martedì 4 dicembre 2007

TAR LOMBARDIA, SENTENZA N. 6200 DEL 5 luglio 2007


Il mero decorso del tempo non è sufficiente a far insorgere un affidamento sulla legittimità dell’opera o comunque sul consolidamento dell’interesse del privato alla sua conservazione, né, per conseguenza, ad imporre la necessità di una specifica motivazione in ordine all’esistenza di un interesse pubblico prevalente. Infatti, l’unico interesse, la cui tutela è rimessa dal Legislatore alla sanzione demolitoria, è l’interesse al ripristino dell’assetto del territorio preesistente all’abuso, tipizzato come prevalente dallo stesso Legislatore.
In definitiva, il potere di irrogare delle sanzioni in materia edilizia ed urbanistica può essere esercitato in ogni tempo, posto che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione, né di decadenza, e che riguarda una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra ius. Esso, inoltre, non necessita di specifica motivazione in relazione alla sussistenza dell’interesse pubblico ad irrogare la sanzione, neppure quando l’abuso sia stato commesso parecchi anni prima, non essendo configurabile nessun legittimo affidamento del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto che, in disparte l’idoneità o meno del tempo a consolidarla, rimane contra ius.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA LOMBARDIA

(Sezione II)

Sent. n. 6200/2007 del 08/11/2007

N. 499/2006 Reg. Ric.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA


sul ricorso r.g. n. 499/2006, promosso dal sig. M. C., rappresentato e difeso dagli avv.ti prof. Riccardo Villata, Andreina Degli Esposti e Francesco De Marini e con domicilio eletto presso lo studio degli stessi, in Milano, via San Barnaba 30


contro


il Comune di C. in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Alessandro Albè ed elettivamente domiciliato presso la Segreteria del T.A.R., in Milano, via del Conservatorio 13


per l’annullamento, previa sospensione,
dell’ordinanza n. 37 del 13 dicembre 2005, notificata il 22 dicembre 2005, mediante la quale il Responsabile del Settore Edilizia e Urbanistica del Comune di C. ha ingiunto al sig. C. di demolire – nonché di ripristinare rispetto all’originare licenza edilizia n. 102 del 1° ottobre 1962 – il tetto dell’edificio di proprietà (sito in C., via del G. ) .

VISTO il ricorso con i relativi allegati;
VISTO l’atto di costituzione in giudizio del Comune di C.;
VISTA la domanda di sospensione del provvedimento impugnato, proposta in via incidentale dal ricorrente;
VISTA l’ordinanza cautelare n. 587/06 del 9 marzo 2006, con cui è stata accolta la suddetta domanda incidentale di sospensione;
VISTE le memorie e documenti prodotti dalle parti a sostegno delle rispettive tesi e difese;
VISTI tutti gli atti di causa;
NOMINATO relatore, alla pubblica udienza del 5 luglio 2007, il Referendario dr. Pietro De Berardinis ed udito lo stesso;
UDITI, altresì, i procuratori presenti delle parti costituite, come da verbale;


RITENUTO in fatto e considerato in diritto quanto segue


FATTO


Il ricorrente, sig. M. C., espone di essere proprietario di un immobile sito nel Comune di C., in via del G., contraddistinto catastalmente al mappale n. X del foglio n. Y ed edificato in forza della licenza di costruzione n. Z del 9 giugno 1962.
Sin dalla sua realizzazione la copertura dell’edificio è stata realizzata in parziale difformità rispetto al titolo a suo tempo rilasciato: in particolare, a fronte della previsione, nella licenza originaria, di un sottotetto a vano unico, con altezza in gronda di circa cm. 50 ed altezza in colmo di cm. 180, a seguito dei lavori di costruzione l’altezza veniva innalzata a circa cm. 130/165 in gronda ed a cm. 220/245 in colmo, ed il sottotetto veniva diviso in più vani.
L’immobile sin dalla sua edificazione riceveva destinazione residenziale e veniva più volte dato in locazione.


