art. 78 del TUEL nella parte in cui il Presidente del Consiglio comunale, la cui consorte si era opposta nel corso del procedimento – mediante memorie partecipative – alla realizzazione della predetta struttura alberghiera a causa del ritenuto aumento del carico urbanistico, non si era dovutamente astenuto dal partecipare alla discussione (lo stesso si era infatti limitato ad astenersi, senza peraltro allontanarsi, dal voto).
Con atto di motivi aggiunto è stato altresì impugnato il permesso di costruire conseguente alla predetta delibera di piano, in quanto recante la stessa limitazione di cui sopra.
Si è costituito in giudizio il Comune di Manduria per richiedere, con articolate difese, il rigetto del gravame. In particolare, è stato fatto presente che: a) la motivazione del provvedimento può essere ricavata dal dibattito consiliare, ove emergerebbe la mancanza di parcheggi; b) la contestata limitazione è dovuta al fatto che nel centro storico di Manduria sono attualmente consentite, dal piano commerciale, due soli esercizi per la somministrazione di alimenti e bevande, peraltro già oggetto di autorizzazione. La motivazione non sarebbe inoltre dovuta per gli atti di pianificazione.
Alla pubblica udienza del 3 giugno 2009 le parti rassegnavano le proprie rispettive conclusioni e la causa veniva infine trattenuta in decisione.
DIRITTO
01. Il ricorso è fondato secondo quanto di seguito esposto.
1. Quanto al difetto di motivazione la censura è senz’altro fondata.
In via preliminare si osserva come sussista sicuramente uno specifico obbligo di motivazione, considerato che la delibera, sebbene avente ad oggetto la pianificazione di secondo livello di una porzione del territorio comunale, è in ogni caso puntuale, ponendo a riferimento un destinatario ben individuabile: essa non possiede dunque carattere generale ed astratto come i documenti di programmazione.
Nel merito si osserva innanzitutto come una limitazione così specifica avrebbe richiesto una motivazione altrettanto specifica e puntuale.
Né può valere al riguardo il richiamo a quanto contenuto nella discussione consiliare, trattandosi di considerazioni che attengono in prevalenza alla dialettica politica. Il tenore delle singole dichiarazioni è infatti marcatamente politico: di conseguenza, ai fini di una loro specifica intelligibilità non può non tenersi conto dell’arena entro cui tali riflessioni vengono svolte.
In ogni caso, pur volendo prendere spunto dalla considerazioni di carattere giuridico-amministrativo eventualmente emerse nella fase del medesimo dibattito, sarebbe stato poi necessario un momento di sintesi e di particolare evidenziazione, all’interno del tessuto ricostruttivo del provvedimento, soprattutto per insopprimibili ragioni di trasparenza: ed infatti il privato, cittadino o impresa che sia, deve avere la possibilità di accedere ad un provvedimento facilmente e immediatamente "leggibile" sul piano dell’iter logico e giuridico che ha portato ad adottare quella determinata decisione: sintesi e leggibilità che tuttavia, in questo caso, difettano palesemente all’interno del provvedimento consiliare impugnato.
In ulteriore analisi, quand’anche si ritenga che la suddetta limitazione sia stata imposta dalla mancanza di parcheggi (oltre che dalle condizioni presenti nel piano commerciale, come si vedrà più avanti), tale elemento ostativo è stato sicuramente valutato, anche a voler considerare i verbali consiliari, in modo del tutto insufficiente, ossia senza fare riferimento all’inesistenza, in concreto, degli standard previsti dalla legge.
Si consideri, anzi, che prima della deliberazione era stato al riguardo espresso un parere tecnico di conformità del progetto presentato, da parte dell’UTC del Comune, sia rispetto NTA del PRG, sia rispetto agli artt. 7, 8 e 9 del DM 1444 del 1968.
Lo stesso parere tecnico, proprio in risposta alla osservazioni della consorte del Presidente del Consiglio comunale (la quale supponeva l’aumento del traffico veicolare per effetto della variante di progetto), aveva infatti osservato che "la nuova destinazione d’uso non comporta incremento di carico urbanistico rispetto a quello previsto nel progetto originario. Anzi con la realizzazione di una struttura per la vendita di prodotti alimentari come nel progetto originario, vi sarebbero stati maggiori volumi di traffico veicolari".
