lunedì 31 marzo 2008

Violenza negli stadi, divieto di accesso e condotta censurabile

CORTE DI CASSAZIONE ,SENTENZA N. 01179 /2007

DEL 30/11/2007, III SEZIONE PENALE

La Suprema Corte chiarisce i connotati delle condotte soggette alla applicazione della misura di prevenzione atipica, quale è quella prevista dall'art. 6 Legge n. 401/1989, stabilendo che essa "ha come presupposto che il soggetto versi in una situazione sintomatica della sua pericolosità sociale, derivante dall'aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive" ovvero che egli abbia "incitato, inneggiato o indotto alla violenza , situazioni tutte, queste, ritenute dal legislatore di per sé idonee a giustificare tanto il divieto di accesso ai luoghi interessati da manifestazioni sportive, quanto l'obbligo di presentazione ad un ufficio di polizia, la sola, pronuncia di frasi offensive, ancorché rivolte all'indirizzo degli agenti, come pure l'esibizione di scritte ingiuriose nei confronti della squadra avversaria, sempre che - né nell'uno né nell'altro caso - si trasmodi in incitamento alla violenza, sono comportamenti che esulano dal campo di applicazione della suddetta norma, trattandosi comunque di turbative non inquadrabili tra le attività violente."


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONI

TERZA SEZIONE PENALE

UDIENZA CAMERA DI CONSIGLIO

DEL 30/11/2007

SENTENZA N. 01179 /2007

ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da

SENTENZA

sul ricorso proposto da

1) M. R. G.

2) B.C. P.

3) C. S.

avverso

ORDINANZA del 06/04/2007

GIP TRIBUNALE di BRINDISI

sentita la relazione fatta dal Consigliere

SENSINI MARIA SILVIA

lette/sentite le conclusioni del P.G. che ha concluso: annullarsi il provvedimento impugnato con rinvio

Casella di testo: 1Fatto e motivi della decisione

Con ordinanza in data 6/412007 -- h. 9 – il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Brindisi convalidava, nei confronti di M. R. G., B. C. p. e C. S., le prescrizioni imposte dal Questore di quella Città con provvedimento in data 30112007, notificato agli interessati in data 4/4/2004. rispettivamente alle ore 15,10 --18,50 -11, 45.

Con il suddetto provvedimento veniva vietato ai prevenuti di accedere per un periodo di tre, anni a tutti gli stadi e campi sportivi italiani in occasione dello svolgimento di partite di calcio, sia amichevoli che di campionato, sia in ambito nazionale che nei paesi dell’U.E. Veniva altresì imposta la prescrizione di presentarsi presso la stazione Carabinieri di Erchie (BR) entro e non oltre venti minuti dopo l'inizio del primo tempo e non oltre venti minuti dopo l'inizio del secondo tempo di incontri di calcio aventi come protagonista la squadra dell'Erchie.

Emergeva dall'ordinanza impugnata che, in occasione dell'incontro sportivo svoltosi in Erchie in data 1 I/3/2007, alcuni soggetti si erano resi responsabili di atti violenti, quali il lancio di sassi contro un guardalinee, mentre altri avevano proferito frasi ingiuriose all'indirizzo degli agenti operanti. Tra i suddetti "tifosi" erano stati identificati anche il M. R., il B. ed il C.

Ricorrono per Cassazione i prevenuti, deducendo:

1) difetto di motivazione della richiesta di convalida da parte del Pubblico Ministero;

2) travisamento dei fatti e mancanza di motivazione in ordine ai presupposti prescritti per l’adozione del provvedimento, con particolare riferimento alla pericolosità dei soggetti;

3) difetto di motivazione sui requisiti di necessità ed urgenza;

4) violazione di legge per mancanza del termine di durata della misura;

5) violazione di legge per essere stata applicata la misura pur in difetto di denuncia o querela a carico dei ricorrenti.

------------------------

Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, concludeva per l'annullamento con rinvio dei provvedimento impugnato.

omissis

I motivi sub 2) e 3) dei ricorso sono fondati.

Lo stesso provvedimento impugnato, che a tale riguardo fa espresso rinvio alla relazione di servizio dei Carabinieri, dà atto di due fasi distinte che caratterizzarono l'episodio in oggetto. Una fase connotata da atti violenti, quali il lancio di sassi contro un guardalinee; un'altra, contraddistinta dalla pronuncia di frasi ingiuriose all'indirizzo degli agenti intervenuti, investiti da cori di protesta. Tuttavia, l'ordinanza del G.I.P., nella sua estrema sinteticità, non indica quale delle due condotte sia addebitabile ai prevenuti.

L'omissione non è di poco conto, in quanto l'incertezza sui reali termini dei comportamenti ascritti ai ricorrenti si riverbera inevitabilmente sia sul giudizio di pericolosità, sia sulla necessità e congruità della misura.

Infatti, mentre l'applicazione della misura di prevenzione atipica, quale è quella prevista dall'art. 6 Legge n. 401/1989, ha come presupposto che il soggetto versi in una situazione sintomatica della sua pericolosità sociale, derivante dall' "aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive" ovvero che egli abbia "incitato, inneggiato o indotto alla violenza ", situazioni tutte, queste, ritenute dal legislatore di per sé idonee a giustificare tanto il divieto di accesso ai luoghi interessati da manifestazioni sportive, quanto l'obbligo di presentazione ad un ufficio di polizia, la sola, Casella di testo: 4pronuncia di frasi offensive, ancorché rivolte all'indirizzo degli agenti, come pure l'esibizione di scritte ingiuriose nei confronti della squadra avversaria, sempre che - né nell'uno né nell'altro caso - si trasmodi in incitamento alla violenza, sono comportamenti che esulano dal campo di applicazione della suddetta norma, trattandosi comunque di turbative non inquadrabili tra le attività violente.

Il provvedimento impugnato va, dunque, annullato con rinvio ai Tribunale di Brindisi, al fine di consentire al Giudice una nuova deliberazione diretta a correggere il suddetto difetto motivazionale.

omissis

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione annulla il provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Brindisi.

Cosi' deciso in Roma il 30/11/2007

Espropriazione, sentenze della C. Cost. n. 348 e 349/2007, effetti sui giudizi pendenti

Relazione del 23.11.2007, sugli effetti delle sentenze di incostituzionalità n. 348 e n. 349 del 2007 nei giudizi pendenti in materia espropriativa, della Suprema Corte di Cassazione

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

UFFICIO DEL MASSIMARIO E DEL RUOLO

Relazione n. 121 Roma, 23 novembre 2007

Oggetto: CORTE COSTITUZIONALE - SINDACATO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE - GIUDIZIO INCIDENTALE - DECISIONI - ACCOGLIMENTO (ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE) - EFFETTI - Rapporti non ancora esauriti - Applicabilità - Fattispecie in tema di determinazione dell’indennità di espropriazione.

CORTE COSTITUZIONALE - SINDACATO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE - GIUDIZIO INCIDENTALE - DECISIONI - ACCOGLIMENTO (ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE) - EFFETTI - Rapporti non ancora esauriti - Applicabilità - Fattispecie in tema di risarcimento del danno da occupazione appropriativa.

CORTE COSTITUZIONALE - SINDACATO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE - GIUDIZIO INCIDENTALE - DECISIONI - ACCOGLIMENTO (ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE) - EFFETTI - Rapporti non ancora esauriti - Applicabilità - Procedimenti amministrativi per la determinazione dell’indennità di espropriazione.

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICO INTERESSE (O UTILITÀ) - PROCEDIMENTO - LIQUIDAZIONE DELL’INDENNITÀ - DETERMINAZIONE (STIMA) - IN GENERE - Criteri di determinazione dell’indennità - Sopravvenuta incostituzionalità della norma di riferimento - Applicabilità ai rapporti pendenti - Limiti.

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICO INTERESSE (O UTILITA’) - OCCUPAZIONE TEMPORANEA E D’URGENZA - RISARCIMENTO DEL DANNO - Occupazione appropriativa - Criteri di quantificazione del danno - Sopravvenuta incostituzionalità della norma di riferimento - Applicabilità ai giudizi in corso non definiti con sentenza passata in giudicato - Portata.

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICO INTERESSE (O UTILITÀ) - PROCEDIMENTO - LIQUIDAZIONE DELL’INDENNITÀ - ACCORDI AMICHEVOLI - Cessione volontaria del bene espropriando - Criteri di determinazione del prezzo - Necessità - Sopravvenuta incostituzionalità della norma di riferimento - Caducazione del contratto - Esclusione.

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICO INTERESSE (O UTILITÀ) - PROCEDIMENTO - LIQUIDAZIONE DELL’INDENNITÀ - DETERMINAZIONE (STIMA) - IN GENERE - Criteri di determinazione dell’indennità - Sopravvenuta incostituzionalità della norma di riferimento - Rapporti pendenti - Criterio indennitario applicabile - Valore venale - Applicabilità.

Gli effetti delle sentenze di incostituzionalità n. 348 e n. 349 del 2007 sui giudizi pendenti in materia espropriativa

SOMMARIO:

1.- Premessa.

2.- Ambito di incidenza temporale delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

3.- Ambito di incidenza oggettivo delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

4.- I criteri applicabili dopo le dichiarazioni d’incostituzionalità.

1.- Premessa.

1.1.- Non è la prima volta che in tema di determinazione dell’indennità espropriativa si è chiamati ad affrontare le conseguenze di vicende inerenti alla disciplina legale dell’istituto, vuoi per l’approvazione di nuove regolamentazioni, vuoi, come oggi, in seguito a dichiarazioni di illegittimità costituzionale: sul tema si è quindi sviluppato un consistente nucleo di principi, di cui vale la pena riprendere le trame, pur tenendo conto della peculiarità dell’esito ultimo della vicenda, che ha portato alla dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 5-bis d.l. n. 333/92, conv. in l. n. 359/92.

Ci s’intende riferire non tanto ai travagliati antefatti delle due sentenze del 24.10.2007 della Corte costituzionale, nn. 348 e 349, costituiti dalle pronunce sul tema della Corte europea dei diritti, nella scettica accoglienza ricevuta dalla Suprema Corte italiana – il che richiedeva comunque un opportuno pronunciamento della Corte costituzionale sul tema della gerarchia delle fonti – ma soprattutto al tipo di sentenze che è stato reso, in riferimento sia ai precedenti, contrari, della stessa Consulta (nel senso della infondatezza delle questioni riguardanti la stessa norma), sia al parametro costituzionale utilizzato. Anche il problema residuo della disciplina applicabile si colora ora in modo diverso dalle esperienze passate, posto che il rassicurante approdo al suppletivo criterio del prezzo di mercato parrebbe ora meno agevole, atteso il tenore delle motivazioni inequivocabilmente svolte dalla Corte sul concetto costituzionale di indennità.

La ricognizione sulle ricadute della sentenza riguardo ai rapporti pendenti, inoltre, si carica di valenze diverse a seconda se ci si riferisca ai giudizi in corso, per la determinazione dell’indennità o per la liquidazione del danno da occupazione appropriativa (essendone limite di incidenza l’avvenuto passaggio in giudicato), o ai procedimenti espropriativi iniziati sotto la vigenza dell’art. 5-bis, o dell’art. 37 t.u. espropriazioni, in cui gli enti esproprianti, in grado di confidare sulla definitività delle pregresse fasi amministrative, si trovano esposti al ripensamento dei soggetti espropriandi sull’ammontare dell’indennità, anche quando l’importo sia stato oggetto di accordi amichevoli.

Le due sentenze, inoltre, pur caratterizzate dallo stesso nucleo argomentativi, attengono a questioni diverse, l’indennità (sent. 348) ed il risarcimento (sent. 349).

