giovedì 26 giugno 2008

Stupefacenti, ipotesi della lieve entità ex comma 5 dell'art. 73 DPR 309/90, dopo la novella ex legge 49/2006

Cassazione penale , sez. IV, sentenza 21.11.2007 n° 1692

"ai fini della delibazione della sussistenza o meno dell'attenuante di cui al 5° comma dell'art. 73 del D.P.R. n. 309/1990, il giudice è tenuto a complessivamente valutare tutti gli elementi indicati dalla norma, sia quelli concernenti l'azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli che attengono all'oggetto materiale del retao (qualità e quantità delle sostanze): dovrà, conseguentemente, escludere connotazioni di “lieve entità” del fatto quando la ricorrenza di uno solo degli elementi indicati porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia, appunto, di “lieve entità”. Ed in tale contesto valutativo, ove la quantità di sostanza stupefacente si riveli considerevole, la circostanza è di per sé sintomo sicuro di una notevole potenzialità offensiva del fatto e di diffusibilità della condotta di spaccio"


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

Sentenza 21 novembre 2007, n. 1692

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

IV SEZIONE PENALE

Composta dai sigg.:

  1. Dott. Lionello MARINI – Presidente

  2. Dott. Francesco MARZANO – Consigl. Rel.;

  3. Dott.ssa Silvana IACOPINO – Consigliere;

  4. Dott. Francesco NOVARESE – Consigliere;

  5. Dott.ssa Adelaide AMENDOLA – Consigliere;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso proposto da S.M. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino in data 17.01.2003.

Udita in pubblica udienza la relazione svolta dal Consigliere dott. Francesco Marzano;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. Luigi Ciampoli, che ha concluso per la inammissibilità del ricorso;

Non comparso il difensore del ricorrente;

Osserva:

Svolgimento del processo

1. Il 22 maggio 2002 il G.I.P. del Tribunale di Torino, a seguito di giudizio abbreviato, condannava S.M., riconosciutegli le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva, a pena ritenuta di giustizia per imputazioni, unificate sotto il vincolo della continuazione, di cui agli artt. 110, c.p., 73 D.P.R. N. 309/90; 110, 81, 648 c.p.; 81, 495 c.p..

Sul gravame dell'imputato, la Corte di Appello di Torino, con sentenza del 17 gennaio 2003, riduceva la pena inflitta dal primo giudice e confermava nel resto, dando atto che in ordine al reato sub c) della rubrica (artt. 81, 495 c.p.) non era stata proposta alcuna doglianza, sicché non era più in discussione tale capo di imputazione.

I fatti venivano così ricostruiti dai giudici del merito (in particolare, alla stregua di quanto evidenziato nella integrativa sentenza di primo grado).

Il 15 marzo 2002 gli agenti di P.S. Operanti avevano notato l'imputato aprire la porta di ingresso di un appartamento, utilizzando un mazzo di chiavi in suo possesso. Dopo circa quindici minuti egli era stato visto uscire dal portone dello stabile in compagnia di N.O. (coimputato nello stesso procedimento), anch'egli in possesso di un mazzo di chiavi dell'alloggio e recante in mano un sacchetto per l'immondizia. I militi, quindi, avevano fermato i due ed avevano proceduto alla perquisizione dell'appartamento, ove avevano rinvenuto, nella camera da letto, un involucro in cellophane contenente gr. 11 lordi di cocaina, con principio attivo di gr. 6,18, nonché altre buste in cellophane trasparenti, un paio di forbici, un bilancino, un cucchiaio con tracce di sostanza stupefacente, la somma di €.37.750,00 (in un mobiletto di quella camera da letto), documenti concernenti il contratto di affitto di quell'appartamento, intestato al N.), rinvenivano, inoltre, ventotto telefoni cellulari, cinque catenine d'oro, sette braccialetti d'oro, otto anelli d'oro, un paio di orecchini d'oro con perle, otto orologi in metallo, tre televisori, tre videoregistratori, un lettore CD, uno stereo ed un set di casse acustiche per autovettura.

N. in sede di convalida dell'arresto, si era avvalso della facoltà di non rispondere; successivamente, in sede di udienza davanti al Tribunale del riesame, aveva ammesso l'addebito, quanto alla detenzione della sostanza stupefacente, affermando che “il S. aveva le chiavi di casa in quanto era andato qualche volta a trovarlo, ma non aveva nulla a che fare con la droga”. S. dal canto suo, aveva dichiarato che non abitava in quell'appartamento e ne aveva le chiavi solo perché “ogni tanto vi aveva portato delle ragazze”, sicché “non sapeva nulla della droga”.

I giudici di merito ritenevano inattendibili le dichiarazioni resa da N., scagionatorie di S. e ritenevano, invece, tale coimputato pienamente partecipe, concorsualmente, all'attività delittuosa contestata, esplicitandone le ragioni.

2. Avverso tale sentenza ha personalmente proposto ricorso l'imputato, denunziando vizi di motivazione e violazione di legge.

Deduce che:

a) illegittimamente era stata ritenuta la sua responsabilità e “la sola circostanza relativa al possesso delle chiavi dell'appartamento da parte del sottoscritto non era tale da consentire di emettere una sentenza di condanna, anche alla luce delle conclusioni alle quali era giunto in precedenza il Tribunale del riesame di Torino...”; prosegue rilevando “la totale assenza di elementi di prova in relazione ad una presunta condotta penalmente rilevante ex art. 110 c.p. con riferimento alla detenzione della sostanza stupefacente di esclusiva proprietà del N...” e che, “quindi, ha posto in essere una condotta che non ha apportato alcun contributo alla detenzione dello stupefacente in questione...”;

b) illegittimamente era stata esclusa la sussistenza dell'attenuante di cui al 5° comma dell'art. 73 DP.R. n. 309/90 “sulla base esclusiva del dato quantitativo dello stupefacente...”;

c) “la mancata applicazione....di una pena più prossima all'assoluto minimo edittale...”.

MOTIVI DELLA DECISIONE

3.0 Il primo motivo di doglianza è manifestamente infondato ed aspecifico.

I giudici del merito, difatti, hanno reso ampia ed esaustiva contezza delle ragioni apprezzate nel pervenire alla confermativa statuizione di responsabilità, rilevando che, “a parte l'intrinseca scarsa verosimiglianza della spiegazione del possesso di quelle chiavi fornita dal S., a farla ritenere, sicuramente falsa valgono gli argomenti indicati nella sentenza appellata e, in particolare: il rilievo che in quell'alloggio erano custoditi droga, una cospicua somma di denaro e numerosi oggetti di valore di provenienza illecita...; sì da renderlo poco adatto per appuntamenti “galanti” fra soggetti estranei...; l'osservazione che l'imputato non ha saputo indicare neppure il nome di qualcuna delle ragazze con cui, a suo dire, si sarebbe accompagnato; soprattutto la circostanza che egli era solo allorché entrò, il pomeriggio del 15.3.2002, in quell'appartamento usando le chiavi in suo possesso e, ciononostante, non ha saputo fornire un'attendibile spiegazione di quell'ingresso e, soprattutto, della sua successiva permanenza all'interno dell'alloggio per circa un quarto d'ora, in compagnia dello N.”.

