domenica 13 maggio 2007

Legittimo il sequestro di un piazzale su cui era stoccato del materiale

Con il quinto motivo il ricorrente ricorda che le prescrizioni regionali in esame, ed in particolare quelle poste dall'art. 6 dell'appendice A/1 del piano direttore delle acque approvato con decreto del commissario delegato per l'emergenza ambientale in Puglia n. 191 del 16.6.2002, stabiliscono che «le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne che dilavano dalle pertinenze di stabilimenti industriali, nonché da strade e piazzali destinati alla movimentazione e deposito di mezzi e di materiali, anche se chiusi, in appositi contenitori, che possono dar luogo al rilascio di sostanze di cui alla Tab. 3 dell'all. 5 del D.L.gs 152/99, come novellato dal D.L.gs 258/2000, devono essere raccolte in vasca a tenuta stagna e sottoposte ad un trattamento depurativo appropriato in loco, tale da conseguire il rispetto dei limiti di emissione previsti dalla Tab.3 di cui all'Allegato 5 del D.Lgs. 152/99 per le immissioni in fogna e nelle acque superficiali, ovvero nel rispetto dalla Tab. 4 nel caso di immissioni sul suolo. In alternativa, è facoltà del titolare avviare tali acque ad impianto di trattamento gestito da terzi, ai sensi dell'art. 36 del D.L.gs. 152/99 e successive modifiche ed integrazioni». Il ricorrente, quindi, rileva che la norma regionale ha previsto che la suddetta disciplina si applichi solo ai casi in cui si verifichi uno sversamento effettivo delle acque di prima pioggia o di lavaggio, che contengano sostanze pericolose, in fogna o nelle acque superficiali o sul suolo, ossia esclusivamente quando vi sia un effettivo dilavamento che comporti un recapito in un corpo recettore (acque superficiali ovvero suolo); e che solo in tal caso le acque di prima pioggia debbono essere raccolte in una vasca a tenuta stagna e sottoposte a trattamento depurativo. Sostiene, pertanto, in sostanza, che nella specie questa disciplina non deve trovare applicazione perché il dilavamento opera sullo stesso piazzale di contenimento, composto da una superficie impermeabile racchiusa da un doppio ordine di cordoli di cemento che impediscono in modo assoluto la fuoriuscita delle acque piovane e il loro sversamento in mare. Le acque, dunque, vengono o lasciate evaporare in loco o utilizzate per bagnare i cumuli di carbone al fine di evitare la polvere, ma non vengono mai immesse in un corpo recettore, ossia in mare o su suolo non impermeabilizzato.

Anche questo motivo è infondato, perché il tribunale del riesame, con congrua ed adeguata motivazione - che peraltro non può essere sindacata in questa sede perché, come noto, col ricorso avverso provvedimenti in tema di misure cautelari reali può essere dedotta solo la violazione di legge o la assoluta mancanza o la mera apparenza della motivazione e non anche la sua contraddittorietà o illogicità - ha ritenuto in punto di fatto che nella specie le acque di prima pioggia - idonee a dar luogo al rilascio di sostanze contenute nella tabella 3, nonché nelle tabelle 3A e 5 (aggiunte dal decreto del commissario regionale n. 282 del 21.11.2003) dell'allegato 5 del d.Igs. 11 maggio 1999, n. 152, e precisamente il nichel, il cromo e gli idrocarburi di origine petrolifera (IPA) - venivano effettivamente immesse, in via continuativa e non meramente occasionale, sul suolo non impermeabilizzato esterno al detto piazzale di contenimento recintato da cordoli e nelle acque superficiali marine, e con modalità che costituivano violazione delle relative prescrizioni regionali, come doveva dedursi dal fatto:

- che i cordoli non erano a tenuta stagna e quindi erano idonei ad impedire sversamenti all'esterno sul suolo e nel mare, come era confermato dalle pozzanghere e dalle tracce fangose esistenti al di fuori dei cordoli;

- che comunque l'area in questione non poteva essere considerata idonea alla raccolta delle acque di prima pioggia ai sensi della normativa regionale, perché la stessa aveva anche lo scopo di contenere il pet coke ivi stabilmente depositato, mentre avrebbe dovuto avere autonoma e specifica destinazione, distinta da quella di area adibita a deposito di materiale inquinante;

- che le acque di prima pioggia non erano adeguatamente convogliate e provocavano quindi diffusi fenomeni di stagnazione;

- che i pozzetti di raccolta erano di modeste dimensioni ed inidonei a contenere acque provenienti da precipitazioni, anche modeste, mentre le acque avrebbero dovuto essere raccolte in apposite ed adeguate vasche a tenuta stagna;

- che le acque stesse non godevano di alcun trattamento depurativo appropriato e tale da garantire il rispetto dei limiti previsti dalle prescrizioni regionali.

L'accertamento dei fatti e la motivazione sulla sussistenza di una immissione delle acque di prima pioggia sul suolo e nelle acque marine in violazione delle relative prescrizioni regionali sono quindi sicuramente sufficienti ed idonee in questa sede cautelare a giustificare la misura cautelare adottata, anche se, ovviamente, ciò non esclude la necessità di ulteriori approfondimenti nel prosieguo delle indagini e nell'eventuale giudizio di merito.