Sicché il problema va frammentato in vari poli, dall’incidenza delle sentenze su tali rispettivi problemi (per la n. 348 anche in riferimento ai procedimenti amministrativi in corso; il risarcimento, di cui alla sent. 349, è invece sempre vicenda postuma), al concetto di pendenza (che ovviamente non coincide con quello di pendenza processuale, dato che, per richiamare un esempio grossolano, può essere ancora in discussione la titolarità passiva degli obblighi indennitario o risarcitorio, ma non più la misura di indennità e risarcimento), al criterio applicabile dopo il tramonto della semi-somma, all’interrogativo non ozioso di una residua applicabilità nel tempo della norma illegittima, attesa la vicenda costituzionale attraverso a quale è maturata la dichiarazione d’incostituzionalità.

2.- Ambito di incidenza temporale delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

2.1.- Questa ricognizione muove dall’analisi della questione in ordine all’efficacia retroattiva delle due sentenze, ovvero fino a che punto per i rapporti relativi alla determinazione dell’indennità, o della liquidazione del danno per occupazione illegittima, debba considerarsi che le norme dichiarate incostituzionali, siano del tutto inapplicabili.

E’ pur vero che la lettura dell’art. 136 Cost., in base al quale “la norma cessa di avere efficacia del giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, deve essere integrata dal disposto dell’art. 30, terzo comma, l. 11.3.1953 n. 87, per la quale “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Soccorre a tal proposito il richiamo alle categorie dell’abrogazione, per cui una disposizione non esiste da un certo momento in poi, mentre per il periodo precedente deve darglisi applicazione, e dell’annullamento, che nasce dall’accertamento di un vizio della legge, di un contrasto con le norme gerarchicamente superiori, che causa l’invalidità della legge in questione, e, com’è noto, ha effetto ex tunc.

La sentenza ha valore costitutivo, nel senso che benché il contrasto con la Costituzione sia certamente sorto in precedenza, è solo con la sentenza che esso è accertato e la legge viene invalidata: i rapporti sorti in precedenza sulla base di quella legge non cadono automaticamente, come non cadono gli atti amministrativi che la presuppongono (ma che possono essere annullati a seguito d’impugnazione).

La sentenza d’illegittimità, tuttavia, si traduce in un ordine rivolto ai soggetti dell’applicazione (giudici e amministrazione), di non applicare più la norma illegittima: ciò significa che gli effetti della sentenza di accoglimento non riguardano solo i rapporti che sorgono in futuro, ma anche quelli che sono sorti in passato, purché non si tratti di rapporti esauriti.

La conferma della necessità di disapplicare la legge dichiarata incostituzionale, con riferimento ai rapporti pendenti, proviene dall’art. 1 l. cost. 9.2.1948, n. 1, in base al quale la Corte costituzionale è investita della questione dal giudice, indirettamente, nel corso di un giudizio: la perdita di efficacia va intesa dunque nel senso che dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza la legge non può più trovare applicazione, proprio in riferimento al giudizio a quo. Diversamente, non avrebbe senso che pur avendola un giudice sollevata in riferimento ad un fatto specifico, egli fosse tenuto ad applicarla nonostante la Corte l’abbia dichiarata illegittima.

2.2.- Circa l’estensione oggettiva degli effetti della pronuncia di accoglimento, si suole dire che essa non riguarda i rapporti esauriti, ma incide sui rapporti pendenti. L’esaurimento o la pendenza vanno logicamente commisurati alla data della pubblicazione della sentenza, che per il giudice chiamato all’applicazione delle norme, è quella della Raccolta ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (art. 29 l. n. 53/87). Collegato al problema dell’estensione oggettiva, è quello della prescrizione o decadenza nell’esercizio di un’attività o di un diritto, su cui la norma dichiarata incostituzionale aveva incidenza.

Il concetto di “rapporto esaurito” è riferito alle situazioni giuridiche che possono dirsi ormai esaurite, consolidate ed intangibili, allorché i rapporti tra le parti siano stati già definiti anteriormente alla pronuncia di illegittimità costituzionale per effetto, sia di giudicato, sia di atti amministrativi non più impugnabili, sia di atti negoziali rilevanti sul piano sostanziale o processuale, nonostante l’inefficacia della norma dichiarata incostituzionale. La Cassazione ha, in particolare, chiarito che “se la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha effetto retroattivo, nel senso che la dichiarazione illegittima non può essere applicata né come norma per la disciplina dei rapporti ancora in corso o da costituire, né come regola di giudizio dei rapporti esauriti, tuttavia, la circostanza che quella disposizione abbia di fatto operato nell’ordinamento giuridico comporta che essa ha prodotto effetti irreversibili, perché essi hanno inciso su rapporti esauriti a causa della mancanza o della inutilizzabilità di strumenti idonei a rimetterli in discussione ovvero a causa della impossibilità giuridica o logica di valutare diversamente, a posteriori, comportamenti che devono essere esaminati alla stregua della situazione normativa esistente al momento in cui si verificano”[1].

I concetti di giudicato, intangibile alla disapplicazione della norma, e di rapporto esaurito, vengono anche esaminati dalla giurisprudenza maturata proprio in riferimento alle sentenze di incostituzionalità – e alle nuove normative varate nel corso del tempo – che hanno caratterizzato la travagliata vicenda dell’indennizzo espropriativo. Il problema è stato analizzato sia nell’immediatezza di sentenze dichiarative dell’illegittimità dei criteri vigenti per il risarcimento[2] e per l’indennità, ritenuti penalizzanti per i proprietari[3], sia dopo l’entrata in vigore di nuove normative varate allo specifico scopo di porre rimedio alle situazioni di vuoto per la precedente dichiarazione d’incostituzionalità (che vuoto, come detto, non era, a causa della reviviscenza del valore venale), le quali hanno sempre avuto cura di precisare la propria diretta applicabilità ai rapporti pendenti: così l’art. 5-bis d.l. n. 333/92, conv. in l. n. 359/92, al comma 6 dichiara l’applicabilità delle disposizioni contestuali “in tutti i casi in cui non siano stati determinati in via definitiva il prezzo, l’entità dell’indennizzo o il risarcimento del danno, alla data di entrata in vigore” della stessa legge di conversione n. 359/92; analogamente il comma 7-bis dello stesso art. 5-bis, come introdotto dall’art. 3, co. 65, l. n. 662/96, recita che le disposizioni sulla liquidazione del danno da occupazione appropriativa “si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato”.

2.3.- L’art. 5-bis era sopravvissuto a precedenti verifiche di legittimità[4], come pure il comma 7-bis[5]. Di ciò la Corte dà ampiamente conto, giustificando il proprio revirement in virtù della necessaria relatività della valutazione circa l’adeguatezza dell’indennità, con riguardo al contesto storico-economico ed al contesto istituzionale. I tempi sono cambiati, i problemi di equilibrio della finanza pubblica permangono, ma la sfavorevole congiuntura economica che aveva giustificato la manovra finanziaria correttiva dell’estate del 1992, non può andare avanti all’infinito. Alla dichiarata provvisorietà del 5-bis, cui la Consulta[6] aveva un po’ ammiccato, limitandosi ad un ritocco marginale sulla disciplina del 40%, è ora subentrato il palese intendimento di rendere la disciplina definitiva, con l’art. 37, che dell’art. 5-bis è gemmazione.

Si tratta dunque di una illegittimità costituzionale “sopravvenuta”. Questa è una tipologia ben nota alla dottrina costituzionalistica, coniata soprattutto in riferimento a sentenze di accoglimento in cui sia la Corte a disporre in ordine agli effetti temporali delle sue pronunce, stabilendo direttamente il momento da cui essi dovessero prodursi.

La conformità o difformità della singola norma rispetto al parametro costituzionale non resta insensibile alla dimensione diacronica. Si tratta comunque di indirizzo giurisprudenziale non esente da critiche, giacché in questo modo la Corte finisce per autoattribuirsi un potere nell’esercizio del quale possono facilmente giocare valutazioni di ordine sostanziale, non strettamente legate alla logica del processo costituzionale, con il rischio di determinare disparità di trattamento non sempre giustificabili[7].

La necessità di introdurre temperamenti alla definitiva inefficacia delle norme sfavorevolmente sindacate, può essere suggerito dall’attuazione del principio di gradualità nell’attuazione dei principi costituzionali, o perché la Corte si sente chiamata a compiere un bilanciamento tra valori costituzionali dei quali nessuno può essere interamente sacrificato, ma che possono importare reciproca compromissione, talora anche di ordine temporale[8]. Ma questo non è avvenuto con le sentenze nn. 348 e 349, che a parte dar atto della precedente vicenda costituzionale delle norme, non introducono limitazioni espresse all’inefficacia delle stesse.

2.4.- Si può però anche dare che il contrasto della norma con i precetti costituzionali sorga solo successivamente all’entrata in vigore della norma stessa (a causa di intervenute modificazioni nel quadro delle nome interposte, o nel tessuto normativo in genere, o per l’incidenza di altri fattori strutturali con essa comunque interagenti). In tal caso il ripristino della legalità non richiederebbe il sacrificio assoluto della norma (e dei rapporti in essa ricompresi) anche per il periodo precedente a quello in cui si è venuta a determinare la situazione di contrasto tra norma e fonte costituzionale, perché diversamente la retrodatazione dell’effetto della declaratoria di illegittimità “andrebbe contraddittoriamente a colpire una norma legittima”[9].

E su questo possiamo riflettere, posto che la sent. 348 spiega chiaramente (punto 5.4) che “l’art. 1 del I prot. CEDU è stato oggetto di progressiva focalizzazione interpretativa da parte della Corte di Strasburgo, che ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una portata ritenuti dalla stessa Corte incompatibili con la disciplina italiana dell’indennità di espropriazione”. E’ in esito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale che la Grande Chambre, con la decisione del 29.3.2006, ha fissato alcuni principi generali, al cospetto dei quali i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana porterebbero alla corresponsione di una somma largamente inferiore al valore di mercato.

Sicché la persistenza della norma nel periodo antecedente avrebbe una sua giustificazione, politica e costituzionale.

Ma c’è di più: il parametro utilizzato dalla Corte per dichiarare l’illegittimità della norma è recente. L’art. 117 Cost. è stato modificato nel testo attuale dall’art. 8 l.cost. n. 3/01, pubblicato in G.U. 24 ottobre 2001, n. 248. La Corte di cassazione ebbe consapevolmente a denunciare la disciplina indennitaria, per contrasto con due parametri, quelli di cui agli artt. 111 e 117 Cost., che non esistevano al momento delle precedenti (favorevoli) verifiche costituzionali della stessa (compiute in base agli att. 3, 24, 42 Cost.).

Quale potrebbe essere la conseguenza di questa riflessione. Che la norma sarebbe incostituzionale solo dal momento in cui è nato il parametro (art. 117 Cost.; l’assorbimento dell’altra questione ha esentato la Corte dal sindacato alla luce dell’art. 111) alla quale ora è stata commisurata in modo sfavorevole, che poi è quello che consente di dare rilevanza costituzionale al contrasto con la CEDU, per l’omessa osservanza da parte dello Stato degli obblighi che gli derivano dalle convenzioni internazionali. La riprova di ciò è che in precedenza la norma era stata giudicata conforme alla Costituzione.

Il risultato sarebbe che a seconda della data di nascita del rapporto di credito (dal decreto di esproprio per l’indennità, dall’occupazione appropriativa per il risarcimento), se anteriore o posteriore all’entrata in vigore della riforma del titolo V della Costituzione (3 novembre 2001, dopo la vacatio legis dalla pubblicazione in G.U.), la norma resterebbe applicabile ai rapporti non definiti.