A fronte di tale puntuale apparato argomentativo, che si sottrae del tutto a rinvenibili vizi di illogicità – che, peraltro, la norma vuole dover essere manifesta, cioè coglibile immediatamente, ictu oculi -, il ricorrente si limita ad addurre che “la sola circostanza relativa al possesso delle chiavi dell'appartamento” avrebbe determinato il giudizio di responsabilità, senza minimamente misurarsi con le ulteriori argomentazioni che i giudici del merito hanno esplicitato nel dare conto delle ragioni per le quali doveva ritenersi il suo concorsuale apporto alla commissione del reato e “sicuramente Falsa” la prospettazione della sua tesi scagionatoria.

3.1 Del tutto privo di fondamento è anche il secondo profilo di doglianza.

Infatti, ai fini della delibazione della sussistenza o meno dell'attenuante di cui al 5° comma dell'art. 73 del D.P.R. n. 309/1990, il giudice è tenuto a complessivamente valutare tutti gli elementi indicati dalla norma, sia quelli concernenti l'azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli che attengono all'oggetto materiale del retao (qualità e quantità delle sostanze): dovrà, conseguentemente, escludere connotazioni di “lieve entità” del fatto quando la ricorrenza di uno solo degli elementi indicati porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia, appunto, di “lieve entità”. Ed in tale contesto valutativo, ove la quantità di sostanza stupefacente si riveli considerevole, la circostanza è di per sé sintomo sicuro di una notevole potenzialità offensiva del fatto e di diffusibilità della condotta di spaccio.

Nella specie, i giudici del merito, nell'esercizio del relativo potere che al riguardo è loro riconosciuto dalla legge, hanno logicamente apprezzato le evidenziate circostanze relative all'azione ed all'oggetto, ovvero le modalità del fatto e “il quantitativo stesso della cocaina rinvenuto in quell'appartamento”, nei termini ponderali sopra indicati (pag. 8 della sentenza impugnata), correttamente alla stregua di queste pervenendo ad escludere la sussistenza di tale attenuante.

3.2 Quanto, invece, al terzo ed ultimo motivo di ricorso, col quale il ricorrente si duole della “mancata applicazione...di una pena più prossima all'assoluto minimo edittale”, deve rilevarsi che il giudice di primo grado ritenuti i reati contestati unificati per continuazione, determinò la pena base per il reato più grave, ex art. 73 D.P.R. n. 309/1990, in anni otto,mesi sei di reclusione ed €.30.000,00 di multa, in misura, quindi, del tutto prossima al minimo edittale all'epoca vigente per i reati concernenti le c.d. “droghe pesanti”, come, nella specie, la cocaina. La sentenza ora impugnata (resa il 17 gennaio 2003, prima, quindi, delle modifiche normative di cui subito di seguito si dirà) ha ritenuto che “la pena base per il reato più gravemente sanzionato...possa in effetti essere fissata in misura pressoché corrispondente al minimo edittale”: la ha quindi determinata in anni 8 di reclusione ed €.27.000,00 di multa. La pena detentiva così indicata corrisponde esattamente al minimo all'epoca vigente; quella pecuniaria è lievemente superiore a quella minima edittale di €.25.882,00. Rimane, quindi, che nella valutazione discrezionale che al riguardo si appartiene al giudice del merito, questi ha ritenuto che il fatto sia sanzionabile “in misura pressoché corrispondene al minimo edittale” e, in concreto, in misura esattamente corrispondente al minimo edittale” e, in concreto, in misura esattamente corrispondente al minimo edittale quanto alla pena detentiva.

Epperò, deve rilevarsi che l'art. 4-bis della sopravvenuta L.21 febbraio 2006 n. 49, ha rivisto il trattamento sanzionatorio per le sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella 1 prevista dall'art. 14 D.P.R. n. 309/1990, in senso più favorevole all'imputato, stabilendo il nuovo limite edittale minimo in anni sei di reclusione ed €.26.000,00, sicché, quanto alla pena detentiva, la pena irrogata non corrisponde (più) a al precedente minimo edittale, applicato con la sentenza impugnata. Sotto tale profilo, ed in applicazione dell'art. 2, 4° c., c.p., va ritenuta la fondatezza del motivo al riguardo proposto con conseguente necessitato annullamento con rinvio su tale punto.

4. Conclusivamente, la sentenza impugnata va annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Torino. Il ricorso va nel resto rigettato

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio sul punto ad altra sezione della Corte diAppello di Torino. Rigetta nel resto il ricorso.

Roma, 21 novembre 2007

Il Consigliere Estensore Il presidente

giovedì 19 giugno 2008

Fideiussione, obbligazione principale e di garanzia fideiussoria

Cassazione civile , SS.UU., sentenza 05.02.2008 n° 2655

“ Osserva il Collegio che questa Suprema Corte ha già più di una volta affermato (C. Cass. 1996/365 e 1998/10188) che per quanto fra loro collegate, l'obbligazione principale e quella fideiussoria mantengono una propria individualità non soltanto soggettiva, data l'estraneità del fideiussore al rapporto richiamato dalla garanzia, ma anche oggettiva in quanto la causa fideiussoria è fissa ed uniforme (funzione di garanzia creditoria mediante estensione delle sfere patrimoniali aggredibili), mentre l'obbligazione garantita può basarsi su qualsiasi altra causa idonea allo scopo.

Ne deriva che la disciplina dell'obbligazione garantita non influisce su quella della fideiussione, per la quale continuano perciò a valere le normali regole, ivi comprese quelle sul pagamento e la giurisdizione.”

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 5 febbraio 2008, n. 2655

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 16/5/2005, il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate proponevano ricorso contro la decisione in epigrafe indicata, chiedendone la cassazione con ogni consequenziale statuizione.

La spa Assicurazioni Generali resisteva con controricorso e depositata memoria da entrambe le parti, la controversia veniva decisa all'esito della pubblica udienza del 15/1/2008.

Motivi della decisione

Dalla lettura della sentenza impugnata, del ricorso e del controricorso, emerge in fatto che con decreto ministeriale in data 1/6/1999, la srl Dragon Sud veniva dichiarata decaduta dal contributo ricevuto per la realizzazione di un nuovo stabilimento industriale che, contrariamente all'impegno assunto, non era mai stato messo in opera perchè destinato a parco giochi.

Fallita nel frattempo la Dragon Sud, l'Ufficio di Ariano Irpino dell'Agenzia delle Entrate intraprendeva il recupero dell'erogazione iscrivendone a ruolo l'importo nei confronti della spa Assicurazioni Generali, che aveva prestato fideiussione in favore della beneficiaria.

La concessionaria Uniriscossioni notificava la relativa cartella e la spa Assicurazioni Generali la impugnava dinanzi al Tribunale di Napoli, sostenendo che la controparte non avrebbe potuto iscrivere direttamente a ruolo perchè, nel caso di specie, non si trattava di un'entrata di natura tributaria, ma di un ordinario credito di fonte privatistica, per soddisfarsi del quale avrebbe dovuto dapprima munirsi del necessario titolo.

