sabato 3 novembre 2007

Persone giuridiche e lesione all’immagine


Cassazione Civ., sent. 4 giugno 2007, n. 12929


In caso di indebita pubblicazione nella Centrale Rishi, anche la persona giuridica ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale.



Questi gli argomenti:
  • il danno non patrimoniale all’immagine e alla reputazione si può configurare anche nei confronti della persona giuridica allorquando il fatto lesivo colpisce una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione.
  • Il diritto all’immagine rappresenta un diritto fondamentale sia per la persona fisica, sia per la persona giuridica e l’ente collettivo.
  • Tale risarcibilità va riconosciuta a prescindere dalla verificazione di eventuali danni patrimoniali conseguenti per la configurabilità di un danno di natura non patrimoniale, rappresentato dalla deminutio di tali diritti che la lesione è di per sé idonea ad arrecare e che rappresenta un danno conseguenza della lesione.
  • Pertanto, oltre al danno patrimoniale, la persona giuridica può ottenere un danno non patrimoniale ogni qual volta in cui sia scaturita la diminuzione della considerazione di cui la stessa persona giuridica gode.
  • Il danno non patrimoniale in questi casi è costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca. il suddetto danno non patrimoniale va liquidato alla persona giuridica o all'ente in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.
  • La Corte rifiuta la logica della identificazione del danno nella stessa lesione della situazione dell'ente collettivo (danno evento), ribadendo il concetto che anche in questo caso il danno si debba identificare sempre in un danno conseguenza, cioè in accadimento ricollegatesi alla lesione della situazione protetta sulla base di un nesso di causalità (danno-conseguenza). Sotto tale ultimo aspetto va però ricordato che in materia di illegittima pubblicazione nel bollettino dei protesti la Corte anche di recente ha ribadito che il danno all’immagine è in re ipsa e dunque consegue automaticamente.



Presidente Di Nanni – Relatore Frasca
§l. Nel marzo del 1998 la s.p.a. R. ing. Angelo, la s.p.a. Soa I. C. T. (già F. s.p.a.) e la s.p.a. I., assumendo che quest'ultima era la società finanziaria delle altre due e deteneva il 96,64 % del capitale della R., sulla premessa che la R. e la F. avevano chiesto, in data 3 gennaio 1994, un finanziamento, per un ammontare di 22 miliardi di lire la prima, e di 18 miliardi la seconda, da servire all'estinzione di precedenti finanziamenti ed alla gestione di altre e diverse operazioni imprenditoriali, e che lo stesso non era stato concesso ancora nel marzo del 1994 a cagione di una posizione di sofferenza della I. presso la Centrale Rischi della Banca d'Italia per lire 2.000.000, la quale era stata segnalata senza alcun fondamento dalla Banca A. e d'Italia, frattanto divenuta D. B., convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Napoli quest'ultima, chiedendo che, previo accertamento dell'illegittimo comportamento della Banca A. e d'Italia, la convenuta fosse condannata al risarcimento dei danni subiti dalle istanti anche a seguito della lesione dell'immagine della stessa e dell’aggravamento patrimoniale nella misura di 25 miliardi. Nella resistenza della convenuta, che contestava la propria responsabilità, il Tribunale in composizione monocratica, dopo avere, nella fase istruttoria, respinto le richieste istruttorie avanzate dalle parti, con sentenza del 9 aprile 2001, rigettava la domanda con gravame di spese sulle attrici, perché queste ultime non avevano fornito la prova né del nesso di causalità tra il comportamento della convenuta ed i dedotti eventi lesivi, né dei lamentati danni, atteso che non avevano depositato nemmeno in copia i contratti di finanziamento, che assumevano di avere stipulato con ritardo a causa della segnalazione alla Centrale Rischi. Contro la sentenza proponevano appello le società attrici (la I. quale s.r.l., tale essendo divenuta) e, nella resistenza della D. B., la Corte d'Appello di Napoli, con sentenza dell'11 luglio 2003, rigettava l'appello, con gravame delle spese sulle appellanti. §2. La sentenza si fonda sulle seguenti ragioni: non era fondata la censura proposta con il primo motivo di appello, con il quale alla sentenza di primo grado si imputava di non avere riconosciuto un obbligo risarcitorio anche se le attrici non avevano dedotto "concreti danni", in quanto in tema di risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., come aveva statuito la Corte di cassazione [vengono citate le sentenze n. 11103 del 1998, 6507 del 2001, 2679 del 1997 e 2576 del 1996] «per lesione alla reputazione personale e professionale (commerciale o lavorativa) l'estensione degli oneri probatori varia a seconda che si versi in ipotesi di lesione personale o di lesione professionale, nel senso che nel primo caso, intesa come lesione alla reputazione che il soggetto gode come persona umana tra gli altri consociati ‑ altrimenti detta onore e prestigio ‑ una volta provata la detta lesione il danno è in re ipsa, quale privazione di un valore per quanto non patrimoniale della persona; mentre nel secondo caso la prova del danno ingiusto, risarcibile a norma dell'art. 2043 c.c. avente, dunque, natura patrimoniale, si sostanzia nella prova della perdita patrimoniale anche attraverso presunzioni che debbono, peraltro, fondarsi su circostanze gravi, precise e concordanti e non sulla semplice ragionevolezza delle asserzioni dell'interessato circa il pregiudizio all'immagine ed al discredito professionale»; «in entrambi i casi» non sarebbe sufficiente «la prova del fatto altrui (dichiarazione non veritiera o offensiva) per ritenersi provato anche l'evento lesivo subito dal danneggiato»; le appellanti «come precisato anche nella comparsa conclusionale (pag. 14»> avevano «denunciato la lesione della reputazione commerciale ma non [avevano] dedotto alcun elemento per giungere alla formazione della prova, sia pure presuntiva, delle sfavorevoli conseguenze derivate alla R. a causa della segnalazione alla Centrale Rischi»; inoltre, l'esiguità della somma oggetto della segnalazione di sofferenza e la limitatezza del periodo per cui essa era rimasta annotata, durato fino al 31 maggio 1994 (avendone la Banca A. e d'Italia chiesto l'annullamento l’11 aprile 1994), inducevano ad escludere che vi fosse stato pregiudizio alla reputazione commerciale della R.; vi era poi ‑ come rilevato dalla D. B. discordanza tra quanto dedotto nella citazione introduttiva in ordine alla data ed agli importi delle domande dì finanziamento e la documentazione poi prodotta, ivi compresa la relazione di uno dei due funzionari incaricati; era infondato anche il secondo motivo di appello, con il quale si era dedotto che il Tribunale, «stante la sopravvenuta mancanza nel fascicolo dei contratti di finanziamento, di cui nell'atto di citazione si era indicato il deposito, avrebbe dovuto ammettere il nuovo deposito, che era stata data ampia prova della mancata concessione del finanziamento a causa dell'illegittima segnalazione, sicché spettava alla D. B. dimostrare che, poi, il