venerdì 30 novembre 2007

Accessione invertita o appropriativa e usurpativa, giurisdizione

Consiglio di Stato , adunanza plenaria, decisione 22.10.2007 n° 12

- accessione invertita o appropriativa, ovvero esistenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità– giurisdizione esclusiva del GA

- accessione usurpativa, ovvero mera apprensione del bene e di irreversibile trasformazione - giurisdizione del AGO


I “comportamenti”, cioè, che esulano dalla giurisdizione amministrativa esclusiva non sono tutti i comportamenti, ma solo quelli che, tenuto conto dei riferimenti formali e fattuali di ogni concreta fattispecie, non risultano riconducibili all’esercizio di un pubblico potere.
Altrimenti detto, quando può affermarsi che nella specie sia rilevabile un oggettivo, e non meramente intenzionale, svolgersi di un’attività amministrativa costituente esercizio di un potere astrattamente riconosciuto alla pubblica amministrazione o ai soggetti ad essa equiparati, sussiste ogni elemento sufficiente ad affermare la giurisdizione amministrativa.
Caratterizzante, perciò, non è la legittimità dell’esercizio del potere, che, se fosse richiesta, finirebbe per privare di causa la tutela appunto prevista per i casi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, né lo è il maggiore o minore spessore della illegittimità ovvero della situazione giuridica tutelata.
Caratterizzante è , invece, la mera emersione di un agire causalmente riferibile ad una funzione che per legge appartenga all’amministrazione agente e che per legge questa sia autorizzata a svolgere e che, in concreto, risulti svolta
.
Se così è, l’in sé dell’esercizio del potere deve rilevarsi, prioritariamente, in materia comportamentale, non tanto dalle intenzioni e dalla generiche dichiarazioni del soggetto pubblico agente quanto dalle oggettive vicende procedimentali che, mentre nella grande maggioranza dei casi precedono ed accompagnano il fenomeno comportamentale, testimoniano esse, oggettivamente, della rilevanza e della finalità e della consistenza del comportamento consentendo di individuarne la genesi e di distinguerlo dai casi di semplice generica presupposta esistenza del pubblico interesse.
La illegittimità di questo o quel momento procedimentale , cioè di quella serie formale strumentalmente rivolta a realizzare l’interesse pubblico e sintomatica dell’agire autoritativo consentito dalla legge , può sì far concludere per la illegittimità e, nei congrui casi, per la illiceità del comportamento con effetti anche analoghi o uguali a quelli propri della accertata carenza del potere, ma tale conclusione spetta al giudice cui, con garanzie ed effettività di certo non inferiori a quelle apprestate dal giudizio ordinario, compete alla stregua dell’ordinamento: al “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica “.

E a questo “giudice naturale “ compete, in diretta applicazione dei principi di effettività e di concentrazione della tutela nonché delle norme poste dal legislatore ordinario, di conoscere non solo delle domande intese all’annullamento dell’attività autoritativa e, comunque, impugnatorie ma “di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”; risarcimento che, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, è “disposto” con procedure anche innovative (v. art. 7 e 8 L. n. 205 del 2000).



Consiglio di Stato

Adunanza Plenaria

Decisione 22 ottobre 2007, n. 12

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale,

Adunanza Plenaria,

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 8/2007 dell’Adunanza Plenaria (n. 1614/2006 della Sez. IV del Consiglio di Stato) proposto dalla Provincia di Mantova, in persona del Presidente in carica, rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Paolo Colombo e dall’avv. Alessandro Sperati, elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo in Roma, Piazza Mazzini, n. 27.
CONTRO
G. M., rappresentato e difeso dall’avv. Elia Di Matteo, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Francesco Da Riva Grechi in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 109.
NONCHÉ CONTRO
C. E., M. A., R. M., V. G. e N. Costruzioni s.r.l. non costituiti in giudizio.
PER L'ANNULLAMENTO
della sentenza non definitiva del TAR per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia 19 dicembre 2005, n. 1342.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del signor G. M.;
Vista l’ordinanza della Sezione IV. n. 3288/2007 del 19 giugno 2007 con cui è rimesso all’Adunanza Plenaria il ricorso n. 1614/2006;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla pubblica udienza del 15 ottobre 2007, il Presidente Giovanni Ruoppolo e uditi l’avv. Paolo Colombo e l’avv. Elia Di Matteo;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

La Sezione quarta, rimettendo, con sentenza 19 giugno 2007 n. 3288/07, all’Adunanza plenaria di decidere sulla questione di giurisdizione proposta dalla Provincia di Mantova con l’atto di appello in epigrafe, ha accertati e chiariti i fatti in maniera puntuale e completa.
In questa sede, perciò, ci si può limitare a riferire sugli aspetti ancora rilevanti della vicenda rinviando, per una completa disamina, alla sentenza di remissione.
Con provvedimento 30 aprile 1999 n. 119 la Giunta provinciale di Mantova, acquisite le correlate deliberazioni del Comune di Mendole e della Regione Lombardia, approvava il progetto per la esecuzione della circonvallazione di Mendole, ne dichiarava la pubblica utilità e fissava il termine di cinque anni, decorrenti dalla data della delibera, per la conclusione dei lavori e della procedura.
Con successive deliberazioni 2 giugno 2000 n. 137 e 5 dicembre 2002 n. 423 la stessa Giunta, approvando varianti al progetto esecutivo e rinnovando la dichiarazione di pubblica utilità , confermava lo stesso termine finale in precedenza fissato.
Seguivano, intanto, altri atti della procedura relativi alla occupazione d’urgenza (18 ottobre 2000), alla immissione in possesso delle aree (26 ottobre 2001), alla consegna dei lavori ( 26 aprile 2001), alla determinazione delle dovute indennità provvisoria (6 marzo 2001) e definitiva ( 6 dicembre 2002), al frazionamento delle aree interessate alla procedura espropriativa ( 13 settembre 2004), al deposito presso la Cassa DD.PP. delle somme ancora dovute.
Il 17 gennaio 2005, con decreto n, 3273/05, si disponeva infine il trasferimento della proprietà delle aree private in conformità delle risultanze del frazionamento.
L’intera procedura era incisa, insieme agli atti presupposti, da plurimi ricorsi proposti, in tempi diversi, dai soggetti privati titolari delle aree coinvolte che deducevano motivi di violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere nei confronti della Provincia, del Comune e della Regione, dei cui provvedimenti si chiedeva l’annullamento.
Il TAR per la Lombardia, Sezione di Brescia, nel contraddittorio ritualmente formatosi, disposta la riunione di tutti i ricorsi e ritenuta la giurisdizione, con sentenza non definitiva 27 dicembre 2005, n. 1342/05 :
- dichiarava estinti, per rinuncia, i giudizi, avviati con ricorsi 257/99, 697/00, 1284/00, nei confronti dei Signori F. , Branzini e C.;
- dichiarava improcedibili, per sopravenuta carenza di interesse, i ricorsi n. 1544/97, 1548/97, 257/99 e 697/00 e, per quanto riguarda i profili impugnatori, 1284/00 ad eccezione, per questo ricorso, della pretesa risarcitoria già avanzata e dal Signor G. e dai Signori C. e M., rispettivamente acquirente ed alienante di una delle aree coinvolte;
- accoglieva parzialmente il ricorso n. 476/05 annullando il decreto di espropriazione di 17 gennaio 2005 n. 3273/05 e dichiarando la intervenuta, irreversibile trasformazione dei beni occupati;
- disponeva la prosecuzione del giudizio per il completamento della consulenza tecnica già disposta ai fini della pronuncia sulla istanza risarcitoria.
Proponeva appello, con atto notificato al Signor G., nonché ai Signori C. e M., la Provincia di Mantova deducendo alcune questioni pregiudiziali, contestando la ritenuta tardività del decreto di espropriazione e rilevando, per il caso di acclarata decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Si costituiva il solo Signor G. proponendo ricorso incidentale.
Questi e la Provincia illustravano con specifiche memorie le proprie posizioni e concludevano, il primo, in via principale di merito, per la conferma della sentenza di primo grado e per la condanna della Provincia al risarcimento del danno, la seconda, per la declaratoria del difetto di giurisdizione.
La Sezione quarta, accertato che l’espropriazione era stata decretata, in data 7 giugno 2005, dopo la scadenza dei cinque anni decorrenti dalla data della deliberazione della Giunta Provinciale 30 aprile 1999, ha rimesso l’esame della questione di giurisdizione all’Adunanza Plenaria.
Le conclusioni delle parti sono state rassegnate con memorie in data 26 e 30 settembre 2007.

Motivi della decisione.