Pertanto, alla luce di tale posizione espressa dall’organo tecnico era quanto mai necessario individuare le ragioni che in concreto avrebbero determinato ad introdurre tale limitazione, proprio perché adottata discostandosi dalla favorevole posizione espressa dell’ufficio tecnico medesimo.
Da una piana lettura del provvedimento consiliare – ma alla stessa conclusione si perverrebbe analizzando i verbali della relativa discussione – si evince al contrario come nessuna indagine circa le ragioni poste a fondamento di tale limitativa deliberazione sia mai stata seriamente compiuta dall’amministrazione.
La asserita mancanza di standards a parcheggio, quand’anche si voglia ammettere quanto riportato in alcuni punti della discussione consiliare, non è stata così adeguatamente dimostrata, soprattutto alla luce del richiamato parere tecnico.
Sussiste dunque la violazione del’art. 3 della legge n. 241 del 1990, sia per difetto assoluto che per insufficienza della motivazione.
Il conclamato difetto di motivazione riguarda anche la violazione della legge regionale n. 56 del 1980, nella parte in cui non sono state fornite adeguate risposte alle osservazioni puntualmente formulate dalla ricorrente in corso di procedimento, nonché la mancata ponderazione con gli interessi privati in giuoco (soprattutto incentrati sul rischio di perdere un cospicuo finanziamento pubblico).
Per le ragioni suddette il motivo di ricorso sintetizzato sub lettera a) deve essere pertanto accolto.
2. Quanto al vizio di eccesso di potere per sviamento ed irrazionalità, anche tale censura merita accoglimento.
Come già detto, la delibera consiliare avrebbe introdotto la contestata limitazione sia per mancanza di sufficienti parcheggi, sia per i vincoli imposti dal piano del commercio, il quale prevede due sole autorizzazioni per la somministrazione di alimenti e bevande al pubblico.
Sussiste in questo caso – come sottolineato dalla difesa di parte ricorrente – una ipotesi di sviamento di potere, dato che gli obiettivi del piano commerciale vengono illogicamente anteposti o meglio vengono (ulteriormente) perseguiti mediante scelte di tipo urbanistico.
Al riguardo si osserva che la giurisprudenza è solita ritenere che i due strumenti di programmazione (urbanistica e commerciale) debbano essere tendenzialmente il frutto di scelte collegate ed integrate, senza tuttavia arrivare ad affermare che le opzioni urbanistiche debbano pedissequamente ricalcare o confermare – in positivo oppure in negativo – scelte già operate in sede di politica economica locale.
Sussiste dunque una ipotesi di sviamento, nel provvedimento di specie, nella parte in cui reca una limitazione che ben può essere riservata alla (diversa) sfera di azione amministrativa in materia di commercio, ossia in sede di autorizzazione commerciale, attraverso la quale poter congruamente perseguire gli obiettivi prefissati.
D’altronde, ciò pone un problema non solo di corretta delimitazione del potere attribuito, e in particolare di competenza esercitata in relazione ad una determinata sfera di interessi pubblici piuttosto che ad un’altra, ma anche di rispetto dei canoni di logicità, razionalità e proporzionalità.
Ed infatti – come correttamente evidenziato dalla difesa di parte ricorrente – una limitazione di questo genere impedirebbe alla stessa struttura, quand’anche un domani si mutasse il piano del commercio, di potere essere diversamente adibita: il che sarebbe illogico ed irrazionale, oltre che sproporzionato.
Del resto non si trascuri la maggiore duttilità di cui è dotato, quanto meno sul piano procedimentale di approvazione, il piano del commercio rispetto a quello urbanistico, sottoposto ad un iter senz’altro più complesso.
Per le ragioni suddette lo specifico motivo di ricorso deve essere accolto, stante l’inserimento di una condizione che, anche sotto tale profilo (vincoli derivanti dal piano commerciale) non aveva motivo di essere introdotta.
3. Anche l’ultimo motivo di ricorso è fondato.
L’art. 78 del TUEL prevede che "gli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado".
La ratio dell’obbligo di astensione dell’amministratore locale va ricondotta come noto al principio costituzionale dell’imparzialità amministrativa.