finanziamento era stato concesso»; il motivo era infondato, innanzi tutto perché le appellanti avevano dedotto quale causa dei danni il ritardo e non la mancanza dell'erogazione dei finanziamenti, sicché solo ad esse spettava di provare che non erano stati erogati tempestivamente per fato imputabile alla convenuta, mentre ancora nella stessa fase di appello le appellanti avevano omesso di produrre i contratti stessi che assumevano di avere stipulato con l'Isveimer e ciò ancorché l'appellata ne avesse rilevato la mancanza nella sua memoria di replica; inoltre, «nell'elenco contenuto nel fascicolo d'appello manca[va] l'indicazione del numero di ciascun allegato ed i documenti non [erano] assicurati all'elenco da spillatura o altro accorgimento», onde «a fronte della contestazione della controparte era onere delle appellanti verificare il contenuto del proprio fascicolo e produrre i documenti, che sostenevano di aver depositato con l'atto di appello»; ancora doveva aggiungersi che «dei richiamati contratti di finanziamento nell'atto di citazione ed in quello d'appello non [erano] indicati né le date, né il notaio rogante né il numero di repertorio, né, quanto alla F., oggi Soa, l'importo accordato»; era pure infondata la censura riguardo al provvedimento di rigetto delle istanze istruttorie, poiché: a) il giudice istruttore in primo grado aveva, con ordinanza del 7 giugno 2000, rilevato che i contratti di finanziamento «non risultavano ritualmente prodotti (v. foliario fascicolo attoreo), che la prova testimoniale di cui alle deduzioni istruttorie dell'11/4/2000 era, in parte, generica (capi 10, 11, 12 e 13) ed in parte inammissibile (capi 4, 6 e 9) e che la Ctu non era necessaria» e, quindi, rigettato le istanze istruttorie attoree; b) all'udienza di precisazione delle conclusioni le attrici si erano riportate genericamente ai propri scritti difensivi nonché ai documenti ed atti del giudizio, chiedendo l'accoglimento delle domande tutte formulate e nella conclusionale avevano riproposto la richiesta di prova testimoniale e di Ctu negli stessi termini indicati nelle deduzioni istruttorie dell'11 aprile 2000, «senza esporre alcun elemento di critica all'ordinanza del GI»; c) neanche nell'atto di appello risultava contenuta alcuna censura a detta ordinanza, «ma soltanto la doglianza per aver il primo giudice ritenuto abbandonate le istanze istruttorie nonostante il richiamo in sede di precisazione delle conclusioni "all'accoglimento delle domande tutte formulate anche nei confronti della D. B.n»; d) viceversa, il Tribunale come si leggeva nella pagina sette della sentenza aveva considerato rinunziate le istanze istruttorie proprio perché non riformulate, nonostante che fossero state «disattese per la loro genericità e contenenti comunque valutazioni che non possono essere rimesse ai testi”; e) questa conclusione doveva condividersi anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte "formatasi prima della riforma del 90/353» [viene citata Cass. n. 6196 del 19861 ; doveva comunque rilevarsi per completezza che i capitoli di prova testimoniale nn. 1, 2, 3, 4, 8, 12 e 13, «volti a provare la presentazione della pratica all'Isveimer, la erogazione del mututo ed il ricorso nelle more ad altre forme di finanziamento, dovevano essere provati per iscritto», mentre i capitoli nn. 4, 6, 7, 9, 10, 11 contenevano «valutazioni non demandabili ai testi» e quello n. 5 «sulla comunicazione della segnalazione alla Centrale Rischi» era superato dalla certificazione della Banca d'Italia; ancora: la deduzione di aver fatto ricorso ad altri finanziamenti, il rallentamento della produzione ed in genere «i gravissimi danni» erano del tutto generici; inammissibile era la chiesta Ctu sul se e quali perdite di cambio erano state subite per il ritardo, sul se e su quali maggiori interessi passivi fossero stati corrisposti dalle attrici tra il momento in cui la concessione dei finanziamenti avrebbe dovuto essere conseguita e quello in cui erano stati poi concessi, sul se e quali danni aveva subito la R. per il rallentamento della produzione «e cos, via non potendo sottrarsi la parte all'onere della prova, giacché la consulenza tecnica non [era] un mezzo di prova ma un apporto tecnico diretto ad illuminare il giudice» (vengono citate Cass. n. 1115 del 1993 e n. 132 del 1996]; pertanto, «in mancanza di prova sia della presentazione della domanda di finanziamento che dell'erogazione dello stesso da parte dell'Isveimer la richiesta istruttoria [anda]va, dunque, disattesa», onde, «non essendo stata fornita la prova di aver ottenuto il finanzi amento dell'Isveimer dopo l'eliminazione dell'annotazione tra le società in sofferenza presso la Centrale Rischi, non [era] stato dimostrato che vi [fosse] stato ritardo nell'erogazione e che esso [fosse] dipeso dalla segnalazione». §3. Contro questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione la Igc Ingegneria e Costruzioni Generali s.p.a. (già R. Ing. Angelo s.p.a.), la I. s.r.l. e la s.p.a. Soa I. C. T. (già F. s.p.a.) Il ricorso è fondato su sei motivi. Ha resistito con controricorso (erroneamente qualificato come propositivo di ricorso incidentale) la D. B.. Le ricorrenti hanno depositato controricorso per denunciare che il controricorso non conteneva alcun ricorso incidentale. Le ricorrenti hanno, altresì, depositato memoria. Motivi della decisione §l. Con il primo motivo di ricorso si denuncia «omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, nonché violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all'art. 3 cost. e agli artt. 2043, 1175, 1226 e 1375 cod. civ.». Sulla premessa che con la domanda introduttiva di giudizio si era lamentata anche la lesione del diritto all'immagine, in sostanza ci si duole che la Corte territoriale ‑ con il ragionamento svolto sulle differenze fra lesione personale e professionale - sarebbe incorsa in una violazione di legge ed in omessa pronuncia, perché, pur in presenza di un comportamento della D. 1B. lesivo dell'immagine e della reputazione commerciale delle ricorrenti, non avrebbe riconosciuto l'esistenza del danno in re ipsa, che, invece, allorquando si verifichi un fatto lesivo del particolare diritto della persona costituito dal bene della reputazione si configurerebbe per il fatto stesso della lesione, senza che occorra dare dimostrazione di un danno ulteriore. Il motivo viene argomentato con riferimenti alla giurisprudenza di questa Corte e di merito, che si ispirerebbe a tale principio, nonché con il richiamo alla sentenza n. 184 del 1986 della Corte Costituzionale, adducendosi, inoltre, che un danno alla reputazione ed all'immagine in tale senso sarebbe configurabile anche per le persone giuridiche ed adombrandosi che la Corte territoriale parrebbe averlo escluso, con i riferimenti al carattere personale della lesione. §1.2. La trattazione di questo primo motivo ‑ che è fondato nei limiti in cui si dirà e limitatamente al solo rapporto processuale fra la I. e la resistente ‑ necessita di due precisazioni preliminari. §1.2.1. In primo luogo, va rilevato che è priva di pregio la difesa svolta dalla resistente nel senso che