I - La Sezione quarta, dubitando della permanente attualità – dopo la pubblicazione della sentenza Corte Cost. 11 maggio 2006, n. 191 e delle correlate pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - dei principi ripetutamente affermati dalla Adunanza Plenaria ha correttamente rimesso a quest’ultima il rinnovato esame della individuazione del giudice amministrativo quale giudice cui spetta di pronunciarsi in tema di c.d. accessione invertita, allorché la formale espropriazione intervenga dopo la sopravvenuta inefficacia, per decorso del suo termine finale, della dichiarazione di pubblica utilità.
Correttamente, si è detto, alla stregua delle esigenze che, positivamente poste nei confronti del giudizio per cassazione (art. 374 cod.proc.civ. come sostituito dall’art. 8 D.Lg.vo 2 febbraio 2006, n. 40), derivano da generali principi di certezza del diritto e di economicità della funzione giurisdizionale che ovviamente coinvolgono il processo innanzi al Consiglio di Stato, nel quale è per altro già prevista la opportunità, qui di nuovo sottolineata, della rimessione in ordine a questioni di diritto che abbiano dato luogo o possano dar luogo a contrasti giurisprudenziali ovvero allorché si renda necessaria la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza ( art. 45 co. 2 e 3 T.U. 26 giugno 1924, n. 1054 come sostituiti dall’art. 5 L.21 dicembre 1950, n. 1018 ).
II - La rimessione in parola, è necessario premettere ad ulteriore chiarificazione delle proposte questioni pregiudiziali, concerne esclusivamente il ricorso 1284/2000 ed il ricorso 476/2005 e motivi aggiunti con i quali Signori C. – M. e C. hanno proposto, siccome accertato dal Tribunale regionale amministrativo e ritenuto dalla Sezione quarta, domanda risarcitoria.
Gli altri ricorsi inizialmente proposti risultano, infatti, oggetto di dichiarazione di estinzione per rinunzia ovvero di improcedibilità per carenza di interesse, improcedibilità estesa, dal predetto Tribunale, anche ai motivi del ricorso 1284/2000 relativi alla impugnazione per annullamento di alcuni degli atti emessi nel corso del procedimento di espropriazione il cui atto conclusivo (decreto n. 3273/05 della Provincia) è stato espressamente annullato dal Tribunale, con connessa dichiarazione di irreversibile trasformazione dei beni occupati.
In tale situazione la Sezione remittente ha ritenuto di superare le deduzioni della Provincia relative alla pretesa non integrità del contraddittorio in primo grado e del G. relative alla omessa notifica dell’appello a Regione, Comune, N. s.r.l. e Signori R. e V. I., mentre contro questi ultimi soggetti nessuna domanda risarcitoria è proposta, né si configura alcun loro interesse e mentre Comune e Regione sono stati intimati in primo grado ( il primo si è anche costituito) in relazione agli atti da loro emessi (ric. 1544/97, 1548/97 e 257/99), ed hanno ricevuto notificazione della sentenza appellata, la domanda risarcitoria fu proposta nei soli confronti della Provincia, ente espropriante, e concerne, una volta definiti come s’è ricordato gli altri giudizi, esclusivamente i rapporti tra la stessa Provincia e, ormai, il Signor G. ed i suoi danti causa.
Ne risulta l’infondatezza delle domande di integrazione del contraddittorio ritualmente instaurato e in primo grado e in appello.
L’annullamento, poi, dell’atto finale della procedura di espropriazione e la pronuncia di intervenuta accessione invertita, di per sé non impugnata dal Signor G., e per altro satisfattiva della richiesta tutela , rendono prive di rilievo le di lui deduzioni relative ad atti e comportamenti e della Regione e del Comune, ormai irrilevanti a seguito del predetto annullamento, e della Provincia dalle quali mai potrebbe conseguire la restituzione, e su questa non si insiste nelle conclusioni rassegnate il 7 marzo 2006 ed il 30 settembre 2007, delle aree coinvolte dalla costruzione della strada, pressoché terminata ed aperta al traffico (v. note in atti del Responsabile del procedimento in data 25 febbraio 2004 e 19 aprile 2005) già al 25 febbraio 2004 e, comunque, “parecchi mesi prima dello stesso 19 aprile 2005” e, perciò, nel corso dei termini della dichiarazione di pubblica utilità.
Dato atto di ciò, deve infine rilevarsi che il Tribunale non si è in alcun modo pronunciato sulla domanda risarcitoria, proposta e perfino quantificata nel corso del relativo grado di giudizio (v. oltre alle istanze notificate il 23 febbraio ed il 29 ottobre 2001 le ammissioni nelle memorie della Provincia del 19 dicembre 2000 e del 11 aprile 2001 nonché l’istanza di sospensiva del giudizio indennitario dalla stessa proposta alla Corte di Appello e la correlata ordinanza e v., ancora, il ricorso 11 aprile 2005 notificato il successivo 12 aprile), sulla quale ha soltanto disposto il completamento dell’istruttoria in corso: sono, pertanto, intempestive le relative deduzioni della Provincia nonché degli appellati e perciò inammissibili in questa sede le loro richieste.
III - Si rileva, venendo perciò al punto di diritto in contestazione, che permangono, nella giurisprudenza più recente, significativi contrasti in tema di discriminazione della giurisdizione, contrasti forse avvertiti con maggior disagio di quelli pur vivi nel secolo scorso ora che sussistono condizioni di ulteriore sviluppo sociale ed economico, di correlato aumento della legislazione e delle discipline così civili come amministrative e, perciò, di più forte richiesta di decisioni di merito pronte, facilmente accessibili, coerenti con le esigenze operative e con le aspettative di tutela delle pubbliche amministrazioni, delle imprese e di ciascun componente la comunità nazionale.
I recenti, ripetuti richiami della Corte Costituzionale ( v. da ultimo, sent. 12 marzo 2007, n. 77) ai precetti dell’art. 24 Cost. confermano un orientamento perseguito con ancor più determinata convinzione; orientamento che, sottolineando il valore servente delle forme, pur ferme e vincolanti, rispetto alle aspettative sostanziali, merita di essere condiviso e seguito, come pare sia condiviso dallo stesso legislatore ( cfr., di recente, in tema di giurisdizione e di procedure, la L. 21 luglio 2000, n. 205 e, puntualmente in tema di nullità, la L. 7 agosto 1990, n. 191 ) le cui rinnovate dichiarazioni di volontà semplificatrice si traducono tuttavia, in qualche caso, in complicazioni di discipline di non sottile spessore e di non agevole applicazione da parte di una Amministrazione costretta a troppo frequenti mutamenti dei suoi complessi moduli organizzativi ed operativi ed a tal fine, specie in sede locale, non sempre munita di necessari mezzi e di adeguate strutture.
In generale, ed omettendo analisi storiche altrove e da altri svolte con puntualità e completezza, la discriminazione è positivamente fissata, nel quadro dei rigidi precetti posti dagli artt.24, 102,103, 111 e 113 Cost., dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, - in vigore dal 1 agosto 2000 e seguita dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15 e dal D.Lg.vo 12 aprile 2006, n. 163 - , che, anche riformulando le disposizioni del D.Lg.vo 31 marzo 1998, n. 80, ha sostanzialmente definito il disegno innovatore avviato con l’art. 13 della L. 19 febbraio 1992, n. 142 ed organicamente posto dalla legge di delega 15 marzo 1997, n. 59:
Su questa disciplina è ripetutamente intervenuta e, per quanto qui rileva, specialmente con le sentenze 17 luglio 2000, n. 292, 6 luglio 2004, n. 204, 28 luglio 2004, n. 281, 11 maggio 2006, n. 191, 12 marzo 2007, n. 77 e 27 aprile 2007, n. 140, la Corte Costituzionale.
Punti fondamentali dell’assetto normativo che ne è derivato e che, salvo le integrazioni e le precisazioni appresso indicate, vige attualmente sono: 1) resta fermo, e vincola lo stesso legislatore, che criterio generale di discriminazione è quello fondato sulla natura della situazione giuridica di cui si chiede tutela, nel senso che giudice dei diritti soggettivi è il giudice ordinario e giudice degli interessi legittimi è il giudice amministrativo;
2) resta fermo che è nella, per così dire, ragionevole discrezionalità del legislatore attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in particolari materie (e non in blocchi indiscriminati di materie) specialmente caratterizzate dalla compresenza o dalla difficile qualificazione di diritti soggettivi ed interessi legittimi, anche la tutela di diritti soggettivi;
3) il giudice amministrativo conosce, nell’ambito della sua giurisdizione, sia essa di sola legittimità ovvero, pur con differente dizione, esclusiva, “ anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali conseguenziali “ ;
4) il giudice ordinario, cui non spetta mai giurisdizione sugli interessi legittimi, non ha il potere di annullare i provvedimenti amministrativi nè quello di risarcire il danno conseguente all’annullamento degli stessi da parte del giudice amministrativo, e tuttavia, vertendosi in tema di lesione dei diritti soggettivi non ricompresi nella cennata giurisdizione esclusiva, può disapplicare gli atti dell’amministrazione e provvedere al risarcimento dell’eventuale danno.
IV - Con riferimento al nuovo assetto così sommariamente descritto si sono riproposti alla giurisprudenza spinosi problemi interpretativi già vivi nel quadro della precedente disciplina ed ulteriori questioni sostanziali e procedurali ha posto l’ampliamento della giurisdizione esclusiva e dei poteri del giudice amministrativo.
Deve ricordarsi, al primo proposito, il permanere dalle difficoltà di discriminazione poste dalla dicotomia diritto soggettivo – interesse legittimo nell’ambito di una legislazione che dalla considerazione della loro natura il più delle volte prescinde preferendo enucleare dalle situazioni soggettive e disciplinare puntualmente, con riferimento alla attività amministrativa, tal volta spezzoni qualificabili come facoltà, più spesso aspetti analitici solo mediatamente riferibili ad individuabili situazioni di diritto o di interesse.
Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di situazioni mai direttamente definite dalla legge e di derivazione dottrinale e giurisprudenziale spesso collegate ad esigenze di preconcetti ed immobili schemi sistematici piuttosto che ad ordinamenti e norme i quali supporrebbero, nel loro continuo aggiornarsi, il continuo aggiornamento di un “ sistema “ che, dismessa la pretesa di imporsi alla legge, da questa ricevesse la sua necessaria legittimazione.
Il dibattito, in proposito, è continuo e basti segnalare, di recente, la distinzione proposta dalla Corte di Cassazione (Sez. un. 1 agosto 2006, n. 17461 ) che rivendica la giurisdizione del giudice ordinario in ogni caso quando si sia in presenza di “ posizioni soggettive a nucleo rigido “ (es. in tema di salute e di ambiente ) che, a differenza di quelle “ a nucleo variabile “, sarebbero assolutamente incomprimibili. Siffatta tesi, espressamente contraddetta dalla Corte Costituzionale (sent. 27 aprile 2007, n. 140 ), reca in se il corollario della inesistenza del provvedimento amministrativo che, pur emesso in applicazione di legge, siffatti incomprimibili diritti in concreto incidesse.
Corollario che sembra meritare attenti approfondimenti nel punto in cui pare prescindere e dalle attribuzioni esclusive della Corte Costituzionale in tema di verifica della costituzionalità delle leggi e dalle attribuzioni del giudice amministrativo in tema di provvedimenti che conformemente a legge incidono su situazioni soggettive degradandole, come si è soliti ripetere, ad interesse legittimo.
Riconosciuta a quest’ultimo giudice, com’è doveroso per chiunque, “ piena dignità di giudice “ e tenuto conto della compiuta effettività della sua tutela, organizzata positivamente come efficace e sollecita, non si vede la ragione perché le regole di discriminazione della giurisdizione debbano essere, a fronte dei diritti c.d. “ a nucleo rigido “, di categoria, cioè, suscettibile di estensione ben oltre i casi esemplificati, né si comprende la sottesa, asserita pretesa di una minore incisività della giurisdizione amministrativa .
Di tale opinione non è, per altro, lo stesso legislatore che, in maniera espressa ed univoca, ipotizza, con l’art. 21 co. 8 della L. 1034/71, come integrato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, provvedimenti cautelari del giudice amministrativo anche in tema di “interessi essenziali della persona quali il diritto alla salute, alla integrità dell’ambiente, ovvero ad altri beni di primario rilievo costituzionale”.
E’ ben vero che allo stato si riscontra positivamente in relazione a talune situazioni soggettive del genere di quelle indicate e di altre ancora una ordinaria e prevalente giurisdizione del giudice civile che in nessun modo si contesta; epperò, mentre non può escludersi che in astratto ed in concreto si profilino situazioni di interesse legittimo ovvero di attribuzione di giurisdizione esclusiva, è seriamente controvertibile una tesi che, muovendo dalla categoria dei diritti soggettivi incomprimibili e varcando la soglia della sola descrittività, sancisca aprioristicamente limiti assoluti e non costituzionalmente posti alla giurisdizione amministrativa.
Ai fini della concreta verificazione di questa è necessario poi ribadire che configurano situazioni soggettive di interesse legittimo non solo quelle che come tali originariamente nascono in capo al loro titolare sibbene anche quelle che pur qualificandosi genericamente ed in astratto di diritto soggettivo siano, in presenza di una norma che ciò consenta e di un procedimento ovvero di un provvedimento in tal senso indirizzato, successivamente apprezzabili in concreto come di interesse legittimo. Certo è necessario che procedimento e provvedimento siano svolti e decisi da un’autorità a ciò competente, senza che concorrano violazioni di legge, senza che intervengano sviamenti e note carenze. Questi, tuttavia, sono puntualmente i vizi rimessi allo scrutinio della giurisdizione amministrativa, individuabile anche in base al fondamentale criterio, appresso approfondito, della riconducibilità della lesione sofferta all’esercizio del potere autoritativo in astratto conferito all’autorità. Il criterio innovativo come innovativa è stata la citata legislazione, è per altro frutto anche del consapevole contributo di tutte le riflessioni che, in più di un secolo di elevato e fertile impegno, dottrina e giurisprudenza hanno arrecato : dalla distinzione delle norme di azione dalle norme di relazione, dalle dottrine del diritto condizionato ed affievolito fino alla stessa rilevata notazione dei c.d. diritti a “nucleo rigido “ non v’è nulla di totalmente superato ovvero di superabile con improvvisazione e in ogni riflessione si riscontra un elemento di validità che è di ausilio per sciogliere nodi che legislazione e pronunce costituzionali tendono oggi a rendere meno aggrovigliati nel contestuale riconoscimento della unitarietà, quoad effectum, della giurisdizione, attribuita sì a giudici diversi, ma di uguale dignità, muniti di analoghi poteri ugualmente compiuti ai fini della completezza delle tutele di merito loro commesse, ugualmente intesi ad attuare i precetti degli artt. 24 e 111 Cost. (cfr. Cort. Cost., 12 marzo 2007, n. 77).
Questi aspetti unitari, che valgono ad attenuare, almeno nella concretezza delle vicende giudiziarie, il rilievo di talune estreme questioni di giurisdizione, non consentono, tuttavia, di inferirne il corollario, come avanti si vedrà in tema di “pregiudiziale amministrativa”, della necessità, formale e sostanziale, della uguaglianza della tutela.
V - Si sono posti, al secondo proposito, con riferimento, cioè, al nuovo assetto come sopra descritto, il problema della estensione della giurisdizione esclusiva, sia con riferimento a materie ritenute di solo diritto soggettivo sia con riferimento a precisazioni del legislatore ordinario dell’ambito di cognizione concreta del giudice amministrativo ed il problema, inoltre, della connessione tra la domanda di annullamento e la domanda risarcitoria.
Su questi ed altri problemi, approfonditi in dottrina, è ripetutamente intervenuta, con puntuali pronunce, la Corte Costituzionale che, con le sentenze innanzi citate ha precisato:
a) i confini della giurisdizione esclusiva relativa alla materia dei pubblici servizi e della giurisdizione esclusiva relativa alla materia urbanistica ed edilizia e delle espropriazioni;
b) la natura del potere del giudice amministrativo di provvedere sulle domande risarcitorie e sugli altri diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di annullamento.
Così in materia di pubblici servizi, dalla quale sono state espunte controversie ritenute di diritto soggettivo e, perciò, di pertinenza della giurisdizione ordinaria, come in materia di urbanistica ed edilizia nonché delle espropriazioni, la Corte Costituzionale, confermata la nodale relazione tra l’esercizio di poteri pubblici autoritativi e la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha segnato il limite di quest’ultima.
Ha cioè dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 33 co. 1 D.Lg.vo 31 marzo 1990, n. 80, come sostituito dall’art. 7 lett. b. della L. 21 luglio 2000, n. 205, dell’art. 34 co. 1 del medesimo decreto, nonché dell’art. 53, co.1, del D.Lg.vo 8 giugno 2001, n. 325 ( v. D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 53 ) nella parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva le controversie relative a “ i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediamente, all’esercizio di un pubblico potere “ (così Cort. cost. 11 maggio 2006, n. 191 con riferimento alla giurisdizione esclusiva in tema di espropriazione per pubblica utilità e, in precedenza, Cort. cost. 6 luglio 2004, n. 204 ).
Puntualizzato, da una parte, che l’aggettivo “ mediatamente “ si riferisce, come sopra ricordato, ai casi in cui l’esercizio del potere si realizza nelle consentite forme negoziali, e , d’altra parte, che sussiste, nelle motivazioni delle due sentenze, ancora riprese da quelle successive, un espresso legame sì che esse, integrandosi costituiscono un unico, coerente disegno nei limiti del quale la Corte ammette la legittimità costituzionale delle norme scrutinate, deve subito fissarsi un primo punto.
I “comportamenti”, cioè, che esulano dalla giurisdizione amministrativa esclusiva non sono tutti i comportamenti, ma solo quelli che, tenuto conto dei riferimenti formali e fattuali di ogni concreta fattispecie, non risultano riconducibili all’esercizio di un pubblico potere.
Altrimenti detto, quando può affermarsi che nella specie sia rilevabile un oggettivo, e non meramente intenzionale, svolgersi di un’attività amministrativa costituente esercizio di un potere astrattamente riconosciuto alla pubblica amministrazione o ai soggetti ad essa equiparati, sussiste ogni elemento sufficiente ad affermare la giurisdizione amministrativa.
Caratterizzante, perciò, non è la legittimità dell’esercizio del potere, che, se fosse richiesta, finirebbe per privare di causa la tutela appunto prevista per i casi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, né lo è il maggiore o minore spessore della illegittimità ovvero della situazione giuridica tutelata.
Caratterizzante è , invece, la mera emersione di un agire causalmente riferibile ad una funzione che per legge appartenga all’amministrazione agente e che per legge questa sia autorizzata a svolgere e che, in concreto, risulti svolta
.
Se così è, l’in sé dell’esercizio del potere deve rilevarsi, prioritariamente, in materia comportamentale, non tanto dalle intenzioni e dalla generiche dichiarazioni del soggetto pubblico agente quanto dalle oggettive vicende procedimentali che, mentre nella grande maggioranza dei casi precedono ed accompagnano il fenomeno comportamentale, testimoniano esse, oggettivamente, della rilevanza e della finalità e della consistenza del comportamento consentendo di individuarne la genesi e di distinguerlo dai casi di semplice generica presupposta esistenza del pubblico interesse.
La illegittimità di questo o quel momento procedimentale , cioè di quella serie formale strumentalmente rivolta a realizzare l’interesse pubblico e sintomatica dell’agire autoritativo consentito dalla legge , può sì far concludere per la illegittimità e, nei congrui casi, per la illiceità del comportamento con effetti anche analoghi o uguali a quelli propri della accertata carenza del potere, ma tale conclusione spetta al giudice cui, con garanzie ed effettività di certo non inferiori a quelle apprestate dal giudizio ordinario, compete alla stregua dell’ordinamento: al “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica “.