La giurisprudenza costante ritiene che siffatto obbligo sussista in tutti i casi in cui i soggetti tenuti alla sua osservanza siano portatori di interessi personali, che possano trovarsi in posizione di conflittualità o anche solo di divergenza rispetto a quello, generale, affidato alle cure dell'organo di cui fanno parte (T.A.R. Sicilia Palermo, sez. II, 22 febbraio 2005, n. 198 T.A.R. Lombardia Brescia, 13 gennaio 2000, n. 7 Consiglio Stato, sez. IV, 25 settembre 1995, n. 755).
Quanto al requisito della correlazione immediata e diretta (cui fa espressamente riferimento la disposizione in parola), la giurisprudenza, che il Collegio condivide, ritiene sufficiente che l’amministratore, o un suo parente o affine fino al quarto grado, sia proprietario di aree oggetto della disciplina urbanistica deliberata (T.A.R. Liguria Genova, 3 giugno 2005, n. 798).
È chiaro peraltro come l’ipotesi di conflitto emerga anche quando il soggetto avente interesse immediato e diretto alla questione non abbia partecipato alla votazione, potendo la sola partecipazione alla preliminare discussione contribuire a determinare gli indirizzi espressi poi attraverso la espressione dei singoli voti. Anzi, da una lettura dei verbali di assemblea emerge proprio come lo stesso Presidente sia intervenuto in senso fortemente negativo nei confronti del progetto, nella chiara intenzione di indirizzare il Consiglio verso un esito sfavorevole. Senza considerare, peraltro, che l’interessato era comunque presente alle operazioni di voto (addirittura con funzioni di presidente dell’assemblea).
Esiste senz’altro, nella specie, una correlazione immediata e diretta, atteso che l’immobile di cui si discute è in posizione confinante con quello di proprietà del Presidente del Consiglio comunale, nonché considerato che la consorte di quest’ultimo era proprio intervenuta nel corso del procedimento per opporsi formalmente alla realizzazione dell’intervento de quo.
Sotto diversa angolazione, come ha correttamente rilevato parte ricorrente l'obbligo di astensione del titolare di un pubblico ufficio opera indipendentemente dall'applicazione della cosiddetta prova di resistenza (T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 19 luglio 2005, n. 3396), in quanto la semplice partecipazione alla seduta e alla discussione in posizione di non assoluta imparzialità può in astratto contribuire ad influenzare il voto degli altri componenti del consesso.
Per giurisprudenza pacifica, l'invalidità della deliberazione dell'ente deve essere inoltre ritenuta e valutata ex ante, cioè a prescindere dai vantaggi o svantaggi che l'amministratore incompatibile possa aver ricevuto ovvero dalla legittimità o illegittimità del procedimento in cui esso è stato presente, essendo l'astensione regola assoluta non sottoposta a tali condizioni (Cons. Stato, sez V, 1° settembre 1997, n. 937).
In conclusione, il Presidente del Consiglio comunale di Manduria non avrebbe potuto prendere parte, né in fase di discussione, né in fase di votazione, alle riunioni consiliari riguardanti il progetto in discussione. In questa direzione la violazione dell’art. 78 – anche da una lettura dei verbali di assemblea – è quanto mai palese e incontrovertibile.
4. Per tutte le ragioni sopra indicate il ricorso è fondato e deve essere accolto. Per l’effetto, vanno annullati gli atti in epigrafe indicati e, in particolare, la delibera del Consiglio comunale di Manduria n. 8 del 1° febbraio 2008, nonché il provvedimento n. 245 del 7 agosto 2008 del Dirigente dell’Area Tecnica - Servizio Urbanistica e Gestione del Territorio - del Comune di Manduria, entrambi nella parte in cui prevede la possibilità da parte della società ricorrente, nell’esercizio della sua attività turistico-ricettiva, di somministrare alimenti e bevande "alle sole persone alloggiate, ai loro ospiti ed a coloro che sono ospitati nella struttura ricettiva".
Stanti la complessità e la novità della questione, sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce, Prima Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 797/2008, lo accoglie e, per l’effetto, annulla in parte qua, nei sensi di cui in parte motiva, la delibera del Consiglio comunale di Manduria n. 8 del 1° febbraio 2008, nonché il provvedimento n. 245 del 7 agosto 2008 del Dirigente dell’Area Tecnica - Servizio Urbanistica e Gestione del Territorio - del Comune di Manduria.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 03/06/2009 con l'intervento dei Magistrati:
Aldo Ravalli, Presidente
Carlo Dibello, Referendario
Massimo Santini, Referendario, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 18/07/2009.

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