l'invocazione da parte delle ricorrenti del mancato riconoscimento di un danno per la lesione al diritto all'immagine come tale non sarebbe stata formulata dalle stesse con la domanda giudiziale, che, invece, avrebbe riguardato soltanto la richiesta di riconoscimento di danni di natura economica, sotto il profilo, in particolare, delle conseguenze patrimoniali negative derivate dalla ritardata e minore consecuzione dei finanziamenti. In senso contrario, viceversa, si deve rilevare che la domanda relativa al risarcimento della lesione del diritto all'immagine era stata effettivamente formulata, come si evince dalla citazione introduttiva e come emerge, del resto, dalla stessa esposizione del fatto da parte della sentenza impugnata, nella quale si fa riferimento alla condanna al risarcimento dei danni "anche a seguito della lesione dell'immagine" (si veda, in particolare, la pagina 3, dove si legge questa espressione virgolettata). §1.2.2. In secondo luogo, l'impostazione del primo motivo pone a questa Corte un problema di interpretazione, perché tanto la sua formale intestazione, cioè l'indicazione delle norme che si assumono violate, quanto parte della sua esposizione, si fondano; su una sistemazione del danno risarcibile ‑ siccome emergente dalle norme disciplinatrici dell'illecito aquiliano - che, conchiudendo la categoria normativa del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 cod. civ. nel c.d. danno morale soggettivo, faceva rifluire in primo luogo ogni diversa specie di danno non patrimoniale nell'ambito dell'art. 2043 trasformandolo in patrimoniale. E, quindi, per assicurare la risarcibilità di lesioni di situazioni giuridiche soggettive di particolare importanza come quelle direttamente riconducibili ai diritti della persona, specie se traenti fondamento direttamente dalla Costituzione, al di là delle mere conseguenze economiche negative della lesione, non sempre o non necessariamente rinvenibili o verificatesi, aveva individuato nel fatto stesso della loro lesione un danno lato sensu patrimoniale. Un danno, cioè, correlato ad una nozione di patrimonio del soggetto intesa come comprensiva del complesso delle situazioni giuridiche soggettive ad esso riferibili, anche là dove non si trattasse di situazioni suscettibili di una valutazione in senso strettamente economico (è paradigmatica la nota parabola seguita dal c.d. danno biologico). Di modo che in presenza di un fatto lesivo di tali situazioni, essendo sminuito il "patrimonio" latamente inteso del soggetto, gli dovesse essere assicurato un danno, riparatore di tale particolare deminutio patrimoniale. Danno che si ravvisava per il fatto stesso della lesione e, quindi, veniva individuato in re ipsa, come "danno evento" e non come "danno conseguenza". Si trattava, com’è noto, di un orientamento che traeva titolo dalla nota pronuncia n. 186 del 1984 della Corte costituzionale (peraltro, successivamente, abbandonato dall'altrettanto nota sentenza n. 372 del 1994 della Consulta) e che, sulla base della qualificazione di siffatta specie di danni come patrimoniali li riconduceva direttamente nell'ambito dell'art. 2043 cod. civ.. La vocazione del motivo a sorreggersi su tale impostazione è chiara per l'appunto nella sua intestazione, che denuncia, quanto al profilo dedotto ai sensi del n. 3 dell'art. 360 cod. proc. civ., proprio la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 cod. civ. Ma lo è altrettanto, là dove ‑ come si è detto ‑ lamenta che non sia stata riconosciuta l'esistenza di un danno all'immagine come tale per effetto dell’inserimento (e della permanenza per un certo periodo) della segnalazione nella Centrale Rischi e, quindi, richiama, oltre che la sentenza n. 11103 del 1998 di questa Corte, ampi stralci della motivazione della sentenza n. 6507 del 2001 (sentenza che sì ispira proprio alla suddetta logica, con la sola variante di abbandonare la teorica del danno‑evento e di individuare comunque un danno-conseguenza). In relazione alla sua intestazione ed alla parte del suo svolgimento che si incentra sul richiamo a tale sentenza il motivo è chiaramente orientato, dunque, a censurare la sentenza impugnata per non avere riconosciuto l'esistenza di un danno all'immagine delle ricorrenti per il sol fatto dell'inserimento nella Centrale Rischi della notizia riguardante la insussistente sofferenza e per non averlo riconosciuto come danno di "natura patrimoniale”, nel senso innanzi indicato. Ciò che si lamenta, in particolare, è ‑parafrasando la sentenza n. 6507 del 2001 (che ‑ si badi ‑ sì riferiva a danno subito da persona fisica) ‑ che la Corte partenopea non abbia considerato l'esistenza di un danno all’immagine in sé delle ricorrenti, cioè di un danno non alla loro reputazione commerciale (danno la cui esistenza avrebbe supposto la dimostrazione che, per effetto della segnalazione alla Centrale Rischi e della conseguente lesione della reputazione commerciale delle ricorrenti, si era verificata una perdita patrimoniale in senso economico od un mancato guadagno: danno, dunque, da perdita economica), bensì alla loro reputazione come soggetti, come persone [cioè ‑ per parafrasare le condivisibili parole della sentenza n. 6507 alla reputazione goduta come persone giuridiche appartenenti ad una determinata tipologia consentita dall'ordinamento nell'ambito del consesso sociale in genere, da valutarsi in abstracto, cioè con riferimento al contenuto della reputazione quale si è formata nella comune coscienza sociale di un determinato momento e non quam suis, e cioè alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione (“amor proprio")]. §1.2.3. Senonché, il primo motivo si muove anche in una logica diversa da quella coerente con l'invocazione dell'art. 2043, cioè di un danno patrimoniale. Infatti, prima di invocare le sentenze innanzi citate e la logica loro propria, la sua esposizione, dopo aver adombrato che la sentenza impugnata parrebbe avere negato che un danno alla reputazione come tale sia configurabile per le persone giuridiche, censura questa ipotesi interpretativa del decisum richiamando fra virgolette (pagina 11‑12 del ricorso) ‑ pur senza indicarla ‑un passo della motivazione di Cass. n. 2367 del 2000, la quale, evocando le precedenti sentenze nn. 742 del 1991 e 12951 del 1992 ‑ha statuito il seguente principio di diritto (che sostanzialmente è espresso dal passo motivazionale virgolettato nel ricorso): «danno non patrimoniale e danno morale sono nozioni distinte: il primo comprende ogni conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento sebbene di riparazione, mentre il secondo consiste nella cosiddetta “pecunia doloris”; poiché il danno non patrimoniale comprende gli effetti lesivi che prescindono dalla personalità giuridica del danneggiato, il medesimo è riferibile anche a enti e persone giuridiche». Inoltre, l'esposizione del motivo nella pagina tredici evoca precedenti di merito che iscrivono la lesione dell'onore, della reputazione e dell'immagIne commerciale della persona giuridica nell'ambito del danno morale. Solo di seguito a tali svolgimenti, alla pagina quattordici (a partire dal punto 3.5.) inizia ‑ preceduta da un "in ogni caso" (su cui ci si soffermerà anche di seguito) ‑ l'esposizione incentrata sulla logica innanzi riferita del danno patrimoniale in re ipsa. Ebbene, in ragione di siffatto svolgimento del motivo, deve ritenersi che, al di là del formale riferimento soltanto all'art. 2043 cod. civ., la duplice direzione argomentativa di tale svolgimento implichi la censura della sentenza impugnata, sia sotto il versante del mancato riconoscimento di un danno non patrimoniale da lesione dell'immagine, sia sotto il versante del mancato riconoscimento di un danno patrimoniale in sé, per effetto della stessa lesione, di modo che il motivo risulta apprezzabile da questa Corte tanto sotto l'uno che sotto l'altro profilo e, conseguentemente, la Corte può, nell'esercizio dei propri poteri di qualificazione in diritto, individuare come norma violata anche una norma diversa da quella dell'art. 2043 e, particolarmente, l'art. 2059 cod. civ.. Si ricorda, al riguardo, che «la mancata indicazione delle norme di diritto su cui il ricorso per cassazione si fonda non è idonea a determinarne l'inammissibilità allorché le ragioni giuridiche della doglianza e le relative norme di riferimento siano desumibili dall'insieme degli argomenti addotti dal ricorrente» (ex multis, Cass. n. 1606 del 2005; n. 12127 del 2004; in termini ancora più puntuali, Cass. n. 10501 del 1993 seguita da numerose conformi ‑ aveva sottolineato che «L'indicazione, ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ., delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti della impugnazione, sicché la mancata od erronea indicazione delle disposizioni di legge non comporta l'inammissibilità del gravame ove gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme o i principi di diritto che si assumono violati e rendano possibile la delimitazione del quid disputandun». Le SS.UU. di questa Corte, muovendosi nella stessa logica, hanno, d'altro canto, sta­tuito che «Il ricorso per cassazione è ammissibile anche se non indica gli articoli di legge che si assumono violati, purché, nel chiedere la cassazione per il motivo di violazione di norma di diritto, il ricorrente indichi per quale aspetto la decisione è in contrasto con una norma di legge ed avrebbe perciò potuto essere diversa, spettando poi alla Corte di verificare la conformità della decisione della questione alla norma che avrebbe dovuto esservi applicata» (Cass. sez. un. n. 9652 del 2001). Da quanto osservato consegue, dunque, che l’esposizione del primo motivo, concretandosi anche in una censura alla sentenza impugnata per non avere riconosciuto il danno all'immagine in sé come danno non patrimoniale, oltre che come danno patrimoniale, propone una violazione dell'art. 2059 cod. civ.. §1.3. Questa precisazione consente a questo punto di esaminare il primo motivo sulla base di quello che appare lo stato attuale dell'evoluzione della giurisprudenza di questa Corte in punto di distinzione fra danno patrimoniale e danno non patrimoniale. Al riguardo la giurisprudenza della Corte e segnatamente quella di questa Sezione si è attestata su una linea interpretativa che identifica il danno patrimoniale riconducibile direttamente all'art. 2043 cod. civ. esclusivamente in quello concretatosi in una conseguenza del fatto illecito di tipo economico, facendo rifluire nella nozione di danno non patrimoniale, oltre naturalmente al danno morale in senso soggettivo, quelle fattispecie di danno che l'evoluzione giurisprudenziale ‑ tenuta presente in parte dell'esposizione del motivo, come si è visto ‑ identificava come danni patrimoniali in senso non economico e particolarmente le fattispecie di danno per lesione in sé di una situazione giuridica riconducibile ai diritti fondamentali della persona. L'approdo a tali risultati è stato espresso nelle sentenze n. 8827 e 8828 del 2003 e, per quanto qui interessa è espresso dai seguenti tre principi di diritto. Il primo di essi è che «nel vigente assetto dell'ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione ‑ che, all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo ‑, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, non esaurendosi esso nel danno morale soggettivo». Il secondo è che «la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ. va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare le lacune nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, quest'ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto (configurabile solo quando vi sia una lesione dell'integrità psicofisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica), del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso (il cui ambito resta esclusivamente quello proprio della mera sofferenza psichica e del patema d'animo) nonché dei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto. Ne deriva che, nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona, non può non tenere conto di quanto già eventualmente riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo, pure esso risarcibile, quando vi sia la lesione di un tale tipo di interesse, ancorché il fatto non sia configurabile come reato». Il terzo è nel senso che «il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva dì legge correlata all'art. 185 cod. pen., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della Legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale». §1.4. Ora, tra i principi sopra riportati, ai fini dell'esame del motivo, importa considerare l'affermazione della risarcibilità, nonostante la mancanza di un'espressa previsione in tal senso per come richiesto dall'art. 2059 cod. civ., del danno non patrimoniale, allorquando venga in rilievo la lesione di un diritto inviolabile inerente alla persona non avente natura economica ai sensi dell'art. 2 della Costituzione. Questa affermazione è stata chiaramente riferita alla persona fisica. In entrambe le sentenze, per la verità, si ricorda ma prima di sviluppare l'argomentazione innovativa espressa dai richiamati principi ‑ Cass. n. 2367 del 2000, come pronuncia che si era espressa «nel senso del riconoscimento della non coincidenza tra il danno non patrimoniale previsto dall'art. 2059 e il danno morale soggettivo va altresì ricordato che questa S.C. ha ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale, evidentemente inteso in senso diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche; soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d'animo». Ma successivamente non si fa alcun accenno alle persone giuridiche o agli enti collettivi. Si tratta di vedere se in qualche modo il principio innanzi ricordato sia riferibile ‑ e, in caso positivo, entro quali limiti ‑ anche alle persone giuridiche ed in genere agli enti collettivi pur privi di personalità giuridica, ma comunque considerati dall'ordinamento dotati in vario modo di soggettività giuridica. Il tema ‑ per quel che consta ‑ non risulta approfondito nella giurisprudenza di questa Corte successiva alle citate sentenze. Risulta soltanto sfiorato da una decisione della Prima Sezione (Cass. n. 12110 del 2004) in tema di risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi della l. n. 89 del 2001, la quale, considerando gli arresti delle citate sentenze e riprendendo una enunciazione fatta in una sentenza di poco anteriore (si tratta di Cass. n. 5664 del 2003, la quale ebbe così a statuire: «in tema di equa riparazione per l'irragionevole durata del processo, va esteso anche alle società di persone il principio, valevole per le persone giuridiche, secondo cui il danno non patrimoniale non è ravvisabile sulla scorta della mera tensione o preoccupazione che detta durata sia in grado di arrecare ‑ vertendosi in tema di riflessi sull'equilibrio psichico, sulla sfera dei sentimenti e degli affetti, propri soltanto della persona fisica ‑ ma può dipendere solo dalla compromissione di quei diritti immateriali della personalità che sono compatibili con l'assenza della fisicità, quali i diritti all'esistenza, all'identità, al nome, all'immagine ed alla reputazione e, dunque, è ipotizzabile alla condizione che la controversia, in relazione al cui eccessivo protrarsi si chieda riparazione, coinvolga, direttamente o indirettamente, gli indicati diritti, di modo che viene correttamente escluso quando la domanda abbia consistenza soltanto patrimoniale, e non si alleghi per il ritardo della pronuncia su di essa alcun effetto pregiudizievole per detti diritti. Le società di persone, infatti, pur essendo prive di personalità giuridica, sono munite di propria soggettività e sono parte in causa nelle controversie ‑ comprese quelle per l'equa riparazione di cui trattasi ‑ riguardanti i rapporti ad esse direttamente riferibili quale centro autonomo d'imputazione di diritti e doveri; ne, rileva in proposito l'eventuale disagio psichico del socio o dell’amministratore della società, trattandosi del turbamento di un soggetto diverso dalla parte»), ebbe a statuire che «in tema di equo indennizzo per irragionevole durata del processo, se della richiesta di risarcimento avanzata da una persona giuridica con riferimento a pretesi danni non patrimoniali deve astrattamente predicarsi la legittimità (atteso che lo stesso art. 34 della Convenzione di Roma riconosce alle organizzazioni non governative ed ai gruppi di privati il diritto di agire dinanzi alla Corte europea, e l'art. 53 della legge di ratifica vieta ogni interpretazione delle norme sopranazionali restrittiva, riduttiva o limitativa dei diritti in esse riconosciute), la richiesta medesima non può, in concreto, avere ad oggetto (cosi come per le persone fisi­che, secondo l'”id quod plerumque accidit") l'allegazione del mero patema d'animo e della semplice ansia che la procrastinata incertezza sull'esito delle vicende processuali comporta fino all'emanazione della sentenza, dovendo i lamentati danni incidere, per converso, direttamente o indirettamente sui diritti immateriali dell'ente quali quello all'esistenza, all'identità, al nome, all'immagine, alla reputazione». A tale affermazione Cass. n. 12110 del 2004 pervenne assumendo come premessa sia pure in modo generico e senza approfondimenti la sentenza n. 8828 del 2003 e la successiva sentenza n. 233 del 2003, con la quale la Corte Costituzionale prese sostanzialmente atto della nuova lettura costituzionale dell'art. 2059 cod. civ. data da questa Corte: lo rivela la lettura della motivazione. Com'è noto, la giurisprudenza successiva della Pri­ma Sezione di questa Corte ha, tuttavia, abbandonato (poco dopo la sentenza n. 12110 del 2004) quell' affermazione, pervenendo ad individuare il danno non patrimoniale risarcibile alla persona giuridica ai sensi della legge n. 89 del 2001 proprio nel danno morale soggettivo. Lo ha fatto, peraltro, sotto la spinta di un orientamento affermatosi in tal senso nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo: si veda Cass. n. 13163 del 2004 (poi seguita a molte altre e da ultimo da Cass. n. 7145 del 2006), che ebbe a statuire il seguente principio di di­ritto: «in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, anche per le persone giuridiche (e, più in generale, per i soggetti collettivi) il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, tenuto conto della giurisprudenza della Cedu, e non diversamente da quanto avviene per gli individui persone fisiche, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri; sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa ‑ ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione ‑, una volta accertata e deter­minata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che l'altra parte non dimostri che sussistono, nel caso concreto, circostanze particolari, le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente». Nella sentenza n. 13163 del 2004 è detto, in particolare, espressamente che l'accoglimento della imposta­zione scaturente dalla sentenza n. 8828 del 2003 «comporta, peraltro, se non l'esclusione, certamente il drastico ridimensionamento, per le persone giuridiche e per le organizzazioni collettive in genere, della possibilità di ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale nell'ipotesi considerata dall'art. 2 della citata legge 89/01, essendo assai difficilmente ipotizzabile che tale danno, in caso di irragionevole durata del processo, possa materializzarsi in un pregiudizio diverso da quello costituito da disagi e turbamenti di carattere psicologico (desagrements) nelle persone preposte alla gestione dell'ente o nei suoi membri, quando esso abbia struttura collettiva». Sembrerebbe, pertanto, che l'abbandono della logica della sentenza n. 12110 sia dipeso da ragioni che non sono in alcun modo ispirate da una non condivisione dell'idea che anche la persona giuridica od il soggetto collettivo possa lamentare un danno non patrimoniale a situazioni giuridiche di diretta derivazione costituzionale afferenti alla persona, bensì per un verso ‑ e soprattutto ‑ dalla logica accolta dalla Corte di Strasburgo e, per altro verso, sia pure consequenzialmente, dalla difficoltà di individuare, in relazione al danno da irragionevole durata del processo, la lesione di situazioni di quel genere, sia pure riferibili di riflesso all'ente. Mette conto di rilevare che, a ben vedere, nella logica ispiratrice delle sentenze nn. 8827 e 8828 l'esistenza nell'art. 2 della l. n. 89 del 201 dell'espressa previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale assegnerebbe al problema della configurabilità di un danno non patrimoniale per la persona giuridica o l'ente collettivo un confine limitato, trattandosi solo di individuare il danno risarcibile, ma non la risarcibilità del danno ed i limiti correlativamente alle situazioni giuridiche, che, invece, è il ben più ampio confine entro il quale in ambito civilistico generale di tutela ai sensi dell'art. 2043 e segnatamente 2059 cod. civ. si pone il problema della risarcibilità di un danno non patrimoniale per le persone giuridiche. §1.5. Il tema di indagine della configurabilità di un danno non patrimoniale della persona giuridica sulla falsariga del concetto di danno non patrimoniale ipotizzato dalle sentenze del 2003 non riceve alcun apporto nemmeno da un settore nel quale si è configurato un danno all'immagine di una