E a questo “giudice naturale “ compete, in diretta applicazione dei principi di effettività e di concentrazione della tutela nonché delle norme poste dal legislatore ordinario, di conoscere non solo delle domande intese all’annullamento dell’attività autoritativa e, comunque, impugnatorie ma “di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”; risarcimento che, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, è “disposto” con procedure anche innovative (v. art. 7 e 8 L. n. 205 del 2000).
In proposito la Corte Costituzionale, chiarita la irrilevanza della natura giuridica intrinseca alla pretesa risarcitoria, se di per sé di diritto soggettivo o meno, ha escluso la configurabilità della giurisdizione ordinaria “per ciò solo che la domanda abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno” ed ha dichiarato costituzionalmente legittimo il nuovo sistema di riparto che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l’illegittimo esercizio della funzione.
Ciò in quanto il potere di risarcire il danno ingiusto non costituisce una nuova materia attribuita alla cognizione del giudice amministrativo ma uno “strumento di tutela ulteriore “ rispetto a quello demolitorio, strumento che, in armonia con l’art. 24 Cost. ne completa i poteri “non soltanto per effetto della esigenza di concentrare davanti ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo ad offrire piena tutela” oltre che agli interessi legittimi “ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa “ ( Cort. cost. 27 aprile 2007, n. 140).
L’illegittimità dell’esercizio del potere, nel senso sopra precisato, comporta, dunque, sempre nel caso di lesione di interessi e, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, anche nel caso di lesioni di diritti soggettivi, di qualsiasi spessore, la configurabilità della sola giurisdizione amministrativa così nel caso che la domanda risarcitoria venga proposta congiuntamente a quella demolitoria come nel caso che venga proposta autonomamente, derivandosi anche in tal caso la risarcibilità del danno dalla ipotizzata illegittimità dell’attività amministrativa.
La Corte di Cassazione, pur convenendo su tali conclusioni generali (v. già Cass. 23 gennaio 2006, n. 1207), sottolinea ancora , non senza rimarchevoli oscillazioni, perplessità di non lieve momento.
Adducendo ora la perdurante vigenza della L. 20 marzo 1865, all. E, artt. 2 e 4, e non solo dei suoi generali principi così come costituzionalmente recepiti, ora, con non felice espressione, una asserita difficoltà del giudice amministrativo a penetrare le regole civilistiche sul risarcimento del danno ingiusto, ora la individuabilità di diritti in assoluto riservati alla tutela ordinaria, la indicata Corte :
1) limita i casi in cui si è in presenza di “un concreto esercizio del potere“ ai casi in cui l’esercizio stesso sia riconoscibile come tale perché a sua volta deliberato nei modi e in presenza dei requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto ( Sez. un. 13 giugno 2006, n. 13659) “in consonanza con le norme che lo regolano “ (Sez. un. 15 giugno 2006, n. 13911; Cass. 7 febbraio 2007, n. 2691);
2) costruisce una categoria di diritti incomprimibili in maniera assoluta e perciò sempre da comprendere nell’ambito della giurisdizione ordinaria ;
3) asserisce che la giurisdizione amministrativa è rifiutata ove, in presenza di autonoma domanda risarcitoria, il giudice non provvede all’esame di merito per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l’annullamento dell’atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti. In tali circostanze avverte la Corte, il rifiuto si espone a cassazione ex art. 362, co. 1, cod.proc.civ. (Sez.un. 13 giugno 2006, n. 13659 e n. 13660; 5 gennaio 2007, n. 13; 19 gennaio 2007, n. 1139).
Si tratta, come ognuno vede, di perplessità gravi nella misura in cui sostanzialmente evocano, per via di una definizione resa fortemente restrittiva dal suo carattere analitico, la dicotomia sussistenza del potere – esercizio del potere nei termini, anch’essi ambigui , precedenti il nuovo assetto di riparto della giurisdizione; nella parte in cui confliggono con le univoche dichiarazioni della Corte Costituzionale 27 aprile 2007, n. 140 in tema di c.d. diritti incomprimibili e 12 marzo2007, n. 77 in tema di limiti, ex art. 362 e 386 cod.proc.civ., inerenti il controllo dei confini esterni della giurisdizione; nella parte in cui, varcando tali limiti, assoggetta a nuove forme di sindacato le sentenze del giudice amministrativo.
Al primo proposito si rileva che, proprio con riferimento alla materia delle espropriazioni, la Corte di Cassazione, nel suo indirizzo più radicale (v. Sez. un. 7 febbraio 2007, n. 2688, 2689, 2691; 13 febbraio 2007, n. 3048; 19 febbraio 2007, n. 3723; 12 aprile 2007, n. 9323) che sembra attenuato da altro pur recentemente confermato indirizzo (Sez. un. 20 dicembre 2006, n. 27190 e 27192), configura la giurisdizione ordinaria non solo, com’è pacifico, nei casi in cui l’amministrazione agisce, fuori di ogni schema procedimentale, in via di fatto, ma anche nei casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità risulti “radicalmente nulla “ per omessa indicazione dei termini per l’espropriazione o per scadenza degli stessi, ovvero per imprecisioni nella indicazione delle aree.
In tali casi, ed inoltre nei casi di decreto di espropriazione emesso fuori termine, rilevandosi anche violazione dell’art. 42 Cost., si sarebbe, secondo la Corte, in presenza di vizi di spessore maggiore di quelli che, in altri casi, inducendo il giudice amministrativo all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità o del decreto di espropriazione, legittimerebbero, sia pure per sole esigenze di concentrazione, la giurisdizione amministrativa (v. Sez. un. 2 luglio 2007, n. 14594).
Ora la perplessità che tale indirizzo suscita non attiene soltanto alla identificazione di una categoria di speciali vizi che non sembra trovare conforto positivo e che anzi contrasta con le disposizioni analiticamente introdotte con l’art. 14 della L. 11 febbraio 2005, n. 15, ma nella sostituzione del criterio della riferibilità dell’esercizio del potere all’agire autoritativo, riferibilità che come sopra si è visto chiama in causa l’intero procedimento, con il criterio del sindacato concreto della legittimità del provvedimento della cui applicazione si tratta, che non si vede come possa tal volta competere al giudice ordinario e tal altra al giudice amministrativo.
In materia di espropriazione, poi, si prescinde del tutto – non solo dal nuovo regime della nullità introdotto, ad integrazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, dall’art. 14 della L. 11 febbraio 2005, n. 15 – ma anche dall’entrata in vigore, il 30 giugno 2003, del T.U. approvato con D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, il cui art. 43 sembra, come si preciserà più avanti, avere apportato sul punto definitivi chiarimenti.
Dei diritti c.d. incomprimibili s’è detto.
VII - Quanto, infine, al problema della c.d. pregiudizialità amministrativa, istituto risalente nel tempo ed utilizzato di recente in tema di appalti (v. art. 13 L. 19 febbraio 1992, n. 142 e, per qualche profilo generale, Corte cost. 8 maggio 1998, n. 165), esso è estremamente complesso (v.Ad. plen. 26 marzo 2003, n. 4) e qui non pertinente se non per la sua connessione, già richiamata dalla Corte di Cassazione, con la questione della giurisdizione.
Basti, perciò, enunciarne taluni profili problematici, relativi:
- il primo, alla struttura stessa della tutela del giudice amministrativo che, come si è visto è, specialmente articolata sia in sede di giurisdizione di legittimità sia in sede di giurisdizione esclusiva, nel senso che il provvedimento amministrativo lesivo di un interesse sostanziale (e non, perciò, il mero comportamento) può essere aggredito e in via impugnatoria, per la sua demolizione, e “conseguenzialmente” in via risarcitoria, per i suoi effetti lesivi, ponendosi, nell’ uno e nell’altro caso, la questione della sua legittimità.
Il carattere “conseguenziale” ed “ulteriore” della tutela risarcitoria, espressamente ed inequivocamente posto, in armonia con gli artt. 103 e 113 co. 3 Cost., dall’art. 35. co. 1 e 4 del D.Lg.vo 31 marzo 1988, n. 80 e confermato dal successivo co. 5 che comunque abroga “ogni disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario della controversie sul risarcimento del danno” ancora una volta visto come “conseguente all’annullamento di atti amministrativi”, sembra invero incontestabile.
Ed è confermato dalla ritenuta riferibilità della pronuncia di condanna all’insieme dei poteri strumentali attribuiti al giudice per rimediare compiutamente alla lesione della situazione soggettiva concettualmente, prima ancora che positivamente, unica e ciò sia che l’esercizio dei poteri del giudice sia chiesto contestualmente sia che, giudizialmente accertatasi la illegittimità, sia richiesto, per vero con condivisa interpretazione estensiva non del tutto allineata, tuttavia, con le convenienze della “contestualità”, l’esercizio di ulteriori poteri prima non sollecitati.
Non c’è traccia, nella pronunce della Corte Costituzionale di alcun sospetto di illegittimità costituzionale di siffatto disegno ed, anzi, sembra agevole inferirne il contrario.
L’istituto, per altro, autorevolmente confermato da motivate pronunce della stessa Corte di Cassazione (v. 10 gennaio 2003, n. 157; 27 marzo 2003, n. 4538; 23 gennaio 2006, n. 1207), ha, oltre a radici storiche e letterali di univoco rilievo, ragioni del pari univoche.
Deve considerarsi, in proposito, che diritto ed interesse, benché molto spesso partecipi di una assimilabile pretesa ad un c.d. bene della vita, sono situazioni soggettive fortemente differenziate e tali ritenute già a livello costituzionale.
Il primo, per dirla nei noti, riassuntivi termini, è assistito da una tutela tendenzialmente piena e diretta e, nei suoi confronti, è sempre circoscritta la eventualità di condizionamenti esterni, anche se imputabili ad una amministrazione pubblica e, perciò, ad interessi generali.
Il secondo origina da un compromesso, chiaramente solidaristico, tra le esigenze collettive di cui è portatrice, ex art. 97 e 98 Cost.., la amministrazione stessa e la pretesa, di colui che dalla loro legittima soddisfazione è coinvolto, di veder preservati quei suoi beni giuridici che preesistono all’attività pubblica ovvero che nel corso di questa si profilino.
Ne deriva un coinvolgimento costante dell’interesse del singolo nell’interesse della collettività che si esprime nell’attività, non libera, ma doverosa e funzionalizzata dell’amministrazione e questo legame genetico spiega non solo la previsione di una giurisdizione a ciò specificamente deputata ma, insieme, le differenze, che rimangono marcate, che possono individuarsi e in tema di discipline processuali e in tema di connotati della tutela .
I commendevoli contributi acquisiti, in sede dottrinale e giurisprudenziale, in tema “giudizio sul rapporto“, non sembrano condivisibili ove approdino al disconoscimento della natura principalmente impugnatoria dell’azione innanzi al giudice amministrativo, cui spetta non solo di tutelare l’interesse privato ma di considerare e valutare gli interessi collettivi che con esso si confrontano e, non solo di annullare, bensì di “conformare” l’azione amministrativa affinché si realizzi un soddisfacente e legittimo equilibrio tra l’uno e gli altri interessi.
Queste essenziali circostanze, mentre si riflettono sui diversi caratteri del giudizio amministrativo rispetto a quello civile, nel quale si contrappongono pretese ascrivibili ad analoghe fonti e di regola sottratte ad interferenze esterne da parte dell’autorità pubblica, sembrano spiegare e giustificare e la priorità dell’azione impugnatoria, nel cui ambito soltanto è possibile e doveroso esercitare compiutamente l’anzidetto vaglio di legittimità nonché misurare spessore e valenza così della dedotta situazione soggettiva come della denunciata lesione, e la posta “conseguenzialità “ rispetto ad essa, dell’azione risarcitoria.
Non si trascuri che il risarcimento del danno, oltre che “conseguenziale” è previsto, nell’ambito della processualmente qualificante giurisdizione di legittimità, anche come “eventuale” con un attributo, cioè, che mentre è di regola oggetto di ingiustificata pretermissione, riassume e sottopone alla consapevolezza del giudice i travagli che le relative norme hanno inteso risolvere e che, in dottrina, hanno persino indotto a configurare come “speciale” la figura in discorso.
Si ricorderà che la stessa Corte costituzionale aveva avuto modo, nel sottolineare l’urgenza di “prudenti” soluzioni normative, di ipotizzare “scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, reintegrative in forma specifica e ripristinatorie” nonché la “delimitazione delle utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei confronti della pubblica amministrazione” (v.ord.8 maggio 1998, n, 165 e sent. 25 marzo 1980, n. 35) nella considerazione della inesistenza della copertura di rilievo costituzionale della pretesa “regola generale di integralità della riparazione ed equivalenza al danno cagionato” (Cort. Cost. 2 novembre 1996, n. 369), con evidenti rilessi anche di natura processuale.
E’ su queste premesse che, rimasta inattuata la articolata delega di cui all’art. 20 co. 5, lett. h, della legge 15 marzo 1997, n. 59, il legislatore è, infine, pervenuto a stabilire, con formula che privilegia le ritenute esigenze di concentrazione dei giudizi, il criterio della conseguenzialità - evidentemente inteso a confermare la priorità del processo impugnatorio e in vista della prevalenza dell’interesse collettivo al pronto e risolutivo sindacato dell’agire pubblico e in vista della convenienza, per la collettività, dell’esercizio del sindacato stesso secondo criteri e modalità che, essendo positivamente propri del giudizio di annullamento, da esso non consentono di prescindere - ed il criterio della “eventualità “ del risarcimento del danno arrecato all’interesse legittimo, criterio rafforzato dalla diversa prescrizione in tema di giurisdizione esclusiva e che, perciò, non solo esclude automatismi ma impone i predetti apprezzamenti specifici, possibili soltanto allorché sia in causa, siccome suo oggetto principale e diretto, il provvedimento, con le sue ragioni ed i suoi effetti.
E’ su queste premesse, perciò, che dev’essere apprezzato il vulnus che si ritiene connesso alla c.d. pregiudiziale amministrativa che, in effetti, da un lato corrisponde ad avvertite esigenze di controllo, convenientemente sollecitate dalle azioni impugnatorie, della legittimità e della trasparenza dell’azione autoritativa e, d’altra parte, consente il compiuto rilievo degli interessi collettivi e generali coinvolti, rilievo certamente monco e claudicante anche con riferimento alla giurisdizione esclusiva, pur sempre relativa anche ad interessi legittimi e a diritti “degradati”, nell’ambito di un processo di solo tipo risarcitorio, nel quale, per altro, gli interessi economici coinvolti appaiono non più rilevanti degli interessi spesso anche di libertà che si fanno valere, senza che la relativa decadenza sia motivo di censura, nel processo di annullamento.
Lo stesso soggetto leso sembra avere convenienza, a fronte dei non gravissimi disagi correlati alla previsione di decadenza, agevolmente superabili con il doveroso uso della diligenza media e certamente più ridotti rispetto a quelli che la legislazione consente o impone in altre anche se diverse materie, a sperimentare preventivamente l’azione di annullamento, nella cui procedura e nella cui finalità strumentale, gli è consentito rilevare vizi ed approfondirne lo spessore con risultati ben utili ai fini dell’accertamento compiuto dell’an e del quantum della richiesta riparazione.
Ragioni sostanziali, dunque, non meno che formali, sembrano assistere le conclusioni già raggiunte dall’Adunanza plenaria;
- il secondo, alla c.d. presunzione di legittimità, che, mentre involge radicati poteri della pubblica amministrazione e positivi caratteri dei suoi provvedimenti, come la efficacia e la esecutorietà, emergenti da una legislazione costante nel tempo, si tramuta da relativa in assoluta allorché, nel termine di decadenza, - certamente eluso in ipotesi di vanificazione della pregiudiziale - siasi omessa impugnazione ovvero finchè, in presenza di discrezionale apprezzamento, non sia intervenuto annullamento d’ufficio (v. L. 11 febbraio 2005, n. 15 );
- il terzo, alla articolazione della tutela sopra ricordata che, in entrambi i suoi casi, concerne la stessa illegittimità del provvedimento strumentalmente invocata, “principaliter”, e ai fini del buon esito della domanda impugnatoria e ai fini del buon esito della domanda risarcitoria con la conseguenza che, costituisca il “danno ingiusto” fatto o, come sembra preferibile, fattispecie, esso non può essere configurato a fronte di una illegittimità del provvedimento che, per l’assolutezza della cennata presunzione, è, de jure, irreclamabile ;
- il quarto, alla incidenza della lamentata “decadenza” che attiene, a ben vedere, all’azione impugnatoria invece che all’azione risarcitoria, impedita, piuttosto che dalla decadenza, dalla non configurabilità, in presenza di un provvedimento inoppugnabile così come in presenza di un provvedimento inutilmente impugnato, di una sua condizione che la contraddizione legittimità-illeceità rende essenziale, la formale inesistenza, cioè, della ingiustizia del danno che è nucleo essenziale, anche se non sufficiente, della illiceità;
- il quinto, alla concreta equivalenza del giudicato che, rilevando immediatamente la inesistenza della appena ricordata condizione, dichiari la improponibilità della domanda col giudicato che, pronunciandosi, come si pretende, nel merito dichiari infondata – e questa volta con pronuncia inequivocabilmente sottratta a verifica ex art. 362 cod.proc.civ. - la domanda per difetto della denunziata illegittimità;
- il sesto, al reclamato potere regolatore della Corte di Cassazione ( Sez. un, 19 gennaio 2007, n. 1139; 4 gennaio 2007, n. 13 ) che, secondo il correlato avvertimento della Corte Costituzionale (sent. 12 marzo 2007, n. 77) , “con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte di Conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione “. Ad analogo principio, prosegue la Corte Costituzionale “si ispira l’art. 386 cod. proc. civ. applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell’ art. 362, comma primo cod. proc. civ., disponendo che “la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda” ;
- il settimo, ma non ultimo, relativo alla correlata verifica degli eventuali limiti dell’indirizzo della Corte di Cassazione secondo cui la inoppugnabilità dell’atto amministrativo, siccome relativa agli interessi legittimi, non impedirebbe in nessun caso al giudice ordinario di disapplicarlo (v. Cass. 9 maggio 2006, n. 10628 e Cass. 26 maggio 2006, n. 12646).
VIII - Quanto si è fin qui considerato consente di confermare l’attualità degli indirizzi già assunti dall’Adunanza plenaria con riferimento alla questione da decidere, in merito alla quale la giurisdizione amministrativa è affermata anche dalle Sezioni unite (v., da ultimo, 2 luglio 2007, n. 14954).
Già con pronuncia 30 agosto 2005, n. 4 l’Adunanza plenaria ha posto il principio secondo cui deve configurarsi la giurisdizione amministrativa in ordine a “liti che abbiano ad oggetto diritti soggettivi quando la lesione di questi ultimi tragga origine, sul piano eziologico, da fattori causali riconducibili all’esplicazione del pubblico potere, pur se in un momento nel quale quest’ultimo risulta ormai mutilato nella sua forma autoritativa per la sopraggiunta inefficacia disposta dalla legge per la mancata conclusione del procedimento” e ciò anche se il risarcimento è autonomamente richiesto, nei limiti temporali della prescrizione quinquennale (v. Ad. pl. 9 febbraio 2006, n. 2), di seguito all’intervenuto annullamento del provvedimento degradatorio, anche in via di autotutela.
Nello stesso senso si è poi pronunciata Ad. plen. 16 novembre 2005, n. 9, che, anche richiamando analoghi orientamenti delle Sezioni Unite ( ord. 22 novembre 2004, n. 21944 e sent. 31 marzo 2005, n.6745), ha ritenuto compresa nella giurisdizione amministrativa quelle “condotte che si connotano quale attuazione di potestà amministrative manifestatesi attraverso provvedimenti autoritativi che hanno spiegato, secundum legem, i loro effetti pur se successivamente rimossi, in via retroattiva, da pronunce di annullamento”.
Più di recente Ad. plen. 30 luglio 2007, n. 9 che, in fattispecie per più versi analoga, conclude che “nella materia dei procedimenti di esproprio sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione - naturalmente anche ai fini complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all’interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi”.
Infine Ad. plen. 30 luglio 2007, n. 10, ha statuito che pur nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità spetta al giudice amministrativo conoscere, ai fini risarcitori, dei danni conseguiti ad un provvedimento amministrativo annullato per intervenuta scadenza del suo termine di efficacia (nella specie : requisizione) anche se i danni stessi si sono verificati dopo la stessa scadenza.
Ne deriva, conclusivamente, che la domanda per cui è causa è stata correttamente compresa, dal giudice di primo grado, nella giurisdizione del giudice amministrativo in quanto intesa a rimediare, insieme in via impugnatoria e risarcitoria, ad una lesione che risulta conseguente ad una serie procedimentale certamente svolta, dalla Provincia di Modena, nella sua veste di Autorità nell’esercizio, sia pure illegittimo, del potere ad essa spettante.
Assumono particolare rilievo, ai fini della riconducibilità della lesione all’esercizio del potere pubblico, i provvedimenti di variazione e di integrazione della pianificazione urbanistica, i reiterati provvedimenti di dichiarazione di pubblica utilità, i conseguenziali provvedimenti di occupazione e di determinazione e deposito delle indennità nonché lo stesso provvedimento di trasferimento della proprietà che, benché adottato dopo la scadenza del termine fissato dalla dichiarazione di pubblica utilità e perciò illegittimo e perciò annullato, da una parte non inficia la dispiegata efficacia degli atti posti in essere precedentemente – atti giunti a configurare la irreversibile destinazione del bene all’uso pubblico - e, d’altra parte, non vulnera la ritenuta riconducibilità procedimentale dell’attività amministrativa all’esercizio di un pubblico potere autoritativo.
IX - Si deve, infine, sottolineare – e la circostanza sembra avere chiari riflessi nella intera materia delle espropriazioni per pubblica utilità - che, è intanto entrato in vigore, con decorrenza 30 giugno 2003, il T.U. approvato con D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, (v. in merito all’art. 57, Ad. plen. 29 aprile 2005, n. 2 e Sez.un. 30 maggio 2005, n. 11336 e 2 luglio 2007, n. 14954) che, nel suo art. 43 detta una innovativa disciplina in tema di fattispecie già inquadrate negli schemi, contrastati anche dalla Corte di Strasburgo, della c.d. accessione invertita, derivi essa da occupazione acquisitiva o usurpativa.
In presenza di utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico - prescrive la norma - che sia modificato “in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo di pubblica utilità “ l’autorità cui risale l’utilizzazione “anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio” può disporre che l’immobile stesso “vada acquisito al suo patrimonio indisponibile” con provvedimento discrezionale che, verso determinazione e preventivo pagamento della misura del risarcimento del danno, comporta il trasferimento del diritto di proprietà.
La norma, che rimette alla valutazione discrezionale dell’amministrazione di negare la restituzione del bene e che attribuisce al giudice amministrativo di sindacare, nell’ambito della giurisdizione attribuitagli ai sensi del successivo art.53, le ragioni del diniego - secondo alcuni con competenza non solo esclusiva ma estesa al merito - sembra rilevare, per quanto qui interessa, sotto due aspetti.
Da una parte ed in generale essa conferma, infatti, quanto si è venuto esponendo in tema di positiva priorità del criterio di discriminazione fondato sulla “riconducibilità” dell’esercizio del potere all’autorità per altro estendendo la possibilità di accertarlo anche per via del solo accertamento della qualifica di “autorità” del soggetto agente e delle strumentalità del suo agire ai fini della realizzazione degli “scopi di interesse pubblico” la cui cura è ad essa commessa.
D’altra e più specifica parte la norma importa, ed i suoi compiuti effetti debbono essere ovviamente verificati nel nuovo quadro definito dall’intero decreto, una profonda revisione degli istituti dell’accessione invertita così come introdotti e sviluppati dalla giurisprudenza.
La fattispecie regolata resta per più di un verso analoga nei suoi tratti generali posto :
- che non è sufficiente il mero impossessamento del bene immobile altrui ma è necessario che lo stesso immobile sia anche “modificato” ed “utilizzato per scopi di interesse pubblico”, che, cioè, si sia in presenza e di un’attività materiale e di una sua obiettiva strumentalità;
- che permane l’esigenza della qualificazione del soggetto pubblico agente, che, dovendo configurarsi come “autorità” deve agire, alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata, nel riconoscibile esercizio dei suoi poteri autoritativi.
L’istituto è per altro innovato sia, come già rilevato, quanto ai modi di emersione di questo esercizio rispetto ai quali appare fortemente recessiva la rilevanza dei momenti procedurali della dichiarazione di pubblica utilità e del decreto di espropriazione e sintomatica, perciò,la sola astratta previsione del potere; sia quanto all’estensione dell’ambito della discrezionalità amministrativa; sia quanto al meccanismo del trasferimento della proprietà del bene immobile, del quale l’autorità può rifiutare la restituzione nel solo ambito delle cennate garanzie giuridiche ed economiche, la cui esigenza è stata specialmente sottolineata dalla Corte di Strasburgo; sia con riferimento alla tutela giudiziaria, interamente attribuita, ora, con la sola eccezione delle “vie di fatto” materiali, al giudice amministrativo, ben al di là, perciò, dei limiti precedentemente affermati.
Si realizza per tale maniera, nella materia delle espropriazioni (eccezion fatta per le questioni indennitarie) quella estesa concentrazione della giurisdizione che è tra gli obiettivi prioritari della recente legislazione e che, coerente con la acquisita pienezza dei poteri del giudice amministrativo, consente ponderate riflessioni anche nelle altre materie che tuttora esprimono elementi di incertezza sul tema per più versi centrale degli esposti criteri di discriminazione.
X - Ne deriva che, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, l’appello deve essere respinto con assorbimento del ricorso incidentale.
Le spese del grado di giudizio, tenuto conto della complessità delle questioni esaminate e del relativo esito, possono compensarsi.
Deve ordinarsi la rimessione degli atti di causa al Tribunale regionale amministrativo per la Lombardia, sezione di Brescia, per la definizione del giudizio

