Corte Costituzionale , sentenza 20.03.2009 n° 75
"dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 384, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato – a norma dell’art. 371, comma 2, lettera b), codice di procedura penale – a quello, commesso da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono.
Corte Costituzionale
Sentenza 20 marzo 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Giuseppe TESAURO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 384, secondo comma, del codice penale promosso dal Tribunale di Biella nel procedimento penale a carico di M.M. con ordinanza del 7 febbraio 2007 iscritta al n. 523 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 febbraio 2009 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.
Ritenuto in fatto
1.— Il Tribunale di Biella, con ordinanza in data 7 febbraio 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 384, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere in quanto persona indagata di reato probatoriamente collegato (a norma dell’art. 371, comma 2, lettera b, del codice di procedura penale) a quello, commesso da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono.
1.1.— Il rimettente premette di essere chiamato a decidere nel procedimento penale a carico di M. M., imputato del delitto di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.), «perché, assunto a sommarie informazioni dai militari del R.O.N.O. dei Carabinieri di Biella relativamente al possesso e all’acquisto di sostanza stupefacente di tipo hashish – in particolare, di grammi 8,490 ceduti al medesimo da M. V. in data 19 aprile 2004 in Ponderano – aiutava il medesimo ad eludere le investigazioni dell’autorità negando di conoscerlo e di essersi recato presso la sua abitazione nelle circostanze di tempo e di luogo sopra indicate».
Il detto giudice, in punto di rilevanza della questione, osserva che, in presenza della condotta contestata all’imputato, documentalmente riscontrata (sia dal contenuto del verbale di sommarie informazioni reso alla polizia giudiziaria il 3 settembre 2004, sia dagli ulteriori elementi probatori processualmente acquisiti), non potrebbe prospettarsi alcun dubbio in ordine all’idoneità di tale condotta ad integrare gli elementi costitutivi del reato previsto e punito dall’art. 378 cod. pen., anche alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione diretta ad attribuire al delitto di favoreggiamento personale una funzione “repressiva” di chiusura, cioè di norma idonea a sanzionare qualsiasi comportamento volto ad intralciare l’attività investigativa, compresa la condotta di mendacio e reticenza nei confronti della polizia giudiziaria.
Del pari pacifica e condivisibile sarebbe l’opzione interpretativa secondo cui l’ambito applicativo del reato di cui all’art. 378 cod. pen. – esteso alla condotta di mendacio alla polizia giudiziaria – avrebbe finito per imporre una nuova lettura della stessa oggettività giuridica del reato de quo, assegnando alla norma ora citata anche una specifica funzione di «tutela della verità e completezza delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria» (ancorché pur sempre in funzione della tutela delle indagini e delle ricerche dell’autore del reato presupposto) e quindi del loro valore probatorio in senso lato, con consequenziale valorizzazione del carattere di “complementarietà” dell’art. 378 cod. pen. rispetto all’ordinario (e tipicizzato) sistema di tutela della prova dichiarativa (formatasi dinanzi all’autorità giudiziaria), penalmente sanzionato dagli artt. 371-bis e 372 cod. pen.
Tuttavia, ad avviso del rimettente, proprio la dimensione del favoreggiamento quale strumento di tutela del valore in senso lato probatorio delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria non potrebbe non riflettersi sul problema concernente l’estraneità dell’art. 378 cod. pen. all’organico sottosistema d’istituti di diritto sostanziale eccezionalmente “strumentali” alla tutela processuale della prova dichiarativa (sono richiamate la ritrattazione, disciplinata dall’art. 376 cod. pen., e – per quel che rileva in questa sede – la speciale causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 384, secondo comma, cod. pen.).
Ricordate le oscillazioni in passato manifestatesi nella giurisprudenza di questa Corte circa l’omogeneità o la diversa obiettività del bene giuridico tutelato dagli artt. 378 e 372 cod. pen, il rimettente osserva che i più recenti assetti sistematici derivanti dalle integrazioni normative, sostanziali e processuali, apportate allo statuto della prova dichiarativa dalla legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 Cost.), se da un lato avrebbero fornito conferma forse definitiva circa l’omogeneità – rispetto agli artt. 371-bis, 371-ter e 372 cod. pen. – della ratio sottesa alla punibilità del favoreggiamento mediante mendacio alla polizia giudiziaria, dall’altro avrebbero riproposto le problematiche già emerse sotto il vigore del codice di rito del 1930 (in parte risolte dagli interventi di questa Corte attuati con le sentenze n. 416 del 1996 e n. 101 del 1999) in ordine all’inapplicabilità al citato art. 378 delle norme di cui agli artt. 376 e 384, secondo comma, cod. pen., previste invece per gli artt. 371-bis e 372 cod. pen.