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

Sentenza 23 gennaio 2007, n. 1869

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli III. mi Signori:

(omissis)

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da G. C., nato a yyy il xxx;

avverso l'ordinanza emessa il 24 maggio 2006 dal tribunale di Taranto, quale giudice del riesame;

udita nella udienza in camera di consiglio del 26 ottobre 2006 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Francesco Salzano, che ha concluso per l'annullamento con rinvio limitatamente al reato di cui all'art. 674 cod. pen. e per il rigetto nel resto;

udito il difensore avv. Antonio Raffo;

Svolgimento del processo

Con decreto del 27 aprile 2006 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto dispose il sequestro preventivo di un'area del porto di Taranto di circa 20.000 mq., data in concessione alla spa ltalcave ed adibita allo stoccaggio di pet-coke, ipotizzando a carico di G. C., quale direttore tecnico della società, i reati di cui agli artt. 59, commi 1 e 6 quater, d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e 674 cod. pen.

In particolare, il reato di cui all'art. 59 cit. era contestato per avere l'indagato realizzato immissioni sul suolo e nelle acque marine di acque meteoriche di dilavamento in assenza della autorizzazione prevista dall'art. 4 lett. b), del decreto del commissario delegato per l'emergenza ambientale in Puglia n. 282 del 21.11.2003, e il reato di cui all'art. 674 cod. pen. era contestato per avere immesso nell'atmosfera e nell'ambiente circostante polveri di carbone di petrolio atte a molestare le persone ivi transitanti ed imbrattare le aree.

Nel corso dell'udienza dinanzi al tribunale del riesame, il pubblico ministero specificava che il fatto di cui al capo A), relativo alla legge sull'inquinamento, doveva intendersi nel senso che era attribuita all'indagato la violazione delle norme regionali richiamate dall'art. 39, comma 3, d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152, ed emesse per regolamentare il regime delle acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne nei casi di pericolo di dilavamento di sostanze pericolose.

Il tribunale del riesame, con l'ordinanza impugnata, confermò il decreto di sequestro.

In particolare osservò:

- che doveva essere accolta la nuova qualificazione giuridica del fatto, secondo l'interpretazione datane dal pubblico ministero in udienza, nel senso che, ferma restando l'identità del fatto contestato, esso costituiva violazione della disciplina regionale non con riferimento all'art. 4 lett. b), del decreto del commissario delegato per l'emergenza ambientale in Puglia n. 282 del 21.11.2003, che regola le immissioni delle acque di dilavamento di cui al punto 5 dell'appendice A1 del piano direttore del 13.6.2002 e di cui al comma 1, lett. b), dell'art. 39 d. lgs. 152/1999, ma con riferimento alle ipotesi di cui al comma 3 dell'art. 39 cit. (richiamato dall'art. 59, comma 6 quater), che regola il regime delle acque meteoriche di prima pioggia, nei casi di rischio di rilascio di sostanze pericolose di cui al punto 6 dell'appendice A1 del detto piano direttore del 13.6.2002, richiamato dall'art. 1 del decreto 282 del 21.11.2003;

- che sussisteva il fumus che l'indagato non avesse ottemperato alla disciplina regionale relativa alla acque di prima pioggia, ai sensi dell'art. 39, comma 3, d, lgs. 152/99, la cui raccolta era distinta rispetto a quella delle successive acque di dilavamento, che nella specie comunque non ricevevano alcun trattamento;

- che infatti erano configurabili le violazioni alla disciplina regionale perché le acque di prima pioggia erano contenute nell'area destinata allo stoccaggio, insieme al pet-coke, da un cordolo non a tenuta ed inidoneo ad impedire sversamenti anche occasionali all'esterno, verso il suolo o verso il mare; perché l'area, per quanto impermeabilizzata, non poteva essere considerata idonea area di raccolta delle acque dal momento che era destinata al deposito del materiale mentre la area di raccolta delle acque avrebbe dovuto avere una autonoma e distinta destinazione; perché le acque non erano adeguatamente convogliate e potevano quindi provocare fenomeni di stagnazione; perché i pozzetti di raccolta erano di dimensioni modeste ed inidonei a contenere l'acqua proveniente dalle precipitazioni; perché soprattutto le acque, pur potendo dar luogo al rilascio di sostanze pericolose, non subivano alcun trattamento depurativo appropriato sul posto, tale da garantire il rispetto dei limiti tabellari;

- che ulteriore profilo di responsabilità, da valutare come spunto investigativo, avrebbe potuto essere rinvenuto nell'utilizzazione delle acque per bagnare il pet-coke al fine di evitare le polveri, dal momento che in tal modo le acque avrebbero potuto perdere la loro qualità di acque meteoriche di dilavamento per assumere quella di acque reflue industriali, che necessiterebbero di apposita autorizzazione;

- che era irrilevante la assenza di opere di canalizzazione o di condotte, perché anche secondo la disciplina di cui al d.Igs. 11 maggio 1999, n. 152, la immissione diretta di reflui in vasche e serbatoi costituisce scarico e deve essere autorizzata, anche quando, come nella specie, il contenitore sia impermeabilizzato;