E’ stata affermata in dottrina una naturale limitazione dell’efficacia retroattiva della decisione d’incostituzionalità ove questa sia originata da una causa non esistente al momento della sua entrata in vigore della legge. Si prenda l’esempio dell’entrata in vigore di una nuova Costituzione, frutto dell’esercizio del potere costituente, e condizione di validità sostanziale di tutte le leggi.

L’art. 282 della Cost. portoghese, ad esempio, afferma che nel caso di illegittimità costituzionale di una legge per violazione di una norma costituzionale posteriore, gli effetti della sentenza di accoglimento si producono solo dal momento dell’entrata in vigore del parametro costituzionale. Si è osservato che “la medesima soluzione, pur in mancanza di analoga disposizione, sembra agevolmente prospettabile nel sistema italiano[10]. In tal caso parrebbe maggiormente appropriato l’accostamento al concetto di abrogazione, che a quello d’invalidità.

2.5.- La Corte di cassazione ha affermato che gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale avente ad oggetto una legge o un atto avente forza di legge anteriore all’entrata in vigore della Costituzione, possono retroagire anche oltre il 1 gennaio 1948[11]. Il problema si è posto relativamente alle conseguenze della dichiarazione d’incostuzionalità delle norme che non prevedevano l’acquisto della cittadinanza per il figlio di madre cittadina[12] e la perdita automatica della cittadinanza della donna che sposava uno straniero[13]. Nonostante la prassi amministrativa e la stessa giurisprudenza avesse limitato la possibilità di far valere gli effetti delle dette dichiarazioni d’incostituzionalità a coloro che fossero nati o che si fossero sposati dopo quella data, la Cassazione ha cambiato orientamento, anche se appare determinante il riferimento allo status di figlio anziché al fatto storico della nascita, nel primo caso, e allo status di moglie, piuttosto che al momento del matrimonio, nel secondo caso; sembra che tutte le volte in cui l’ordinamento alteri il complesso delle situazioni soggettive riconducibili ad uno status, aggiungendo o sottraendo dirottino doveri, ciò vale per tutti coloro che si trovano in quello status, indipendentemente dal momento in cui l’abbiano acquisito.

La Cassazione ha però espresso anche un orientamento limitativo, rispetto al passato[14]. Proprio in riferimento alla previsione di perdita automatica della cittadinanza della donna che ha sposato lo straniero, le SS.UU. hanno osservato che non è cittadino italiano chi prima della Cost. era nato da una madre che per aver sposato uno straniero, aveva perduto la cittadinanza: nel caso di matrimonio contratto prima del 1948, la perdita della cittadinanza deve intendersi validamente verificatasi, senza che la sentenza della Corte cost. possa validamente incidere, se non nel senso che la donna ha il diritto di riacquistare la cittadinanza ove lo voglia. Ma la sentenza è stata criticata sotto il profilo che cittadinanza e filiazione non sono situazioni giuridiche soggettive, ma posizioni soggettive, qualificate status, che esprimono la condizione giuridica attribuita al singolo per la sua appartenenza al gruppo, sicché rispetto agli status non può parlarsi di prescrizione o decadenza, non avendo alcun senso parlare in tal caso di esercizio o di disponibilità di essi (art. 2934 c.c.). In altre parole per le questioni relative agli status non sono predicabili le vicende estintive riconducibili all’esaurimento dei rapporti[15].

2.6.- Se si voglia ricercare nel testo della motivazione della sentenza qualche indizio utile a risolvere il problema, non sembra possano farsi emergere elementi decisivi: se da un lato, infatti, il punto 6.2 della sent. 349 dice che “non c’è dubbio, pertanto, alla base del quadro complessivo delle norme costituzionali e degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con la Costituzione di altri paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei principi che espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato”, il che potrebbe orientare il giudizio, mediante la sottolineatura della sopravvenienza della incostituzionalità, verso una limitazione dell’inefficacia nel tempo, dall’altro sembra suonare in modo (non si sa quanto consapevolmente) dirimente il punto 6 della sent. 348, ove si ribadisce, richiamandosi l’art. 30 l. n. 87/53, che essa non può avere più alcuna applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza stessa.

Ma a parte tale ultima risolutiva indicazione – che peraltro serve a rendere superfluo il sindacato alla luce dell’art. 111 Cost., per l’entrata in vigore dell’art. 5-bis a giudizi iniziati, dato che, sembra osservare la Corte, quella norma è come se non fosse mai esistita – forse è il caso di darsi una giustificazione teoricamente soddisfacente alla ormai assoluta e definitiva disapplicazione dell’art. 5-bis.

Le indicazioni ricavabili dalla vicenda dello status di cittadinanza paiono in realtà difficilmente utilizzabili nella questione in esame, giacché lì si era impostato il problema sotto il profilo dell’esaurimento del rapporto, che all’entrata in vigore della Costituzione non avrebbe potuto più risentire di una nuova valutazione di conformità costituzionale quanto alla sua disciplina giuridica. Qui è diverso, giacché è pacifico che i rapporti (di credito) di cui ci occupiamo sono pendenti, e non può dirsi che su di essi non possa incidere una nuova disciplina (o una sopravvenuta assenza di essa) sol perché da un certo momento essi non sono conformi a Costituzione: ciò che conta è che per le vicende più varie l’indennità non è stata corrisposta, ed è ora, al momento della definitiva liquidazione, che deve esser commisurata la congruità dell’attribuzione. Anche perché è ora, a seguito della fondamentale acquisizione della coscienza di dover dare esecuzione agli obblighi internazionali, che la sistemazione dei rapporti economici tra le parti, per definizione soggetta alle fluttuazioni legislative, si porrebbe al di fuori dei canoni dell’ordinamento.

E ancora, se anche pare difficile che il giudice di legittimità sia stato sfiorato dal problema che ne occupa (come non lo furono i rimettenti, che forse avrebbero dovuto spendersi maggiormente nella motivazione sulla rilevanza riguardo ai parametri invocati), pare consentito aggiungere, per quanto possa valere, un argumentum a contrario. Portando a compimento la riflessione sulle pregresse favorevoli prognosi in ordine alla costituzionalità della norma, allora giustificata per la sua provvisorietà, ben avrebbe potuto la Consulta salvare l’art. 5-bis, come capitolo concluso di una vicenda destinata a completarsi in occasione di successive denunce, stavolta localizzate sull’art. 37 t.u., che perpetua l’inadeguatezza dell’indennità, limitandosi a dare al legislatore un monito incondizionato ad intervenire su quest’ultima norma. Che non l’abbia fatto, anzi, che abbia sentito la necessità di indirizzare comunque il legislatore a colmare la lacuna che si viene a creare anche per il passato, significa che non ha per niente preso in considerazione l’ipotesi di una incostituzionalità dell’art. 5-bis, limitata nel tempo.

2.7.- Si riconosce da tempo che il principio tempus regit actum, regolante la successione nel tempo delle leggi processuali, non è riferibile alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, che, non essendo una forma di abrogazione della legge, ma una conseguenza della sua invalidità originaria, ha efficacia retroattiva, nel senso che investe anche situazioni processuali precedenti alla sentenza di abrogazione – salve l’avvenuta formazione del giudicato e la presenza di preclusioni processuali già verificatesi – in omaggio al principio enunciato dagli art. 136 cost. e 30 l. 11.3.1953 n. 87[16]. Sicché in presenza di una pronuncia dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di una disposizione normativa l’interprete non ha il potere di verificare, caso per caso, se questa abbia – o meno – efficacia retroattiva; contemporaneamente è irrilevante, al fine di escludere la retroattività degli effetti di una tale pronuncia, la circostanza che in precedenza la stessa Corte abbia ritenuto non fondata una questione identica (o analoga) a quella successivamente ritenuta fondata; perché una norma successiva al 1º gennaio 1948 e dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale cessi di avere efficacia da un momento diverso rispetto a quello indicato dall’art. 136 cost. e, quindi, sia priva di efficacia retroattiva, è indispensabile una statuizione ad hoc della stessa Corte, sul rilievo che la stessa, in armonia con la Costituzione al momento della sua promulgazione, si è posta in contrasto con questa solo in un momento successivo, senza che sia consentito all’interprete correggere o modificare le statuizioni della Corte[17].

3.- Ambito di incidenza oggettivo delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

3.1.- Volendo allora esaminare, riguardo ai procedimenti pendenti in cassazione, l’incidenza delle sentenze di illegittimità costituzionale, il dettame fondamentale è che sia tuttora in discussione la misura dell’indennità, siccome fino ad oggi regolata dall’art. 5-bis, come della misura del risarcimento, siccome regolata dal comma 7-bis dello stesso art. 5-bis.

Secondo i principi generali, l’efficacia retroattiva della detta pronuncia d’incostituzionalità trova un limite in quei casi concreti in cui si siano determinate situazioni giuridiche consolidate ed intangibili (il cui accertamento positivo preclude l’esame della questione su cui incide la dichiarazione d’incostituzionalità), come nei casi di rapporti già definiti, anteriormente alla pronuncia d’illegittimità costituzionale, in base a giudicato e ad atti amministrativi non più impugnabili o ad altri atti o fatti, come la prescrizione, di cui siano esauriti gli effetti e che siano rilevanti, sul piano sostanziale e processuale, nonostante l’inefficacia delle norme dichiarate incostituzionali[18].

Ove si ritenga la controversia sulla misura dell’indennità o del risarcimento ancora in corso, e sempre che l’applicazione del decisum costituzionale vada a vantaggio di chi ricorre, in via principale o incidentale, dovrà procedersi alla cassazione della sentenza, con rinvio per una nuova rideterminazione. In ordine all’indicazione di nuovi criteri applicabili, si dirà oltre.

Pur se non si tratta, a stretto rigore, di ipotesi di ius superveniens (anzi, almeno per l’indennità, viene a verificarsi un vuoto di disciplina legislativa), è utilmente esplorabile la giurisprudenza prodotta riguardo allo ius superveniens in materia indennitaria e risarcitoria, che è stato ritenuto applicabile in tutti i giudizi non definiti con sentenza passata in giudicato, e quindi anche nei giudizi pendenti in sede di legittimità[19], o in sede di appello[20].

Fin dal pronunciamento delle Sezioni unite del 1994[21], infatti, si ritenne che non potendosi formare giudicato interno sulla questione della normativa applicabile ad un rapporto, ed essendo la determinazione dell’indennità di espropriazione connessa a criteri a fattispecie complessa, in cui è impossibile la separazione tra profili di fatto e di diritto, la disciplina posta dall’art. 5-bis l. 8 agosto 1992 n. 359 era applicabile ex officio in cassazione, anche se i motivi di impugnazione attenessero genericamente al quantum dell’indennità, senza investire l’individuazione della legge regolatrice del rapporto espropriativo.

3.2.- Il contendere deve tuttavia avere attinenza con la misura dell’indennità o con la liquidazione del danno, intesi in senso ampio.

Deve trattarsi, in primo luogo, di persistente contestazione in ordine alla valutazione di suoli edificatori: nessuna incidenza hanno avuto le recenti sentenze d’incostituzionalità riguardo ai suoli agricoli, né sotto il profilo indennitario, restando applicabile il criterio dell’art. 16 l. n. 865/71, del valore agricolo medio (cui rinvia l’art. 5-bis, comma 4, non interessato dalla dichiarazione d’incostituzionalità della sent. n. 348), né sotto quello risarcitorio, in cui ci si richiama al criterio giurisprudenziale del valore agricolo di mercato[22]. Il principio va logicamente applicato alle aree non classificabili come edificabili, alle quali, vocazione agricola a parte, sia riservato il trattamento di cui all’art. 5-bis, comma 4.