P.Q.M.

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, respinge l’appello con assorbimento del ricorso incidentale.
Compensa le spese del giudizio di appello.
Ordina la rimessione della causa al Tribunale regionale amministrativo per la Lombardia , sezione di Brescia, per la definizione del giudizio.

Così deciso in Roma dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, riunito in Adunanza plenaria nella camera di consiglio del giorno 15 ottobre 2007 con l’intervento dei signori Magistrati:

Mario Egidio Schinaia - Presidente del Consiglio di Stato
Paolo Salvatore - Presidente di Sezione
Giovanni Ruoppolo - Presidente di Sezione Est.
Raffaele Carboni - Consigliere
Costantino Salvatore - Consigliere
Luigi Maruotti - Consigliere
Carmine Volpe - Consigliere
Chiarenza Millemaggi Cogliani - Consigliere
Pier Luigi Lodi - Consigliere
Giuseppe Romeo - Consigliere
Luciano Barra Caracciolo - Consigliere
Cesare Lamberti - Consigliere
Aldo Fera - Consigliere
Presidente

Estensore Segretario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 22/10/2007

Armi, riforma della normativa sulla detenzione


Schema di disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 23.11.2007


Schema di disegno di legge recante

“Revisione delle norme in materia di porto e detenzione di armi, di accertamento dei requisiti psico-fisici dei detentori, nonché in materia di custodia di armi, munizioni ed esplosivi”

(Approvato dal Consiglio dei Ministri del 23 novembre 2007)

Art. 1

(Modificazioni all'articolo 35 t.u.l.p.s.)