- che il provvedimento di autorizzazione alle emissioni in atmosfera dell' 11.12.2001 faceva riferimento generico alla attività di movimentazione materiali, senza alcuna specifica indicazione del pet-coke, e che la normativa di attuazione della direttiva 96/62 CE si indica la necessità di stabilire valori limite per gli inquinanti indicati nell'allegato 1, fra cui il nichel e gli Ipa, che sono presenti nel pet-coke;

- che quindi sussisteva anche il fumus del reato di cui all'art. 674 cod. pen, perché sussistevano ragionevoli dubbi che la attività in questione fosse stata regolarmente autorizzata e che fossero stati rispettati i limiti di emissione previsti dalle leggi speciali;

- che d'altra parte era emerso che le precauzione prese per evitare lo spandimento delle poveri erano assolutamente insufficienti o non utilizzate, sicché doveva ritenersi non rispettata la prescrizione contenuta nel provvedimento di autorizzazione di mantenere in ogni caso le emissioni ai livelli più bassi possibili utilizzando le migliori tecnologie.

L'indagato propone ricorso per cassazione deducendo:

1) violazione degli artt. 321 e 324 cod, proc. pen. perché il tribunale del riesame si è sottratto al doveroso accertamento della sussistenza del fumus del reato ritenendo sufficiente la astratta configurabilità dei reati contestati ed omettendo di conseguenza l'esame dei dati fattuali della vicenda.

2) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 62, comma 3, d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e dell'art. 6 del piano direttore della regione Puglia del 13.6.2002, integrato con decreto n. 282 del 21.11.2003. Osservato che l'art. 62, terzo comma, cit. stabilisce che le regioni definiscano, in termini non inferiori a due anni, i tempi di adeguamento alle prescrizioni della legislazione regionale. Orbene, sia l'ordinanza del 13.6.2002 sia quella del 21.11.2003, che approvano il piano direttore per le acque meteoriche per la regione Puglia, hanno omesso di definire i tempi di adeguamento. Quindi, in attesa della indicazione di un termine per adeguarsi, non è ancora operante la disciplina a livello regionale di attuazione del d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152.

3) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 59, commi 1 e 6 quater, del d.Igs. il maggio 1999, n. 152; manifesta illogicità e contraddittorietà circa la esatta indicazione della normativa presuntivamente violata; violazione del principio secondo cui occorre far riferimento alla contestazione sostanziale e non formale; violazione del principio del divieto di nuove contestazioni. Osserva che il pubblico ministero aveva contestato il reato di cui all'art. 59, commi 1 e 6 quater, del d.Igs. 11 maggio 1999, n. 152, per avere realizzato immissioni sul suolo e nelle acque marine di acque meteoriche di dilavamento senza la autorizzazione prevista dall'art. 4, lett. b), del decreto del commissario delegato per l'emergenza ambientale n. 272 del 22.11.2003. Nel corso della udienza è stato invece contestata la violazione delle norme regionali richiamate dal comma 3 dell'art. 39 d.Igs. 152/99 dirette a regolamentare il regime delle acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne nei casi di pericolo di dilavamento di sostanze pericolose. Quindi il pubblico ministero ha da una parte contestato il reato di cui all'art. 59, commi 1 e 6 quater, che richiamano l'art. 39, comma 3, e, dall'altra parte, lo ha contestato per la assenza della autorizzazione di cui all'art. 4, lett. b), cit., ossia facendo riferimento all'art. 39, comma 1. Ora, secondo il principio che ciò che rileva non é la indicazione formale del reato ma la descrizione dal fatto contestato, deve ritenersi che sia stato effettivamente contestato il reato di cui all'art. 39, comma 1, che corrisponde al fatto materiale descritto, e non quello di cui all'art. 39, comma 3, che corrisponde al numero indicato. Pertanto non rileva la precisazione fatta in udienza dal pubblico ministero che l'articolo contestato sia il 39, comma 3, dal momento che il capo di imputazione non ha subito modificazioni e che rimane contestata la immissione in assenza di autorizzazione sanzionata amministrativamente dall'art. 39, comma 1. Ed infatti, il fatto indicato nel capo di imputazione è differente da quello necessario ad integrare il reato di cui all'art. 39, comma 3, dal momento che una cosa è contestare il fatto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne non siano convogliate e trattate in impianti di depurazione in ipotesi particolari, ed altra cosa è contestare il fatto che siano state realizzate immissioni di acque meteoriche di dilavamento sul suolo e nelle acque marine in assenza di specifica autorizzazione.

Il tribunale del riesame, quindi, non si è limitato a dare al fatto una diversa qualificazione giuridica, ma ha in realtà modificato il fatto. Il sequestro, infatti, è stato dato sul presupposto che mancasse la autorizzazione di cui all'art. 4. lett. b), cit., mentre solo in sede di udienza si è fatto riferimento alla presunta mancanza di un trattamento delle acque di prima pioggia e di lavaggio in un impianto di depurazione. Vi è stata quindi una nuova contestazione, in violazione di principi fondamentali, dal momento che l'indagato è stato privato del vaglio della contestazione da parte del giudice naturale (ossia il gip) nonché del diritto alla difesa in relazione al nuovo fatto contestato solo in sede di riesame.