persona giuridica, ma lo si è fatto con riguardo al danno in senso economico ricollegatesi alla lesione dell'immagIne: si vuole alludere alla giurisprudenza della Corte dei Conti che, da ultimo, con l'avallo delle SS.UU., ha ampiamente riconosciuto un danno all'immagine della P.A. per fatto del dipendente, ma lo ha fatto appunto sotto il profilo del danno patrimoniale, ravvisandolo nella spesa in ogni caso necessaria per il ripristino dell'immagine deteriorata dal comportamento del dipendente (si veda Cass. Sez. un. n. 14990 del 2005, che ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei Conti sotto tale profilo). §1.6. Ritiene, ora, il Collegio che nella logica accolta dalle sentenze nn. 8827 e n. 8828 del 2003 in punto di configurabilità di un danno non patrimoniale diverso dal danno morale soggettivo (e, naturalmente, da quello biologico) nei casi in cui vi sia una lesione di diritti della persona aventi fondamento nella Costituzione, si debba riconoscere tale risarcibilità anche allorquando si verifìchi la lesione dì un diritto della persona giuridica o del soggetto giuridico collettivo, che rappresenti l'equivalente di un diritto avente det­ta natura riferibile alla persona fisica e non supponente proprio per questo la fisicità del soggetto titolare. In questa ottica, si deve affermare la risarcibilità della lesione dello stesso diritto all'esistenza nell'ordinamento come soggetto (fin quando sussistano le condizioni di legge), del diritto all'identità, del diritto al nome e del diritto all'immagine della persona giuridica ed in genere dell'ente collettivo. Tale risarcibilità va riconosciuta ‑ a prescindere dalla verificazione di eventuali danni patrimoniali conseguenti per la configurabilità di un danno di natura non patrimoniale, rappresentato dalla deminutio di tali diritti che la lesione è di per sé idonea ad arrecare e che ‑ come si dirà ‑ rappresenta un danno‑ conseguenza della lesione. Per tali diritti, che rappresentano l'equivalente, in relazione alla persona giuridica o all'ente collettivo, dei diritti della persona fisica aventi fondamento diretto nella Costituzione e precisamente nell'art. 2, si impone il riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale in ragione di una espressa previsione della stessa norma costituzionale dell'art. 2, la quale riconosce i diritti inviolabili dell'uomo, cioè della persona fisica, anche nelle formazioni sociali, alle quali qualsiasi soggetto collettivo meritevole di tutela secondo l'ordinamento, sia esso dotato della personalità giuridica o di una meno formale soggettività è riconducibile. Sarebbe, invero, contraddittorio riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale per lesione di un diritto fondamentale al sog­getto persona fisica quando agisce direttamente come tale e non riconoscerla alla "formazione sociale", la quale è pur sempre espressione di "uomini nati da ventre di donna". Tali diritti fondamentali, essendo quelli che identificano il soggetto dell'ordinamento o ne individuano la dimensione nel contesto sociale o in specifici contesti sociali, assumendo la stessa funzione nei confronti del soggetto collettivo, cioè identificandolo od esprimendone quella dimensione, meritano a livello risarcitorio lo stesso trattamento che meritano quando siano riferiti alla persona fisica, perché, se cosi non fosse, si verificherebbe una manifesta contraddizione con il riferimento della garanzia di tutela delle posizioni fondamentali anche al loro esplicarsi nelle formazioni sociali. Inerendo tali diritti all'individuazione ed alla dimensione sociale della formazione sociale e, quindi, a quello che può dirsi il senso minimo in cui una tale formazione sociale può essere soggetto dell’ordinamento, posto che non si può dare soggetto senza che ad esso sia garantita l'esistenza e senza che come tale sia individuabile ed assuma una determinata dimensione nel contesto sociale (espressa dal nome, dall'identità e dall'immagine), è giocoforza considerare la tutelabilità del danno non patrimoniale per la lesione della loro soggettività sub specie di esistenza, individuazione e dimensione sociale quale precetto discendente dalla Costituzione non meno che per le persone fisiche. §1.7. Riconosciuta, dunque, la risarcibilità del danno non patrimoniale alla persona giuridica ed al soggetto collettivo per diretta derivazione costituzionale dall'art. 2 (non senza che si debba sottolineare che a soggetti collettivi la stessa Costituzione si riferisce direttamente in norme speciali, come l'art. 18 e l'art. 49, od indirettamente, là dove determinati diritti costituzionalmente riconosciuti sono riferibili anche all'ente collettivo: si pensi all'art. 41 in punto di iniziativa economica), sorge il problema della identificazione di tale danno. Ancora una volta va rifiutata la logica della identificazione del danno nella stessa lesione della situazione dell'ente collettivo riconducibile nel senso indicato ad una situazione che evidenzi un interesse costituzionalmente tutelato. Deve, cioè, respingersi l'individuazione del danno nel c.d. danno‑evento rappresentato dal fatto in sé della stessa lesione. Va condivisa, invece, l'idea che anche in questo caso il danno si debba identificare sempre in un danno conseguenza, cioè in accadimento ricollegatesi alla lesione della situazione protetta sulla base di un nesso di causalità. Nel caso ‑ che è quello che qui interessa ‑ dell'immagine propria di un ente collettivo, una volta considerato che in genere il diritto all'immagine (nel senso in cui qui vi si allude, che non è quello della tutela dell'immagine trasfusa in un documento), se riguardato dal punto di vista della persona fisica presenta un aspetto che si esprime (a) nella considerazione (reputazione) che un certo soggetto ha di sé e (b)nella considerazione (reputazione) che di lui hanno i consociati in genere, ovvero specifiche platee di consociati, con le quali il soggetto si relazioni particolarmente, si tratta di domandarsi se questo duplice contenuto sia riferibile alla persona giuridica. Ad avviso del Collegio, la risposta è positiva, pur dovendosi adattare questa duplicità di contenuto alla peculiarità dell'ente collettivo. Con riferimento al primo aspetto, se non si può dire, per ovvie ragioni, che una persona giuridica od un ente collettivo abbiano considerazione di sé, si può senz'altro dire che, operando essi tramite persone fisiche, quelle che ne costituiscono gli organi, sembra innegabile che l'agire di questi soggetti e, quindi, per loro tramite della persona giuridica o dell'ente, risenta della considerazione che della posizione della persona giuridica o dell'ente essi hanno, nel senso che quanto più alta è tale considerazione tale agire ne risente positivamente e, quindi, attraverso il meccanismo di imputazione del rapporto organico, ne risente l'agire dell'ente. Ne discende che è configurabile, quale conseguenza di un fatto lesivo dell'immagine della persona giuridica o dell'ente collettivo, la diminuzione della considerazione che attraverso i suoi organi è riferibile alla persona giuridica o all'ente e tale diminuzione, concretandosi in una incidenza