Non è necessario vi sia contestazione specifica sull’applicabilità o meno della legge, emanata o abrogata, purché sia in contestazione la quantificazione, in concreto, dell’indennità, e ciò in quanto il bene della vita alla cui attribuzione tende l’opponente alla stima è l’indennità liquidata nella misura di legge, non già il criterio legale per la sua determinazione, in ordine al quale il giudice non incontra limiti nella domanda, senza che per questo sia configurabile violazione alcuna del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato[23]: in ordine all’individuazione del criterio legale di stima non è concepibile la formazione di un giudicato autonomo[24] – così come la pronunzia sulla legge applicabile al rapporto controverso non può costituire giudicato autonomo rispetto a quello sul rapporto – né l’acquiescenza allo stesso; né potendo considerarsi «nuova» la relativa questione, atteso che il giudice, nella ricerca dei criteri legali, non incontra, nei limiti della domanda, alcun vincolo derivante dalle deduzioni delle parti e che nella complessa fattispecie dell’indennità espropriativa non è possibile separare i profili di fatto da quelli di diritto (Cass. 27-05-1995, n. 5907).

Analogamente, in tema di risarcimento del danno da occupazione appropriativa, si è affermato che correttamente la corte di appello, investita della impugnazione dei criteri con i quali i primi giudici abbiano liquidato il risarcimento del danno dovuto da una amministrazione comunale ai proprietari dei terreni oggetto di occupazione acquisitiva perfezionatasi in epoca antecedente alla data del 30 settembre 1996, aveva quantificato detto risarcimento in base allo ius superveniens, di cui al comma 65 dell’art. 3 l. 23 dicembre 1996 n. 662[25].

La norma dichiarata incostituzionale, può essere disapplicata nel giudizio di cassazione, ove l’impugnazione sia stata proposta dal soggetto a cui favore giova la nuova realtà normativa, ovvero, il proprietario: sul tema si è ritenuto al contrario inapplicabile nel giudizio di appello lo ius superveniens, costituito dall’art. 5 bis, comma 7-bis, l. 8 agosto 1992 n. 359, come introdotto dall’art. 3, comma 65, l. n. 662 del 1996, qualora, non avendo l’ente espropriante proposto gravame sulla quantificazione del danno, il relativo punto della sentenza di primo grado sia da considerare passato in giudicato[26], dovendosi ritenere che l’ente pubblico abbia fatto acquiescenza alla sentenza[27].

3.3.- L’ipotesi più scontata di applicabilità di una disciplina sopravvenuta in corso di giudizio, è quella in cui sia oggetto di contestazione, in sede di ricorso per cassazione, la sopravvenuta violazione di norme di diritto per effetto della determinazione legislativa dei nuovi criteri, entrati in vigore dopo la pubblicazione della sentenza impugnata[28]. Il criterio di cui allo ius superveniens, nei giudizi pendenti avanti alla Corte di cassazione, si applica anche ove i motivi di ricorso, presentato prima della modifica, investissero direttamente la legge regolatrice dell’indennizzo[29].

I nuovi criteri di liquidazione del danno da occupazione appropriativa, introdotti dal comma 7-bis dell’art. 5-bis l. n. 359/92, sono entrati in vigore dal 1 gennaio 1997 (art. 6, comma 3, l. 662/96), e vanno applicati anche se la normativa è sopravvenuta dopo la deliberazione in camera di consiglio, che è atto privo di rilevanza giuridica esterna, e prima della pubblicazione, che invece segna il momento di giuridica esistenza della sentenza civile (esclusi i casi in cui vi è obbligo di lettura del dispositivo in udienza)[30]: il principio è ovviamente applicabile anche nell’attualità, ove le sentenze d’incostituzionalità siano state pubblicate nell’intervallo tra camera di consiglio e pubblicazione della sentenza.

Il principio secondo il quale la esistenza dello ius superveniens è rilevabile, anche di ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, trova applicazione, in sede di legittimità, solo in caso di sopravvenienza della nuova disciplina rispetto alla data di proposizione del ricorso per cassazione e non, invece, nel caso in cui essa sia intervenuta prima della notifica del gravame e senza che, in esso, siano formulate specifiche censure in ordine al contrasto delle norme di diritto applicate dai giudici di merito con la nuova regolamentazione del rapporto in contestazione: in tema di liquidazione dell’indennità di occupazione, ad esempio, si ritenne che l’applicabilità dei criteri dettati dall’art. 5 bis l. 359/92 è da escludere tutte le volte in cui il ricorso per cassazione risulti notificato successivamente all’entrata in vigore della detta legge e non contenga alcuna, specifica censura relativa alla mancata applicazione della nuova disciplina in sede di merito[31]: allo stesso modo si deve argomentare ove il proprietario, successivamente alla pubblicazione delle sentenze della Corte costituzionale, abbia notificato ricorso per cassazione senza chiedere la disapplicazione delle norme annullate. Il ricorso dovrà essere dichiarato inammissibile, non essendo più vigente la disciplina di riferimento invocata dal ricorrente.

3.4.- Qualche incertezza pare da cogliere in relazione alle ipotesi in cui lo ius superveniens si collochi dopo il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva che abbia stabilito non solo sull’an ma anche sui criteri del quantum, nel senso che abbia indicato i criteri di legge da seguire nel prosieguo della causa, che dunque ha solo una funzione applicativa: la ragione d’intangibilità del criterio indicato è stata giustificata – si trattava nella specie sentenza che accertando l’obbligo di risarcimento da occupazione appropriativa, lo aveva commisurato al valore venale, e l’ente espropriante non aveva proposto specifico gravame sulla quantificazione del danno – nel senso che la sentenza parziale si è in concreto pronunciata anche sul pregiudizio sofferto dal proprietario dell’immobile in conseguenza della condotta illecita dell’amministrazione espropriante, commisurandolo alla diminuzione patrimoniale corrispondente al valore, ad una certa data, del bene sottrattogli, sicché l’oggetto della decisione definitiva è circoscritto alla valutazione del bene, da incasellare nel criterio già oggettivato[32]: proprio in riferimento al rapporto tra decisione parziale e definitiva, l’applicabilità delle norme sopraggiunte è viceversa stata affermata in sede di quantificazione finale dell’indennità di esproprio, pur se la sentenza di condanna generica non fosse stata impugnata[33].

Quest’ultimo principio è stato applicato al giudizio di rinvio riassunto dopo la cassazione della sentenza che abbia fatto applicazione dei criteri di determinazione in precedenza vigenti[34].

3.5.- Della dichiarazione d’incostituzionalità deve tenersi conto anche ove sia pendente il giudizio in tema d’indennità di occupazione, che, com’è noto, se preordinata alla successiva espropriazione suoli a vocazione edificatoria, è determinabile in misura corrispondente ad una percentuale, legittimamente riferibile al saggio degli interessi legali, della indennità che sarebbe dovuta per l’espropriazione dell’area occupata[35]: sicché cadendo il sistema di calcolo dell’indennità espropriativa, cade necessariamente anche il sistema di calcolo dell’indennità di occupazione.

Affinché non ricorra una preclusione da giudicato all’applicazione dello ius superveniens è sufficiente che sia in discussione l’an o il quantum dell’indennità o del risarcimento, sotto qualsiasi profilo. Venendo ad esaminare più direttamente la casistica circa la persistenza della contestazione sulla misura dell’indennità o del risarcimento, si danno i seguenti casi:

- la contestazione sulla qualità, agricola o edificatoria, del fondo impedisce il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado sul quantum del risarcimento con conseguente obbligo per il giudice d’appello, pur confermando l’accertamento sulla natura del fondo, di procedere all’applicazione d’ufficio di una norma cogente e retroattiva[36];

- è in contestazione l’ammontare del risarcimento quando la lite concerna la fissazione del valore venale del fondo, che costituisce pur sempre il parametro base di commisurazione del danno[37];

- è in contestazione l’ammontare dell’indennità di asservimento, le cui componenti, come noto, sono da codificare in moneta indennitaria, con l’applicazione dell’art. 5-bis alle varie voci [38];

- va considerata pendente anche la questione di indennizzo per l’espropriazione parziale di terreni edificatori, in cui si lamenti la mancata considerazione della perdita di valore del residuo: il deprezzamento che abbiano subìto le parti residue del bene espropriato, è da considerare voce ricompresa nell’indennità di espropriazione, che per definizione riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subìta dal soggetto passivo del provvedimento ablativo, sicché l’indennità va considerata ad ogni effetto unica[39], anche ove il giudice abbia ritenuto, in nome del principio di effettività, di adottare un criterio di stima algebrico (valore negativo del decremento del residuo aggiunto al valore positivo della parte espropriata) piuttosto che di stima differenziale (valore postea sottratto al valore antea)[40].

1.Diversamente, si sono ritenute al di fuori della persistenza della determinazione di indennità e del danno, le seguenti ipotesi:

- allorché oggetto del ricorso sia soltanto la legittimazione passiva riguardo all’esperita azione di risarcimento[41];

- pretesa rilevanza estintiva della pretesa risarcitoria di un decreto di espropriazione in sanatoria[42];

- spettanza del maggior danno per il colpevole ritardo nel pagamento dell’indennità[43];

- questione dell’estensione del suolo oggetto di occupazione appropriativa[44].

3.6.- E’ anche da considerare che la determinazione dell’indennizzo si presta ad essere relativizzata nelle varie componenti del calcolo indennitario, in cui possono avere ingresso anche discipline diverse, o concorrenti, rispetto all’art. 5-bis, comma 1 o comma 7-bis.

La permanente contestazione sul modo di determinare l’indennità, o di liquidare il danno, non deve far perdere di vista che la questione scaturisce dall’impossibilità di applicare una norma dichiarata incostituzionale, e che l’eventuale giudicato sulla determinazione, per quanto possa essere ampio l’ambito della contestazione, non può che avere riferimento all’applicazione di quella norma.

Sicché se quanto risulta non più dibattuto (o mai dibattuto) nel corso del processo resta insensibile alla pronuncia di incostituzionalità[45], pare doversi predicare l’intangibilità dell’indennità determinata, pur se sia pendente un’impugnazione, ove questa abbia ad oggetto l’applicazione dell’art. 16 del d.l. n. 504 del 1992, il quale prevede la riduzione dell’indennità di espropriazione nel caso in cui il proprietario avesse dichiarato, ai fini dell’imposta comunale sugli immobili, un valore del fondo da espropriare inferiore all’indennità. Sia nell’ipotesi in cui è il Comune a dolersi della mancata applicazione del meccanismo correttivo della norma (non essendo in tal caso migliorabile a favore del proprietario la determinazione effettuata secondo l’art. 5-bis), sia ove il proprietario censuri un’applicazione al di fuori delle ipotesi stabilite dalla legge (ad es., mancata dichiarazione ai fini Ici o applicazione d’ufficio da parte del giudice), la pendenza del giudizio, che non ha ad oggetto l’art. 5-bis, non autorizza a vanificare la determinazione secondo il criterio della semisomma. Ove invece fosse in contestazione la concreta applicabilità della riduzione nel confronto tra dichiarazione Ici e indennità ai sensi dell’art. 5-bis, il venir meno di quest’ultimo parametro di riferimento, rimetterebbe in gioco la questione.

3.7.- Qualche considerazione in più va riservata alla liquidazione del danno da occupazione illegittima, in cui convergono, sul mutamento di disciplina inerente la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 5-bis, comma 7-bis, ulteriori nodi problematici costituiti dal sopravvenire del t.u. espropriazioni, con la norma transitoria dell’art. 55, da un lato (di cui è sorprendente che non si sia provveduto ad una declaratoria d’incostituzionalità consequenziale, parallelamente a quanto operato per l’art. 37), e con l’applicabilità dell’istituto dell’acquisizione sanante (art. 43), non disgiunti dalla complicazione ingenerata dall’applicazione criteri di riparto delle giurisdizioni.