Del resto il tribunale ha continuato a riferirsi alternativamente all'art. 39, comma 1, ed all'art. 39, comma 3, dal momento che dopo aver chiarito che il fatto consiste nella violazione della disciplina regionale con riferimento alle ipotesi di cui all'art. 39, comma 3, aggiunge che tale disciplina è contenuta nel punto 6 dell'Appendice A1 del piano direttore richiamato dall'art. 1 del decreto 21.11.2003, che invece fa riferimento all'art. 39, comma 1. Permane quindi la confusione e la contraddittorietà del capo di imputazione.

4) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 59, commi 1 e 6 quarter, del d.Igs. 11 maggio 1999, n. 152, ed erronea applicazione dell'art. 39, comma 3. Osserva che il tribunale ha ritenuto erroneamente che la condotta penalmente rilevante non fosse quella prevista dall'art. 4, lett. b), cit., come contestato, ma quella prevista dall'art. 39, comma 3, cit., che regola il regime delle acque meteoriche di prima pioggia nei casi di rischio di rilascio di sostanze pericolose. Ora, la normativa in questione fa riferimento esclusivamente alle acque di prima pioggia e di lavaggio e non anche alle acque reflue, che sono cosa diversa. Ha quindi errato il tribunale quando ha ritenuto che la immissione diretta di reflui in vasche e serbatoi costituisce scarico in senso tecnico e va quindi autorizzata, Infatti, l'art. 39, comma 3, che il tribunale ha ritenuto applicabile nella specie, non si riferisce affatto alle acque reflue industriali ma alle acque di prima pioggia o di lavaggio.

5) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 39, comma 3, d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152. Osserva che l'art. 39 cit. è diretto alla finalità di prevenire i rischi idraulici ed ambientali. Inoltre, dall'art. 6 dell'appendice A1 del piano direttore delle acque del 13.6.2002, emerge che la disciplina in questione si applica solo ai casi in cui si verifichi uno sversamento effettivo delle acque di prima pioggia o di lavaggio, che contengano sostanze pericolose, in fogna o nelle acque superficiali o sul suolo. Risulta cioè chiaramente che le prescrizioni si applicano esclusivamente quando vi sia un effettivo dilavamento, ossia quando lo stesso comporti un recapito in un corpo recettore (acque superficiali o suolo). Solo in tal caso quindi le acque di prima pioggia debbono essere raccolte in una vasca a tenuta stagna e sottoposte a trattamento depurativo. Nella specie il piazzale di contenimento è composto da una superficie impermeabile su cui opera il dilavamento e che è racchiusa da un doppio ordine di cordoli di cemento che impediscono in modo assoluto la fuoriuscita delle acque piovane e il loro sversamento in mare. Tali acque vengono invece o lasciate evaporare in loco o utilizzate per bagnare i cumuli di carbone al fine di evitare la polvere, ma non vengono mai immesse in un corpo recettore, ossia in mare o su suolo non impermeabilizzato. La normativa in esame quindi non si applica al caso del piazzale della Italcave. Del resto sarebbe assurdo depurare dal pet-coke delle acque che devono essere riutilizzate esclusivamente per irrorare lo stesso pet-coke. Le eventuali pozzanghere formatesi oltre i cordoli non sono assolutamente imputabili ad uno sversamento di acque piovane dal piazzale, ma alle minime quantità di materiale che inevitabilmente cade per terra durante le operazioni di carico e scarico e può formare in caso di pioggia delle pozzanghere che poi si risolvono con l'evaporazione e la raccolta del carbone residuato.

Erroneamente poi il tribunale del riesame ha ritenuto che il cordolo fosse inidoneo ad impedire sversamenti occasionali al di fuori dello stesso. Infatti, una immissione minima ed occasionale, magari per la rottura accidentale dei cordoli, non è sanzionabile penalmente, anche se effettuata senza autorizzazione e con superamento dei valori limite. Gli scarichi sono costituiti soltanto dalle immissioni dirette tramite condotta, ossia quelle dirette e continuative tramite un sistema stabile di deflusso.

6) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 674 cod. pen. con riferimento agli artt. 1, 6 e 7 d.p.R. 24 maggio 1988, n. 203, e con riferimento alla determinazione dirigenziale della regione Puglia dell' 11.12.2001, nonché violazione dell'art. 844 cod. civ. e del principio del favor rei. Lamenta innanzitutto che il tribunale del riesame ha errato nel ritenere che l'autorizzazione alle emissioni nella atmosfera regolarmente rilasciata alla società non riguardasse anche le polveri di pet-coke.

Il tribunale del riesame ha invero errato in primo luogo nel ritenere apoditticamente che il pet-coke non costituisca un tipo di carbone, e che quindi non rientri nell'ambito della autorizzazione alle emissioni che fa espresso riferimento al carbone.

In secondo luogo ha errato nel ritenere che l'autorizzazione dirigenziale non comprendesse comunque il pet-coke, senza considerare che la stessa concerne tutte le emissioni derivanti dalla movimentazione di materiali, e fra tali materiali rientra anche il pet-coke. Inoltre, il tribunale del riesame ha fatto illogicamente riferimento a mere perplessità del dirigente, senza considerare che non era mai pervenuta alcuna precisazione o alcuna risposta da parte della amministrazione competente, e che era impensabile che nel rilasciare l'autorizzazione la amministrazione non sapesse che essa riguardava anche il pet-coke. Deve quindi ritenersi sussistente una valida autorizzazione alle emissioni in atmosfera nei limiti di legge.