Il giudice adito annullava la cartella ed il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate si gravavano alla Corte di appello che, tuttavia, confermava la decisione di primo grado sottolinenando, quanto all'eccezione di difetto di giurisdizione riproposta dalle Amministrazioni appellanti, che il rapporto dedotto in giudizio non aveva niente a vedere con quello (pubblicistico) di finanziamento e, quanto al merito, che in base al chiaro disposto del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 21, le entrate che, come quella in esame, "ave(vano) causa in rapporti di diritto privato" potevano essere "iscritte a ruolo (solo) quando risulta(va)no da titolo avente efficacia esecutiva". Il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate hanno censurato l'anzidetta decisione, deducendo con il primo motivo "Difetto di giurisdizione - Violazione degli artt. 1936 e 1944 c.c. - Omessa motivazione (in relazione all'art. 360 c.p.c., nn 1, 3 e 5)", in quanto la Corte di appello aveva ritenuto la propria giurisdizione senza considerare che avendo carattere meramente accessorio, il rapporto di garanzia era destinato a seguire le sorti di quello principale che, attenendo ad una sovvenzione pubblica, costituiva materia riservata alla cognizione del giudice amministrativo.

Con il secondo motivo il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate hanno invece dedotto la "Violazione degli L. n. 46 del 1999, artt. 17 e L. n. 449 del 1997, art. 24, comma 32, e falsa applicazione del D.Lgs. n. 76 del 1990, art. 39, comma 11 e D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 21, - Omessa o comunque insufficiente e contraddittoria motivazione (in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)", in quanto l'Ufficio di Ariano Irpino aveva legittimamente proceduto all'iscrizione a ruolo, perchè anche se attivata nei confronti del fideiussore, la procedura aveva per oggetto il recupero del contributo e, dunque, un'entrata di matrice indubbiamente pubblica che, di conseguenza, poteva essere riscossa senza necessità della previa formazione di un titolo esecutivo, non avendo il succitato art. 21 comportato alcuna abrogazione della normativa concernente tale tipo di entrate.

Così riassunto il contenuto del ricorso e premesso che diversamente da quanto sostenuto nella memoria di parte ricorrente non v'era bisogno d'integrare il contraddittorio nei confronti del Ministero dell'Industria (oggi dello Sviluppo Economico), in quanto la controversia riguardava unicamente la legittimità del ruolo emesso dall'Ufficio locale dell'Agenzia delle Entrate, osserva il Collegio che questa Suprema Corte ha già più di una volta affermato (C. Cass. 1996/365 e 1998/10188) che per quanto fra loro collegate, l'obbligazione principale e quella fideiussoria mantengono una propria individualità non soltanto soggettiva, data l'estraneità del fideiussore al rapporto richiamato dalla garanzia, ma anche oggettiva in quanto la causa fideiussoria è fissa ed uniforme, mentre l'obbligazione garantita può basarsi su qualsiasi altra causa idonea allo scopo.

Ne deriva che la disciplina dell'obbligazione garantita non influisce su quella della fideiussione, per la quale continuano perciò a valere le normali regole, ivi comprese quelle sul pagamento e la giurisdizione.

Nè vale in contrario replicare che per l'Amministrazione non vi sarebbe nessuna differenza fra il rapporto intercorrente con il beneficiario del finanziamento e quello intercorrente con il fideiussore, che essendosi assunto il medesimo obbligo di restituzione gravante sul garantito, diventa suo condebitore solidale ai sensi dell'art. 1944 c.c..

L'obiezione non può essere condivisa perchè anche a prescindere da ogni considerazione sulla effettiva possibilità di equiparare la solidarietà ordinaria a quella fideiussoria, rispetto alla quale difetta quella comunione d'interessi che caratterizza la prima, rimane comunque il fatto, già puntualmente sottolineato dalla citata C. Cass. 1998/10188, che si tratta pur sempre di rapporti nettamente distinti, atteso che quello con il beneficiario riguarda i diritti e gli obblighi derivanti dalla concessione del finanziamento, mentre quello con il fideiussore trova il suo fondamento nella garanzia dal medesimo prestata ed ha per oggetto non la restituzione del contributo, ma il pagamento di una somma equivalente per l'ipotesi di mancato adempimento del debitore principale.

In applicazione dei predetti principi, che il Collegio condivide e ribadisce, va pertanto dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere dell'opposizione proposta dalla spa Assicurazioni Generali contro la cartella esattoriale notificatale dalla spa Uniriscossioni.

Il primo motivo del ricorso va, pertanto, rigettato non senza sottolineare che anche nel caso in cui si fosse voluto accedere alla tesi caldeggiata da parte ricorrente, avrebbe dovuto ugualmente concludersi per la giurisdizione dell'AGO in quanto, per giurisprudenza consolidata di queste Sezioni Unite, la posizione del beneficiario che, come la Dragon Sud, abbia ottenuto la erogazione del contributo, assume la consistenza del diritto soggettivo, che a sua volta comporta la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative alla decadenza, revoca o ripetizione della sovvenzione (v., tra le più recenti in tal senso, C. Cass. 2007/117 e 2007/8232).

Parimenti da rigettare è anche il secondo motivo, a proposito del quale è sufficiente rilevare che una volta riconosciuta l'applicabilità delle comuni regole all'obbligazione fideiussoria delle Assicurazioni Generali, deve per l'effetto affermarsi la impossibilità, per l'Amministrazione, di farla valere subito a mezzo d'iscrizione a ruolo, stante l'inequivoco divieto frapposto al riguardo dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 21, che per le entrate di natura privatistica, consente tale tipo di riscossione solo previa formazione di adeguato titolo esecutivo.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in complessivi 8.100,00 Euro, 100,00 dei quali per esborsi, oltre gli accessori di legge.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, rigetta il ricorso e condanna il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese di lite, liquidate in complessivi 8.100,00 Euro, 100,00 dei quali per esborsi, oltre gli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2008.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2008.

venerdì 13 giugno 2008

Permesso di costruire, silenzio, ricorso giurisdizionale per nomina commissario ad acta

Permesso di costruire, domanda, risposta della P.A., silenzio, illegittimità

TAR Lazio-Roma, sez. II bis, sentenza 03.01.2008 n° 14

“L’art. 20 (Procedimento di rilascio del permesso di costruire) del D.P.R. n. 380/2001 fissa termini ben definiti per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, stabilendo in particolare che:

a) entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento, acquisiti i prescritti pareri e valutata la conformità del progetto alla normativa vigente, formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell’intervento richiesto (terzo comma);

b) il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può nel predetto termine di sessanta giorni, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L’interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta del responsabile del procedimento sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di sessanta giorni (quarto comma);

c) il termine di sessanta giorni può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento entro quindici giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa (quinto comma);

d) nell’ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5 comma 3 (aziende sanitarie e vigili del fuoco), il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi (sesto comma);

e) il provvedimento finale è adottato dal dirigente entro quindici giorni dalla proposta formulata dal responsabile del procedimento ovvero dall’esito della conferenza di servizio (settimo comma);

f) i termini di cui ai commi 3 e 5 sono raddoppiati per i comuni con più di 100.000 abitanti, nonché per i progetti particolarmente complessi, secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento (ottavo comma);

g) decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto (nono comma).

A sua volta il successivo art. 21 (Intervento sostitutivo regionale) del citato D.P.R. n. 380/2001 oltre ad aver previsto la facoltà per l’interessato di richiedere l’intervento sostitutivo regionale, stabilisce all’ultimo periodo del primo comma che "Resta comunque ferma la facoltà di impugnare in sede giurisdizionale il silenzio-rifiuto formatosi sulla domanda di permesso di costruire".