Proprio alla causa di non punibilità di cui al citato art. 384 avrebbero fatto riferimento il pubblico ministero e il difensore dell’imputato, sia pure nel quadro di un percorso argomentativo non del tutto pertinente, in quanto incentrato sul richiamo all’autonomo regime di inutilizzabilità, ex art. 63 del codice di rito penale, delle dichiarazioni non veritiere e reticenti rese dal M. alla polizia giudiziaria, oggetto materiale della contestata condotta delittuosa.
Invero, ad avviso del rimettente, tale impostazione incontrerebbe un limite fattuale e logico di fondo, perché verrebbe a confondere due distinti profili d’illiceità: da un lato quello attinente alle modalità acquisitive delle informazioni richieste al dichiarante in ordine ad un reato già commesso da diverso soggetto, dall’altro quello relativo all’idoneità di dette dichiarazioni ad integrare la consumazione del reato di favoreggiamento personale, con conseguente assunzione da tale momento consumativo della veste di indagato e, quindi, del diritto alle garanzie di cui al menzionato art. 63 cod. pen. (norma, quest’ultima, nella specie rispettata dalla polizia giudiziaria). Diversamente opinando, nel senso cioè di ritenere senz’altro inutilizzabili le dichiarazioni rese dal “semplice” cessionario di sostanza stupefacente, si finirebbe per propugnare un’interpretazione di fatto “abrogatrice” dell’art. 378 cod. pen. nei casi di mendacio o reticenza alla polizia giudiziaria, così sconfessando in modo irragionevole il richiamato orientamento della dottrina e della giurisprudenza, che ammettono in tali casi la configurabilità del reato in questione.
1.2.— Così risolto qualsiasi dubbio sulla concreta idoneità delle mendaci dichiarazioni de quibus ad integrare la condotta delittuosa di favoreggiamento personale, ad avviso del rimettente emergerebbe con chiarezza l’efficacia assorbente che, nel contesto dell’ipotesi accusatoria, rivestirebbe il profilo “patologico” riconducibile alla fase genetica dell’acquisizione delle dichiarazioni medesime. Esse, nella specie, sarebbero state assunte dalla polizia giudiziaria mediante l’erronea attribuzione al M. della qualifica di persona informata su fatti concernenti la responsabilità altrui – e quindi con l’obbligo penalmente sanzionato di rispondere secondo verità (art. 198 cod. proc. pen.) – ignorando la qualità d’indagato di reati probatoriamente collegati (ex art. 371, comma 2, lettera b, cod. proc. pen.), già assunta dallo stesso dichiarante ed ancora attuale al momento del rilascio delle dette dichiarazioni.
Al riguardo, sarebbe dato processuale acquisito che il M., a seguito delle operazioni di perquisizione personale e del conseguente sequestro di grammi 8,490 di sostanza stupefacente, eseguito nei suoi confronti il 19 aprile 2004 (cioè nell’immediatezza e nell’ambito dell’attività investigativa intrapresa a carico dell’altra persona, individuata quale probabile “fonte” di rifornimento dello stesso stupefacente), era stato iscritto nel registro degli indagati il successivo 22 aprile 2004 in ordine ai connessi reati di detenzione illecita di sostanza stupefacente (art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza») e di guida in stato di alterazione psico-fisica dovuta ad assunzione di stupefacente (art. 187, comma 8, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante «Nuovo codice della strada»): iscrizione che dava origine al procedimento penale n. 607/04 r.g.n.r. (successivamente riunito a quello n. 723/04 r.g.n.r., aperto nei confronti dell’altra persona ritenuta “fonte” di rifornimento dello stupefacente), definito, per quanto riguarda il delitto di cui all’art. 73 del d. P. R. n. 309 del 1990, con decreto di archiviazione adottato dal giudice per le indagini preliminari l’11 luglio 2005 e, quanto al reato di cui all’art. 187 del codice della strada, con sentenza di applicazione della pena in data 26 ottobre 2005.