In terzo luogo il tribunale ha impropriamente richiamato la direttiva 96/62 CE in materia di valutazione e di gestione della qualità dell'aria, che è invece irrilevante. La direttiva è stata infatti recepita in Italia con il d.lgs. 351/1999, il quale prevede che con successivi decreti del ministero dell'ambiente siano recepiti i valori limite di emissione per determinati inquinanti e il termine in cui tali valori devono essere raggiunti. Orbene, i valori limite per il nichel e gli IPA non sono stati ancora fissati da nuovi decreti.

7) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 674 cod. pen. e dell'art. 844 cod. civ. Ricorda che secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte il reato di cui all'art. 674 cod. pen. non sussiste quando l'attività sia autorizzata e non vi sia stato il superamento dei limiti di emissione delle polveri in atmosfera stabilii dalle normative di settore. Il tribunale del riesame ha però irragionevolmente ritenuto non applicabile questo principio per il motivo che vi sarebbero ragionevoli dubbi in ordine alla esistenza di una regolare autorizzazione ed al rispetto dei limiti di emissione. Il tribunale ha però omesso di considerare che tutte le analisi effettuate hanno dimostrato il rispetto dei limiti tabellari di emissione così come non ha considerato l'accertamento compiuto dall'organo verificatore, sicché è illogica ed immotivata l'affermazione che vi sarebbero dei dubbi sul rispetto dei limiti di emissione. Analogamente il tribunale ha omesso di considerare che la Italcave è dotata di certificazione di rispondenza alla norma ISO 14001.2004 e che ha adottato tutte le misure tecnologiche più qualificate per impedire emissioni di polvere senza badare a spese. In ogni caso, anche in considerazione di questi interventi, non sussiste lo elemento psicologico del reato.

In prossimità dell'udienza in camera di consiglio il difensore del ricorrente ha depositato memoria con la quale deduce inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 674 cod. pen. in riferimento agli artt. 1, 6 e 7 del d.p.R. 24 maggio 1988, n, 203, ed alla Determinazione dirigenziale della regione Puglia n. 256 dell'11.12.2001, nonché violazione del principio del favor rei.

Motivi della decisione

Ritiene il Collegio che il ricorso sia infondato.

Quanto al primo motivo, è vero che il tribunale del riesame ha richiamato, in tema di limiti al sindacato demandatogli, principi risalenti e ormai superati dalla più recente giurisprudenza. Ma è anche vero che, nonostante il principio affermato, il tribunale del riesame non si è affatto limitato ad accertare la mera astratta configurabilità del reato ipotizzato, ma ha valutato, sulla base di un esame di tutti gli elementi di fatto sottoposti alla sua attenzione, la sussistenza in concreto, e non in astratto, del fumus dei reati contestati sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati. Non sussiste quindi la dedotta violazione degli artt. 321 e 324 cod. proc. pen.

E' infondato anche il secondo motivo, con il quale si sostiene, in sostanza, che le norme dettate dalla regione Puglia per disciplinare lo smaltimento delle acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne ai sensi dell'art. 39, comma 3, del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152 (modificato ed integrato dal d.Igs. 18 agosto 2000, n. 258), non sarebbero efficaci ed applicabili perché il provvedimento normativo regionale recante la detta disciplina non avrebbe indicato - come invece previsto dall'art. 62. comma 3, del d.Igs. 11 maggio 1999, n. 152 - i tempi - da prevedere in termini non inferiori a due anni - di adeguamento alle prescrizioni regionali di adeguamento al d.Igs. 152/99.

E difatti, anche a volere ammettere che la violazione di detta previsione possa comportare l'inefficacia (o la sospensione di efficacia) delle norme regolamentari regionali, la disposizione di cui al citato art. 62, comma 3, deve comunque essere sistematicamente interpretata nel senso che, qualora le norme regionali di attuazione non indichino alcun termine per l'adeguamento alle prescrizioni in esse contenute o indichino un termine inferiore ai due anni, si deve in ogni caso applicare il detto termine di due anni previsto, in via generale, dalla norma statale. Nel caso di specie, le prescrizioni regionali di cui si discute sono state emesse con ordinanza del commissario delegato per l'emergenza ambientale per la Puglia del 13 giugno 2002 (che ha approvato il c.d. piano direttore per la regione Puglia) e con decreto dello stesso commissario n. 282 del 22 novembre 2003 (che ha corretto alcune tabelle precedentemente fissate), sicché, alla data del sequestro del 27 aprile 2006, le norme sanzionatorie previste per le violazioni alle prescrizioni stesse erano sicuramente efficaci ed applicabili essendo in ogni caso ormai decorsi i due anni previsti per adeguarsi alle stesse.