La riportata normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).”

T.A.R.

Lazio - Roma

Sezione II bis

Sentenza 3 gennaio 2008, n. 14

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

- Sezione Seconda Bis -

composto dai signori magistrati:

Dott. Francesco Corsaro Presidente

Dott. Francesco Riccio Consigliere

Dott. Stefania Santoleri Consigliere, relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 8111/07, proposto da X., rappresentato e difeso dall’Avv. Luisa Totino ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Roma, Via G. Ferrari n. 11.

contro

il COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandro Rizzo ed elettivamente domiciliato presso gli uffici dell’Avvocatura Comunale siti in Roma, Via del Tempio di Giove n. 21

il COMUNE DI ROMA – Dipartimento IX – in persona del legale rappresentante p.t.

per l'annullamento

del silenzio rifiuto formatosi sulla domanda di rilascio del permesso di costruire in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270, avente ad oggetto l’ampliamento di un fabbricato residenziale, nonché di ogni atto presupposto, connesso, consequenziale a quello impugnato.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione resistente;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti tutti gli atti di causa;

Udita alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 la relazione della Dott.ssa Stefania Santoleri, e uditi, altresì, per le parti gli avvocati come da verbale di udienza allegato agli atti del giudizio.

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Il ricorrente è proprietario di un terreno con sovrastante fabbricato destinato ad abitazione propria e del nucleo familiare, sito in Roma, Via Tenuta S. Agata n. 20, distinto in catasto al foglio 193, part. 31 e 32.

Con domanda prot. n. QI/2007/24270 del 12/4/07, il ricorrente ha chiesto il rilascio del permesso di costruire per realizzare l’ampliamento del proprio fabbricato.

Il Comune è rimasto inerte.

Essendo trascorso il termine di cui all’art. 20 del D.P.R. 380/01[1], il ricorrente ha impugnato il silenzio rifiuto deducendo i seguenti motivi:

1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del D.P.R. 380/01 e succ. mod. ed integr. Eccesso di potere per carenza assoluta di motivazione.

L’art. 20 del D.P.R. 380/01 assegna all’Amministrazione il termine tassativo entro il quale adottare il provvedimento.

Ai sensi dell’art. 20 comma 9 del D.P.R. 380/01, decorso il termine previsto dalla legge il permesso si intende rifiutato.

Nella fattispecie il Comune non avrebbe adottato alcun provvedimento nei termini previsti dalla legge e quindi si sarebbe formato il silenzio rifiuto impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.

2) Violazione degli artt. 2 comma 2 e 3 comma 1 della L. 241/90 e succ. mod. ed integr. Difetto di motivazione.

Il silenzio prestato dall’Amministrazione sarebbe illegittimo dovendo la P.A. concludere il procedimento con un provvedimento espresso e motivato.

Insiste quindi il ricorrente per l’accoglimento del ricorso.

Il Comune di Roma si è costituito in giudizio ed ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza.

Alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

Preliminarmente ritiene il Collegio di dover respingere l’eccezione di inammissibilità sollevata da parte resistente atteso che – per giurisprudenza consolidata – il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esitare con provvedimento esplicito la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una grave limitazione delle facoltà del cittadino di esercitare il diritto di edificare, espressione tipica del diritto dominicale (cfr. T.A.R. Basilicata n. 145/07; TAR Lazio, Latina, 14 marzo 2001, n.295).

Con riferimento a quanto precisato, ritiene dunque il Collegio che il rifiuto implicito sia per propria natura sempre illegittimo, specie se connesso a situazioni di diritto degradate, come si verifica nel caso di richiesta di concessione edilizia, rispetto alla quale il proprietario del bene fa valere un diritto soggettivo condizionato in attesa di espansione, dal momento che tale comportamento omissivo e di inerzia, oltre a rivelarsi elusivo di un preciso dovere provvedimentale imposto dalla legge, risulta anche carente della dovuta motivazione, precludendo in tal modo anche il diritto di difesa del cittadino che ne viene a subire gli effetti negativi.

Di qui l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 21 bis dellaL. 1034/71 [2] caratterizzato dalla snellezza e dalla velocità che culmina – nel caso di accoglimento del ricorso – con la declaratoria dell’obbligo di provvedere imponendo pertanto all’Amministrazione inadempiente il rispetto dei principi sul giusto procedimento.

Del resto la stessa giurisprudenza ha chiarito che – per espressa definizione normativa – il silenzio sull’istanza di rilascio del permesso di costruire si qualifica come silenzio rifiuto e non come silenzio rigetto (T.A.R. Marche n. 413/06) e che come tale può essere oggetto di impugnazione con il procedimento ex art. 21 bis della L. 1034/71.

Ne consegue l’infondatezza della proposta eccezione.

Nel merito il ricorso è fondato.

L’art. 20 (Procedimento di rilascio del permesso di costruire) del D.P.R. n. 380/2001 fissa termini ben definiti per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, stabilendo in particolare che: a) entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento, acquisiti i prescritti pareri e valutata la conformità del progetto alla normativa vigente, formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell’intervento richiesto (terzo comma); b) il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può nel predetto termine di sessanta giorni, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L’interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta del responsabile del procedimento sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di sessanta giorni (quarto comma); c) il termine di sessanta giorni può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento entro quindici giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa (quinto comma); d) nell’ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5 comma 3 (aziende sanitarie e vigili del fuoco), il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi (sesto comma); e) il provvedimento finale è adottato dal dirigente entro quindici giorni dalla proposta formulata dal responsabile del procedimento ovvero dall’esito della conferenza di servizio (settimo comma); f) i termini di cui ai commi 3 e 5 sono raddoppiati per i comuni con più di 100.000 abitanti, nonché per i progetti particolarmente complessi, secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento (ottavo comma); g) decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto (nono comma).

A sua volta il successivo art. 21 (Intervento sostitutivo regionale) del citato D.P.R. n. 380/2001 oltre ad aver previsto la facoltà per l’interessato di richiedere l’intervento sostitutivo regionale, stabilisce all’ultimo periodo del primo comma che "Resta comunque ferma la facoltà di impugnare in sede giurisdizionale il silenzio-rifiuto formatosi sulla domanda di permesso di costruire".

La riportata normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).

Nella fattispecie alla domanda di rilascio del permesso di costruire del 12 aprile 2007 non ha fatto seguito alcun atto – neppure istruttorio – da parte del Comune di Roma fino al momento della proposizione del ricorso (e cioè fino al 21 settembre 2007, data di notifica dell’impugnazione).

Sicchè essendo trascorsi i termini previsti dall’art. 20 del D.P.R. 380/91 si è formato il silenzio impugnabile in sede giurisdizionale, ed avendo la P.A. l’obbligo di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso, che consenta all’interessato di comprendere le ragioni della scelta operata dall’Amministrazione e che quindi gli garantisca idonea tutela giurisdizionale, il silenzio serbato dal Comune di Roma deve ritenersi illegittimo.

Non può infatti assumere rilievo la richiesta di integrazione documentale avanzata dal Comune di Roma in data 2 ottobre 2007, in quanto successiva allo spirare del termine per la conclusione del procedimento e all’instaurazione del giudizio, alla quale, peraltro, non ha fatto seguito l’adozione di alcun provvedimento decisorio, unico elemento in grado di comportare la declaratoria di improcedibilità dell’impugnazione.