1. All' articolo 35 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 di seguito denominato "testo unico", sono apportate le seguenti modificazioni:

a) i commi quarto e quinto sono sostituiti dai seguenti:

"E’ vietato vendere o in qualsiasi altro modo cedere armi anche tra privati a coloro che non siano muniti di una licenza di porto d'armi o del nulla osta all'acquisto e alla detenzione previsto dall' articolo 37-bis. Salvo che per i titolari di porto d'armi per difesa personale, il nulla-osta è sempre prescritto per la detenzione delle armi nei luoghi di privata dimora e nelle relative appartenenze, ovvero all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.

Il contravventore a taluna delle disposizioni dei commi precedenti è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno e con l'ammenda da euro 100 a euro 250. La stessa pena si applica all'acquirente o al cessionario delle armi.".

b) i commi sesto e settimo sono soppressi.

Art. 2

(Introduzione dell'articolo 37-bis t.u.l.p.s.)

1. Dopo l'articolo 37 del testo unico, è inserito il seguente:

"Art. 37-bis.

1. L'acquisto e la detenzione di armi comuni da parte dei privati sono soggetti al nulla osta del questore.

2. Il nulla osta consente l'acquisto delle armi per le quali è stato concesso entro due mesi dalla data del rilascio. Salvo quanto previsto dall'articolo 43-bis, commi 2 e 3, il nulla osta è, altresì, valido ai fini del trasporto delle armi per le quali è stato concesso fino al luogo di detenzione, nonché, senza limiti temporali, ai fini della detenzione delle stesse nei luoghi di privata dimora e nelle relative appartenenze ovvero, nei casi di dimostrato bisogno, all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.

3. Il nulla osta non è richiesto:

  1. per i titolari di licenza di porto d'armi per difesa personale;
  2. per i titolari di licenza di porto d'armi sportivo, per tiro a volo o per l'esercizio dell'attività venatoria, limitatamente all'acquisto e al trasporto delle armi specificamente destinate a tali attività;
  3. per le persone che per la loro qualità permanente hanno diritto di andare armate, nei limiti di cui all'articolo 38; .
  1. per i titolari di licenza di collezione di armi antiche, artistiche, rare o di interesse storico, limitatamente a tali armi;

4. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la violazione delle disposizioni di cui ai commi precedenti è punita con l'arresto fino a due mesi e con l'ammenda fino ad euro 250.

5. Il nulla osta non può essere rilasciato a minori.".

Art. 3

(Modificazioni all’articolo 42 t.u.l.p.s. e all'articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110)

1. L'articolo -42. del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, è sostituito dal seguente:

"Art. 42.

1. Il porto delle armi fuori dai luoghi di cui all'articolo 37-bis può essere consentito solo per le anni comuni da sparo ed è soggetto a licenza dell'autorità di pubblica sicurezza, nonché ai limiti, alle condizioni ed alle prescrizioni previste da disposizioni di legge o di regolamento o imposte dall' autorità che rilascia la licenza nel pubblico interesse.

2. Per le esigenze di difesa personale, in caso di dimostrato bisogno, la licenza di porto d'armi è rilasciata dal prefetto, per le armi corte, e dal questore, per quelle lunghe, ed ha validità di due anni.

3. Per gli usi venatorio e di tiro a volo la licenza è rilasciata dal questore ed ha validità di sei anni; per le altre attività di tiro la licenza è rilasciata dal questore ed ha validità di due anni. Fuori dei luoghi di caccia e di quelli deputati al tiro, la licenza autorizza esclusivamente il trasporto dell' arma, con l'osservanza delle prescrizioni di sicurezza imposte dall' autorità.

4. Nei confronti di coloro che detengono armi o munizioni acquisite in forza di una licenza di porto d'armi scaduta e non rinnovata, si applicano le disposizioni relative alla detenzione di armi.

5. Ferme restando le disposizioni di legge o di regolamento concernenti il rilascio ed il rinnovo delle licenze di porto d'armi, le copertine delle licenze e le relative fotografie hanno la validità di sei anni.".

2. All'articolo 4, comma 1, della legge 18 aprile 1975, n. 110, le parole "dal terzo comma dell'articolo 42" sono sostituite dalle seguenti: "dall'articolo 42".

Art. 4

(Modificazioni all’art. 43 t.u.l.p.s.)

All’articolo 43 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza approvato con regio decreto 18 giugno 1931 n. 773, sono apportate le seguenti modifiche:

  1. il secondo comma è sostituito dal seguente:

    "La licenza può essere rifiutata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi, in ragione della propria condotta o di altri concreti elementi, non dà sufficiente affidamento di non abusare delle armi.";

  2. dopo il secondo comma sono aggiunti i seguenti:

"La licenza può essere rifiutata anche nel caso di sentenza adottata a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale."

"Le disposizioni del presente articolo si applicano anche relativamente alla licenza di trasporto ed al nulla osta all’acquisto e alla detenzione di armi."

Art. 5

Dopo l’articolo 43 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza approvato con regio decreto 18 giugno 1931 n. 773, è inserito il seguente:

Fermo quanto previsto dall’articolo 43, la licenza di portare armi ed il nulla osta al loro acquisto ed alla loro detenzione non possono, altresì, essere rilasciati a chi non dimostri di avere l’idoneità psicofisica e la capacità tecnica al maneggio delle armi.

L’idoneità psicofisica e la capacità tecnica devono essere comprovate al momento del rilascio. Per i titolari di licenza di porto d’armi per uso venatorio e di tiro a volo, l’idoneità psicofisica al maneggio delle armi viene verificata con cadenza triennale.

  1. Con decreto del Ministro della salute di concerto con i ministri dell’interno , della giustizia e della difesa sono determinate le certificazioni sanitarie e le verifiche diagnostiche e tecniche occorrenti per l’accertamento dell’idoneità psicofisica al porto e alla detenzione delle armi, nonché le certificazioni occorrenti per confermarne la permanenza e la relativa periodicità. Gli organi sanitari pubblici abilitati al rilascio delle certificazioni sono costituiti da almeno tre membri, di cui uno psichiatra. Ai componenti delle predette Commissioni non spetta alcun compenso.

  2. Il questore ha facoltà di rilasciare il nulla osta di cui all’articolo 37-bis anche in assenza delle certificazioni di idoneità psicofisica e della capacità tecnica al maneggio delle armi nei soli casi di acquisto per collezione o raccolta o altri giustificati motivi che non comportano l’impiego dell’arma. In tal caso, il nulla osta contiene l’espressa indicazione del divieto di impiego delle armi e di acquisto e detenzione delle relative munizioni, nonché le prescrizioni per la custodia.
  3. La perdita dell’idoneità psicofisica comporta l’adozione da parte del prefetto dei provvedimenti necessari ai sensi dell’articolo 39. Le armi o le munizioni sono consegnate, senza diritto ad indennizzo, presso l’ufficio di polizia o comando dei carabinieri competente per territorio, per l’ulteriore cessione ad enti che possono legittimamente detenerle o per il versamento agli organi del ministero della difesa che provvedono alla distruzione, salvo quanto previsto dall’articolo 32, nono comma, della legge 18 aprile 1975 n. 110. Su richiesta dell’interessato, allo stesso è assegnato un termine entro il quale le armi o le munizioni possono essere cedute a soggetti autorizzati a detenerle; perfezionata la cessione, gli acquirenti ritirano le armi o le munizioni presso l’ufficio di polizia o comando dei carabinieri ove esse sono custodite.

Art. 6

(Modificazioni all’articolo 20 della legge 18 aprile 1975, n. 110)

  1. All’articolo 20 della legge 18 aprile 1975, n. 110, sono apportate le seguenti modificazioni:

  1. al primo comma, dopo le parole "con ogni diligenza nell’interesse della sicurezza pubblica" sono aggiunte le seguenti: "osservate, in ogni caso, le misure minime di sicurezza determinate con decreto del Ministro dell’interno.";
  2. i commi quinto, sesto e settimo sono sostituiti dai seguenti:

"Chiunque rinviene un’arma o parti di essa, ovvero munizioni di qualsiasi specie, ovvero esplosivi di qualunque natura, è tenuto a darne immediata notizia all’ufficio locale di pubblica sicurezza o, in mancanza, al più vicino comando dei carabinieri, che impartisce le disposizioni per la consegna. L’ufficio presso il quale si effettua il deposito rilascia apposita ricevuta.

Lo stesso obbligo sussiste per chiunque viene a conoscenza dell’esistenza di depositi clandestini di armi, munizioni ed esplosivi.

Il trasgressore è punito con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda fino ad euro 200.".

Art. 7

(Disposizioni transitorie)

1. Salvo quanto disposto dall'articolo 38 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 e dall'articolo 73 del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, coloro che detengono armi o parti di esse e munizioni di qualunque specie acquisite legalmente e non denunciate, non sono punibili ai sensi delle disposizioni vigenti, qualora provvedano, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e, comunque, prima dell' accertamento del reato, a:

  1. denunciarne la detenzione all'ufficio di polizia o comando dei Carabinieri competente per territorio;
  2. cedere le armi o le munizioni a soggetti autorizzati a detenerle;
  3. consegnare le armi o le munizioni, senza diritto ad indennizzo, presso l'ufficio di polizia o comando dei carabinieri competente per territorio, per l'ulteriore cessione a enti che possono legittimamente detenerle o per il versamento agli organi del Ministero della difesa che provvedono alla distruzione, salvo quanto previsto dall’ articolo 32, nono comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110.

Art. 8

(Invarianza di spesa)

1. Dal presente provvedimento non possono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato.

giovedì 29 novembre 2007

Processo pensionistico, corte dei conti, è ammissibile la Ctu secondo il codice di procedura civile affidandola a privati

SS.UU. Corte dei Conti
Sentenza 22 novembre 2007, n. 10

Il giudice contabile, nei giudizi pensionistici, ha la facoltà, ai sensi degli artt. 15, primo comma, e 26 del regio decreto 13 agosto 1933 n° 1038; 73 del regio decreto 12 luglio 1934 n° 1214, e 2, comma 4, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453, convertito dalla legge 14 gennaio 1994 n° 19, di disporre consulenze tecniche d’ufficio secondo le norme del codice di procedura civile, affidandole a professionisti privati.

Corte dei Conti

Sezioni Unite

Sentenza 22 novembre 2007, n. 10

10/2007/QM

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

A SEZIONI RIUNITE

in sede giurisdizionale, composta dai seguenti magistrati :

Antonino COCO Presidente

Rocco DI PASSIO Consigliere

Silvano DI SALVO Consigliere relatore

Maria FRATOCCHI Consigliere

Pino ZINGALE Consigliere

Piergiorgio DELLA VENTURA Consigliere

Enrico TORRI Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio sulla questione di massima deferita dalla Sezione terza giurisdizionale centrale d’appello con ordinanza n° 081/2007 del 18 aprile 2007 ed iscritta al n° 237/SR/QM del registro di Segreteria nel corso del giudizio sull’appello in materia pensionistica proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale regionale per la Calabria in composizione monocratica n° 817 del 19 luglio 2005 e nei confronti della Sig.ra B. C..

Visti gli atti e i documenti di causa;

Uditi, nella pubblica udienza del 24 ottobre 2007, il relatore Consigliere Silvano DI SALVO, l’Avvocato Alessandro PINTUS in rappresentanza e difesa della Sig.ra B. C., la Dott.ssa Anna Maria ALIMANDI in rappresentanza e difesa del Ministero dell’economia e delle finanze, nonché il rappresentante del pubblico ministero nella persona del Vice Procuratore generale Fiorenzo SANTORO.

Ritenuto in

FATTO

Con ricorso depositato il 23 luglio 1985, all’epoca proposto dinanzi alle Sezioni giurisdizionali per le pensioni di guerra di questa Corte, la Sig.ra B. C., rappresentata e difesa dall'Avvocato Alessandro PINTUS, impugnava il provvedimento del Ministero del tesoro n° 2702848 in data 8 maggio 1985 che le negava trattamento pensionistico di guerra di riversibilità richiesto nella qualità di orfana del Sig. B. Francesco- per carenza del requisito dell’inabilità a proficuo lavoro, e chiedeva il riconoscimento del diritto alla corresponsione del già denegato trattamento pensionistico vitalizio in conformità alle tabelle di legge.

Pervenuto il giudizio alla cognizione del competente giudice monocratico della Sezione giurisdizionale per la Calabria, lo stesso pronunciava tre ordinanze istruttorie per l’acquisizione di pareri medico legali sulle questioni di causa, interpellando inizialmente il Collegio medico-legale del Ministero della difesa, dapprima con ordinanza n° 49 del 23 aprile 1998 (riscontrata con parere reso dalla Sezione speciale presso la Corte dei conti nella seduta del 18 giugno 1999), indi con ordinanza n° 277 del 9 settembre 2002 (riscontrata con parere reso dal C.m.l. costituito in Sezioni ordinarie presso il Ministero della difesa nella seduta del 13 ottobre 2003) e, successivamente, rivolgendosi a un sanitario privato specialista in medicina legale, con ordinanza n° 61 del 7 aprile 2004 (riscontrata con relazione depositata il 28 gennaio 2005).

All’esito della predetta fase istruttoria, il menzionato giudice unico delle pensioni della Sezione giurisdizionale regionale per la Calabria accoglieva parzialmente il ricorso pronunciando la sentenza n° 817/2005 del 17 giugno 19 luglio 2005 con la quale –aderendo alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio da ultimo interpellato- dichiarava la spettanza, in favore della ricorrente, di pensione di guerra di riversibilità con decorrenza dal 19 agosto 1991, data di accertata inabilità della ricorrente a proficuo lavoro, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria con pari decorrenza.

Avverso tale sentenza ricorreva in appello l’Amministrazione con atto del 9 novembre 2005, lamentando, per quanto qui interessa, che il giudice di prime cure si è avvalso della consulenza medica di un privato professionista, mentre avrebbe dovuto utilizzare le strutture pubbliche espressamente individuate dalla disciplina vigente, e sostenendo (in adesione a quanto affermato dalla Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello con sentenza 3 settembre 2004, n° 303) che, di conseguenza, detta consulenza deve ritenersi improduttiva di effetti nel processo e la sentenza, perciò, affetta da mancanza assoluta di motivazione.