Ritiene il Collegio che sia infondato anche il terzo motivo, non essendo censurabile l'affermazione del tribunale del riesame secondo cui esso si è limitato soltanto a dare una diversa qualificazione giuridica del fatto contestato (peraltro conforme alla correzione della qualificazione del fatto reato contestato sub a) effettuata in udienza dal pubblico ministero) mentre ha lasciato ferma l'identità del fatto contestato e la fattispecie incriminatrice. Ed infatti, poiché, come esattamente ricorda lo stesso ricorrente, ciò che rileva non è tanto l'indicazione formale del reato quanto invece la descrizione fattuale che dello stesso viene data nell'ambito del capo di imputazione, rileva il Collegio che con il capo di imputazione era stato contestata, sostanzialmente, l'effettuazione dello scarico delle acque meteoriche, e precisamente la loro immissione sul suolo e nelle acque superficiali marine, in violazione delle prescrizioni normative regionali. Il fatto contestato, quindi, nella sua sostanza é rimasto identico ed effettivamente è stata modificata solo la sua qualificazione giuridica, essendosi ravvisata la violazione delle norme regionali adottate ai sensi non del primo, ma del terzo comma, dell'art. 39 d.Igs. 11 maggio 1999, n. 152, in quanto si trattava di acque meteoriche di prima pioggia e non di acque meteoriche di dilavamento provenienti da reti fognarie separate o immesse tramite altre condotte separate. Non può invero determinare il mutamento dello stesso fatto la circostanza, puramente marginale, relativa alle ragioni specifiche per le quali le prescrizioni regionali in tema di immissione sul suolo e nelle acque marine delle acque meteoriche erano state violate, e cioè se sotto il profilo della mancanza di autorizzazione alla immissione ovvero sotto il profilo della mancanza di opportuno convogliamento e trattamento. Si tratta invero di specificazioni che non possono aver inciso sulla medesimezza del fatto, soprattutto tenendo conto che si è ancora nella fase cautelare, nella quale la contestazione è necessariamente fluida, e che comunque non hanno inciso o limitato il concreto esplicarsi del diritto di difesa.

Non è quindi ravvisabile alcuna violazione di legge, in quanto il tribunale del riesame ha correttamente seguito il costante orientamento giurisprudenziale, secondo cui anche in materia de libertate vige il principio della immutabilità del fatto contestato, inteso come accadimento della realtà, sul quale l'indagato è stato chiamato a difendersi, non già il principio dell'immutabilità della definizione giuridica data al fatto stesso dal pubblico ministero: ne consegue che è sempre consentito al giudice dell'applicazione della misura, o a quello del riesame o d'appello, attribuire la corretta qualificazione giuridica al fatto descritto nel capo d'imputazione, senza che ciò incida sull'autonomo potere di iniziativa del P.M. e fermo restando che l'eventuale correzione del nomen juris non può avere effetto oltre il procedimento incidentale (Sez. Un., 19 giugno 1996, Di Francesco, m. 205.617; Sez. I, 14 luglio 1997, Cavaliere, in. 208.724; Sez. II, 20 ottobre 1999, Schettino, m. 216.348; Sez. IV. 11 dicembre 2003, Sangiuolo, m. 228.566).

Il quarto motivo è manifestamente infondato, perché il riferimento fatto dalla ordinanza impugnata (pag. 8) alle acque reflue industriali ed alla loro immissione diretta in vasche e serbatoi o contenitori anche impermeabilizzati, non riguarda il fatto contestato con il capo a) ed il relativo reato ipotizzato per il quale è stato disposto e confermato il sequestro preventivo - per il quale il tribunale ha sempre fatto correttamente riferimento alle acque meteoriche, ed in particolare a quelle di prima pioggia, e non alle acque reflue industriali - bensì una mera ulteriore ipotesi accusatoria, da «valutare come spunto investigativo» e relativa non allo scarico ed alla immissione delle acque meteoriche ma alla loro diretta utilizzazione nella attività produttiva e commerciale per bagnare il pet coke depositato sul piazzale.

Si tratta quindi di obiter dicta estranei all'oggetto del presente giudizio cautelare e che non incidono sulla correttezza della decisione adottata dalla ordinanza impugnata.

Con il quinto motivo il ricorrente ricorda che le prescrizioni regionali in esame, ed in particolare quelle poste dall'art. 6 dell'appendice A/1 del piano direttore delle acque approvato con decreto del commissario delegato per l'emergenza ambientale in Puglia n. 191 del 16.6.2002, stabiliscono che «le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne che dilavano dalle pertinenze di stabilimenti industriali, nonché da strade e piazzali destinati alla movimentazione e deposito di mezzi e di materiali, anche se chiusi, in appositi contenitori, che possono dar luogo al rilascio di sostanze di cui alla Tab. 3 dell'all. 5 del D.L.gs 152/99, come novellato dal D.L.gs 258/2000, devono essere raccolte in vasca a tenuta stagna e sottoposte ad un trattamento depurativo appropriato in loco, tale da conseguire il rispetto dei limiti di emissione previsti dalla Tab.3 di cui all'Allegato 5 del D.Lgs. 152/99 per le immissioni in fogna e nelle acque superficiali, ovvero nel rispetto dalla Tab. 4 nel caso di immissioni sul suolo. In alternativa, è facoltà del titolare avviare tali acque ad impianto di trattamento gestito da terzi, ai sensi dell'art. 36 del D.L.gs. 152/99 e successive modifiche ed integrazioni». Il ricorrente, quindi, rileva che la norma regionale ha previsto che la suddetta disciplina si applichi solo ai casi in cui si verifichi uno sversamento effettivo delle acque di prima pioggia o di lavaggio, che contengano sostanze pericolose, in fogna o nelle acque superficiali o sul suolo, ossia esclusivamente quando vi sia un effettivo dilavamento che comporti un recapito in un corpo recettore (acque superficiali ovvero suolo); e che solo in tal caso le acque di prima pioggia debbono essere raccolte in una vasca a tenuta stagna e sottoposte a trattamento depurativo. Sostiene, pertanto, in sostanza, che nella specie questa disciplina non deve trovare applicazione perché il dilavamento opera sullo stesso piazzale di contenimento, composto da una superficie impermeabile racchiusa da un doppio ordine di cordoli di cemento che impediscono in modo assoluto la fuoriuscita delle acque piovane e il loro sversamento in mare. Le acque, dunque, vengono o lasciate evaporare in loco o utilizzate per bagnare i cumuli di carbone al fine di evitare la polvere, ma non vengono mai immesse in un corpo recettore, ossia in mare o su suolo non impermeabilizzato.