La sentenza incide sulle liti relative alle sole occupazioni illegittime di suoli «per causa di pubblica utilità», talché, nei casi in cui non è configurabile l’occupazione appropriativa, per mancanza di valida dichiarazione di pubblica utilità, il proprietario che agendo per il risarcimento abdichi implicitamente alla proprietà, ha comunque diritto al valore venale del bene[46]: e la richiesta risarcitoria va rivolta al giudice ordinario[47].

Intanto va chiarito che la sentenza n. 349 del 2007 non risolve il problema dell’occupazione appropriativa in sé, siccome censurata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti, in quanto contraria al diritto al rispetto dei propri beni.

Non è stata in particolare discussa la problematica del carattere istantaneo o illecito del fenomeno appropriativo, e neppure il termine di prescrizione: aspetti per i quali, dunque, è applicabile la giurisprudenza elaborata negli ultimi anni. La sentenza n. 349 ha solo dichiarato l’incostituzionalità della misura del risarcimento commisurato al comma 7-bis, affermando che al vantaggio riveniente all’amministrazione di avvalersi di un modo di acquisto della proprietà derivante da fatto illecito, non si può cumulare l’ulteriore vantaggio dello sconto sull’obbligo risarcitorio, che dunque va adempiuto secondo criteri d’integralità (prezzo di mercato del bene), al momento della consumazione dell’illecito. Sicché poco importa, a questo punto, che l’occupazione sia scaduta prima o dopo il 30.9.1996, o che il giudizio risarcitorio fosse già pendente al 1°.1.1997 (come esige l’art. 55 t.u.), perché se di occupazione appropriativa si tratta, essa deve essere compensata a valore di mercato: il che, sotto questo profilo, semplifica le cose. Sempre che, con riguardo ai giudizi non definiti, la controversia sulla misura del dovuto sia ancora pendente, secondo i parametri di valutazione dello svolgimento processuale cui si è fatto cenno.

E’ da chiedersi se sul tema degli effetti della pronuncia d’incostituzionalità del risarcimento da occupazione appropriativa possa incidere l’eventuale avvenuta emissione postuma dell’atto di acquisizione.

Tanto per cominciare, è da verificare l’attribuibilità ad essa di un effetto legalmente acquisitivo della proprietà del bene.

Riguardo all’occupazione usurpativa, alla scelta abdicativa della proprietà, da parte del privato “usurpato” nel momento in cui egli si sia determinato all’azione risarcitoria, consegue la perdita della proprietà[48], di modo che l’eventuale acquisto di essa da parte dell’autorità avviene per occupazione di una res nullius[49], e a tale momento, anteriore al formale atto di acquisizione, andrebbe fatto risalire, sia perché, comunque, l’acquisizione potrebbe esser avvenuta in precedenza, per usucapione ventennale.

Riguardo all’occupazione appropriativa, in cui il danno è configurato nell’impossibilità di restituzione del bene per via della sua radicale trasformazione (dal che l’acquisizione in proprietà alla mano pubblica), è l’irrilevante che l’amministrazione proceda con decreto di acquisizione, che, se concepito dalla legge come modo di acquisto postumo della proprietà di terreni comunque utilizzati a fini pubblici (come testualmente prevede l’art. 43, comma 2, lett. e), non può essere applicato ove il passaggio di proprietà sia già avvenuto.

La ricostruzione sistematica della normativa muove dalla dichiarata inapplicabilità delle disposizioni del t.u. (senza esclusione, quindi, dell’art. 43, in base al disposto dell’art. 57, per i progetti per i quali fosse già intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità alla data di entrata in vigore dello stesso t.u.), ma anche dalla specifica regolamentazione dei fatti anteriori, nel corpus normativo, in cui si riproducono (art. 55) le modalità di liquidazione del danno da occupazione appropriativa, di cui all’art. 5 bis, comma 7 bis, d.l. n. 333 del 1992 conv. in l. n. 359 del 1992, come introdotto dall’art. 3, comma 65, l. 662 del 1996 (che si abrogava, ma solo dall’entrata in vigore, ratione temporis, del t.u. – art. 58, nn. 133 e 136 – contemporaneamente all’entrata in vigore del nuovo sistema imperniato sull’atto di acquisizione e sul risarcimento integrale).

Sicché non appare convincente la ricostruzione della giurisprudenza amministrativa[50], sull’applicabilità retroattiva dell’art. 43[51].

Non può continuare a dirsi che l’istituto occupazione appropriativa è alla stregua di un’invenzione giurisprudenziale, disconoscendo l’avvenuta presa d’atto del fenomeno a livello legislativo – con l’art. 55 t.u., in continuità con il comma 7-bis dell’art. 5-bis d.l. n. 333/92 e prima ancora con l’art. 3 l. 27 ottobre 1988 n. 458 – di cui ci si possa sbarazzare in via interpretativa in nome di una soggettivistica applicazione dei principi ispirati alla Convenzione europea dei diritti: non solo perché – ora finalmente è chiaro – al giudice non è consentito disapplicare le norme dell’ordinamento, ma anche perché proprio la giustificazione alla tesi dell’applicabilità retroattiva dell’art. 43 t.u., spesso relazionata all’esigenza di radiare dall’ordinamento un monstrum, quello dell’occupazione appropriativa, occasione di reiterate condanne dello Stato italiano da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, non può far dimenticare che nel precludere la restituzione di un bene occupato in assoluta via di fatto, l’istituto dell’acquisizione sanante mal si concilia con i principi di cui all’art. 1, all. I, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come la stessa Corte di Strasburgo non ha mancato di sottolineare[52]. Il che anzi potrebbe indurre a qualche dubbio di legittimità costituzionale del nuovo istituto, alla luce della riconosciuta natura delle disposizioni della Convenzione, come norme interposte nel sindacato di legittimità (sentenza n. 348 del 2007). E ancora, la stessa Corte costituzionale[53] ha avuto modo di osservare che mentre è plausibile l’applicabilità ante tempus dell’art. 53 t.u., in quanto norma processuale, non così per l’art. 43, che è norma di diritto sostanziale.

Se poi la nuova disposizione possa venir utilizzata dalle amministrazioni al fine della trascrizione (come testualmente previsto dall’art. 43, comma 2, lett. f), questa è vicenda che si pone come successiva e autonoma rispetto all’azione risarcitoria concernente non l’acquisto della proprietà alla mano pubblica, ma il danno per il proprietario consistente nella definitiva inutilizzabilità del bene e nella conseguente perdita: riguardo alla quale la giurisdizione, almeno per le azioni promosse prima della l. n. 205/00, è del giudice ordinario[54].

Una cosa è certa: che nel giudizio per il risarcimento del danno da occupazione appropriativa occorre tener conto – in seguito alla sentenza n. 349 – del venir meno della disciplina del risarcimento regolamentato, secondo le modalità cui sopra si è fatto cenno, senza che l’emanato decreto di acquisizione possa avere la minima rilevanza, tanto meno sulla liquidazione del danno.

3.8.- Della sopravvenuta incostituzionalità dell’art. 5-bis in tema di indennità, e della necessità di rideterminarne l’importo, nell’ambito di giudizi pendenti in cui sulla quantificazione non sia da ritenere intervenuto il giudicato, riguarda anche le ipotesi di cessione volontaria. La pendenza concerne ancora oggi ipotesi di cessione intervenute nella vigenza della legge 29.7.1980, n. 385, riguardo alle quali i proprietari – una volta che quella legge fu dichiarata incostituzionale – agirono per il riconoscimento del conguaglio da commisurare al criterio del valore venale ricavabile dall’art. 39 l. n. 2359/1865, che ridiventava applicabile. In dette cause si è ritenuto applicabile l’art. 5-bis[55], ed ora, se ancora non definite, sempre che sia il proprietario ad aver impugnato la sentenza di merito, occorrerà procedere ad una nuova determinazione, in base al criterio che si riterrà applicabile.

Si pone il problema se a seguito di una cessione volontaria, stipulata sul presupposto dell’applicabilità dell’art. 5-bis, e mai contestata, il cedente possa agire, nei termini della prescrizione, facendo valere l’invalidità del contratto per essere stato il prezzo fissato in base a parametri non più legali.

Ad oggi si è ritenuto, in situazione analoga a quella determinatesi con la dichiarazione d’incostituzionalità di un criterio penalizzante per il proprietario cedente, che ove la cessione volontaria del bene contenga la determinazione del prezzo sulla base del criterio dell’”acconto salvo conguaglio”, secondo i parametri indennitari provvisori di cui alla legge n. 385/80, già dichiarati costituzionalmente illegittimi[56] al momento della stipulazione della cessione, la pattuizione invalida sul prezzo viene automaticamente sostituita, a norma dell’art. 1419, secondo comma, cod. civ., con il precetto ricavabile dal criterio legale, ossia con il criterio del valore di mercato, di cui all’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359[57]. L’affermazione è stata spinta ulteriormente fino a riconoscersi l’invalidità della clausola convenzionale di previsione di un prezzo diverso, commisurato ad una normativa abrogata, non solo qualora i parametri legali, cui le parti si siano riferite, siano stati in seguito dichiarati incostituzionali, ma a maggior ragione allorché al momento della cessione detti parametri non fossero più vigenti, con la conseguenza che la pattuizione invalida sul prezzo viene automaticamente sostituita con il precetto detraibile dal criterio legale, non essendo sufficiente, ai fini della qualificazione dell’operazione in termini di mero negozio di diritto privato per un corrispettivo definitivamente determinato e in suscettibile di integrazioni successive, il mero profilo della eventuale mancata previsione del diritto al conguaglio del prezzo di cessione[58].

L’affermazione è probabilmente eccessiva, posto che la mancata previsione da parte dei contraenti di qualsiasi meccanismo di adeguamento cui agganciare eventuali modifiche nei criteri di determinazione, impedisce ogni intento di revisione o integrazione dell’accordo. Sicché esattamente si è affermato che l’inserzione automatica del precetto retraibile dal criterio legale si giustifica grazie alla previsione contrattuale di un’integrazione nella eventualità del sopravvenire di nuove regole sull’indennità di espropriazione, e l’indeterminabilità del prezzo è esclusa atteso che il relativo patto non introduce elementi di incertezza nel corrispettivo convenuto, ma si esaurisce nella costituzione di un credito aggiuntivo del cedente, per il caso in cui i mutamenti della disciplina normativa, incluso l’art. 5-bis l. n. 359 del 1992, comportino un quantum dell’indennità di espropriazione superiore all’ammontare di quel corrispettivo[59].

Al quesito sopra posto deve quindi, ragionevolmente, darsi risposta negativa, giacché il limite di incidenza della declaratoria d’incostituzionalità è costituito dai rapporti esauriti, e, in riferimento a vicende sostanziali mai interessate da strascichi giurisdizionali, è da fare utile richiamo al concetto di esaurimento degli effetti dell’atto o contratto privato. Sicché è difficile immaginare un’azione di annullamento (o di nullità) della cessione volontaria che abbia prodotto interamente il suo effetto di trasferimento della proprietà, e di cui sia stato interamente corrisposto il prezzo.

L’atto negoziale con il quale i ricorrenti hanno accettato l’indennità di espropriazione offerta conserva la sua validità, anche se è venuta meno la norma giuridica vigente nel momento in cui essi si erano determinati a compierlo[60].

3.9.- Si pone anche il problema della eventuale intangibilità degli accordi, intervenuti nel corso della procedura amministrativa, sull’ammontare dell’indennità.