La Sig.ra B. si costituiva nel giudizio d'appello con il patrocinio dell’Avvocato Alessandro PINTUS che, con note d'udienza depositate il 22 marzo 2007, deduceva l’infondatezza del gravame, anche sul motivo prima indicato.

Investita del giudizio, la Sezione terza giurisdizionale centrale d’appello, con l'ordinanza indicata in epigrafe, premetteva che sulla predetta questione è già in passato intervenuta l’ordinanza della Corte costituzionale n° 131 del 9-16 aprile 1998, che, nel ritenere non escluso innanzi alla Corte dei conti il ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio in materia pensionistica secondo il codice di rito civile, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, terzo comma, della legge 14 gennaio 1994 n° 19 e 2, secondo comma, della legge 8 ottobre 1984 n° 658 sollevata dalla Corte dei conti – Sezione giurisdizionale per la Basilicata, che aveva reputato il combinato disposto di tali norme confliggente con gli artt. 3, primo comma, 24, primo e secondo comma, 97, primo e secondo comma, 108, secondo comma, e 113 della Costituzione “nella parte in cui implicitamente esclude l’ammissibilità della consulenza tecnica d’ufficio disciplinata dall’art. 445 cod. proc. civ.”.

Tuttavia –rilevava la menzionata Sezione terza giurisdizionale- mentre in un primo periodo successivo alla suddetta pronuncia della Corte costituzionale la facoltà del giudice pensionistico di fare ricorso a consulenze tecniche di professionisti privati non è stata posta in dubbio (cfr. ricostruzione di cui all’ordinanza n° 106 del 22 dicembre 2005, pronunciata dalla Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana), alcune sentenze della Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello hanno riaffermato in seguito l’obbligo dell’esclusivo ricorso alle strutture pubbliche sulla base del sopravvenuto art. 20 del d.P.R. 29 ottobre 2001 n° 461 (ex plurimis cfr. sentenze 14 luglio 2004, n° 280; 3 settembre 2004, n° 303; 24 maggio 2005, n° 179; 24 maggio 2005, n° 180 e 14 novembre 2005, n° 365), tanto che la Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana, con l’ordinanza n° 106 del 2005 innanzi citata, rilevato nella fattispecie un contrasto di giurisprudenza, deferiva a queste Sezioni riunite questione di massima, sottolineando altresì l’imponenza e la rilevanza che aveva assunto il fenomeno delle consulenze affidate a professionisti privati.

Ricordando che la proposta questione veniva però dichiarata inammissibile sotto vari profili dalle adite Sezioni riunite con la sentenza 22 giugno 2006 n° 4/2006/QM, la menzionata Sezione terza centrale ha evidenziato nell’epigrafata ordinanza di deferimento l’attuale persistere del già denunciato contrasto nella materia di che trattasi, con particolare riferimento alle opposte conclusioni cui sono pervenute da un lato la sentenza n° 15 del 16 gennaio 2006 pronunciata dalla Sezione prima centrale (favorevole alla possibilità per il giudice pensionistico di avvalersi di consulenze tecniche d’ufficio rese da soggetti diversi dagli organi sanitari pubblici) e, dall’altro, la sentenza della Sezione terza centrale n° 410 del 9 ottobre 2006 (conforme all’orientamento negativo seguito dalla Sezione prima centrale antecedentemente alla sentenza n° 15 del 2006).

La Sezione remittente, dunque, ritenuto che le problematiche connesse al menzionato contrasto giurisprudenziale presentino un elevato grado di complessità interpretativa e si prestino ad un'applicazione generalizzata in un settore di forte impatto sociale, ha sospeso il giudizio su conforme richiesta del difensore dell'appellata, disponendo contestualmente la trasmissione degli atti a queste Sezioni riunite per la risoluzione della seguente questione di massima: “se il giudice contabile debba, nei giudizi pensionistici, rivolgersi, per le consulenze medico-legali, necessariamente alle strutture pubbliche individuate dalle disposizioni di settore oppure abbia anche la facoltà, ai sensi degli artt. 15, primo comma, e 26 del regio decreto 13 agosto 1933 n° 1038, 73 del regio decreto 12 luglio 1934 n° 1214, e 2, comma 4, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453, convertito dalla legge 14 gennaio 1994 n° 19, di disporre consulenze tecniche di ufficio secondo le norme del codice di procedura civile, affidandole a professionisti privati.”.

In data 10 ottobre 2007 ha depositato memoria l’appellata Sig.ra B. C., rappresentata e difesa dall’Avvocato Alessandro PINTUS, richiamando le argomentazioni difensive già prospettate innanzi al giudice d’appello con riferimento all’ammissibilità dell’acquisizione di consulenza tecnica d’ufficio presso un professionista privato, e ribadendo che detta facoltà, secondo la dottrina e la giurisprudenza formatasi sull’argomento, parifica i poteri istruttori di cui devono disporre, quanto meno in materia di diritti, il giudice amministrativo e il giudice ordinario, e rappresenta altresì esplicazione del principio di parità delle posizioni processuali fra le parti che discende direttamente dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955 n° 848. Conclusivamente l’appellata chiede volersi riaffermare la facoltà per il giudice delle pensioni presso la Corte dei conti di potersi avvalere –ove lo ritenga necessario al fine del decidere- di un consulente tecnico d’ufficio diverso da organi sanitari pubblici, nominando un medico legale libero professionista ai sensi degli artt. 191 e 445 c.p.c..

In data 11 ottobre 2007 ha altresì depositato memoria il Procuratore generale presso questa Corte, previamente ricostruendo le vicende processuali esitate nella proposizione della questione di massima oggi in discussione ed evidenziando l’attuale sussistenza del denunciato contrasto giurisprudenziale interpretativo orizzontale in secondo grado, idoneo ad attivare il potere-dovere delle Sezioni riunite di rendere la pronuncia sul punto di diritto deferito, con conseguente ammissibilità della questione proposta, atteso peraltro che sulla analoga questione deferita dalla Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana le Sezioni riunite hanno emesso pronuncia di inammissibilità per carenza di rilevanza e per mancata dimostrazione della sua problematicità nel giudizio a quo.

Nel merito della questione deferita, il requirente ha poi ricostruito il quadro storico-normativo delle disposizioni che hanno disciplinato nel tempo l’attività di consulenza del Collegio medico legale del Ministero della difesa prestata su richiesta della Corte dei conti, pervenendo alla conclusione che, pur potendo ritenersi parzialmente abrogato l’art. 13 della legge n° 416 del 1926 dopo il trasferimento alle singole Amministrazioni della competenza a liquidare le pensioni ordinarie, l’espressa salvezza anche di tale articolo 13, sancita dall’art. 20 del d.P.R. 29 ottobre 2001 n° 461 in sede di abrogazione della citata legge n° 416 del 1926, non può avere altro significato che quello di confermare che la Corte dei conti deve avvalersi nei giudizi pensionistici essenzialmente dell’attività consultiva del Collegio medico legale del Ministero della difesa, cui si affiancano le ulteriori funzioni consultive dell’Ufficio medico legale del Ministero della salute, e, dopo l’entrata in vigore delle leggi 8 ottobre 1984 n° 658 e del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453 convertito nella legge 14 gennaio 1994 n° 19, quelle degli ospedali civili e militari ivi contemplati.

Il Procuratore generale rinviene ulteriore conferma di tale interpretazione nell’art. 5 della legge 21 luglio 2000 n° 205, istitutivo del giudice unico delle pensioni (che non ha fatto richiamo agli artt. del c.p.c. relative alla consulenza tecnica d’ufficio), non smentita dall’ordinanza della Corte costituzionale n° 131 del 1998, ove si fa riferimento all’inapplicabilità dell’art. 13 della legge 11 marzo 1926 n° 416 con argomentazione che sarebbe stata poi superata dall’art. 20 del sopravvenuto d.P.R. n° 461 del 2001 e dall’espresso richiamo ivi operato a detta norma.

Né a diversa conclusione, deduce il Procuratore generale, può condurre l’ulteriore disposizione relativa all’acquisizione di mezzi istruttori nei procedimenti innanzi alla Corte dei conti di cui all’art. 15 del r.d. n° 1038 del 1933, che, in ragione della sua formulazione, non può essere considerata legittimante la facoltà di ricorrere ad organi di consulenza che non siano quelli che la legge ha via via apprestato per i giudizi pensionistici, da ritenersi del tutto adeguata, per la varietà delle opzioni che fornisce, alle esigenze del giudice, atteso peraltro che il consulente tecnico è un organo ausiliario i cui pareri, se del caso, possono essere disattesi dal giudice, non rientrando gli stessi nella categoria dei mezzi di prova.

Infine, osserva il requirente, la tesi favorevole all’affidamento anche a liberi professionisti della c.t.u. comporta ulteriori oneri erariali nei casi di soccombenza dell’Amministrazione e della sua condanna alle spese di consulenza.

Ritiene dunque il requirente che siano tre (e solo tre) le tipologie di strutture consultive medico-legali a disposizione del giudice pensionistico: Collegio medico legale del Ministero della difesa (ovvero Sezione speciale dello stesso presso la Corte dei conti); ospedali militari e civili aventi sede nella regione di operatività del giudice; Ufficio medico legale presso il Ministero della salute, con conseguente mancanza assoluta di motivazione della sentenza che sia motivata sulla sola base di consulenze rese da soggetti non autorizzati dalla legge.

Conclusivamente il Procuratore generale chiede che le Sezioni riunite vogliano risolvere la proposta questione di massima nel senso che il giudice contabile, nei giudizi pensionistici, deve rivolgersi, per le consulenze medico legali concernenti la sussistenza, la dipendenza, la classifica e l’aggravamento delle infermità, necessariamente alle strutture pubbliche individuate dalle disposizione di settore, con esclusione della facoltà di disporre consulenze tecniche di ufficio secondo le norme del codice di procedura civile, affidandole a professionisti privati.

In data 16 ottobre 2007 ha depositato memoria difensiva il Ministero dell’economia e delle finanze, eccependo l’inammissibilità della questione di massima in argomento, rilevando che il contrasto giurisprudenziale evidenziato nell’ordinanza di rimessione non è attuale, avendo la Sezione prima centrale ripristinato l’iniziale orientamento negativo (mutato una tantum con la sentenza n° 15 del 2006) con la sentenza n° 64 del 19 marzo 2007, sicché può allo stato ritenersi uniforme la giurisprudenza delle Sezioni d’appello nel senso che nel processo pensionistico il giudice deve nominare i consulenti pubblici previsti dalla normativa di settore. Né può – secondo il predetto Ministero - ammettersi nella specie questione di massima per particolare complessità interpretativa e per particolare rilevanza della sua soluzione atteso il forte impatto sociale, proprio in quanto la questione è già stata risolta in grado d’appello con pronunce tutte dello stesso segno, sicché la pretesa difficoltà deve considerarsi venuta meno.

Nel merito, previa ricostruzione del quadro normativo, il nominato Ministero osserva che nel processo pensionistico innanzi alla Corte dei conti, nel caso in cui ritenga di avvalersi di un consulente tecnico, il giudice deve utilizzare le strutture sanitarie pubbliche espressamente individuate dalla legge, con conseguenti garanzie di partecipazione del medico di fiducia del ricorrente in caso di visita diretta e di autonomia dei componenti degli organi di consulenza collegiali rispetto all’Amministrazione, oltre che di rispetto del principio di gratuità del giudizio di cui alla costante giurisprudenza della Corte dei conti, che verrebbe meno ammettendo la possibilità di avvalersi di consulenti tecnici privati.

In tali sensi sono formulate dunque le richieste del predetto Ministero in ordine alla soluzione da dare alla proposta questione di massima.

Nell’odierna udienza di discussione l’Avvocato Alessandro PINTUS, per la Sig.ra B. C., ha preliminarmente dedotto l’ammissibilità della proposta questione di massima (aderendo sul punto a quanto sostenuto dal Procuratore generale nella memoria depositata), ribadendo articolatamente, nel merito, la legittima sussistenza per il giudice pensionistico della Corte dei conti della facoltà di avvalersi, ove lo ritenga necessario ai fini del decidere, di un consulente tecnico d’ufficio diverso da organi sanitari pubblici.

A sua volta la Dott.ssa Anna Maria ALIMANDI, per il Ministero dell’economia e delle finanze, ha ribadito l’inammissibilità della questione deferita come già eccepito con memoria scritta, ripercorrendo nel merito le argomentazioni già ivi esposte e confermando la propria posizione negativa in ordine alla possibilità del giudice delle pensioni presso la Corte dei conti di avvalersi di organi di consulenza medico-legale diversi da quelli pubblici indicati dalla legge.

Il rappresentante della Procura generale, premettendo che nella specie ricorrono –come già puntualizzato nella memoria scritta- tutti i presupposti per considerare ammissibile la questione di massima deferita alle Sezioni riunite, ha nel merito ripercorso la normativa che disciplina l’acquisizione di pareri medico-legali da parte del giudice pensionistico della Corte dei conti, ulteriormente illustrando e precisando le conclusioni rassegnate con la richiamata memoria depositata l’11 ottobre 2007, integralmente confermate all’esito della sua requisitoria.

In sede di replica l’Avvocato PINTUS ha sottolineato la necessità che venga garantita la massima ampiezza del novero dei consulenti medico legali d’ufficio utilizzabili innanzi alla Corte dei conti, atteso che nel giudizio pensionistico allo stato non è consentito l’appello per motivi di fatto, sicché le valutazioni del giudicante di primo grado devono essere particolarmente esaustive e, se del caso, qualora la fattispecie dedotta in giudizio sia particolarmente delicata e complessa, detto giudice deve poter far ricorso a consulenti esperti e competenti, anche estranei alla pubblica amministrazione.

