mercoledì 4 giugno 2008

Coniugi e comunione legale, menzione espressa nell'atto di acquisto per esclusione del bene personale

Cassazione civile , sez. II, sentenza 06.03.2008 n° 6120


“Al riguardo invero deve rilevarsi, come già sostenuto, che in caso di acquisto di bene immobile o mobile registrato effettuato da uno dei coniugi dopo il matrimonio, l'art. 179 c.c., comma 2, al fine di escludere la comunione legale richiede, oltre alla sussistenza di uno dei requisiti oggettivi previsti dal comma 1, lett. c), d), e f), dello stesso articolo, anche che detta esclusione risulti espressamente dall'atto di acquisto purchè a detto atto partecipi l'altro coniuge; orbene la mancata contestazione, da parte di quest'ultimo, in detta sede, ovvero la esplicita conferma, attraverso una propria dichiarazione, di quella dell'acquirente in ordine alla natura personale del bene di cui si tratta, come appunto nella fattispecie, ha carattere ricognitivo e non negoziale, e tuttavia costituisce pur sempre un atto giuridico volontario e consapevole, cui il legislatore attribuisce la valenza di testimonianza privilegiata, ricollegandovi l'effetto di una presunzione "juris et de jure" di esclusione della contitolarità dell'acquisto; il vincolo derivante da tale presunzione, peraltro, non è assoluto, potendo essere rimosso per errore di fatto o per violenza nei limiti a cui ciò è consentito per la confessione (Cass. 19.2.2000 n. 1917), ipotesi non ricorrenti nella fattispecie.”

- comunione legale tra coniugi ed acquisto di titoli obbligazionari, Cassazione civile 21098/2007.
- comunione e contratto preliminare, Cassazione civile 20976/2007.
- comunione legale tra coniugi, profilo processuale, Cassazione civile SS.UU. sentenza 17952/07.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 6 marzo 2008, n. 6120

Svolgimento del processo

Con atto pubblico del 10.2.1975 la S.r.l. Finmea acquistava dalla S.p.a. Financo un appezzamento di terreno edificabile in ****; successivamente la Finnea acquistava nella stessa località un altro appezzamento di terreno.

I soci della Finmea erano nel dicembre 1980 M.C.G. ed i suoi tre figli M.D., G. e M.M..

Nel 1983 la Finmea edificava sui detti terreni due villini bifamiliari ubicati rispettivamente in **** ed in Via **** ultimati nel novembre 1984.

In data 16.7.1984 M.M. vendeva alla propria moglie S.A., con il consenso degli altri soci, le quote della Finmea di cui era titolare (4990) al prezzo di L. 4.990.000.

Con atto pubblico del 12.11.1991 i soci della Finmea (che risultavano essere M.G. ed il marito I.G., M.M.D., M.S. ed S.A., già assegnatari “pro quota" del patrimonio immobiliare della società costituito all'epoca da quattro villini in ****) procedevano alla divisione dei beni sociali, assegnando alla S. il quarto lotto della comunione immobiliare rappresentato dal villino sito in Via ****; all'atto della divisione partecipava anche M.M., marito della S., dichiaratosi nell'atto in regime di separazione di beni, per confermare che il bene assegnato al proprio coniuge era ben personale della stessa "in quanto derivato dalla assegnazione di beni personali", e che tale immobile non rientrava pertanto nella comunione dei beni.

M.M. con atto notificato l'11.11.1998 conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, in pendenza del giudizio di separazione personale, la moglie Angela S. ed i figli M., A. e S. chiedendo dichiararsi la nullità dell'atto di vendita alla S. delle quote della Finmea di cui era titolare per difetto di causa (non essendo mai stato versato il prezzo della cessione), la non convertibilità dell'atto nullo in altro atto giuridico a titolo gratuito per difetto dei requisiti di forma e di sostanza l'appartenenza dell'attore in via esclusiva delle quote della Finmea e quindi del villino in **** assegnato alla S., ed infine la nullità derivata dall'atto di assegnazione del 4.12.1985, dell'atto di divisione del 12.11.1991 nonchè dell'atto di donazione del 3.8.1998 con il quale la S. aveva donato ai figli S., M. ed A. la nuda proprietà del villino oggetto della controversia.