Il ricorso va quindi accolto, ai limitati fini di ordinare al Comune di Roma di provvedere all’adozione del provvedimento conclusivo entro il termine di 60 (sessanta) giorni decorrenti dalla comunicazione o dalla notifica, se anteriore, della presente sentenza.

Il Tribunale nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione Seconda Bis -

accoglie

- il ricorso in epigrafe indicato e per l’effetto annulla il silenzio rifiuto e dichiara l’obbligo per l’Amministrazione di provvedere sull’istanza di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270;

- nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato;

- condanna il Comune di Roma al pagamento delle spese di lite che liquida complessivamente in € 500 oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6 dicembre 2007.

Francesco Corsaro PRESIDENTE

Stefania Santoleri ESTENSORE

Depositata in Segreteria il 3 gennaio 2008.

mercoledì 11 giugno 2008

Comodato, immobile, configurabilità per la vita natural durante

Suprema Corte di Cassazione, Sentenza 11 marzo – 3 aprile 2008, n. 8548

" Va rilevato che, in presenza dell'intento empirico di tre fratelli di concedere un alloggio alla madre ed alla sorella nubile per tutta la restante vita, ove anche il contratto posto in essere sia stato di donazione del diritto di abitazione, con conseguente nullità dello stesso per difetto di forma, a norma dell'art. 1424 c.c. si verificherebbe la conversione di questo nel contratto di comodato "vita natural durante".

"È configurabile, infatti, il comodato di una casa per consentire al comodatario di alloggiarvi per tutta la vita senza che perciò debba ravvisarsi un contratto costitutivo di un diritto di abitazione, con conseguente necessità di forma scritta ad substantiam"



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 11 marzo – 3 aprile 2008, n. 8548

(Presidente Vittoria – Relatore Segreto)

Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 14.12.1998 N. M., G. M. e F. R. proponevano appello davanti al tribunale di Latina avverso la sentenza n. 68/1998, con cui il pretore di Fondi aveva rigettato la domanda di rilascio di un appartamento sito in Fondi, avanzata dagli appellanti nei confronti della rispettiva zia e cognata P. M..

Il Tribunale, con sentenza depositata il 29.7.2003, in riforma dell'appellata sentenza, accoglieva la domanda e condannava P. M. al rilascio in favore degli appellanti dell'appartamento in questione.

Riteneva il Tribunale che, con la scrittura privata intervenuta tra i fratelli V., D. e B. M. (quest'ultimo dante causa degli attori), in data 1.12.1968, con la quale essi dividevano un bene comune, i predetti disponevano che la madre e la sorella (finché nubile) avevano il diritto di abitazione "vita natural durante" in due stanze e contiguo bagno; che tanto integrava una donazione del diritto reale di abitazione e, quindi, nulla per difetto di forma, mancando l'atto pubblico, con la presenza di testi.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione M. P., che ha anche presentato memoria. Resistono con controricorso M. N., M. G. e R. F..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta che il giudice di appello ha omesso di motivare in merito alla prospettazione del contratto in questione come di comodato per l'intera vita della comodataria, pur sollevata nella fase di merito.

2. Con secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la falsa applicazione degli artt. 1803 e segg. c.c..

Secondo la ricorrente nella fattispecie non si trattava di una donazione del diritto di abitazione, bensì del comodato dell'appartamento perché esso fosse adibito ad abitazione per tutta la vita della comodataria, con la conseguenza che non era necessaria la forma scritta e che gli eredi del comodante dovevano rispettare il termine di scadenza del comodato, costituito dalla fine della vita della comodataria.

3.1. I due suddetti motivi, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati.

Invero, il contratto di comodato è definito legislativamente all'art. 1803 cod. civ. come il contratto, essenzialmente gratuito, col quale una parte consegna all'altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Sulla base di questa definizione, la dottrina ha posto in evidenza tre fondamentali requisiti del comodato: la realtà, l'unilateralità, la gratuità.

È dato rilevare che, nel caso di specie, sussistono certamente i primi due requisiti, atteso che non è stato contestato che vi fu la consegna dell'appartamento dal comodante alla comodataria. Per quanto attiene al requisito dell'unilateralità, è pacifico che la comodataria soltanto abbia assunto gli obblighi di custodire e conservare (art. 1804 c.c.), nonché di restituire (art. 1809 c.c.) l'appartamento consegnatole al termine della durata del contratto, che, nel caso di specie, ha la particolarità di avere la durata stessa della vita della beneficiaria.

3.2. Quanto alla gratuità, pacifica nella fattispecie, va solo precisato che il negozio gratuito non necessariamente nasconde un atto di liberalità.

Invero, come altre volte ritenuto da questa Corte, oggetto del rapporto di comodato può ben essere anche la concessione gratuita di un'abitazione per lungo tempo o finché viva il concessionario (Cass. n. 1384 del 1957; n. 1018 del 1976; n. 511 del 1978; n. 3834 del 1980; n. 11620 del 1990; n. 9909 del 1998). La concessione in comodato di un immobile per tutta la vita del comodatario è un contratto a termine, di cui è certo l'an ed incerto il quando.

Nell'ipotesi di comodato a termine - anche se di lunga durata -stante la natura obbligatoria del contratto, gli eredi del comodante sono tenuti a rispettare il termine di durata del contratto in pendenza del quale si sia verificata la morte del comodante (v. in tal senso, con riferimento ad ipotesi di comodato destinato a protrarsi per tutta la durata della vita del comodatario, Cass. 3/11/2004, n. 21059; Cass. 17 giugno 1980, n. 3834 e Cass. 4 dicembre 1990, n. 11620, e, con riferimento ad ipotesi di comodato comunque a termine, Cass. 12 settembre 1968, n. 2927; Cass. 10 aprile 1970, n. 986; Cass. 20 marzo 1976, n. 1018; Cass. 17 giugno 1980, n. 3834).

Questo orientamento, che trova consenso nella prevalente dottrina, è da condividere, con la precisazione che gli eredi del comodante hanno pur sempre diritto - come lo aveva il comodante - di recedere dal contratto nelle ipotesi contemplate negli artt. 1804, comma terzo, 1811 e 1809, comma secondo, del codice civile. Non possono considerasi contrarie a questo orientamento nonostante la formulazione della massima ed un inciso peraltro non decisivo nell'economia della decisione - Cass. 19 aprile 1991, n. 4258, che è stata emessa in una causa nella quale si discuteva di un comodato precario e, quindi, senza fissazione di un termine, con riferimento al quale gli eredi - così come del resto il comodante - possono recedere dal contratto in ogni momento; né Cass. 24 settembre 1979, n. 4920, anch'essa resa in una causa avente ad oggetto un comodato precario; né, infine, Cass. 17 dicembre 1993, n. 12505, che si limita a richiamare le sentenze n. 4258 del 1991 e n. 4920 del 1979, soltanto al fine di ritenerle inapplicabili alla fattispecie esaminata.

Completamente priva di base normativa è la tesi dei resistenti, secondo cui, fondandosi il comodato sulla fiducia delle parti interessate, esso si estingue con la morte del comodante. La prospettata natura di contratto fondato sull'"intuitus personae" (peraltro in prospettiva bilaterale) non ha alcun aggancio normativo, né ne indicano i resistenti.