Anche questo motivo è infondato, perché il tribunale del riesame, con congrua ed adeguata motivazione - che peraltro non può essere sindacata in questa sede perché, come noto, col ricorso avverso provvedimenti in tema di misure cautelari reali può essere dedotta solo la violazione di legge o la assoluta mancanza o la mera apparenza della motivazione e non anche la sua contraddittorietà o illogicità - ha ritenuto in punto di fatto che nella specie le acque di prima pioggia - idonee a dar luogo al rilascio di sostanze contenute nella tabella 3, nonché nelle tabelle 3A e 5 (aggiunte dal decreto del commissario regionale n. 282 del 21.11.2003) dell'allegato 5 del d.Igs. 11 maggio 1999, n. 152, e precisamente il nichel, il cromo e gli idrocarburi di origine petrolifera (IPA) - venivano effettivamente immesse, in via continuativa e non meramente occasionale, sul suolo non impermeabilizzato esterno al detto piazzale di contenimento recintato da cordoli e nelle acque superficiali marine, e con modalità che costituivano violazione delle relative prescrizioni regionali, come doveva dedursi dal fatto:

- che i cordoli non erano a tenuta stagna e quindi erano idonei ad impedire sversamenti all'esterno sul suolo e nel mare, come era confermato dalle pozzanghere e dalle tracce fangose esistenti al di fuori dei cordoli;

- che comunque l'area in questione non poteva essere considerata idonea alla raccolta delle acque di prima pioggia ai sensi della normativa regionale, perché la stessa aveva anche lo scopo di contenere il pet coke ivi stabilmente depositato, mentre avrebbe dovuto avere autonoma e specifica destinazione, distinta da quella di area adibita a deposito di materiale inquinante;

- che le acque di prima pioggia non erano adeguatamente convogliate e provocavano quindi diffusi fenomeni di stagnazione;

- che i pozzetti di raccolta erano di modeste dimensioni ed inidonei a contenere acque provenienti da precipitazioni, anche modeste, mentre le acque avrebbero dovuto essere raccolte in apposite ed adeguate vasche a tenuta stagna;

- che le acque stesse non godevano di alcun trattamento depurativo appropriato e tale da garantire il rispetto dei limiti previsti dalle prescrizioni regionali.

L'accertamento dei fatti e la motivazione sulla sussistenza di una immissione delle acque di prima pioggia sul suolo e nelle acque marine in violazione delle relative prescrizioni regionali sono quindi sicuramente sufficienti ed idonee in questa sede cautelare a giustificare la misura cautelare adottata, anche se, ovviamente, ciò non esclude la necessità di ulteriori approfondimenti nel prosieguo delle indagini e nell'eventuale giudizio di merito.

Ritiene il collegio che siano anche infondati i motivi relativi alla sussistenza del fumus del reato di cui all'art. 674 cod. pen., che possono essere unitariamente considerati.

Va preliminarmente rilevato che, secondo l'orientamento seguito negli ultimi tempi dalla giurisprudenza di questa Corte, ai fini della configurabilità del reato previsto dalla seconda parte dell'art. 674 cod. pen. (emissione di gas, vapori o fumi atti a molestare le persone), l'espressione «nei casi non consentiti dalla legge» costituisce una precisa indicazione circa la necessità che tale emissione avvenga in violazione delle norme che regolano l'inquinamento atmosferico. Ne consegue che, poiché la legge contiene una sorta di presunzione di legittimità delle emissioni di fumi, vapori o gas che non superino la soglia fissata dalle leggi speciali in materia, ai fini dell'affermazione di responsabilità per il reato indicato non basta l'affermazione che le emissioni stesse siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio, ma è indispensabile la puntuale e specifica dimostrazione che esse superino i parametri fissati dalla legge, mentre quando, pur essendo le emissioni contenute nei limiti di legge, abbiano arrecato e arrechino concretamente fastidio alle persone, superando la normale tollerabilità, si applicheranno le norme di carattere civilistico contenute nell'art. 844 cod. civ. (cfr, Sez. I, 16 giugno 2000, Meo, m. 216.621; Sez. I, 24 ottobre 2001, Tulipano, m. 220.678; Sez. III, 23 gennaio 2004, Pannone, m. 228.010; Sez. III, 19 marzo 2004, n. 16728, Parodi; Sez. I 20 maggio 2004, Invernizzi, m. 229.170; nonché Sez. I, 12 marzo 2002, Pagano, m. 221362; Sez. I, 14 marzo 2002, Rinaldi, m. 221.653, in tema di emissione di onde elettromagnetiche).