Ciò posto, il contenuto “dichiarativo” della condotta ascritta al M. e la sua qualità di indagato di reati probatoriamente collegati a quello ipotizzato a carico dell’altra persona (individuata quale soggetto “favorito” ex art. 378 cod. pen. dalle mendaci dichiarazioni rese dal medesimo M. alla polizia giudiziaria il 3 settembre 2004) inducono a ravvisare nell’art. 384, secondo comma, del detto codice la disposizione applicabile alla fattispecie, dovendosi escludere, sulla base delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, la sussistenza di elementi da cui poter desumere la configurabilità in capo all’imputato di una condizione psicologica riferibile alla «necessità di salvare sé medesimo da un grave e inevitabile pregiudizio nell’onore o nella libertà» (art. 384, primo comma, cod. pen.).
Sotto tale preliminare profilo sarebbe stato con efficacia posto in evidenza in dottrina come l’art. 384, secondo comma, cod. pen. viva “in stretta simbiosi” con la disciplina processuale del nuovo statuto della prova dichiarativa, caratterizzato – dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 63 del 2001 – da un sistema di tutela (artt. 197, 197-bis, 64, terzo comma, lettera c, del codice di rito penale) della genuinità del contributo probatorio proveniente anche da figure di dichiaranti cosiddetti “testimoni assistiti”, la cui posizione processuale presenti attuali o pregressi collegamenti con il reato commesso da altri, in relazione al quale si giustifica l’acquisizione delle dichiarazioni in parola.
Da un lato, l’operatività dell’esimente di cui all’art. 384, secondo comma, cod. pen. dipenderebbe dal modo in cui il legislatore ha scelto di calibrare i presupposti per l’assunzione dello status di testimone e i privilegi e gli obblighi ad esso relativi. Dall’altro lato, l’effettività dell’obbligo di verità imposto al teste dipenderebbe dalla disciplina sanzionatoria sostanziale che ne costituisce il presidio e, pertanto, anche dall’ambito operativo che si riconosce all’esimente.
Al riguardo andrebbe posto in evidenza come la diversa struttura normativa, ed il conseguente diverso ambito applicativo, del comma primo rispetto al comma secondo dell’art. 384 rifletta proprio la scelta di fondo del legislatore di prevedere, con la disposizione di cui al citato comma secondo, uno strumento sanzionatorio (in termini di esclusione della punibilità di specifici reati contro l’amministrazione della giustizia) dell’illegittima acquisizione di dichiarazioni provenienti da soggetti “costretti” a deporre o comunque non informati del proprio diritto a non rispondere.
Sarebbe noto che l’art. 384, secondo comma, cod. pen. – nella parte in cui elenca le ipotesi che, in applicazione del principio generale del nemo tenetur se detegere e delle regole tipiche di incapacità a testimoniare o comunque di esclusione dell’obbligo di deporre, escludono la punibilità della persona informata sui fatti (artt. 371-bis e 371-ter cod. pen.), del teste (art. 372 cod. pen.), del perito, del consulente tecnico o dell’interprete (art. 373 cod. pen.) che abbiano reso false dichiarazioni, se per legge non avrebbero dovuto essere chiamati ad assumere tali qualifiche soggettive, ovvero avrebbero dovuto essere avvertiti della facoltà di astenersi dal rendere dichiarazioni – è stato interessato da una specifica “integrazione” ad opera dell’art. 21 della legge n. 63 del 2001, resasi necessaria in relazione alla speculare introduzione delle nuove figure di indagati/imputati che, in presenza di specifiche situazioni, assumono l’obbligo di rendere testimonianza o informazioni. In particolare la “nuova” causa di estensione della causa di non punibilità è riferita al soggetto che «non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere» e cioè al fatto di avere chiamato ad assumere l’ufficio di testimone una persona che, invece, avrebbe dovuto essere sentita come indagato o imputato, ricorrendo le incompatibilità stabilite dall’art. 197 cod. proc. pen., ovvero in assenza delle situazioni descritte dall’art. 197-bis del detto codice, ovvero per avere comunque obbligato una persona a deporre su fatti concernenti anche la sua responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti e che pertanto non avrebbe potuto essere obbligata a rispondere.