Si costituivano in giudizio i convenuti chiedendo il rigetto delle domande attrici; la S. proponeva altresì domanda riconvenzionale per il riconoscimento del possesso esclusivo dell'immobile di ****.

L'adito Tribunale con sentenza del 25.2.2001 rigettava sia le domande attrici sia la domanda riconvenzionale suddetta.

Proposto gravame da parte di M.M. cui resistevano la S. e M., A. e M.S. la Corte di Appello di Roma con sentenza del 18.11.2004 ha rigettato l'impugnazione.

Per la cassazione di tale sentenza M.M. ha proposto un ricorso articolato in due motivi cui la S. e M., A. e M.S. hanno resistito con controricorso; entrambe le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

Motivi della decisione

Preliminarmente deve essere esaminata l'eccezione dei controricorrenti di inammissibilità del ricorso perchè l'istanza di notifica dell'Ufficiale Giudiziario non risulta essere stata richiesta dal difensore o dalla parte.

L'eccezione è infondata; nella relata di notifica del ricorso si legge: "io sottoscritto addetto all'Ufficio Unico Notifiche della Corte di Appello di Roma, richiesto come da originale, ho notificato quanto precede...", cosicchè è evidente che la richiesta di notifica del ricorso è comunque riferibile alla parte ricorrente.

Venendo quindi all'esame del ricorso, si rileva che con il primo motivo il ricorrente, deducendo violazione degli artt. 159, 160, 177 e 179 c.c., ed insufficiente motivazione, censura la sentenza impugnata per aver affermato che le quote della società Finmea pervenute alla S. con l'atto di compravendita del 16.7.1984 costituivano un bene personale di quest'ultima perchè acquisito con domanda di cui essa disponeva anche “jure successionis" senza che nessuna prova fosse stata al riguardo fornita dall'interessata; il ricorrente rileva altresì che nel richiamato atto di acquisto non era contenuta la dichiarazione di esclusione dalla comunione legale di cui all'art. 179 c.c..

Il motivo in esame è inammissibile in quanto prospetta una questione nuova.

Come emerge dalla lettura della sentenza impugnata il M. con la propria domanda subordinata aveva chiesto accertarsi che il villino in **** assegnato alla S. con l'atto di divisione del 12.11.1991 era ricompreso nella comunione legale in quanto acquistato dalla S. stessa nel 1985, allorchè il regime patrimoniale vigente tra i coniugi era quello della comunione legale.

Orbene con il motivo in esame l'acquisizione alla comunione legale del bene viene ricondotta alla compravendita del 16.7.1984 che aveva invece formato oggetto della domanda di simulazione poi rigettata; in tal modo in questa sede è stata quindi introdotta inammissibilmente una questione non proposta dinanzi al Giudice di merito.

Con il secondo motivo il M., denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 177 c.c. e segg., erronea valutazione in diritto degli atti notarili 4.12.1985 e 12.11.1991 ed insufficiente motivazione, assume che la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che i beni immobili assegnati alla S. con atto **** del 4.12.1985, nel quale essa aveva dichiarato di essere in regime di comunione legale, erano beni personali perchè surrogazione delle quote sociali; infatti i beni acquistati dai coniugi con proventi dell'attività separata - ovvero anche con denaro proprio - di uno di loro, entrano di diritto a far parte della comunione legale, salvo che si tratti di beni personali così come tassativamente indicati nell'art. 179 c.c..

Il ricorrente inoltre ritiene erronea anche l'ulteriore affermazione della Corte territoriale secondo cui la dichiarazione confessoria presentata dall'esponente in sede di atto di divisione del 12.11.1991 era prevalente rispetto ad ogni antecedente allegazione; in realtà si trattava di una dichiarazione non veritiera e di puro comodo inidonea ad escludere dalla comunione legale dei beni che già vi erano automaticamente ricompresi ex art. 177 c.c., lett. a), in base all'atto del 4.12.1985; d'altra parte non è stato considerato che l'esclusione di un bene dalla comunione legale, attesa la inderogabilità delle norme di cui agli artt. 160 e 210 c.c., può conseguire solo ad una convenzione matrimoniale.