3.3. Quanto alla forma di tale contratto di comodato, va osservato che è giurisprudenza costante di questa Corte Suprema (Cass. 4/12/1990, n. 11620; Cass. 13/10/73 n. 2591; Cass. 20/3/76 n. 1018; Cass. 25/6/77 n. 2732; Cass. 23/2/81 n. 1083;) che l'onere della forma scritta nei contratti, previsto dall'art. 1350 cod. civ., non riguarda il comodato immobiliare, anche se di durata ultranovennale come nel caso di specie.

Ne consegue che la prova di esso può essere data per testi ed anche per presunzioni, in quanto dalla legge non è prescritta alcuna forma particolare.

3.4. Va, infine, rilevato con riguardo alla fattispecie in esame, che, in presenza dell'intento empirico dei tre fratelli di concedere un alloggio alla madre ed alla sorella nubile per tutta la restante vita, ove anche il contratto posto in essere sia stato di donazione del diritto di abitazione, con conseguente nullità dello stesso per difetto di forma, a norma dell'art. 1424 c.c. si verificherebbe la conversione di questo nel contratto di comodato "vita natural durante".

4. Pertanto , in accoglimento dei motivi di ricorso, va cassata l'impugnata sentenza che non ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi e la causa va rinviata, anche per le spese di questo giudizio di cassazione alla Corte di appello di Roma, che si uniformerà ai seguenti principi di diritto:

"È configurabile il comodato di una casa per consentire al comodatario di alloggiarvi per tutta la vita senza che perciò debba ravvisarsi un contratto costitutivo di un diritto di abitazione, con conseguente necessità di forma scritta ad substantiam"

"L'onere della forma scritta nei contratti previsto dall'art. 1350 c.c. non riguarda il comodato immobiliare, anche se di durata ultranovennale, il quale può essere provato per testi e per presunzioni"

"Nell'ipotesi di comodato a termine , quale è quello di un immobile per tutta la vita del comodatario, stante la natura obbligatoria del contratto, gli eredi del comodante sono tenuti a rispettare il termine di durata del contratto, in pendenza del quale si sia verificata la morte del comodante".

P.Q.M.

Accoglie il ricorso. Cassa l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Roma.

venerdì 6 giugno 2008

Responsabilità del Farmacista, non sussiste solo se si attiene alle prescrizioni mediche

Cassazione civile , sez. III, sentenza 28.03.2008 n° 8073

Il farmacista ha l’obbligo di attenersi a quanto prescritto dal medico, ad eccezione della sola ipotesi in cui individui, nella ricetta, la prescrizione di sostanze velenose a dosi non medicamentose o pericolose, dovendo in tal caso esigere (ex art. 40 del regolamento per il servizio farmaceutico n. 1706 del 1938) che il medico «dichiari per iscritto che la somministrazione avviene sotto la sua responsabilità, previa indicazione dello scopo terapeutico perseguito.



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SZIONE III CIVILE

Sentenza 18 gennaio – 28 marzo 2008, n. 8073

(Presidente Di Nanni – Relatore Travaglino)

Fatto

G. B. convenne dinanzi al tribunale di Rovigo il farmacista S. N., esponendo che la propria madre, dopo essersi sottoposta ad una delicata operazione chirurgica presso l’ospedale di Verona, aveva trascorso un periodo di convalescenza presso un’altra clinica, da dove era stata dimessa con la prescrizione di assumere, tra gli altri, un farmaco anticoagulante (il Coumadin) in misura di 3/4 di compressa al dì, mentre il medico di base, nel compilare la ricetta, le avrebbe invece erroneamente prescritto l’assunzione di 3 compresse al giorno. Il N. - cui la donna si era rivolta per l’acquisto del farmaco -, incorrendo nel medesimo errore, aveva apposto sulla confezione del preparato la scritta 1+1+1, così inducendo la paziente ad un uso in sovradosaggio del medicinale, tanto che ella, dopo qualche giorno, avrebbe accusato un grave malore sfociato poi nella morte.

G.B. chiese, pertanto, la condanna del farmacista per non essersi egli accorto dell’errore del medico di base.

Il N., nel costituirsi, negò ogni responsabilità, allegando copia degli atti di archiviazione del procedimento penale instauratosi a carico del medico, all’esito del quale era emerso che l’errore nella somministrazione eccessiva del Coumadin non aveva in realtà esplicato alcun rilievo causale rispetto al decesso della paziente, dovuto alla già compromessa situazione vascolare.

Il giudice di primo grado accolse la domanda, dopo aver disposto una consulenza medico-legale che avrebbe viceversa accertato l’esistenza di un nesso di causalità tra l’assunzione del farmaco e il decesso della B.

La Corte di appello di Venezia, investita del gravame interposto avverso questa sentenza da S.N., dichiarato in limine inammissibile l’intervento volontario spiegato in causa dalla sua compagnia assicuratrice, accolse in toto l’impugnazione, osservando, per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità:

1) che l’errore compiuto nell’indicazione della posologia del farmaco non poteva minimamente farsi risalire all’intervento e al comportamento del farmacista, al quale fu presentata una ricetta redatta dal medico curante della paziente, a sua volta incorso in errore per effetto delle equivocità della nota stilata dalla clinica, che prescriveva l’impiego del farmaco secondo la non chiara indicazione “Coumadin 5 mg: 3/4 Cp/die, (benché l’art. 167 u.c. del Tuls n. 1265 del 1934 richiedesse l’indicazione della dose in lettere);

2) che, a fronte della precisa indicazione del medico, il farmacista non aveva certo il compito di verificare se la posologia del farmaco prescritto fosse effettivamente corrispondente alle particolari esigenze terapeutiche della paziente;

3) che l’apposizione (meramente confermativa della dose prescritta dal medico) sulla scatola del farmaco da parte del N., della medicazione 1+1+1 era del tutto irrilevante, atteso che tale dosaggio ben poteva rientrare nell’ambito di una terapia di mantenimento, consentita nella misura massima di 15 milligrammi (corrispondenti, appunto, alle tre capsule di cui alla prescrizione;

4) che la visione, da parte del farmacista, anche della nota della casa di cura non modificava la sostanza degli eventi, attesane la già riferita equivocità, e considerato, comunque, che il farmacista, non abilitato all’esercizio della professione medica, non era tenuto né autorizzato a sindacare i trattamenti terapeutico-farmacologici, né a controllare l’eventuale dissonanza tra le indicazioni della casa di cura e la ricetta del medico, dovendo viceversa attenersi a quest’ultima;

5) che l’obbligo di attenersi a quanto prescritto dal medico trovava legittimo ostacolo nella sola ipotesi (impredicabile nella specie) in cui il farmacista avesse individuato, nella ricetta, la prescrizione di sostanze velenose a dosi non medicamentose o pericolose, dovendo in tal caso esigere (ex art. 40 del regolamento per il servizio farmaceutico n. 1706 del 1938) che il medico «dichiari per iscritto che la somministrazione avviene sotto la sua responsabilità, previa indicazione dello scopo terapeutico perseguito»;

6) che, pertanto, del tutto indebita risultava l’attribuzione all’appellante di una colpa professionale, avendo egli correttamente adempiuto alla proprie obbligazioni senza peraltro violare alcun generale dovere di diligenza.