In tale novellato contesto normativo la stessa volontà del legislatore di “anticipare” all’assunzione di informazioni in fase d’indagini preliminari le regole in tema d’incompatibilità a testimoniare – come sarebbe dato evincere dalla serie di rinvii agli artt. 197, 197-bis, 198, 199 cod. proc. pen. operati dall’art. 362 dello stesso codice (quanto alle informazioni assunte dal pubblico ministero), nonché, attraverso il citato art. 362, dall’art. 351, primo comma, seconda proposizione (quanto alle informazioni assunte dalla polizia giudiziaria) – risulterebbe del tutto chiara, nel senso di escludere la possibilità di “scelte strategiche” di acquisizione di contributi dichiarativi in modo improprio da qualunque dichiarante: rilievo, quest’ultimo, che non contraddice ma anzi conferma gli itinerari della giurisprudenza (della Corte di cassazione e della Corte costituzionale) diretti a trovare una sostanziale identità tra le ragioni di tutela del valore probatorio delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, realizzate attraverso l’art. 378 cod. pen., e quelle sottese all’art. 371-bis del medesimo codice riferite alle dichiarazioni rese al pubblico ministero: entrambe le norme, infatti, tutelerebbero un’attività d’indagine simile e per di più soggetta per più profili alla medesima disciplina, con particolare riferimento alle forme di documentazione, all’utilizzabilità anche nella successiva fase processuale e agli obblighi dei dichiaranti.
Alla sostanziale convergenza di disciplina processuale, caratterizzante nell’attuale sistema del codice di rito il valore probatorio delle informazioni assunte dalla polizia giudiziaria rispetto a quelle rese davanti al pubblico ministero, non corrisponderebbe – nella tassativa struttura normativa dell’art. 384, secondo comma, cod. pen. (rimasta immutata in parte qua a seguito della novella del 2001) – una omogeneità di trattamento delle corrispondenti condotte di mendacio e/o reticenza, qualora le stesse siano riconducibili alle ipotesi di reato previste, rispettivamente, dall’art. 371-bis e dall’art. 378 cod. pen., non essendo applicabile per il mancato richiamo di quest’ultima norma (ancorché limitato alla condotta di false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria) la speciale causa di non punibilità, nelle ipotesi di assunzione d’informazioni ad opera della polizia giudiziaria in assenza dei presupposti per configurare in capo al dichiarante un “obbligo” di deporre erga alios: disomogeneità di trattamento la cui intrinseca irragionevolezza (art. 3 Cost.) non apparirebbe manifestamente infondata alla stregua del medesimo percorso argomentativo già posto a sostegno dell’autonomo profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 384, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevedeva l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal renderle a norma dell’art. 199 cod. proc. pen. (sentenza n. 416 del 1996). Essa sarebbe sanabile soltanto attraverso un ulteriore intervento di carattere “additivo” da parte di questa Corte, dopo il riscontro appunto dell’irragionevolezza di scelte legislative in una materia (estensione delle cause di non punibilità, comportante un giudizio di bilanciamento tra l’interesse tutelato da norme incriminatici accomunate dalla ratio ispiratrice e disciplina processuale: nella specie, artt. 371-bis e 378 cod. pen.) e le esigenze che invece sorreggono le correlative disposizioni derogatorie (art. 384, secondo comma, cod. pen.).
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto in data 4 agosto 2007 ha spiegato intervento nel giudizio di legittimità costituzionale per sentir dichiarare la manifesta infondatezza della questione sollevata.
La parte privata non ha svolto in questa sede attività difensiva.
Considerato in diritto
1.— Il Tribunale di Biella dubita della legittimità costituzionale dell’art. 384, secondo comma, del codice penale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui la detta norma non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria e fornite da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere, in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato, ai sensi dell’art. 371, comma 2, lettera b), del codice di procedura penale, con quello commesso da altri cui le dichiarazioni stesse si riferiscono.