La censura è infondata.

Il Giudice di Appello ha preso le mosse dal rilievo non oggetto di specifiche censure in questa sede che le quote della Società Finmea cedute dal M. alla S. nel 1984 costituivano un suo bene personale e che, accertata la disponibilità da parte della S., insegnante, di denaro personale anche di provenienza ereditaria, dopo la suddetta cessione le quote in oggetto non rientravano nella comunione legale dei coniugi; tale convincimento è corretto, posto che ritenere invece che il M., nel trasferire la sua partecipazione societaria nella Finmea alla moglie, ne acquisisse contestualmente una quota pari alla metà è illogico, in quanto la caduta in comunione legale degli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio ai sensi dell'art. 177 c.c. riguarda data la finalità della comunione legale, intesa ad equiparare anche sul piano dei rapporti patrimoniali la posizione dei coniugi - gli acquisti provenienti da soggetti terzi rispetto ai coniugi e non gli atti intercorsi tra i coniugi stessi.

Pertanto sulla base di tali premesse logicamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la natura di bene personale delle quote della Finmea acquisite dalla S. aveva comportato che anche i beni ad essa assegnati in sede di liquidazione del patrimonio immobiliare della Finmea dovevano considerarsi suoi beni personali; in proposito si osserva che il termine "surrogazione" utilizzato dalla sentenza impugnata per sostenere tale assunto non deve essere inteso in senso tecnico, come del resto indirettamente chiarito dalla stessa Corte territoriale, che ha rilevato che i beni assegnati alla S. con l'atto **** del 1985 dovevano essere considerati come corrispettivo del bene personale quota.

Il Giudice di Appello ha altresì affermato che la S. aveva acquistato il villino in **** di cui il M. pretendeva di essere comproprietario per una quota pari alla metà non già con l'atto **** del 1985 ma solo con l'atto di divisione del 12.11.1991 nel quale ella aveva dichiarato di essere in regime di separazione dei beni; la Corte territoriale ha aggiunto che all'atto di divisione era intervenuto anche il M. riconoscendo che il suddetto immobile era bene personale della S..

Correttamente quindi la sentenza impugnata ha escluso che il villino per cui è causa rientrasse nella comunione legale dei coniugi, considerato che il M. non aveva provato la asserita falsità della suddetta dichiarazione confessoria, da ritenersi prevalente rispetto ad ogni antecedente allegazione.

Al riguardo invero deve rilevarsi, come già sostenuto da questa Corte, che in caso di acquisto di bene immobile o mobile registrato effettuato da uno dei coniugi dopo il matrimonio, l'art. 179 c.c., comma 2, al fine di escludere la comunione legale richiede, oltre alla sussistenza di uno dei requisiti oggettivi previsti dal comma 1, lett. c), d), e f), dello stesso articolo, anche che detta esclusione risulti espressamente dall'atto di acquisto purchè a detto atto partecipi l'altro coniuge; orbene la mancata contestazione, da parte di quest'ultimo, in detta sede, ovvero la esplicita conferma, attraverso una propria dichiarazione, di quella dell'acquirente in ordine alla natura personale del bene di cui si tratta, come appunto nella fattispecie, ha carattere ricognitivo e non negoziale, e tuttavia costituisce pur sempre un atto giuridico volontario e consapevole, cui il legislatore attribuisce la valenza di testimonianza privilegiata, ricollegandovi l'effetto di una presunzione "juris et de jure" di esclusione della contitolarità dell'acquisto; il vincolo derivante da tale presunzione, peraltro, non è assoluto, potendo essere rimosso per errore di fatto o per violenza nei limiti a cui ciò è consentito per la confessione (Cass. 19.2.2000 n. 1917), ipotesi non ricorrenti nella fattispecie.

Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e non sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento di Euro 100,00 per spese e di Euro 6000,00 per onorari di avvocato.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2007.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2008.

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