Intanto, sul piano meramente procedurale, della prosecuzione del procedimento ablatorio ove sorgano contestazioni sul subprocedimento di determinazione indennitaria eventualmente concluso, o eventuali revoche di “condivisioni” sulla misura dell’indennità provvisoria (art. 20, comma 5, t.u.), si può osservare che a differenza della sentenza n. 283/93, in virtù della quale, al fine di porre l’espropriato in condizione di affrancarsi dalla decurtazione del 40%, si configurò un onere dell’espropriante di riformulare l’offerta commisurata ai nuovi criteri, la pronuncia di incostituzionalità contenuta nella sent. n. 348 non induce a postulare adempimento alcuno da parte delle amministrazioni esproprianti. Tanto più che non risulta neppure più utilizzabile il correttivo dell’importo dell’indennità, commisurato allo scarto di un ottavo tra l’indennità offerta e quella definitiva, ai fini di una decurtazione non più praticabile (art. 37 comma 2). E nemmeno sembra potersi far artificiosamente rivivere un frammento del sistema al fine di configurare una decurtazione del 40% del valore venale che l’amministrazione ritenesse di offrire in modo postumo.

L’esaurimento in via amministrativa del subprocedimento di determinazione indennitaria, sia pure secondo i criteri abrogati, legittima l’amministrazione a procedere ugualmente all’emanazione del decreto di esproprio, che all’esistenza della prima è condizionato. Va detto che se la determinazione provvisoria dell’indennità – con il conseguente pagamento o deposito a seconda se vi sia stata condivisione o meno – è condizione dell’ablazione del bene, non lo è la determinazione esatta, e che l’atto amministrativo esiste ed è efficace, finché non venga rimosso, ed è il presupposto per l’utile prosecuzione della procedura.

Sembra potersi enunciare la regola – enunciata in sede di applicazione dell’art. 12, secondo comma, l. 22 ottobre 1971, n. 865 – secondo cui l’accordo sull’indennità espropriativa in seguito ad accettazione, da parte dell’espropriando, dell’ammontare offerto dall’espropriante, configura un contratto di natura pubblicistica i cui effetti non vengono meno né in caso di revoca dell’accettazione[61], se la revoca non sia accettata dall’espropriante, né in caso di ritardo nel pagamento dell’indennità o nella pronuncia del decreto di espropriazione, non incidendo tali eventi sulla possibilità di un utile perfezionamento della procedura, ma potendo solo dar luogo, in presenza di altri presupposti, al risarcimento dei danni per il ritardo nella percezione dell’indennità[62]. Tanto più che della dichiarazione di adesione alla misura dell’indennità determinata dall’espropriante, è prevista l’irrevocabilità. All’espropriando è semmai consentito di revocare un precedente rifiuto, ma non al contrario di sottrarsi all’obbligo cui si sia volontariamente assoggettato[63].

E’ pur vero che la condivisione sull’indennità è solo il presupposto per la conclusione della procedura ablatoria, prevedibilmente con la cessione volontaria, o in mancanza con il decreto di esproprio: ché anzi la vicenda istituzionale in esame conferisce attualità all’ipotesi, prevista dai commi 11 e 12 dell’art. 20 t.u., di una conclusione autoritativa del procedimento, malgrado la condivisione dell’indennità.

Diverso il caso in cui l’espropriando non abbia condiviso, e l’indennità sia stata depositata, o anche determinata in via definitiva in base all’art. 21. In tal caso il rapporto, anche sotto il profilo strettamente procedimentale, non è esaurito.

Il proprietario può anche avere accettato l’indennità dopo la sua determinazione definitiva, nel termine (dilatorio) di gg. 30 (art. 21 comma 12) dalla comunicazione del deposito della relazione peritale di stima (art. 27, comma 1 e 2, t.u.), dopo di che l’espropriante ne autorizza il pagamento o, se non c’è stata accettazione, ne ordina il deposito.

In tutti i casi in cui non vi sia stata condivisione dell’indennità provvisoria (art. 20, comma 5), e nemmeno accettazione dell’indennità definitiva (art. 21, comma 12), il proprietario può contestare la determinazione amministrativa, nel termine di decadenza per l’opposizione alla stima (art. 54).

A questo punto, la contestazione, quali possano essere state le ragioni di mancata condivisione o accettazione delle determinazioni amministrative, può ben riguardare anche il solo criterio legislativo applicabile. La facoltà di chiedere la determinazione giudiziale appare però esclusa, ove la declaratoria d’incostituzionalità sia intervenuta quando il termine per l’opposizione era già scaduto.

E’ appena il caso di aggiungere che la condivisione o l’accettazione restano senza effetto ove la procedura non approdi al suo atto terminale. Già in passato si è detto che l’accordo amichevole sull’ammontare dell’indennità di esproprio non comporta una cessione volontaria del bene, sicché è sempre necessario il completamento del procedimento al fine del passaggio della proprietà del bene dall’espropriato all’espropriante; tale accordo viene altresì a caducarsi ed a perdere efficacia, qualora il procedimento non si concluda con il negozio di cessione o con il decreto di esproprio[64].

La tesi contraria, incline a ravvisare una possibilità di rendere inoperanti gli accordi sull’indennità, intervenuti nel corso del procedimento, potrebbe far riflettere sulla circostanza che i passaggi procedurali dell’espropriazione, miranti all’effetto di pubblico interesse, che è l’acquisizione del bene al fine della realizzazione dell’opera di pubblica utilità, non hanno autonoma rilevanza nella produzione di effetti, e la rispettiva efficacia è analizzabile solo in funzione della conclusione del procedimento.

L’opportunità data ai proprietari di acconsentire alla determinazione amministrativa dell’indennità, è concepita dalla legge non certo in funzione della miglior tutela del diritto soggettivo, ma nell’economia di un’utile e rapida conclusione del procedimento di acquisizione del bene necessario all’uso pubblicistico.

Per la tutela di diritti soggettivi, non sarebbero ammesse decadenze di ordine amministrativo: tanto più che all’incontro tra l’interesse dello Stato all’acquisizione coattiva del bene, e del diritto del proprietario, pur soggetto ad affievolimento per via della “funzione sociale” costituzionalmente caratterizzante il diritto dominicale (art. 42, secondo comma, Cost.), v’è che il diritto può bensì essere sacrificato, ma che esso si converte nel diritto all’indennizzo: e questo non può corrispondere altro che alla previsione normativa vigente nel momento in cui si verifica l’atto finale della vicenda, ovvero il decreto di esproprio.

Nessuna rilevanza definitiva, dunque, potrebbe darsi ad eventuali manifestazioni di volontà intermedie, prestate dal privato nel corso della procedura, sul presupposto della vigenza di una norma, l’art. 37 t.u., che è stata bandita dall’ordinamento.

L’estensione oggettiva degli effetti della pronuncia d’incostituzionalità, deve essere contemperata alla disciplina della prescrizione e della decadenza nell’esercizio di attività o di diritti.

La soluzione da dare al problema della rivedibilità dei criteri d’indennizzo espropriativo, eventualmente consolidati all’interno del subprocedimento amministrativo di determinazione dell’indennità, va dunque relazionata al regime di contestabilità della stessa, nell’ambito dello strumento ad hoc, predisposto dall’ordinamento in favore dell’espropriato (e degli altri soggetti dell’espropriazione), cioè alle condizioni di ammissibilità dell’opposizione alla stima, prevista dall’art. 54 t.u.

L’opposizione può essere proposta entro gg. 30 dal deposito della relazione di stima definitiva: la condizione è comunque che l’indennità non sia stata accettata o concordata, poiché in tal caso la misura dell’indennità diviene definitiva e non più contestabile, e resta precluso il ricorso al rimedio della sua determinazione giudiziale attraverso la proposizione dell’opposizione alla stima, di cui dovrebbe esser dichiarata l’inammissibilità. Rimane beninteso salva la possibilità di intentare un ordinario giudizio di cognizione dinanzi al giudice di primo grado diretto a contestare la validità dell’accordo circa la misura dell’indennità, per farne accertare l’eventuale nullità, annullabilità o rescindibilità[65]: ma non sembra che la circostanza sopravvenuta della dichiarazione di incostituzionalità possa integrare a posteriori il difetto di un elemento essenziale del contratto, o un vizio della volontà, ed essendosi al di fuori dei presupposti di configurabilità della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità, rescissione per lesione. La presupposizione potrebbe essere invocata al fine di una dichiarazione di nullità del contratto di cessione per mancanza di causa o risoluzione, in quanto concluso sulla base di un presupposto oggettivo, comune ad entrambe le parti (espropriante ed espropriando) ma rimasto inespresso, costituito dall’esistenza di criteri legali di determinazione dell’indennità di esproprio per le aree edificabili, successivamente venuti meno per effetto della dichiarazione di incostituzionalità degli stessi.

Si rinviene in proposito una sentenza del Tribunale di Trieste che – chiamato a pronunciarsi sui riflessi della decisione della Corte Costituzionale 19.7.1983, n. 223 su di una cessione volontaria, stipulata ai sensi dell’art. 12 della legge n. 865/71, nella quale erano state richiamate, ai fini della determinazione del corrispettivo, le norme della legge n. 385/80, dichiarate costituzionalmente illegittime con la predetta sentenza della Consulta – ha escluso possa invocarsi la presupposizione, non potendo riconoscersi il diritto del privato di liberarsi dagli effetti di un atto negoziale del tutto esaurito, richiamando l’istituto della presupposizione, in ogni caso di sopravvenuto mutamento della situazione presupposta, con gravi conseguenze per la certezza del diritto e per la stabilità dei rapporti giuridici già conclusi[66].

Le conclusioni che precedono[67] non possono essere infirmate dalla constatazione che l’art. 54 t.u. consente l’azione di determinazione dell’indennità al di fuori della logica impugnatoria della stima amministrativa: l’ultima parte del comma 1 dell’art. 54, infatti (“comunque può chiedere la determinazione giudiziale dell’indennità”), parrebbe abilitare l’espropriato ad invocare l’intervento del giudice, a tutela dei propri diritti, senza alcun collegamento con la vicenda amministrativa. In realtà l’ultima parte del comma 1 va riferita all’ipotesi in cui non vi sia stata determinazione amministrativa, per avere il decreto di esproprio preceduto la stima definitiva, e non potendosi d’altro canto precludere all’espropriato – in applicazione dei principi costituzionali: Corte cost. n. 67/90 – il ricorso al giudice prima e indipendentemente dalla stima amministrativa. Ma l’azione in giudizio è comunque soggetta al regime delle preclusioni stabilite dal comma 2 dell’art. 54, e se il termine di decadenza è scaduto, o se è intervenuto accordo sull’indennità, l’eventuale domanda dovrebbe essere dichiarata inammissibile. A meno che non si pensi di denunciare la disciplina così sistematicamente ricostruita, per violazione degli artt. 3, 24, 42 Cost. Senza di che non sembra possano esservi spazi per un’applicazione diversa degli effetti della sentenza d’incostituzionalità, che, secondo i principi, trova la barriera dell’esaurimento dei rapporti, secondo il regime delle decadenze cui è subordinato per l’esercizio dei diritti.

4.- I criteri applicabili dopo le dichiarazioni d’incostituzionalità.

4.1.- I precedenti più recenti, cui sopra si è fatto riferimento, in tema di ius superveniens nella regolamentazione dell’indennità espropriativa e della misura del risarcimento da occupazione illegittima, hanno riguardato la positiva apposizione di una nuova disciplina, che anche in virtù dell’ampia previsione di applicabilità, alle cause in corso, dei nuovi criteri, ha consentito di risolvere le questioni con costante riferimento al concetto di pendenza o esaurimento del rapporto, e, in ultima analisi, per quanto riguarda le controversie ancora in corso, al giudicato e alla sua estensione oggettiva.