negativa sull'agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell'ente collettivo, rappresenta un danno non patrimoniale che non si identifica nella lesione dell’immagine in sé, ma ne rappresenta una conseguenza a detta lesione ricollegata da un nesso causale. Che poi tale danno‑conseguenza debba nella concretezza del caso presumersi di norma esistente, sulla base di una massima di esperienza per cui la lesione dell'immagine della persona giuridica o dell'ente si riverbera sul loro agire, perché percepita dalle persone fisiche che agiscono come loro organi, non toglie che di danno‑conseguenza si tratti. Si tratta di un danno che appare risarcibile indipendentemente dal fatto che l'incidenza negativa sull'agire delle persone fisiche che rappresentano gli organi dell'ente, abbia determinato un danno in senso economico, cioè un danno patrimoniale. Si è, infatti, in presenza di un danno che prescinde da tali conseguenze e si configura per il solo fato che l'agire di dette persone e, quindi, l'agire dell'ente risente della lesione all'immagine dell'ente stesso. In sostanza, poiché le persone fisiche in capo alle quali sussiste il rapporto organico risentono necessariamente nel loro agire della lesione dell'immagine dell'ente, è chiaro che ne risente la loro azione di organi dell'ente e, quindi, quella dell'ente che per loro tramite opera. Un esempio è sufficiente a chiarirlo: in presenza di una lesione all'immagine dell'ente, chi riveste la titolarità di un suo organo ha la consapevolezza di dover agire per superare la negatività espressa da tale lesione. Egli avrà, pertanto, un "pensiero" in più nel prestare la sua opera e, quindi, quest'ultima e, quindi, l'agire dell'ente non potrà che risentirne in termini di efficacia, onde ‑ a prescindere da eventuali riflessi economici ‑ tale conseguenza integra di per sé un danno non patrimoniale, senza che occorra, come fa la più recente giurisprudenza in tema di equa riparazione, ricondurre tale danno alla nozione di danno morale in senso soggettivo, atteso che il danno che viene in rilievo concerne l'obbiettivo mutamento delle condizioni dell'agire dell'ente e non il sentire delle persone attraverso le quali l'ente agisce e meno che mai un non configurabile "sentire" dell'ente. Peraltro, un danno‑conseguenza è identificabile di norma nella lesione dell'immagine di tali enti ‑ ed è anzi d'ancora maggiore percezione la sua configurabilità ‑ anche sotto il profilo della diminuzione della considerazione che essi hanno genericamente fra i consociati. Ciò, ancora una volta indipendentemente da eventuali conseguenze economiche. Invero, la diminuita reputazione dell'ente presso i consociati o presso una certa platea dì consociati, per la lesione della sua immagine, è un danno‑conseguenza che non si identifica nella lesione in sé. Il caso che si giudica consente dì evidenziarlo: qui il danno‑evento è rappresentato dalla segnalazione alla Centrale dei Rischi e dall'inserimento del relativo dato nell'apposita banca dati. Questa situazione integra l'evento lesivo perché ha rilievo ai fini dell'immagine dell'ente presso la platea di soggetti che accede o può accedere a tale banca, la quale è funzionale a fornire l'immagine nel circuito bancario dei soggetti che ricorrono o vogliono ricorrere al credito in punto di esposizione debitoria e solvibilità. L'immagine dell'ente sotto tale profilo, una volta avvenuta la segnalazione (indebitamente com'è pacifico nella specie) non e più la stessa di prima dell’inserimento, in quanto, successivamente ad esso, essa risulta astrattamente percepibile con la nota negativa derivante dalla indicazione di una situazione di c.d. sofferenza. Il danno‑conseguenza è rappresentato, invece, dalla effettiva percepibilità che quella platea ha della segnalazione ed ha natura di conseguenza della lesione perché rappresenta il risultato dell'inserimento nella banca dati. Queste precisazioni possono sembrare un mero artificio, ma basta un esempio per escluderlo: si pensi ad una segnalazione alla centrale che pervenga alla Centrale alla fine di un giorno lavorativo e venga materialmente inserita alla fine dell'ultimo giorno lavorativo del sistema bancario, di modo che sia fruibile soltanto il successivo primo giorno della settimana successiva. Il danno‑evento appare verificato con l'inserimento, m il danno-conseguenza si verifica quando inizia la settimana lavorativa e la platea dei soggetti che possono accedere alla Centrale Rischi può farlo. §1.8. Riconosciuta la configurabilità di un danno non patrimoniale all'immagine della persona giuridica o dell'ente collettivo nei due sensi ipotizzati, si osserva che esso, come ogni danno non patrimoniale, dovrà essere liquidato in via equitativa, avendosi riguardo a tutte le circostanze del caso concreto. §1.9. Ora, applicando gli esposti principi alla vicenda di cui è processo, emerge che al Corte napoletana non li ha osservati. La motivazione da essa adottata, per la verità, presenta un'evidente ambiguità. Essa dapprima contrappone la lesione della reputazione personale alla lesione della reputazione professionale (commerciale o lavorativa), cosi palesemente evocano un concetto esposto dalla sentenza di questa Corte n. 6507 del 2001 (che cita insieme ad altre) e, quindi, propone l'affermazione che nel caso della prima il danno è in re ipsa, mentre nel caso della seconda avrebbe natura patrimoniale e dovrebbe essere provato. Ma in tal modo a parte l’inesatto ricorso al danno in sé ‑ non spiega affatto perché nella specie non ricorrerebbe la lesione di quella che individua ‑ peraltro, senza specificazioni ‑ come reputazione personale e che dovrebbe identificarsi nell'immagine delle ricorrenti. Il dubbio prospettato dalle ricorrenti nel senso che la Corte partenopea avrebbe inteso negare la configurabilità di un danno alla reputazione personale nei riguardi delle persone giuridiche non trova riscontro in alcun passo della motivazione e, comunque, se avesse rappresentato il retropensiero della sentenza, sarebbe erroneo, giu~ sta le considerazioni svolte. D'altro canto, le succes­sive considerazioni circa la non sufficienza in entrambi i casi della prova del fatto lesivo, perché risulti provato il danno, contraddicono la precedente afferma­zione dell'esistenza di un danno in re ipsa. Mentre quelle ancora successive sulla brevità della durata dell'inserimento nella Centrale Rischi e sulla esiguità della somma indicata in sofferenza, pur essendo riferite alla reputazione commerciale, ove riferibili, in ragione della precedente affermazione della non sufficienza della prova del fatto lesivo anche per la prova del danno alla reputazione personale, incorrono nella censura di cui al secondo motivo, come si dirà fra poco. §1.10. Il primo motivo è, pertanto, fondato nei limiti soggettivi di cui si dirà. La Corte napoletana, che era stata richiesta di riconoscere nel fatto della indebita segnalazione alla Centrale Rischi sia un danno all'immagine come tale e, quindi, non patrimoniale, sia un danno all'immagine in senso economico e, quindi, patrimoniale, non ha riconosciuto il primo, che, invece, in forza dei rilievi