Con comunicazione del 21 febbraio 2005 il Comune informava l’esponente dell’avvio del procedimento amministrativo di “verifica della costruzione affittata” al piano mansarda, sul rilievo che l’atto abilitativo dell’edificio (identificato erroneamente, peraltro, nella licenza n. 102 del 1963, corrispondente, invece, alla successiva licenza di abitabilità) non prevedeva la mansarda affittata.


Esperito in data 22 marzo 2005 il sopralluogo da parte del tecnico comunale, il Comune di C., con ordinanza n. 37 del 13 dicembre 2005, a firma del Responsabile del Servizio Edilizia e Urbanistica, dopo aver configurato le opere come eseguite in totale difformità, con più variazioni essenziali al progetto, ha ordinato la demolizione della falda del tetto esistente ed il ripristino del tetto dell’edificio in conformità all’originale licenza edilizia, prescrivendo altresì la realizzazione della nuova copertura a quattro falde (salvo impossibilità di carattere strutturale), come previsto dalla medesima licenza.


Avverso la predetta ordinanza è insorto il sig. C., impugnandola con il ricorso indicato in epigrafe e chiedendone l’annullamento, previa sospensione, per i seguenti motivi:


- violazione e falsa applicazione degli artt. 31 del d.P.R. n. 380/2001 e 3 della l. n. 241/1990, eccesso di potere per difetto di motivazione e carenza dei presupposti, nonché violazione del principio di proporzionalità, in quanto i lavori risalgono al 1962, sicché l’Amministrazione avrebbe dovuto, tenuto conto del lungo intervallo di tempo trascorso, motivare in ordine alle ragioni di interesse pubblico, concreto ed attuale, a supporto del provvedimento impugnato, ciò che invece non ha fatto;
- violazione e falsa applicazione dell’art. 31 della l. n. 1150/1942 ed eccesso di potere per difetto dei presupposti e travisamento dei fatti, nonché carenza di motivazione, in quanto il fabbricato è stato realizzato anteriormente alla definitiva approvazione del primo strumento urbanistico del Comune di C. e quindi, ai sensi dell’art. 31 della l. n. 1150/1942, deve considerarsi rientrante nella cd. attività edilizia libera;
- violazione e falsa applicazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, difetto dei presupposti e violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità, per non avere il Comune fatto applicazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, come invece avrebbe dovuto.


Si è costituito in giudizio il Comune di C., eccependo l’infondatezza del gravame e chiedendone la reiezione, previa reiezione, altresì, dell’istanza cautelare.


Nella Camera di consiglio del 9 marzo 2006 il Collegio, con ordinanza n. 587/06, ha accolto la domanda incidentale di sospensione.


In vista dell’udienza di merito, le parti hanno depositato ciascuna un’ulteriore memoria, a sostegno delle rispettive tesi e difese.


All’udienza del 5 luglio 2007 la causa è stata riservata dal Collegio per la decisione.


DIRITTO


Il ricorso indicato in epigrafe è rivolto avverso l’ordinanza del Comune di C. n. 37 del 13 dicembre 2005, recante ingiunzione all’odierno ricorrente di demolire la falda del tetto dell’edificio di sua proprietà e di ripristinare il tetto stesso, in conformità a quanto dettato nell’originario titolo edilizio.