1.1. – Il rimettente premette di essere chiamato a decidere nel procedimento penale a carico di M. M., imputato del delitto di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.), «perché, assunto a sommarie informazioni dai militari del R.O.N.O. dei Carabinieri di Biella relativamente al possesso e all’acquisto di sostanza stupefacente di tipo hashish – in particolare di grammi 8,490 ceduti al medesimo da M. V. in data 19 aprile 2004 in Ponderano – aiutava il medesimo ad eludere le investigazioni dell’autorità negando di conoscerlo e di essersi recato presso la sua abitazione nelle circostanze di tempo e di luogo sopra indicate».
Osserva poi, in punto di rilevanza della questione, che tale condotta, nel caso in esame documentalmente riscontrata, sarebbe senza dubbio idonea ad integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 378 cod. pen., richiamando il consolidato orientamento della giurisprudenza (diritto vivente) che attribuisce a tale norma una funzione “repressiva” di chiusura, in quanto volta a sanzionare qualsiasi comportamento diretto ad intralciare l’attività investigativa, compresa quindi la condotta di mendacio e reticenza alla polizia giudiziaria. Del pari pacifica sarebbe l’opzione interpretativa che dal delineato ambito applicativo dell’art. 378 (esteso cioè al mendacio alla polizia giudiziaria) desume l’assegnazione alla norma anche di una funzione di tutela della verità e completezza delle dichiarazioni rese alla medesima polizia giudiziaria, con attribuzione ad esse di valore probatorio in senso lato (non trattandosi di dichiarazioni assunte in contraddittorio delle parti) e con conseguente rilievo del carattere complementare del detto art. 378 cod. pen. rispetto all’ordinario sistema di tutela della prova dichiarativa formatasi davanti all’autorità giudiziaria, sanzionato dagli artt. 371-bis e 372 cod. pen.
In questo quadro, ed avuto riguardo anche alle innovazioni apportate allo statuto della prova dichiarativa dalle disposizioni introdotte con la legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 della Costituzione), andrebbero riesaminati i problemi, già emersi sotto il vigore del precedente codice di rito, relativi (tra l’altro) alla non applicabilità all’art. 378 del codice penale della norma di cui all’art. 384, secondo comma, di detto codice, prevista invece per gli artt. 371-bis e 372 dello stesso. Di qui la rilevanza della questione, nei termini prospettati dal rimettente.
2.— Ciò posto il giudice a quo – dopo aver rimarcato la sostanziale convergenza di disciplina processuale caratterizzante, nell’attuale sistema del codice di rito, il valore probatorio delle informazioni assunte dalla polizia giudiziaria rispetto alle dichiarazioni rese davanti al pubblico ministero – osserva che a tale convergenza non corrisponde, nella tassativa struttura normativa dell’art. 384, secondo comma, cod. pen., una omogeneità di trattamento delle corrispondenti condotte di mendacio o reticenza, rispettivamente previste dall’art. 371-bis e dall’art. 378 di detto codice, essendo infatti non applicabile, stante il mancato richiamo di quest’ultima norma (ancorché limitato alla condotta di false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria), la speciale causa di non punibilità nelle ipotesi di assunzione d’informazioni ad opera della stessa polizia giudiziaria in assenza dei presupposti per configurare a carico del dichiarante un obbligo di deporre. A suo avviso tale trattamento non omogeneo sarebbe irragionevole, ponendosi quindi in contrasto con l’art. 3 Cost.
3.— La questione è fondata nei sensi in prosieguo indicati.
3.1.— L’art. 384, secondo comma, cod. pen., stabilisce che «Nei casi previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione». La norma contempla ipotesi in cui (per quanto qui rileva) le informazioni o la testimonianza sono state assunte in modo non legittimo, perché l’autorità procedente non avrebbe potuto richiederle a ciò ostando un divieto di legge, oppure perché il soggetto non avrebbe potuto essere obbligato a rispondere oppure a deporre o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi. Come l’ordinanza di rimessione pone in luce con motivazione non implausibile, è questa la norma che viene in rilievo nel caso in esame, perché la persona chiamata a rispondere del delitto di favoreggiamento personale nei termini sopra indicati, quando fu richiesta di fornire informazioni alla polizia giudiziaria, era stata già iscritta nel registro degli indagati per reati probatoriamente collegati (ex art. 371, comma 2, lettera b, cod. proc. pen.) a quello ascritto al soggetto individuato quale possibile “fonte” di rifornimento della sostanza stupefacente.