Considerato in

DIRITTO

1. Nel corso di un giudizio sull'appello in materia pensionistica di guerra proposto dal Ministero dell'economia e delle finanze avverso una sentenza della Sezione giurisdizionale regionale per la Calabria con la quale è stato riconosciuto il diritto di un’orfana di pensionato di guerra a fruire di pensione di guerra di reversibilità previa acquisizione –tra gli altri- del parere reso a titolo di consulenza tecnica d’ufficio da un professionista privato, è stata rimessa a queste Sezioni riunite, con ordinanza del giudice d'appello, la risoluzione della seguente questione di massima : “se il giudice contabile debba, nei giudizi pensionistici, rivolgersi, per le consulenze medico-legali, necessariamente alle strutture pubbliche individuate dalle disposizioni di settore oppure abbia anche la facoltà, ai sensi degli artt. 15, primo comma, e 26 del regio decreto 13 agosto 1933 n° 1038, 73 del regio decreto 12 luglio 1934 n° 1214, e 2, comma 4, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453, convertito dalla legge 14 gennaio 1994 n° 19, di disporre consulenze tecniche di ufficio secondo le norme del codice di procedura civile, affidandole a professionisti privati.”.

La costituita Amministrazione appellante ritiene preliminarmente inammissibile la deferita questione di massima non ravvisando alcun attuale contrasto della giurisprudenza d’appello della Corte dei conti attesa la corrente univocità delle pronunce emesse sull’argomento, a suo avviso tutte concordemente negative dopo una singola, divergente pronuncia della Sezione prima centrale, preceduta e seguita da sentenze di segno opposto anche di tale Sezione, né potrebbe supplire al riguardo, per detta Amministrazione, il criterio della sussistenza di una particolare rilevanza della soluzione richiesta per il forte impatto sociale della fattispecie ovvero quello della particolare complessità interpretativa delle norme da applicare, vertendosi in un caso di questione già risolta con uniformità interpretativa che comunque non legittima il deferimento del proposto quesito alle Sezioni riunite.

Nel merito della deferita questione sia l’Amministrazione, sia il Procuratore generale, escludono che la vigente normativa legittimi il ricorso da parte del giudice pensionistico della Corte dei conti alla consulenza tecnica d’ufficio resa da professionista privato, mentre di segno opposto sono le conclusioni rassegnate dal difensore dell’appellata.

2. Premesso che la soluzione della questione di massima relativa all’utilizzabilità o meno da parte del giudice pensionistico della Corte dei conti di consulenze tecniche d’ufficio affidate a professionisti privati, quale deferita dalla Sezione terza centrale d’appello, è ammissibile sotto i non controversi profili della rilevanza e del rapporto di pregiudizialità che la richiesta pronuncia va a rivestire con riferimento al giudizio originante, va altresì affermato che nel caso di specie la questione stessa va considerata ammissibile anche sotto l’ulteriore, controverso profilo dell’attualità della sussistenza di un significativo contrasto giurisprudenziale di tipo “orizzontale” in secondo grado, atteso che la sentenza della Sezione prima centrale d’appello (n° 64 del 19 marzo 2007) che avrebbe -ad avviso dell’Amministrazione appellante- ribadito l’orientamento negativo già univocamente adottato anteriormente all’unica sentenza di segno opposto pronunciata dalla stessa Sezione (n° 15 del 16 gennaio 2006), in realtà non riconduce il relativo filone giurisprudenziale nell’alveo di quella appagante reductio ad unitatem ritenuta da queste Sezioni riunite preclusiva di deferimento per risoluzione di contrasto giurisprudenziale in caso di singola pronuncia “orizzontalmente” divergente ma poi univocamente superata da sentenze di segno opposto (cfr. Sezioni riunite, 27 aprile 2004, n° 6).

Anzi, nell’affrontare il motivo di appello proposto dalla parte privata (che si doleva dell’avvenuta esclusiva utilizzazione da parte del giudice pensionistico di pareri emessi da organi medico-legali dell’Amministrazione), la invocata più recente pronuncia non valorizza in senso decisorio il percorso argomentativo già costantemente seguito dalla Sezione prima centrale nelle precedenti, numerose sentenze che hanno delibato al riguardo su appello proposto dalla parte pubblica che si doleva dell’utilizzazione di consulenza tecnica d’ufficio resa da professionista privato (vedansi, ad esempio, le sentenze 4 luglio 2004, n° 280; 3 settembre 2004, n° 303; 24 maggio 2005, n° 179; 24 maggio 2005, n° 180; 5 settembre 2005, n° 273; 19 ottobre 2005, n° 336 e 14 novembre 2005, n° 365), limitando ad obiter dicta parentetici le riflessioni sulla portata e sull’attualità o meno dell’ordinanza della Corte costituzionale 9-16 aprile 1998, n° 131 (per la quale le norme di disciplina del processo avanti alla Corte dei conti “non escludono la consulenza tecnica d’ufficio prevista nel codice di rito civile”), e, comunque, lasciando espressamente “impregiudicata” nella ratio decidendi ogni valutazione in ordine alla facoltà del giudice di rivolgersi a consulenti tecnici d’ufficio diversi da quelli previsti dalla normativa di settore (cfr. parte finale della motivazione della sentenza n° 64 del 2007 cit.).

A ciò va aggiunto che la medesima Sezione prima centrale d’appello, con la ancor più recente sentenza 18 settembre 2007, n° 252, nel pronunciarsi sull’appello proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze avverso una sentenza della Sezione giurisdizionale per il Friuli Venezia Giulia che aveva accolto un ricorso proposto in materia pensionistica basandosi esclusivamente su consulenza tecnica d’ufficio resa da privato professionista “prescindendo dalla valutazione dei consulenti pubblici”, ha respinto la sollevata eccezione di carenza di motivazione della sentenza appellata, “poiché il primo Giudice ha ampiamente motivato circa l'adesione alla consulenza tecnica di ufficio, dopo aver diffusamente esplicitato i motivi per cui ha ritenuto di disattendere i pareri acquisiti dall'Amministrazione”, ancora una volta lasciando impregiudicata nell’economia della decisione ogni valutazione in ordine alla sussistenza o meno, nell’ordinamento giuridico positivo, della facoltà del giudice pensionistico della Corte dei conti di rivolgersi a consulenti tecnici d’ufficio privati professionisti.

Peraltro la problematicità della deferita questione va valutata anche alla luce della implicita, ma costantemente significativa ammissibilità della consulenza tecnica d’ufficio resa da professionista privato riconosciuta dalla giurisprudenza della Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana (ex multis, vedansi sentenze 27 ottobre 2005, n° 213; 28 ottobre 2005, n° 219; 4 aprile 2006, n° 77, da leggere unitamente alle relative sentenze di primo grado appellate, e si confrontino i richiami contenuti nell’ordinanza 22 dicembre 2005, n° 106, di deferimento di analoga questione di massima, dichiarata inammissibile da queste Sezioni riunite -per difetto di rilevanza nel giudizio originante e per mancanza di argomentazione circa la sua effettiva problematicità in relazione al processo presso la Corte dei conti- con la sentenza 22 giugno 2006, n° 4/QM).

Pertanto, aderendo sul punto a quanto sostenuto dal Procuratore generale e condiviso dal difensore dell’appellata, e respingendo l’eccezione al riguardo sollevata dal Ministero dell’economia e delle finanze, la deferita questione di massima va dichiarata ammissibile.

3. Nel merito, va poi osservato quanto segue.

La legislazione vigente prevede specificamente la facoltà, per il giudice pensionistico della Corte dei conti, di richiedere “pareri” al Collegio medico legale del Ministero della difesa (art. 12 della legge 11 marzo 1926 n° 416) e alla Sezione di tale Collegio istituito presso la sede centrale di questa Corte in Roma (art. 2, primo comma, della legge 22 dicembre 1980 n° 913), nonché agli organi previsti dall’ultimo comma dell’art. 2 della legge 8 ottobre 1984 n° 658 quale operante in virtù del richiamo di cui all’art. 1, terzo comma, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453 convertito nella legge 14 gennaio 1994 n° 19 (“ospedali militari o civili aventi sede nella regione”), oltre che –al pari di altri “organi giudiziari”- a collegi medici istituiti presso il Ministero della salute (art. 4-bis del d. lgs. 30 giugno 1993 n° 266 quale aggiunto dall’art. 52 della legge 16 gennaio 2003 n° 3), a prescindere dalla particolare disciplina operante per la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione siciliana in base al decreto del Ministro della difesa del 10 luglio 1989 (che –successivamente alla sentenza della Corte costituzionale n° 270 del 25 febbraio-10 marzo 1988 con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell’art. 3, numero 3, del d. lgs. 6 maggio 1948 n° 655 nella parte in cui non prevede l'attribuzione alla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione siciliana dei giudizi sui ricorsi e sulle istanze in materia di pensioni, assegni e indennità militari e di guerra, relativi a cittadini residenti nella Regione stessa- ha istituito presso l’Ospedale militare di Palermo una Commissione medico-legale avente il compito di mettere in grado la predetta Sezione di poter disporre in loco di un organo di consulenza medico legale).

4. Sull’ammissibilità dell’utilizzo da parte del giudice delle pensioni in aggiunta agli organi di consulenza pubblici innanzi indicati- di consulenti tecnici d’ufficio privati, si è venuto a creare il già evidenziato contrasto giurisprudenziale, affermandosi, da un lato, l’ammissibilità dell’utilizzo nel giudizio pensionistico di consulenze tecniche d’ufficio quali previste nel codice di procedura civile, ritenute quanto meno “non escluse” dalla predetta normativa di settore, e viceversa sostenendosi, sull’opposto versante argomentativo, che, in caso di utilizzo da parte del giudice pensionistico della Corte dei conti di un ausilio peritale in corso di giudizio, deve farsi ricorso in via esclusiva alla funzione consultiva delle strutture pubbliche specificamente indicate dal legislatore.

La posizione favorevole all’utilizzo di consulenti tecnici d’ufficio privati si fonda essenzialmente sulle argomentazioni formulate dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n° 131 del 9-16 aprile 1998 che, nel ritenere non escluso innanzi alla Corte dei conti il ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio in materia pensionistica secondo il codice di rito civile, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, terzo comma, della legge 14 gennaio 1994 n° 19 e 2, secondo comma, della legge 8 ottobre 1984 n° 658 sollevata dalla Corte dei conti – Sezione giurisdizionale per la Basilicata, che aveva reputato il combinato disposto di tali norme confliggente con gli artt. 3, primo comma, 24, primo e secondo comma, 97, primo e secondo comma, 108, secondo comma, e 113 della Costituzione “nella parte in cui implicitamente esclude l’ammissibilità della consulenza tecnica d’ufficio disciplinata dall’art. 445 cod. proc. civ.”.

La posizione più restrittiva si fonda invece sostanzialmente sia sull’esistenza stessa di un’articolata e specifica normativa di settore che disciplina in maniera esaustiva l’attività ausiliaria di consulenza medico legale per il giudice pensionistico della Corte dei conti, sia sul mancato richiamo, nell’art. 5 della legge 21 luglio 2000, n° 205, istitutivo del giudice unico delle pensioni, di norme del codice di rito civile disciplinanti la consulenza tecnica d’ufficio, pur avendo il legislatore puntualmente indicato in detto articolo le norme codicistiche che presso tale organo monocratico vanno applicate (segnatamente : artt. 420, 421, 429, 430 e 431 del codice di procedura civile), sia, infine, sull’espressa salvezza –decretata dall’art. 20 del d.P.R. 29 ottobre 2001 n° 461 in sede di abrogazione della legge 11 marzo 1926 n° 416- degli artt. 11, 11-bis, 12, 13 e 14 della medesima legge, tra cui, appunto, la norma per la quale “La procura generale presso la Corte dei conti, la sezione IV e le divisioni pensioni della Corte stessa, in sede di liquidazione di pensione ai personali contemplati dalla presente legge, dovranno esclusivamente rivolgersi al collegio medico-legale istituito col precedente art. 11, qualora reputassero necessario un ulteriore parere medico-legale od una ulteriore visita diretta del richiedente la pensione.” (art. 13 cit.).

A ciò va aggiunto che la suindicata tesi negativa reputa la già menzionata ordinanza della Corte costituzionale n° 131 del 1998, posta a sostegno dell’opposto indirizzo giurisprudenziale, in realtà superata proprio dalla sopravvenuta normativa di cui ai citati artt. 5 della legge n° 205 del 2000 e 20 del d.P.R. 29 ottobre 2001 n° 461, e, pertanto, comunque non utile a ritenere attualmente ammissibile la facoltà di utilizzo di consulenti tecnici d’ufficio privati innanzi al giudice pensionistico.

5. Per quanto concerne la pretesa significatività dell’omesso richiamo nell’art. 5 della legge 21 luglio 2000, n° 205 a norme relative alla consulenza tecnica d’ufficio, va considerato che l’ordinamento della Corte dei conti già anteriormente all’entrata in vigore delle disposizioni sul giudice unico pensionistico ammetteva l’utilizzo dei mezzi istruttori offerti anche dal codice di procedura civile (vedansi in particolare gli artt. 15, primo comma, e 26 del r.d. 13 agosto 1933 n° 1038, l’art. 73 del r.d. 12 luglio 1934 n° 1214 e l’art. 2, quarto comma, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453, convertito nella legge 14 gennaio 1994 n° 19 ad hoc richiamati dalla Corte costituzionale nella già menzionata ordinanza n° 131 del 1998), sicché nell’omesso specifico richiamo a disposizioni codicistiche in sede di istituzione del predetto organo giurisdizionale monocratico non può fondatamente cogliersi una intentio legis orientata verso una limitazione del già previsto novero di mezzi istruttori utilizzabili nel giudizio pensionistico, tanto più laddove si consideri che proprio allorquando queste Sezioni riunite hanno affermato –come dedotto dal Procuratore generale- che nel giudizio pensionistico dinanzi alla Corte dei conti la normativa sul processo del lavoro è applicabile limitatamente agli artt. 420, 421, 429, 430 e 431 del c.p.c. (sentenza n° 6/QM del 9 luglio 2001), l’individuazione delle ulteriori norme applicabili nella peculiare fattispecie allora presa in considerazione (relativa alle modalità di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio pensionistico successivamente alla riforma di cui all’art. 6 della legge n° 19 del 1994) è stata operata dapprima verificando se il corpus delle disposizioni speciali (in particolare di quelle recate dal r.d. 13 agosto 1933 n° 1038 e dal r.d. 12 luglio 1934 n° 1214) contemplasse una disciplina specifica utilizzabile al riguardo, indi, e solo all’esito negativo di tale accertamento, ammettendo, in virtù del rinvio dinamico di cui all’art. 26 del r.d. n° 1038 del 1933, l’applicazione nel giudizio stesso di norme codicistiche generali (sent. n° 6 del 2001, cit.).