Si apre ora una diversa problematica, sulla disciplina apprestabile all’indennizzo delle aree di cui si inizi ora una procedura espropriativa, o per le quali la doverosa ritrattazione di quanto statuito ai sensi dell’art. 5-bis d.l. n. 333/92, conv. in l. n. 359/92, postula che la domanda delle parti in giudizio, di determinazione dell’indennità espropriativa, sia soddisfatta mercé l’applicazione di un criterio che deve pur esistere, e che il giudice deve applicare.

4.2.- Dalla problematica è esente il capitolo, concernente l’occupazione appropriativa, aperto dalla sentenza n. 349, ove, come già precisato, non si è esaminata la compatibilità dell’in sé dell’istituto, anche alla luce delle norme Convenzionali, ma solo la congruità, ritenuta inadeguata, della disciplina di liquidazione del danno. La risposta sul quid della disciplina applicabile scaturisce immediatamente dal dispositivo della sentenza impugnata, che dichiarando illegittima la norma derogatoria ai principi generali in materia di liquidazione del fatto illecito, ripristina automaticamente i principi generali della responsabilità extracontrattuale (artt. 2043 ss., in particolare 2056 c.c.).

Nella motivazione della sentenza, poi, si trovano ampie considerazioni sulla necessità che il danno nell’occupazione appropriativa sia commisurato all’effettivo pregiudizio, cui conduce una valutazione di equo bilanciamento tra l’ammissibilità di un modo di acquisto della proprietà per fatto illecito, e l’interesse del proprietario ad una rifusione superiore all’indennità in modo apprezzabilmente significativo: il che non può che coincidere, anche in base alle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, con il valore venale.

Ove si provveda alla cassazione della sentenza che abbia liquidato il danno applicando il comma 7-bis dell’art. 5-bis, il giudice di rinvio procederà alla liquidazione in base ai criteri ordinari: la non necessità di ulteriori accertamenti di fatto, per essere il valore base, quale componente della formula divenuta inapplicabile, già determinato in causa e incontestato, ben potrà indurre la Corte, in applicazione dell’art. 384, secondo comma, ult. parte, c.p.c., alla decisione della causa nel merito.

4.3.- Per l’indennità di espropriazione si verifica un vuoto di disciplina legislativa.

In passato, all’indomani delle sentenze degli anni ‘80 che in nome di un’indennità doverosamente agganciata alle caratteristiche oggettive del bene, dichiararono l’illegittimità di quei criteri che, sulla base di una diversa concezione dello ius aedificandi come scorporato dal diritto di proprietà, non si fece altro che postulare la reviviscenza del criterio fondamentale che le leggi istitutive di quei criteri riduttivi avevano abrogato per incompatibilità. Sicché, fermo restando che per i suoli ontologicamente agricoli continuava ad applicarsi l’art. 16 l. n. 865/71, per quelli edificatori si poteva ripiegare sul vecchio criterio del giusto prezzo nella libera contrattazione di compravendita, di cui all’art. 39 della l. n. 2359/1865, emblema di una concezione liberale dello Stato, suppletivamente reso applicabile, anche se durato un decennio, fino all’entrata in vigore dell’art. 5-bis.

Il ripristino tecnico del criterio del valor venale potrebbe non essere possibile. Ad una reviviscenza dell’art. 39, giustificata dall’inapplicabilità dell’art. 5-bis che implicitamente l’aveva abrogato, si opporrebbe la circostanza che esso è stato testualmente abrogato, con tutto il corpus normativo di cui faceva parte, dall’art. 58, n. 1 t.u. espropriazioni. L’abrogazione risale ormai all’entrata in vigore del t.u., dal 1.7.2003, e di fronte ad un’abrogazione testuale, parrebbe problematica un’operazione logica analoga a quella compiuta negli anni ‘80.

4.4.- Non è pensabile che questo stato di impasse possa essere tollerato a lungo dal legislatore, nella constatazione della pratica impossibilità di dar corso a nuove espropriazioni, in cui l’emanazione del decreto conclusivo mancherebbe di uno dei presupposti, quello della determinazione almeno provvisoria dell’indennità.

Giacciono progetti di legge di iniziativa parlamentare: si conosce il progetto di legge n. 3078 (Zeller ed altri: “Modifica all’articolo 37 del testo unico di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 327, in materia di indennità nel caso di esproprio di un’area edificabile”), all’esame della Camera in prima lettura, ove è stato assegnato alla VIII Commissione Ambiente l’11 ottobre 2007.

L’articolo 1 della proposta modifica i commi 1 e 2 dell’articolo 37 del t.u. espropriazioni, al fine – si legge nella relazione – di adeguarli a quanto stabilito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La nuova formulazione del comma 1 stabilisce che l’indennità di esproprio di un’area edificabile per pubblica utilità è pari al valore venale del bene. Il nuovo comma 2 contempla l’ipotesi di esproprio per l’attuazione di riforme economico-sociali e stabilisce un indennizzo ridotto del 25% rispetto al valore venale del bene: la Corte europea – dice ancora la relazione alla presentazione del progetto – ha ritenuto eccessive le riduzioni previste dalla legge vigente, anche in considerazione delle imposte dirette che gravano sull’espropriato.

L’articolo 2 della presente proposta di legge stabilisce, infine, che l’entrata in vigore delle disposizioni in oggetto avvenga il giorno successivo a quello della pubblicazione della legge nella Gazzetta Ufficiale e che le stesse si applicano a tutte le procedure di esproprio in cui il decreto di stima sia comunicato al proprietario successivamente alla medesima data di entrata in vigore.

Non è dato prevedere le chances di approvazione, tanto meno i tempi, del progetto Zeller. Non è campato in aria ritenere che una previsione a scopo di tampone possa esser inserita in sede di approvazione nella legge finanziaria, ove non si ritenga di ricorrere alla decretazione d’urgenza (l’art. 5-bis venne introdotto in sede di conversione di decreto correttivo della finanza pubblica).

4.5.- La sentenza n. 349 non offre i criteri idonei a mettere il giudice in grado di formulare di un criterio indennitario, i cui parametri siano ricostruibili alla stregua dell’ordinamento. La Corte costituzionale avalla la possibilità di introduzione di regimi differenziati d’indennizzo, a seconda che si tratti di “singoli espropri per finalità limitate”, o di “piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale”.

A ciò si aggiunga che nella verifica della conformità alla Costituzione delle norme assunte come interposte nel giudizio di costituzionalità dell’art. 5-bis, ricavabili dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo, si è riaffermato “che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore ablato”. I livelli troppo elevati di spesa che un ricorso generalizzato al criterio del valore venale determinerebbe, non sarebbero giustificabili alla luce degli artt. 42, secondo comma, e 2 Cost., ovvero della funzione sociale della proprietà e del dovere di solidarietà economica e sociale che grava su tutti i cittadini.

Lascia intendere, però, la Corte, che tale effetto non conseguirebbe, ove si destinasse una riparazione più consistente per gli espropri “isolati”.

Il giudice non è in grado di percorrere tali, oltremodo generiche, linee guida, e formulare criteri che appartengono esclusivamente alla discrezionalità del legislatore.

4.6.- Sembra però che in via interinale, e nell’attesa sperabilmente breve di una nuova disciplina indennitaria, il giudice possa far riferimento al valore venale. Che non è il ristoro garantito dalla Costituzione, ma che comunque non è contrario ad essa.

L’applicazione diretta dei dettami della Corte europea, la quale peraltro rivendica il primato del valore venale con maggior larghezza applicativa della Corte costituzionale, con l’unico limite di rivolgimenti istituzionali, appare suppletivamente ammissibile, ora che non si rinviene più l’ostacolo insuperabile della disapplicazione di una norma interna.

L’inadeguatezza del trattamento indennitario assicurato dall’art. 5 bis l. 359/92, è stata da ultimo ribadita.

Nella sentenza della Grande Chambre, del 29.3.2006, Scordino c. Italia, senza mezzi termini ha sancito che per l’espropriazione per fini di pubblica utilità, solo un indennizzo integrale può essere considerato come ragionevole in rapporto al valore del bene. In via generale, solo nel contesto di particolari e contingenti riforme economiche e sociali, o di programmi di politica economica, o di mutamenti di regimi costituzionali, è eccezionalmente tollerabile un rimborso all’espropriato inferiore al valore di mercato.

In precedenza, la condizione di adeguatezza dell’indennità era collegata all’esigenza che il diritto al rispetto dei beni debba assicurare un giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale, e gli imperativi di salvaguardia dei diritti dell’individuo[68], il che — come la stessa sentenza Scordino del 17 maggio 2005 ribadisce — non comporta che l’indennizzo debba necessariamente corrispondere al valore di mercato[69], anche se in altra occasione di stabiliva che solo un indennizzo pari al valore del bene può essere ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto, ma «questa regola non è senza eccezioni», come nel caso in cui l’apprensione dei beni privati sia stata disposta al fine di attuare mutamenti del sistema costituzionale del paese, di tale rilevanza quale il passaggio, in Grecia, dalla monarchia alla repubblica[70].

Il richiamo all’indennità, quale condizione economica di ammissibilità della deprivazione coatta del diritto, è prevista non solo dall’art. 42, terzo comma, Cost., che però non ne qualifica i connotati, ma anche dall’art. 834 c.c., il quale prevede che debba essere “giusta”: l’evocazione di un tal requisito di congruità, che in assenza di indicazioni legislative (in presenza di un criterio di determinazione, invece, è giusta l’indennità riconosciuta dalla legge) evoca categorie del diritto naturale, accosta inevitabilmente l’interprete alla Convenzione dei diritti e delle libertà fondamentali, con i suoi protocolli addizionali, nella esplicitazione che il diritto al rispetto dei propri beni ha ricevuto nell’elaborazione dell’interprete privilegiato di essa, la Corte europea, nella prerogativa che i recenti arresti della Corte costituzionale hanno riconosciuto ad essa.

Alla corrispondenza della giusta indennità con il valore di mercato avvia anche la disciplina in tema di determinazione del prezzo della vendita (art. 1474 c.c.), che al di là della scontata obiezione di estraneità della disciplina dei contratti a prestazioni corrispettive alla sfera dei modi di acquisto coattivo (peraltro a titolo originario) della proprietà, regola il prezzo in una fase postuma, in cui il sinallagma resta sullo sfondo, come antecedente, e dove ciò che rileva è che il giusto prezzo (terzo comma) – inoperanti i criteri dell’atto di autorità, che per definizione manca, e della pratica di vendita del titolare del bene, che è espropriato e non libero venditore (primo comma) – è quello di mercato (secondo comma).

Per non dire, in un intento puntiglioso di ricostruzione sistematica del sistema normativo, che l’art. 5-bis, era applicabile all’espropriazione dei suoli necessari alla realizzazione delle opere approvate prima che l’art. 37 t.u. entrasse in vigore, grazie alla salvezza che lo stesso t.u., all’art. 57, garantiva riguardo alle vicende espropriative iniziate entro il 30 giugno 2003. Venuto meno l’art. 5-bis, quale “normativa vigente a quella data”, non poteva che riemergere il vecchio art. 39 l. n. 2359/1865, la cui abrogazione, per l’art. 58 n. 1, come quella del 5-bis, per il n. 133 dello stesso, faceva comunque salvo quanto previsto dal comma 1 dell’art. 57. E se il valore venale può riemergere ancora, tra le pieghe dell’art. 57, sulle ceneri del 5-bis che l’aveva reso incompatibile, ma di cui era l’immediato precedente – come a suo tempo sulle ceneri dell’art. 16 l. n. 865/71 – la clausola di salvezza all’abrogazione è prevalente. Con il risultato che non vi sarebbe neppure la remora del disagio da parte del giudice di distinguere, come la Corte costituzionale ha suggerito all’iniziativa legislativa, tra “espropri singoli” e “piani di esproprio volti a rendere possibile interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale”.