Con il primo motivo di gravame si deducono la violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 3 della l. n. 241/1990, l’eccesso di potere per difetto di motivazione e carenza dei presupposti e la violazione del principio di proporzionalità.
In particolare, il ricorrente osserva che il preteso abuso contestato riguarda lavori eseguiti al tempo dell’originaria costruzione dell’edificio, nel 1962, mentre il provvedimento gravato è datato 2005; quindi, il Comune è intervenuto a sanzionare la difformità a grande distanza di tempo dalla sua realizzazione.
Ne discende, alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale, che, poiché la constatazione e la sanzione dell’abuso è intervenuta a distanza di molti anni dall’ultimazione dell’opera, avendo l’inerzia del Comune, così a lungo protrattasi, ingenerato un affidamento nel privato nel consolidarsi della sua posizione soggettiva, occorre che l’adozione dell’ordine di demolizione sia supportata dalla specifica indicazione delle ragioni di interesse pubblico, concreto ed attuale, che rendono imprescindibile la rimozione dell’abuso con la demolizione dell’opera abusiva.
Nel caso di specie detta indicazione sarebbe del tutto mancata, non potendo reputarsi idonea ad adempiere all’obbligo motivazionale l’affermazione, contenuta nell’ordinanza impugnata, che “l’opera contrasta con rilevanti interessi urbanistici, la cui destinazione di residenza crea altresì un peso insediativo urbanistico incidendo sull’assetto del territorio”. Secondo il ricorrente, si tratterebbe, infatti, di un’asserzione apodittica, non avendo il provvedimento di demolizione esternato i “rilevanti interessi urbanistici”, né potendo configurarsi un presunto maggior peso insediativo lesivo di tali interessi in ragione dell’abuso sanzionato, atteso che l’abuso si riferisce ad un bilocale di modeste dimensioni, esistente da molti anni. Per di più, la costruzione risulta ubicata alla periferia dell’abitato di Cogliate.
Di qui l’illegittimità del provvedimento impugnato.

Né potrebbe contestarsi la sussistenza di un affidamento del privato per avere quest’ultimo manifestato la volontà di incaricare un professionista di redigere una richiesta di permesso in sanatoria, in quanto siffatta volontà sarebbe emersa solo dopo la comunicazione, da parte del Comune, dell’avvio del procedimento sanzionatorio e solo per addivenire ad una soluzione del problema insorto, che consentisse l’utilizzo dell’immobile come pacificamente avvenuto nel corso di più decenni.


Così esposta la doglianza del ricorrente, osserva il Collegio come la stessa non possa essere condivisa.