4.— Il citato art. 384, secondo comma, cod. pen. indica dunque tra le ipotesi criminose alle quali, ricorrendo le situazioni previste, la causa di non punibilità si applica, anche l’art. 372 cod. pen. (falsa testimonianza) e l’art. 371-bis cod. pen. (false informazioni al pubblico ministero). Quest’ultimo - aggiunto dall’art. 11, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa) convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 – stabilisce che «Chiunque, nel corso di un procedimento penale, richiesto dal pubblico ministero di fornire informazioni ai fini delle indagini, rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito è punito con la reclusione fino a quattro anni» (comma 1).
La norma sostanziale ora richiamata si collega all’art. 362 cod. proc. pen. che, sotto la rubrica “assunzione d’informazioni”, dispone che «Il pubblico ministero assume informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini. Alle persone già sentite dal difensore o dal suo sostituto non possono essere chieste informazioni sulle domande formulate e sulle risposte date. Si applicano le disposizioni degli articoli 197, 197-bis, 198, 199, 200, 201, 202 e 203 cod. proc. pen.» Il rinvio così contemplato, quindi, è alla normativa che governa l’assunzione della testimonianza con i relativi obblighi e facoltà, come risultanti dopo le modifiche introdotte dalla legge 1° marzo 2001, n. 63.
Tra gli altri sono richiamati gli artt. 197 e 197-bis, relativi alla possibile assunzione della figura di testimone cosiddetto assistito, introdotta con la nuova disciplina stabilita dalla legge n. 63 del 2001, relativamente alla posizione di soggetti imputati (o indagati per l’estensione operata dall’art. 61 cod. proc. pen.) in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 o di un reato collegato a norma dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen.
A sua volta, l’art. 351 cod. proc. pen. dispone, nel comma 1, che la polizia giudiziaria assume sommarie informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini e stabilisce che si applicano le disposizioni del secondo e terzo periodo del comma 1 dell’art. 362. Per effetto di tale rinvio, pertanto, le disposizioni normative sulla testimonianza, applicabili alle informazioni assunte dal pubblico ministero, vanno osservate anche per le informazioni assunte dalla polizia giudiziaria.
Resta da aggiungere che, per il disposto dell’art. 351, comma 1-bis, cod. proc. pen., all’assunzione d’informazioni da persona imputata (o indagata) in un procedimento connesso, ovvero da persona imputata (o indagata) in ordine ad un reato collegato a quello per cui sono in corso le indagini, nel caso previsto dall’art. 371, comma 2, lettera b), può procedere, di propria iniziativa, anche un ufficiale di polizia giudiziaria. La persona predetta, se priva del difensore, è avvisata che è assistita da un difensore di ufficio, ma che può nominarne uno di fiducia. Il difensore deve essere tempestivamente avvisato ed ha diritto di assistere all’atto.
5.— Orbene, mentre il mendacio e la reticenza davanti all’autorità giudiziaria configurano le ipotesi di reato richiamate nel punto che precede, invece le informazioni false o reticenti rese alla polizia giudiziaria (incluse nella stesura originaria dell’art. 371-bis, secondo la formulazione contenuta nell’art. 11, comma 1, del decreto-legge 11 giugno 1992, n. 306, ma escluse al momento della conversione del decreto nella legge 7 agosto 1992, n. 356) non rientrano in una specifica fattispecie di reato. Esse, tuttavia, non sono penalmente irrilevanti, in quanto possono concorrere, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, ad integrare il reato di favoreggiamento personale, ai sensi dell’art. 378 cod. pen. (così la sentenza di questa Corte n. 416 del 1996, che dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 384, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevedeva l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal renderle, a norma dell’art. 199 cod. proc. pen.). Peraltro, avuto riguardo all’espressa limitazione stabilita nel secondo comma dell’art. 384 cod. pen. alle fattispecie di reato in esso contemplate (né potendosi estendere al secondo comma il riferimento che all’art. 378 è fatto, in altro e diverso contesto, dal primo comma dello stesso art. 384), la non punibilità delle dichiarazioni mendaci formulate nelle circostanze previste nel detto art. 384, secondo comma, non si estende al caso in cui esse siano rese alla polizia giudiziaria.
6.— Tale diversità di disciplina, però, è palesemente irragionevole.