Per la fattispecie attualmente all’esame di queste Sezioni riunite, viceversa, la preesistente disciplina speciale già indicava compiutamente, peraltro in attuale e piena compatibilità con le sopravvenute norme del processo del lavoro richiamate dal già menzionato art. 5 della legge n° 205 del 2000, la tipologia dei mezzi istruttori utilizzabili, senza che nella nuova disciplina si rinvengano preclusioni o contrasti normativi che possano condurre a espungere dal preesistente quadro sistematico la facoltà per il giudice pensionistico di far ricorso, oltre che alle consulenze rese dai già menzionati organi pubblici, alla consulenza tecnica d’ufficio quale prevista nel codice di rito civile; esclusione che peraltro, come precisato dalla Corte costituzionale nella più volte richiamata ordinanza n° 131 del 1998, costituirebbe una limitazione nell’impiego degli strumenti di ricerca della verità la quale, presso le giurisdizioni che –come quella in materia di pensioni presso la Corte dei conti- vertono su diritti e non su atti autoritativi (Corte costituzionale, 14-15 gennaio 1976, n° 8 e 25 giugno-21 luglio 1981, n° 141), non può essere ammessa né tollerata (vedasi Corte costituzionale, 10-23 aprile 1987, n° 146 e cfr. Corte costituzionale, 16-18 maggio 1989, n° 251), risolvendosi ogni limitazione al riguardo in una disparità fra le parti incidente sullo stesso diritto di difesa costituzionalmente garantito.

6. Parimenti deve ritenersi inconferente nella fattispecie il richiamo all’espressa salvezza –fra le altre- della norma di cui all’art. 13 della legge 11 marzo 1926 n° 416 in sede di abrogazione della legge stessa disposta dall’art. 20 del d.P.R. 29 ottobre 2001 n° 461.

Al riguardo vanno in primis evidenziati la natura regolamentare di detto d.P.R. e i limiti normativi ravvisabili per lo stesso ex art. 20 della legge 15 marzo 1997 n° 59 in considerazione della sua funzione meramente attuativa di quanto previsto dalla legge 24 novembre 2000 n° 340 (allegato A, n° 63), cioè di “delegificazione e di semplificazione di procedimenti per il riconoscimento della dipendenza delle infermità da causa di servizio, per la concessione della pensione privilegiata ordinaria e dell'equo indennizzo, nonché per il funzionamento e la composizione del Comitato per le pensioni privilegiate ordinarie” (e non certo di introduzione, di modifica o di abrogazione di norme relative alle modalità di esercizio della giurisdizione pensionistica innanzi alla Corte dei conti), sicché già sotto tale profilo l’interpretazione di tale norma prospettata dall’orientamento restrittivo in argomento non corrisponde alla voluntas legis.

Ciò premesso, va ulteriormente considerato che la norma sulla cui espressamente conservata vigenza fa leva l’interpretazione che ipotizza limitazioni ai poteri istruttori esercitabili nel giudizio pensionistico (art. 13 della legge n° 416 del 1926 cit.) comunque non si rivolge al giudice pensionistico e non ne può dunque –in disparte ogni altra considerazione- condizionare o limitare le scelte processuali, essendo testualmente rivolta :

a) alla “Procura generale presso la Corte dei conti”;

b) alla “Sezione IV” della Corte stessa, alla quale, all’atto dell’entrata in vigore della legge n° 416 del 1926, erano attribuite le funzioni non contenziose (e, dunque, non giurisdizionali) in materia pensionistica (ordinaria) di cui all’art. 5 del “Regolamento per l’ordinamento dei servizi e l’esercizio delle attribuzioni non contenziose della Corte dei conti” approvato con deliberazione delle Sezioni riunite del 2 luglio 1913, quale modificato dalla deliberazione delle Sezioni riunite del 30 gennaio 1920; funzioni peraltro non più esercitate quanto alle pensioni ordinarie- per effetto dell’abrogazione delle disposizioni che attribuivano alla Corte dei conti la liquidazione delle pensioni e del trasferimento delle relative attribuzioni alle Amministrazioni dello Stato (art. 18 della legge 3 aprile 1933 n° 255 e art. 1 del r.d. 27 giugno 1933 n° 703), mentre, nella materia delle pensioni di guerra (in riferimento nel presente giudizio), le attribuzioni non contenziose in precedenza attribuite alla Corte dei conti dall’art. 11, prima parte, della legge 14 agosto 1862 n° 800 (poi abrogato dall’art. 18 della legge n° 255 del 1933) erano già state dismesse dalla Corte stessa ancor prima dell’entrata in vigore del menzionato art. 13 della legge n° 416 del 1926, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 del d. lt. 6 dicembre 1917 n° 2067 (per i quali il Ministero per l’assistenza militare e le pensioni di guerra, costituito con d. lt. 1° novembre 1917 n° 1812, esercitava “per le pensioni di guerra tutte le attribuzioni della Corte dei conti e del Procuratore generale della Corte, salvo per i ricorsi…e salvo il controllo della Corte stessa sulla regolarità dei pagamenti fatti in esecuzione dei provvedimenti emessi dal Ministro”) e del d. lt. 14 febbraio 1918 n° 23 (per il quale passarono a far parte del Ministero per l’assistenza militare e le pensioni di guerra –fra gli altri- gli “Uffici per la istruttoria e la liquidazione delle pensioni privilegiate di guerra” della Corte dei conti), ferme peraltro restando le attribuzioni contenziose di cui all’art. 3 del menzionato d. lt. n° 1812 del 1917 e all’art. unico del r.d. 18 febbraio 1923 n° 424;

c) alle “Divisioni pensioni” della Corte dei conti, cioè a quelle Divisioni amministrative di supporto poste alle dipendenze delle Sezioni della Corte stessa con attribuzioni non contenziose in materia pensionistica di cui alle già richiamate deliberazioni delle Sezioni riunite.

E’ evidente dunque che l’obbligo di rivolgersi esclusivamente al Collegio medico legale previsto dal precedente e parimenti vigente art. 11 della legge n° 416 del 1926 qualora fossero necessari “un ulteriore parere medico-legale od un ulteriore visita diretta del richiedente la pensione”, introdotto dal predetto art. 13 della medesima legge e conservato nell’ordinamento nonostante la parziale abrogazione della legge stessa, può reputarsi allo stato diretto esclusivamente nei confronti del Procuratore generale (che nelle controversie in materia pensionistica è attualmente titolare del potere di ricorrere in via principale nell’interesse della legge ex art. 6, sesto comma, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453 convertito nella legge 14 gennaio 1994 n° 19), e, comunque, non concerne i mezzi istruttori utilizzabili dal giudice pensionistico, compiutamente previsti e disciplinati dagli artt. 15, primo comma, e 26 del r.d. 13 agosto 1933 n° 1038, dall’art. 73 del r.d. 12 luglio 1934 n° 1214 e dall’art. 2, quarto comma, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453, convertito nella legge 14 gennaio 1994 n° 19 (cfr. Corte costituzionale, ordinanza 9-16 aprile 1998 n° 131 cit.).

A ciò va anche aggiunto che l’interpretazione in base alla quale la riaffermata vigenza dell’art. 13 della legge n° 416 del 1926 inciderebbe sui poteri istruttori del giudice delle pensioni condurrebbe, in virtù della ivi affermata esclusività della competenza dell’organo di consulenza contemplato (“Collegio medico-legale istituito con il precedente art. 11”), all’obliterazione degli altri organi di consulenza appartenenti alla pubblica amministrazione posti dal legislatore a disposizione del giudice pensionistico (segnatamente, ai sensi della già richiamata normativa di settore : collegi medici istituiti presso il Ministero della salute, ospedali civili e ospedali militari), con un’ulteriore incongruenza sistematica nella ricognizione dei mezzi istruttori utilizzabili da tale giudice.

7. In relazione a talune deduzioni rappresentate dalle parti sia nelle memorie scritte, sia nell’odierna udienza, va altresì osservato che non può ritenersi prevalente, all’esito del giudizio di comparazione fra i valori protetti dall’ordinamento, la necessità di salvaguardare le parti da eventuali oneri per spese di consulenza tecnica d’ufficio che potrebbero essere posti a carico del soccombente, rispetto all’esigenza di acquisire nel processo senza limitazioni (anche se, ovviamente, con razionale e appropriato esercizio della discrezionalità del giudice commisurata all’importanza, alla complessità e alla difficoltà della controversia – cfr. d.P.R. 30 maggio 2002 n° 115) i necessari elementi di giudizio al fine della ricerca della verità, tanto più che nel vigente regime processuale pensionistico innanzi alla Corte dei conti l’art. 1, comma quinto, ultima parte, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453 convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994 n° 19 prevede che “Nei giudizi in materia di pensioni, l'appello è consentito per soli motivi di diritto; costituiscono questioni di fatto quelle relative alla dipendenza di infermità, lesioni o morte da causa di servizio o di guerra e quelle relative alla classifica o all'aggravamento di infermità o lesioni”, e che la Corte costituzionale, scrutinando la predetta disposizione, ne ha riconosciuto la compatibilità con gli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione proprio affermando che i giudizi pensionistici di prime cure “si configurano come riesame di un complesso procedimento amministrativo improntato ai principi della trasparenza e del contraddittorio e riguardano essenzialmente il problema dell’insorgenza del diritto, verificabile con la piena garanzia dell’impiego di tutti i mezzi istruttori per la ricerca della verità”, richiamando espressamente al riguardo, in epoca largamente successiva a quella di entrata in vigore della legge n° 205 del 2000 e del d.P.R. 461 del 2001, non solo le proprie sentenze n° 146 del 1987 e n° 251 del 1989, ma proprio la più volte menzionata ordinanza n° 131 del 1998 di cui impropriamente si prospetta la giuridica obsolescenza (Corte costituzionale, 12-27 marzo 2003, n° 84).

8. A ciò va aggiunto che il giudice delle leggi, nuovamente investito specificamente di questioni attinenti all’utilizzo di mezzi istruttori medico legali presso la Corte dei conti successivamente all’entrata in vigore delle già menzionate disposizioni di cui all’art. 5 della legge n° 205 del 2000 e all’art. 20 del d.P.R. n° 461 del 2001, ha ribadito, sia pur incidentalmente, che nei giudizi pensionistici il giudice contabile ha facoltà di utilizzare “lo strumento della consulenza tecnica d’ufficio”, potendo peraltro eventualmente rivolgersi, qualora non ritenga nella sua discrezionalità di avvalersi di tale opzione, agli organi di consulenza pubblici reputati più opportuni in ragione dell’oggetto e delle parti della controversia (cfr. Corte costituzionale, ordinanza 20 giugno-3 luglio 2007, con la quale è stata dichiarata la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 11, 11-bis e 12 della legge 11 marzo 1926 n° 416, degli artt. 2, 3, 4, 5 e 6 della legge 22 dicembre 1980 n° 913, e dell’art. 1, comma 3, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994 n° 19, per la parte in cui richiama l’art. 2, comma 2, della legge 8 ottobre 1984 n° 658, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 108 e 111 della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana).

E se è pur vero che l’interpretazione di norme sottoposte a scrutinio di costituzionalità quale fornita dalla Corte costituzionale in pronunce di inammissibilità o di rigetto non ha carattere vincolante per il giudice successivamente chiamato ad applicare tali norme, detta interpretazione, per l’autorevolezza della fonte da cui proviene, rappresenta un fondamentale contributo ermeneutico che non può essere disconosciuto senza una valida argomentazione; invero, il fondamento comune dell’attività di interpretazione condotta da un lato, dalla Corte costituzionale, e, dall’altro, dai giudici di merito e di legittimità, esige che, al fine dell’utile risultato della certezza del diritto oggettivo, le interpretazioni non vengano a divergere se non quando sussistano elementi netti e sicuri per attribuire prevalenza ad una argomentazione rispetto ad un’altra (cfr. Corte di cassazione, Sezione V civile, 12 marzo 2007, n° 5747 e Sezioni unite civili, 20 giugno 1969, n° 2175), essendo consentito alla Corte costituzionale di affermare i principi costituzionali non solo attraverso pronunce caducatorie, ma anche utilizzando altri tipi di pronunce necessarie ai fini dell’interpretazione delle leggi secondo i principi della Costituzione (Corte costituzionale, ordinanza 30 giugno-15 luglio 2003, n° 243).

9. Per tutto quanto innanzi argomentato, al quesito posto con l’ordinanza di deferimento de qua va data soluzione nel senso di affermare che il giudice contabile, nei giudizi pensionistici, ha la facoltà, ai sensi degli artt. 15, primo comma, e 26 del regio decreto 13 agosto 1933 n° 1038; 73 del regio decreto 12 luglio 1934 n° 1214, e 2, comma 4, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453, convertito dalla legge 14 gennaio 1994 n° 19, di disporre consulenze tecniche d’ufficio secondo le norme del codice di procedura civile, affidandole a professionisti privati.

10. Non è luogo a pronuncia sulle spese.

PER QUESTI MOTIVI

le Sezioni riunite in sede giurisdizionale risolvono l’epigrafata questione di massima nel senso che il giudice contabile, nei giudizi pensionistici, ha la facoltà, ai sensi degli artt. 15, primo comma, e 26 del regio decreto 13 agosto 1933 n° 1038; 73 del regio decreto 12 luglio 1934 n° 1214, e 2, comma 4, del decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453, convertito dalla legge 14 gennaio 1994 n° 19, di disporre consulenze tecniche d’ufficio secondo le norme del codice di procedura civile, affidandole a professionisti privati.

Dispongono che, a cura della Segreteria, il fascicolo processuale sia restituito alla Sezione terza giurisdizionale centrale d’appello per la prosecuzione del giudizio.

Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2007.

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

(Silvano DI SALVO) (Antonino COCO)

F.to Silvano di Salvo F.to Antonino Coco

Depositata in Segreteria il 22 novembre 2007.

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