Non è, pertanto, configurabile il reato di cui all'art. 674 cod. pen. nel caso in cui le emissioni provengano da un'attività regolarmente autorizzata e siano inferiori ai limiti previsti dalle leggi speciali in materia di inquinamento atmosferico (Sez. III, 1° febbraio 2006, n. 8299, Tortora, m. 233.562);

In altri termini, secondo l'attuale prevalente orientamento giurisprudenziale, all'inciso «nei casi non consentiti dalla legge» deve riconoscersi, contrariamente a quanto ritenuto dal precedente orientamento, una valenza rigida, tale da costituire una sorta di spartiacque tra il versante dell'illecito penale da un lato e quello dell'illecito civile dall'altro.

Nel caso di specie, il tribunale del riesame ha ritenuto sia che non fosse stata rilasciata una autorizzazione alle emissioni relativa al pet coke, sia che fossero stati superati i limiti per le emissioni previsti dalla vigenti tabelle, sia comunque che la presenza della autorizzazione non fosse scriminante perché non erano state seguite le prescrizioni contenute nella autorizzazione stessa.

Per quanto riguarda il primo profilo, è effettivamente fondata l'eccezione del ricorrente, in quanto, ancor prima della nota dell'assessorato all'ecologia della regione Puglia del 7 agosto 2006, doveva comunque ritenersi che le emissioni in atmosfera derivanti dalla movimentazione di pet coke rientrassero nell'ambito della autorizzazione regionale dell' 11 dicembre 2001. E difatti - a parte ogni questione se il pet coke costituisca un tipo di carbone sia pure particolare per la sua provenienza ovvero sia un materiale del tutto diverso e non paragonabile al carbone per la sua diversa origine - sta di fatto che, come risulta dalla stessa ordinanza impugnata, la detta autorizzazione regionale dell' 11.12.2001 riguardava in via generale le «emissioni in atmosfera rinvenienti dall'attività di movimentazione materiali presso il molo polisettoriale - porto di Taranto», e quindi, evidentemente, anche il pet-coke, salvo diversi successivi provvedimenti amministrativi diretti a specificare, integrare o revocare in parte la autorizzazione in questione, e che non risultano essere mai stati emanati.

Sennonché, ciò non basta per l'accoglimento, in parte qua, del ricorso perché, come rilevato, il fumus del reato di cui all'art. 674 cod. pen. è stato ravvisato anche per il superamento dei limiti tabellari e per il mancato rispetto delle prescrizioni cui era subordinata l'efficacia della autorizzazione.

Sotto il primo aspetto, infatti, l'ordinanza impugnata ha ritenuto, con apprezzamento di fatto sorretto da adeguata motivazione, e quindi non censurabile in questa sede, che sussistevano ragionevoli dubbi (tali da integrare, in sostanza, il fumus del reato contestato) che fossero stati superati i limiti di emissione previsti dalle leggi speciali, anche perché, allo stato, non poteva essere attribuito valore alle analisi eseguite da un incaricato dall'Italcave, non conoscendosi quali sostanze inquinanti fossero state censite.

Rileva peraltro la Corte che, considerando i termini problematici e di dubbio nei quali il tribunale del riesame ha ritenuto superati i limiti di emissione, appare indispensabile che nel prosieguo delle indagini e nell'eventuale giudizio di merito vengano esperiti gli opportuni accertamenti diretti a fornire la prova della effettiva sussistenza di tale superamento.

In ogni caso, la sussistenza del fumus del reato in questione risulta adeguatamente motivata anche sulla base dell'ultima considerazione svolta dal tribunale del riesame, relativa al mancato rispetto delle prescrizioni cui era subordinata l'efficacia della autorizzazione. Ha infatti osservato l'ordinanza impugnata che la autorizzazione imponeva alla Italcave di «mantenere le emissioni al di sotto del limite imposto dalla normativa vigente e a contenere in ogni caso le emissioni stesse ai livelli più bassi possibili a seguito dell'utilizzo, cui è tenuta, della migliore tecnologia man mano disponibile». Il tribunale del riesame ha invece accertato che le precauzioni prese per contenere lo spandimento delle polveri erano assolutamente insufficienti (inidoneità del filmante, non utilizzo di vasche interrate, formazione di cumuli altissimi fino a dodici metri, assenza di pannelli di protezione dai venti) o non utilizzate (vasca realizzata nell'area), sicché non potevano dirsi rispettate le prescrizioni contenute nel provvedimento di autorizzazione. In altri termini, il tribunale del riesame ha ritenuto che, per tale ragione, le emissioni non provenissero da una «attività regolarmente autorizzata», e che pertanto, anche sotto questo profilo (peraltro non fatto oggetto di specifica censura da parte del ricorrente), fosse configurabile il reato di cui all'art. 674 cod. pen..

Alla stregua delle considerazioni dianzi svolte, ritiene il Collegio che, nella fattispecie in esame - spettando ai giudici del merito l'ulteriore approfondimento e la compiuta verifica - allo stato, a fronte dei prospettati elementi, della cui sufficienza in sede cautelare non può dubitarsi, le argomentazioni difensive non valgono ad escludere la legittimità della misura adottata.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 26 ottobre 2006.

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