svolti era riconoscibile e doveva liquidarsi equitativamente. Lo era, tuttavia, come ha dedotto la resisten­te soltanto nei riguardi della I., poiché la lesione dell'immagine come tale, in quanto determinata dalla segnalazione, che concerneva direttamente soltanto la I., si è potuta verificare per effetto di essa soltanto nei suoi riguardi, essendo il danno­evento costituito dalla segnalazione induttiva dell'inserimento relativo soltanto a detta società. Mentre eventuali conseguenze dannose lesive del diritto all'immagine delle altre due società non possono essersi ricollegate soltanto alla segnalazione seguita dall’inserimento, ma alla combinazione di essa con altri fattori inerenti il collegamento fra esse e la I. ed incidenti appunto su quell'immagine. D'altro canto, il primo motivo è incentrato sulla indicazione come fatto lesivo della segnalazione induttiva dell'inserimento: lo rivela, a parte tutta la sua esposizione, in particolare, quanto precisato nella pagina diciassette del ricorso, dove si allude al "fatto specifico", alla rappresentazione di circostanze non veritiere ala Centrale Rischi, alla comunicazione di semplici informazioni non veritiere, tutti concetti che evocano come evento lesivo la segnalazione. Ciò è tanto vero che solo sul finire di quella pagina, dimenticandosi che l'esposizione del motivo concerneva la doglianza circa la mancata affermazione del danno all'immagine come tale, si fa riferimento al danno in senso economico alludendo al ritardo nella concessione del finanziamento Isveimer. Il primo motivo va, dunque, accolto nei riguardi dell'I. e rigettato nei confronti delle altre due società ricorrenti. La sentenza impugnata va cassata in relazione ed il giudice di rinvio si atterrà al seguente principio di diritto: «Poiché anche nei confronti della persona giuridica ad in genere dell'ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell'ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra l'immagine della persona giuridica o dell'ente, allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e so dimostrato, il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca. il suddetto danno non patrimoniale va liquidato alla persona giuridica o all'ente in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. In riferimento ad indebita segnalazione da parte di istituto bancario di una società alla Centrale Rischi della Banca d'Italia quale soggetto in posizione di c.d. sofferenza, deve riconoscersi, pertanto, la risarcibilità a tale società di un danno non patrimoniale per lezione del diritto all'immagine sotto i due profili indicati, da liquidarsi in via equitativa secondo la circostanze concrete del caso». §3. Con il secondo motivo si deduce «omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia e violazione degli artt. 1226, 1374, 1375, 2043, 2697» cod. civ. Ci si duole dell'affermazione che comunque l'esiguità della somma indicata come oggetto della sofferenza e la breve durata di quest'ultima escluderebbero un danno. Si rileva anzitutto che anche tale ragionamento svolto dalla Corte territoriale ed oggetto della censura di cui al motivo presenta una certa dose di ambiguità. Ciò, con riferimento all'oggetto cui si riferisce. Infatti, si tratta di un ragionamento che viene svolto dopo le considerazioni che quella Corte enuncia per distinguere il danno alla reputazione personale da quello alla reputazione commerciale. Tali considerazioni - come emerge dalla motivazione riportata nel su esteso svolgimento processuale e come si è già adombrato poco sopra ‑ pongono dapprima un netto distinguo fra lesione della reputazione personale e lesione della reputazione commerciale, ma poi, del tutto contraddittoriamente, le accomunano entrambe quanto alla necessità della prova del danno. Ne discende che, in ragione di tale consecuzione di due affermazioni contraddittorie, il lettore della sentenza, quando legge che la durata della segnalazione e l'esiguità della somma iscritta «inducono ad escludere che vi sia stato pregiudizio della reputazione commerciale della stessa» (cioè della società segnalata), è indotto a credere che tale affermazione si riferisca sia al danno alla reputazione personale (e, quindi, anche al profilo oggetto della censura accolta quanto al primo motivo) che a quello alla "reputazione commerciale", espressione che la Corte territoriale sembrerebbe identificare come aspetto del diritto all'immagine in relazione al quale si sarebbero verificate le asserite (dalle ricorrenti) conseguenze negative economiche (danno patrimoniale). È indotto a credere, cioè, che una segnalazione alla Centrale Rischi di una inesistente sofferenza, ove abbia una durata come quella che ha avuto la segnalazione di cui è processo e concerna una sofferenza di quel valore (lire 2.000.000), non determini non solo ‑ aspetto su cui questa Corte non deve interloquire ‑ la prova per presunzioni della verificazione come conseguenza dannosa di un danno in senso economico, ma nemmeno di un danno all'immagine della società iscritta nel duplice contenuto in precedenza indicato. Con riferimento a quest'ultimo, sia l’uno che l'altro argomento della sentenza impugnata ‑ che in sostanza danno luogo ad un'affermazione negativa circa la sussunzione della fattispecie concreta sotto quella astratta del danno all'immagine ‑ sono erronei, doven­dosi condividere: a) sia la prospettazione che la durata della segnalazione (dal gennaio al marzo 1994) e quella della conseguente annotazione in sofferenza (dal gennaio al maggio) non sono state affatto modeste; b) sia la prospettazione che, al contrario di quanto opinato dalla Corte napoletana, l'esiguità della somma iscritta a sofferenza ha avuto una maggiore efficacia lesiva dell'immagine della società iscritta, essendo indice di uno stato di decozione pur di fronte ad un debito esiguo. In ogni caso, ai fini del riconoscimento dell'esistenza del danno all'immagine nei sensi indicati nello scrutinio del primo motivo e, quindi, in relazione alla lesione del diritto all'immagine come determinativa di un danno non patrimoniale, detti elementi possono soltanto svolgere rilievo ai fini della quantificazione del danno, non essendo revocabile in dubbio che la lesione del diritto all'immagine si verifichi per l'inserimento della notizia circa la sofferenza per un tempo sufficiente a consentirne la percepibilità alla platea di coloro che alla Centrale Rischi hanno accesso ed indipendentemente dall'importo della somma indicata in sofferenza. Il secondo motivo dev'essere, dunque accolto e, nel procedere alla valutazione della sussistenza del danno non patrimoniale all'immagine per la I. nei sensi imposti dall'accoglimento del primo motivo, la Corte territoriale eviterà di riproporre il ragionamento in punto di sussunzione qui censurato. La censura di detto ragionamento ‑ in ragione del rigetto dei restanti motivi, tutti concernenti il mancato riconoscimento del danno in senso patrimoniale (quello, per intendersi, che la Corte napoletana ha ricollegato alla "reputazione commerciale"), resterà, viceversa, priva di effetto per essi.

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