(Red. Stefano Benini)

f.to. Il direttore

(Giovanni Canzio)

RIFERIMENTI NORMATIVI

Cost., artt. 3, 24, 42, 111, 117, 136

Art. 1 del I prot. CEDU

Art. 29, 30 l. 11.3.1953 n. 87

Art. 1 l.cost. 9.2.1948, n. 1

Art. 1 l. 29.7.1980, n. 385

Art. 5-bis d.l. 11.7.1992, n.333/92, conv. in l. 8.8.1992, n. 359

Artt. 20, 21, 27, 37, 43, 45, 55, 57, 58 d.p.r. 8.6.2001, n. 327

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI

2.Corte cost. 24-10-2007 nn. 348 e 349

Corte cost. 25-1-1980, n. 5

Corte cost. 19-7-1983, n. 223

Corte cost. 16-6-1993, n. 283

3.Corte cost. 2-11-1996, n. 396

Corte cost. 30-4-1999, n. 148

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Cass. 1-12-1986, n. 7109, rv. 449190

Cass. 29-4-1989, n. 2048, rv. 462630

Cass. 24-6-1989, n. 3093, rv. 463220

Cass. 10-11-1993, n. 11100, rv. 484264

Cass. 20-4-1994, n. 3770, rv. 486304

Cass. 22-11-1994, n. 9872, rv. 488759

Cass. 26.6.1996, n. 5915, rv. 498304

Cass. 10.7.1996, n. 6297, rv. 498474

Cass. 18-7-1996, n. 6480, rv. 498617

Cass. 18.11.1996, n. 10086, rv. 500609

Cass. 7-03-1997, n. 2091, rv. 502893

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Cass. 7-03-1998, n. 2542, rv. 513451

Cass. 12-6-1998, n. 5893, rv. 516431

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Cass. 2-9-1998, n. 8706, rv. 518556

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Cass. 11-10-1999, n. 11382, rv. 530579

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Cass. 28-3-2001, n. 4451, rv. 545228

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Cass. 11-6-2004, n. 11098, rv. 573571

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Cass. 29-7-2005, n. 15950, rv. 583718

Cass. 15-9-2005, n. 18239, rv. 582762

Cass. 6-10-2005, n. 19511, rv. 583573

Cass. 11-01-2006, n. 394, rv. 585549

Cass. 10-02-2006, n. 2993, rv. 586955

Cass. 28-02-2006, n. 4395, rv. 587080

Cass. 10-05-2006, n. 10761, rv. 591042

Cass. 26-05-2006, n. 12625, rv. 589498

Cass. 13-6-2006, n. 13659, rv. 589535

Cass. 13.9.2006, n. 19656, rv. 592135

Cass. 13-9-2006, n. 19671, rv. 592142

Cass. 22-11-2006, n. 24857, rv. 593008

Cass. 13-2-2007, n. 3043, rv. 594294

Cass. 19-4-2007, n. 9322, rv. 596970

Cass. 21-5-2007, n. 11782, rv. 597759

Cass. 27-6-2007, n. 14794, rv. 597825

Cass. 2.7.2007, n. 14955, rv. 597365

Tribunale Trieste, 24-7-1985

Cons. Stato, sez. IV, 23-9-2004, n. 6245

Cons. Stato, ad. plen., 29-4-2005, n. 2

Corte eur. diritti dell’uomo 23 settembre 1982, Sporrong e Lonnroth c. Svezia.

Corte eur. diritti dell’uomo 21 febbraio 1986, James c. Regno unito

Corte eur. diritti dell’uomo 9 dicembre 1994, Le saints monastères c. Grecia.

Corte eur. diritti dell’uomo 28 novembre 2002, Koumantos c. Grecia.

Corte eur. diritti dell’uomo 17 maggio 2005, Scordino c. Italia

Corte eur. diritti dell’uomo, Grande Chambre, del 29.3.2006, Scordino c. Italia



[1] Cass. 18-12-1984, n. 6626, rv. 438172.

[2] Corte cost. 2-11-1996, n. 396.

[3] Corte cost., sent. n. 5/80 e n. 223/83, in cui venne riesumato il criterio previgente del giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita, di cui all’immediato precedente legislativo delle norme dichiarate incostituzionali, l’art. 39 l. 2359/1865.

[4] Corte cost. 16.6.1993, n. 283., ord. n. 414 e sent. n. 442/93.

[5] Corte cost. 30.4.1999, n. 148.

[6] Corte cost. 16.6.1993, n. 283.

[7] F. POLITI, Gli effetti nel tempo delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, Padova, 1997, 277.

[8] Si citano come esemplari di questa tecnica, Corte cost. n. 218 del 1994, n. 50 del 1989, n. 398 del 1989, n. 266 del 1988, n. 501 del 1988.

[9] M.R. MORELLI, Incostituzionalità sopravvenuta (anche “a ridosso di precedenti pronunce monitorie, per successiva inerzia del legislatore”), in Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere, Milano, 1988, 183.

[10] M. RUOTOLO, La dimensione temporale dell’invalidità della legge, Padova, 2000, 181.

[11] Vedi le sentenze Cass. 10.7.1996, n. 6297, rv. 498474; 18.11.1996, n. 10086, rv. 500609; 22.11.2000, n. 15062, rv. 541998.

[12] Corte cost. 9.2.1983, n. 30.

[13] Corte cost. n. 87/75.

[14] Cass. 27.11.1998, n. 12061, rv. 521180; 19.2.2004, n. 3331, rv. 570305.

[15] F. POLITI, Del perché la Cassazione continua a ritenere efficaci norme (già dichiarate) incostituzionali, Giur. Cost., 1999, 1374.

[16] Cass. 10-05-2006, n. 10761, rv. 591042.

[17] Cass. 28-07-2005, n. 15809, rv. 583232.

[18] Cass. 1-12-1986, n. 7109, rv. 449190.

[19] Cass. 26-05-2006, n. 12625, rv. 589498; 2-9-1998, n. 8706, rv. 518556; 26-8-1998, n. 8490, rv. 518392.

[20] Cass. 26-03-2004, n. 6072, rv. 571571: “il mero gravame sull’an o sul quantum del risarcimento dei danni non esclude che il giudice d’appello debba applicare d’ufficio i citati nuovi criteri”.

[21] Cass. 22-11-1994, n. 9872, rv. 488759.

[22] Che per definizione non è edificatorio: Cass. 6-10-2005, n. 19511, rv. 583573; 12-6-1998, n. 5893, rv. 516431.

[23] Cass. 15-10-2002, n. 14664, rv. 557923.

[24] Cass. 21-12-2000, n. 16061, rv. 542834.

[25] Cass. 19-04-2002, n. 5728, rv. 553881.

[26] Cass. 7-09-1999, n. 9484, rv. 529710.

[27] Cass. 18-7-1996, n. 6480, rv. 498617.

[28] Cass. 28-08-2000, n. 11224, rv. 539795.

[29] Cass. 7-03-1997, n. 2091, rv. 502893, con specifico riguardo al conguaglio del prezzo di cessione volontaria.

[30] Cass. 21-12-1999, n. 14357, rv. 532409.

[31] Cass. 7-03-1998, n. 2542, rv. 513451.

[32] Cass. 28-02-2006, n. 4395, rv. 587080; 11-6-2004, n. 11098, rv. 573571.

[33] Cass. 21-12-2000, n. 16061, rv. 542834, cit.; 7-3-1997, n. 2091, rv. 502893, cit.

[34] Cass. 10-02-2006, n. 2993, rv. 586955; 24-6-1989, n. 3093, rv. 463220, in cui, annullata dalla Cassazione sentenza che aveva indennizzato a valore venale, con rinvio per l’applicazione del sopravvenuto art. 16 l. n. 865/71, il giudice di rinvio, in relazione alla successiva dichiarazione d’incostituzionalità di tali criteri, nonché di quelli analoghi reintrodotti in via provvisoria dalla l. 29 luglio 1980, n. 385 – sentenze della Corte costituzionale n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983 –, era tenuto a liquidare l’indennità secondo il parametro generale del prezzo di mercato di cui agli art. 39 segg., l. 25 giugno 1865, n. 2359.

[35] Cass. 16-11-2000, n. 14856, rv. 541771; nel t.u., art. 50.

[36] Cass. 11-10-1999, n. 11382, rv. 530579.

[37] Cass. 17-01-1998, n. 363, rv. 511641.

[38] Cass. 14-6-2000, n. 8097, rv. 537578.

[39] Cass. 4-06-2004, n. 10634, rv. 573378.

[40] Cass. 21.5.2007, n. 11782, rv. 597759.

[41] Cass. 17-12-1998, n. 12631, 521721.

[42] Cass. 13-5-1997, n. 4182, rv. 504254.

[43] Cass. 10-11-1993, n. 11100, rv. 484264.

[44] Cass. 26.6.1996, n. 5915, rv. 498304.

[45] Cass. 11-01-2006, n. 394, rv. 585549.

[46] Cass. 16-07-1997, n. 6515, rv. 506046.

[47] Cass. 13-2-2007, n. 3043, rv. 594294; 19-4-2007, n. 9322, rv. 596970; 13-6-2006, n. 13659, rv. 589535.

[48] Cass. 30-1-2001, n. 1266, rv. 543535; 28-3-2001, n. 4451, rv. 545228; 12-12-2001, n. 15687, rv. 551065.

[49] Cass. 18-2-2000, n. 1814, rv. 534014.

[50] Cons. Stato, ad. plen., 29-4-2005, n. 2, Foro it., 2006, III, 71.

[51] Esclusa da Cass. 15-9-2005, n. 18239, rv. 582762.

[52] Corte europea dei diritti dell’uomo 17 maggio 2005, Scordino c. Italia.

[53] Nella sentenza n. 191/06.

[54] Cass. 2.7.2007, n. 14955, rv. 597365; 27.6.2007, n. 14794, rv. 597825.

[55] Cass. 22-11-2006, n. 24857, rv. 593008.

[56] Corte cost., sentenza n. 223 del 1983.

[57] Cass. 13.9.2006, n. 19656, rv. 592135.

[58] Cass. 23-11-2004, n. 22105, rv. 578800.

[59] Cass. 5-07-2000, n. 8969, rv. 538237.

[60] Cass. 18-12-1984, n. 6626, rv. 438172, cit.

[61] Cass. 29-4-1989, n. 2048, rv. 462630.

[62] Cass. 20-4-1994, n. 3770, rv. 486304.

[63] Cass. 29-7-2005, n. 15950, rv. 583718.

[64] Cons. Stato, sez. IV, 23-9-2004, n. 6245, Dir. e giur., 2006, 309, con nota di GHIONNI.

[65] Cass. 13-9-2006, n. 19671, rv. 592142.

[66] Tribunale Trieste, 24-7-1985, Giust. civ., 1986, I, 242, con nota di O. DANESE.

[67] Dette conclusioni collimano con l’opinione di M. BORGO, nella relazione tenuta al Convegno nazionale “Aree edificabili: quale indennità di esproprio”, organizzato dalla rivista Esproprionline, Montegrotto, 22.11.2007.

[68] Corte eur. diritti dell’uomo 23 settembre 1982, Sporrong e Lonnroth c. Svezia.

[69] Così le sentenze 21 febbraio 1986, James c. Regno unito; 9 dicembre 1994, Le saints monastères c. Grecia.

[70] Corte eur. diritti dell’uomo 28 novembre 2002, Koumantos c. Grecia.

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