Invero, come questa Corte ha già messo in luce (sentenza n. 416 del 1996), le due attività d’indagine, rispettivamente previste dagli artt. 351 e 362 cod. proc. pen., presentano una sostanziale omogeneità, in quanto appartengono alla fase procedimentale delle indagini preliminari. Pertanto tra il delitto di false dichiarazioni rese al pubblico ministero e quello di favoreggiamento dichiarativo, commesso con la condotta di false o reticenti informazioni rese alla polizia giudiziaria, si evidenzia una sostanziale omogeneità del bene protetto dalle fattispecie che consiste nella funzionalità di ciascuna fase rispetto agli scopi propri nei quali le esigenze investigative (specialmente agli inizi del procedimento) e quelle della ricerca della verità (specialmente nella fase finale del processo) si sommano, sicché gli artt. 378, 371-bis e 372 cod. pen. finiscono per presidiare ciascuno una fase distinta del procedimento e del processo, restando simmetricamente esclusa – per predominante giurisprudenza – l’eventualità che la stessa condotta integri la violazione di più d’una di tali norme secondo lo schema del concorso formale di reati (art. 81 cod. pen.). Inoltre va segnalata l’identità delle condotte materiali (mendacio o reticenza) che nelle diverse ipotesi possono risultare rilevanti.
Ma la riscontrata diversità di disciplina si palesa ancor più irrazionale considerando l’evoluzione normativa del sistema processuale che, prima con le modifiche introdotte col decreto legge n. 306 del 1992 (convertito con modificazioni dalla legge n. 356 del 1992) e poi con quelle stabilite dalla legge n. 63 del 2001, non soltanto ha statuito la sussistenza, in capo al soggetto chiamato dalla polizia giudiziaria a rendere dichiarazioni, degli stessi obblighi previsti per chi è chiamato a deporre innanzi al pubblico ministero (e per il testimone), cioè dell’obbligo di rispondere e di dire il vero, salvo il limite della possibilità di un suo coinvolgimento, ma ha portato ad una sostanziale equiparazione, anche sotto il profilo della valenza processuale, delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria a quelle rese al pubblico ministero. Infatti, i verbali di entrambe possono essere utilizzati per le contestazioni, valutati per la credibilità del teste, in determinate ipotesi acquisiti al fascicolo del dibattimento ed utilizzati per la decisione (art. 500 cod. proc. pen.). Il giudice può disporre, a richiesta di parte, che sia data lettura di entrambi i verbali quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne sia divenuta impossibile la ripetizione (art. 512 cod. proc. pen.), oppure quando si tratta di dichiarazioni di persona residente all’estero nelle circostanze di cui all’art. 512-bis cod. proc. pen., nonché di dichiarazioni rese in altri procedimenti, se le stesse sono divenute irripetibili o se le parti ne consentono la lettura (art. 238, commi 3 e 4, cod. proc. pen.) e, infine, in caso di acquisizione consensuale ai sensi degli artt. 431, comma 2, 493, comma 3, 500, comma 7, cod. proc. pen.
Tale convergenza di disciplina processuale rende del tutto irragionevole il diverso regime giuridico riscontrabile tra le corrispondenti condotte di mendacio o reticenza, qualora esse siano riconducibili alle ipotesi di reato previste, rispettivamente, dall’art. 371-bis e dall’art. 378 cod. pen. (limitatamente alla condotta di false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria), non essendo applicabile alla seconda ipotesi (per mancata previsione normativa) la citata causa di non punibilità nel caso di assunzione d’informazioni ad opera della polizia giudiziaria, ancorché non sia configurabile in capo al dichiarante un obbligo di renderle o comunque di rispondere in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato, a norma dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen., a quello (commesso da altri) cui le dichiarazioni stesse si riferiscono.
Da quanto esposto consegue l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, dell’art. 384, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere per la ragione ora indicata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 384, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato – a norma dell’art. 371, comma 2, lettera b), codice di procedura penale – a quello, commesso da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 marzo 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 marzo 2009.
Libero Professionista, esercente la professione forense nel Foro di Brindisi, distretto Corte d'Appello di Lecce (Italy)- già Magistrato, abilitato innanzi alle Giurisdizioni Superiori (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale)
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