G.B. ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte veneta, sulla base di un unico motivo di gravame.

Resiste con controricorso S.N.

Sono agli atti memorie difensive tempestivamente depositati dalla ricorrente.

Diritto

Il ricorso è infondato.

Premesso, in limine, l’infondatezza delle doglianze in rito da parte controricorrente, in punto di pretesa inammissibilità dell’atto di impugnazione (la procura risultando del tutto validamente conferita, la notifica del ricorso essendo tempestivamente intervenuta entro l’anno, attesa l’assoluta irrilevanza della notifica della sentenza d’appello, ai fini de quibus, eseguita dall’odierno resistente sì espresso il domicilio eletto dalla controparte, ma ad altro difensore), questa Corte ritiene che tutte le censure mosse alla sentenza della Corte veneziana, benché formalmente fondate su di una presunta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e su di una asserita insufficiente e contraddittoria motivazione rispetto a punti decisivi della controversia, si risolvano, in realtà nella (non più ammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito. La ricorrente, difatti, lungi dal prospettare un reale vizio della sentenza gravata rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., nella parte in cui ha ritenuto impredicabile una qualsiasi forma di responsabilità in capo al farmacista (inspiegabilmente evocato in un giudizio di responsabilità che pur avrebbe avuto un ben preciso destinatario, in persona del medico di base autore della erronea prescrizione farmacologia), si volge in realtà ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come correttamente accertate e ricostruite dalla corte di merito in punto di fatto e di diritto, muovendo così all’impugnata sentenza censure alfine inammissibili, sia perché la valutazione delle risultanze probatorie così come la scelta, fra esse, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e ipoteticamente verosimili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare ogni e qualsiasi deduzione difensiva. Mentre appaiono del tutto corrette in punto di diritto le considerazioni svolte dalla corte di merito in ordine alla ripartizioni di obblighi tra medico e farmacista quanto all’esattezza di una prescrizione farmacologia, alla luce del testo unico sanitario del 1934 e del regolamento per il servizio farmaceutico del 1938, è poi principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 n. 5 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo - sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica - delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (eccezion fatta, beninteso, per i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita una nuova valutazione delle (ormai cristallizzate quoad effectum) risultanze fattuali del processo ad opera di questa Corte, onde trasformare surrettiziamente il giudizio di Cassazione in un terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che la fungibilità nella ricostruzione di un fatto fosse ancora legittimamente invocabile in seno al giudizio di Cassazione.

Motivi di equità inducono alla compensazione delle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Spese del giudizio di Cassazione compensate.

mercoledì 4 giugno 2008

Coniugi e comunione legale, menzione espressa nell'atto di acquisto per esclusione del bene personale

Cassazione civile , sez. II, sentenza 06.03.2008 n° 6120


“Al riguardo invero deve rilevarsi, come già sostenuto, che in caso di acquisto di bene immobile o mobile registrato effettuato da uno dei coniugi dopo il matrimonio, l'art. 179 c.c., comma 2, al fine di escludere la comunione legale richiede, oltre alla sussistenza di uno dei requisiti oggettivi previsti dal comma 1, lett. c), d), e f), dello stesso articolo, anche che detta esclusione risulti espressamente dall'atto di acquisto purchè a detto atto partecipi l'altro coniuge; orbene la mancata contestazione, da parte di quest'ultimo, in detta sede, ovvero la esplicita conferma, attraverso una propria dichiarazione, di quella dell'acquirente in ordine alla natura personale del bene di cui si tratta, come appunto nella fattispecie, ha carattere ricognitivo e non negoziale, e tuttavia costituisce pur sempre un atto giuridico volontario e consapevole, cui il legislatore attribuisce la valenza di testimonianza privilegiata, ricollegandovi l'effetto di una presunzione "juris et de jure" di esclusione della contitolarità dell'acquisto; il vincolo derivante da tale presunzione, peraltro, non è assoluto, potendo essere rimosso per errore di fatto o per violenza nei limiti a cui ciò è consentito per la confessione (Cass. 19.2.2000 n. 1917), ipotesi non ricorrenti nella fattispecie.”

- comunione legale tra coniugi ed acquisto di titoli obbligazionari, Cassazione civile 21098/2007.
- comunione e contratto preliminare, Cassazione civile 20976/2007.
- comunione legale tra coniugi, profilo processuale, Cassazione civile SS.UU. sentenza 17952/07.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 6 marzo 2008, n. 6120

Svolgimento del processo

Con atto pubblico del 10.2.1975 la S.r.l. Finmea acquistava dalla S.p.a. Financo un appezzamento di terreno edificabile in ****; successivamente la Finnea acquistava nella stessa località un altro appezzamento di terreno.

I soci della Finmea erano nel dicembre 1980 M.C.G. ed i suoi tre figli M.D., G. e M.M..

Nel 1983 la Finmea edificava sui detti terreni due villini bifamiliari ubicati rispettivamente in **** ed in Via **** ultimati nel novembre 1984.

In data 16.7.1984 M.M. vendeva alla propria moglie S.A., con il consenso degli altri soci, le quote della Finmea di cui era titolare (4990) al prezzo di L. 4.990.000.

Con atto pubblico del 12.11.1991 i soci della Finmea (che risultavano essere M.G. ed il marito I.G., M.M.D., M.S. ed S.A., già assegnatari “pro quota" del patrimonio immobiliare della società costituito all'epoca da quattro villini in ****) procedevano alla divisione dei beni sociali, assegnando alla S. il quarto lotto della comunione immobiliare rappresentato dal villino sito in Via ****; all'atto della divisione partecipava anche M.M., marito della S., dichiaratosi nell'atto in regime di separazione di beni, per confermare che il bene assegnato al proprio coniuge era ben personale della stessa "in quanto derivato dalla assegnazione di beni personali", e che tale immobile non rientrava pertanto nella comunione dei beni.

M.M. con atto notificato l'11.11.1998 conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, in pendenza del giudizio di separazione personale, la moglie Angela S. ed i figli M., A. e S. chiedendo dichiararsi la nullità dell'atto di vendita alla S. delle quote della Finmea di cui era titolare per difetto di causa (non essendo mai stato versato il prezzo della cessione), la non convertibilità dell'atto nullo in altro atto giuridico a titolo gratuito per difetto dei requisiti di forma e di sostanza l'appartenenza dell'attore in via esclusiva delle quote della Finmea e quindi del villino in **** assegnato alla S., ed infine la nullità derivata dall'atto di assegnazione del 4.12.1985, dell'atto di divisione del 12.11.1991 nonchè dell'atto di donazione del 3.8.1998 con il quale la S. aveva donato ai figli S., M. ed A. la nuda proprietà del villino oggetto della controversia.

Si costituivano in giudizio i convenuti chiedendo il rigetto delle domande attrici; la S. proponeva altresì domanda riconvenzionale per il riconoscimento del possesso esclusivo dell'immobile di ****.

L'adito Tribunale con sentenza del 25.2.2001 rigettava sia le domande attrici sia la domanda riconvenzionale suddetta.

Proposto gravame da parte di M.M. cui resistevano la S. e M., A. e M.S. la Corte di Appello di Roma con sentenza del 18.11.2004 ha rigettato l'impugnazione.

Per la cassazione di tale sentenza M.M. ha proposto un ricorso articolato in due motivi cui la S. e M., A. e M.S. hanno resistito con controricorso; entrambe le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

Motivi della decisione

Preliminarmente deve essere esaminata l'eccezione dei controricorrenti di inammissibilità del ricorso perchè l'istanza di notifica dell'Ufficiale Giudiziario non risulta essere stata richiesta dal difensore o dalla parte.

L'eccezione è infondata; nella relata di notifica del ricorso si legge: "io sottoscritto addetto all'Ufficio Unico Notifiche della Corte di Appello di Roma, richiesto come da originale, ho notificato quanto precede...", cosicchè è evidente che la richiesta di notifica del ricorso è comunque riferibile alla parte ricorrente.

Venendo quindi all'esame del ricorso, si rileva che con il primo motivo il ricorrente, deducendo violazione degli artt. 159, 160, 177 e 179 c.c., ed insufficiente motivazione, censura la sentenza impugnata per aver affermato che le quote della società Finmea pervenute alla S. con l'atto di compravendita del 16.7.1984 costituivano un bene personale di quest'ultima perchè acquisito con domanda di cui essa disponeva anche “jure successionis" senza che nessuna prova fosse stata al riguardo fornita dall'interessata; il ricorrente rileva altresì che nel richiamato atto di acquisto non era contenuta la dichiarazione di esclusione dalla comunione legale di cui all'art. 179 c.c..

Il motivo in esame è inammissibile in quanto prospetta una questione nuova.

Come emerge dalla lettura della sentenza impugnata il M. con la propria domanda subordinata aveva chiesto accertarsi che il villino in **** assegnato alla S. con l'atto di divisione del 12.11.1991 era ricompreso nella comunione legale in quanto acquistato dalla S. stessa nel 1985, allorchè il regime patrimoniale vigente tra i coniugi era quello della comunione legale.

Orbene con il motivo in esame l'acquisizione alla comunione legale del bene viene ricondotta alla compravendita del 16.7.1984 che aveva invece formato oggetto della domanda di simulazione poi rigettata; in tal modo in questa sede è stata quindi introdotta inammissibilmente una questione non proposta dinanzi al Giudice di merito.

Con il secondo motivo il M., denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 177 c.c. e segg., erronea valutazione in diritto degli atti notarili 4.12.1985 e 12.11.1991 ed insufficiente motivazione, assume che la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che i beni immobili assegnati alla S. con atto **** del 4.12.1985, nel quale essa aveva dichiarato di essere in regime di comunione legale, erano beni personali perchè surrogazione delle quote sociali; infatti i beni acquistati dai coniugi con proventi dell'attività separata - ovvero anche con denaro proprio - di uno di loro, entrano di diritto a far parte della comunione legale, salvo che si tratti di beni personali così come tassativamente indicati nell'art. 179 c.c..

Il ricorrente inoltre ritiene erronea anche l'ulteriore affermazione della Corte territoriale secondo cui la dichiarazione confessoria presentata dall'esponente in sede di atto di divisione del 12.11.1991 era prevalente rispetto ad ogni antecedente allegazione; in realtà si trattava di una dichiarazione non veritiera e di puro comodo inidonea ad escludere dalla comunione legale dei beni che già vi erano automaticamente ricompresi ex art. 177 c.c., lett. a), in base all'atto del 4.12.1985; d'altra parte non è stato considerato che l'esclusione di un bene dalla comunione legale, attesa la inderogabilità delle norme di cui agli artt. 160 e 210 c.c., può conseguire solo ad una convenzione matrimoniale.

La censura è infondata.

Il Giudice di Appello ha preso le mosse dal rilievo non oggetto di specifiche censure in questa sede che le quote della Società Finmea cedute dal M. alla S. nel 1984 costituivano un suo bene personale e che, accertata la disponibilità da parte della S., insegnante, di denaro personale anche di provenienza ereditaria, dopo la suddetta cessione le quote in oggetto non rientravano nella comunione legale dei coniugi; tale convincimento è corretto, posto che ritenere invece che il M., nel trasferire la sua partecipazione societaria nella Finmea alla moglie, ne acquisisse contestualmente una quota pari alla metà è illogico, in quanto la caduta in comunione legale degli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio ai sensi dell'art. 177 c.c. riguarda data la finalità della comunione legale, intesa ad equiparare anche sul piano dei rapporti patrimoniali la posizione dei coniugi - gli acquisti provenienti da soggetti terzi rispetto ai coniugi e non gli atti intercorsi tra i coniugi stessi.

Pertanto sulla base di tali premesse logicamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la natura di bene personale delle quote della Finmea acquisite dalla S. aveva comportato che anche i beni ad essa assegnati in sede di liquidazione del patrimonio immobiliare della Finmea dovevano considerarsi suoi beni personali; in proposito si osserva che il termine "surrogazione" utilizzato dalla sentenza impugnata per sostenere tale assunto non deve essere inteso in senso tecnico, come del resto indirettamente chiarito dalla stessa Corte territoriale, che ha rilevato che i beni assegnati alla S. con l'atto **** del 1985 dovevano essere considerati come corrispettivo del bene personale quota.

Il Giudice di Appello ha altresì affermato che la S. aveva acquistato il villino in **** di cui il M. pretendeva di essere comproprietario per una quota pari alla metà non già con l'atto **** del 1985 ma solo con l'atto di divisione del 12.11.1991 nel quale ella aveva dichiarato di essere in regime di separazione dei beni; la Corte territoriale ha aggiunto che all'atto di divisione era intervenuto anche il M. riconoscendo che il suddetto immobile era bene personale della S..

Correttamente quindi la sentenza impugnata ha escluso che il villino per cui è causa rientrasse nella comunione legale dei coniugi, considerato che il M. non aveva provato la asserita falsità della suddetta dichiarazione confessoria, da ritenersi prevalente rispetto ad ogni antecedente allegazione.

Al riguardo invero deve rilevarsi, come già sostenuto da questa Corte, che in caso di acquisto di bene immobile o mobile registrato effettuato da uno dei coniugi dopo il matrimonio, l'art. 179 c.c., comma 2, al fine di escludere la comunione legale richiede, oltre alla sussistenza di uno dei requisiti oggettivi previsti dal comma 1, lett. c), d), e f), dello stesso articolo, anche che detta esclusione risulti espressamente dall'atto di acquisto purchè a detto atto partecipi l'altro coniuge; orbene la mancata contestazione, da parte di quest'ultimo, in detta sede, ovvero la esplicita conferma, attraverso una propria dichiarazione, di quella dell'acquirente in ordine alla natura personale del bene di cui si tratta, come appunto nella fattispecie, ha carattere ricognitivo e non negoziale, e tuttavia costituisce pur sempre un atto giuridico volontario e consapevole, cui il legislatore attribuisce la valenza di testimonianza privilegiata, ricollegandovi l'effetto di una presunzione "juris et de jure" di esclusione della contitolarità dell'acquisto; il vincolo derivante da tale presunzione, peraltro, non è assoluto, potendo essere rimosso per errore di fatto o per violenza nei limiti a cui ciò è consentito per la confessione (Cass. 19.2.2000 n. 1917), ipotesi non ricorrenti nella fattispecie.

Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e non sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento di Euro 100,00 per spese e di Euro 6000,00 per onorari di avvocato.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2007.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2008.

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