In proposito si rileva come in effetti, secondo un risalente orientamento giurisprudenziale, l’ordine di demolizione non necessita di una specifica motivazione sulle ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, salvo che, per il lungo lasso di tempo trascorso, non si sia creata a favore del privato una situazione di fatto del tutto consolidata, per la cui modificazione l’autorità procedente è tenuta ad indicare le ragioni che, a distanza di tempo, giustificano l’adozione del provvedimento sanzionatorio (C.d.S., A.P., 19 maggio 1983, n. 12; Sez. II, 12 maggio 1999, n. 729; più di recente, Sez. V, 29 maggio 2006, n. 3270). Ed a tale orientamento si è uniformato il Collegio, nella fase cautelare del presente giudizio, con l’ordinanza n. 587/06 del 9 marzo 2006, con cui l’istanza incidentale di sospensione è stata accolta proprio sul rilievo della necessità di una specifica motivazione in merito alle ragioni di interesse pubblico attuale, giustificanti l’irrogazione della sanzione (motivazione assente nel caso di specie).
Evidenzia, tuttavia, il Collegio come sussistano ragioni giuridiche (e fattuali) dirimenti per discostarsi, quantomeno nel caso di specie, dall’indirizzo ora esposto e come debba, perciò, essere modificato l’avviso espresso da questo Tribunale con l’ordinanza n. 587/06.
In proposito, si ritiene di dover integralmente aderire alle considerazioni contenute sul punto nella sentenza di questa Sezione n. 190 del 3 febbraio 2003.
Come puntualmente indicato in tale decisione, l’ingiunzione di demolizione è atto vincolato, per il quale il Legislatore ha tracciato in modo analitico il modus agendi del pubblico potere, spogliando l’Amministrazione di ogni autonomia nella valutazione del pubblico interesse, il cui perseguimento è in re ipsa e coincide con il perseguimento della finalità, fatta propria dal Legislatore, di ripristinare la disciplina pubblicistica violata.
La valutazione di prevalenza dell’interesse al rispetto del territorio, nonché delle regole che presiedono alla sua tutela, è stata compiuta dalla l. n. 47/1985 (e poi dal d.P.R. n. 380/2001) con la previsione di sanzioni vincolate quanto ad emanazione e contenuto, espressione di un potere autoritativo, non sottoposto a termini di prescrizione o decadenza, che intende colpire il fenomeno della compromissione del territorio e dei valori ambientali coinvolti. Un potere così connotato induce a ritenere che il Legislatore abbia inteso dare prevalenza all’aspettativa della collettività a vedere rispettate le norme in materia edilizia ed urbanistica, nei confronti dell’aspettativa del contravventore a vedere conservata l’opera abusiva, ancorché realizzata molti anni prima.
La tesi giurisprudenziale, secondo cui vi è l’obbligo dell’Amministrazione di motivare circa le ragioni di pubblico interesse alla demolizione se, per il lungo lasso di tempo trascorso, si sia formato nel privato contravventore, a causa dell’inerzia mantenuta dai pubblici poteri, un affidamento sulla legittimità dell’opera, non è confortata dalla sussistenza di alcuna espressa previsione normativa in tale senso. Al contrario, a siffatta interpretazione sembrano ostare la natura rigidamente vincolata del potere sanzionatorio–repressivo degli abusi edilizi, nonché il dato giuridico per cui la sanzione demolitoria, più che a punire il responsabile dell’abuso, è volta a ripristinare la situazione antecedente alla violazione, ponendo un rimedio ai fenomeni di compromissione del territorio.
Ne discende che il mero decorso del tempo non è sufficiente a far insorgere un affidamento sulla legittimità dell’opera o comunque sul consolidamento dell’interesse del privato alla sua conservazione, né, per conseguenza, ad imporre la necessità di una specifica motivazione in ordine all’esistenza di un interesse pubblico prevalente. Infatti, l’unico interesse, la cui tutela è rimessa dal Legislatore alla sanzione demolitoria, è l’interesse al ripristino dell’assetto del territorio preesistente all’abuso, tipizzato come prevalente dallo stesso Legislatore.
In definitiva, il potere di irrogare delle sanzioni in materia edilizia ed urbanistica può essere esercitato in ogni tempo, posto che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione, né di decadenza, e che riguarda una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra ius. Esso, inoltre, non necessita di specifica motivazione in relazione alla sussistenza dell’interesse pubblico ad irrogare la sanzione, neppure quando l’abuso sia stato commesso parecchi anni prima, non essendo configurabile nessun legittimo affidamento del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto che, in disparte l’idoneità o meno del tempo a consolidarla, rimane contra ius.
Per di più, a sostegno di quanto sin qui detto vi è il confronto tra la sanzione demolitoria in materia edilizia e le sanzioni previste per l’illecito amministrativo dalla l. n. 89/1981.
Infatti, ad escludere la sanzione ex l. n. 689/1981 occorre la buona fede del contravventore, che è desumibile non già dalla semplice inerzia dell’Amministrazione, ma dalla sussistenza di elementi positivi, idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta, e deve, inoltre, risultare che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, in modo che nessun rimprovero possa essergli mosso (Cass. civ., Sez. I, 28 aprile 2006, n. 9862).
Ad escludere la sanzione demolitoria, che prescinde dalla colpa del responsabile dell’abuso ed è ispirata dall’oggettiva necessità di ripristinare la legalità violata, ripristinando l’assetto del territorio preesistente all’abuso, non si può invocare la mera inerzia dei pubblici poteri protratta nel tempo, unitamente alla mancata motivazione, in sede di intervento tardivo, circa l’esistenza di prevalenti interessi pubblici: invero, se la mera inerzia dell’Amministrazione, protratta nel tempo, non basta a provare l’affidamento del privato nella liceità della condotta sanzionata come illecito amministrativo dalla l. n. 689/1981, a maggior ragione non basta a dimostrare nemmeno l’affidamento circa la legittimità dell’opera edilizia colpita dall’ordine di demolizione (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, n. 190/2003 cit.).
Nella fattispecie in esame non risulta comprovato, in aggiunta al cospicuo decorso di tempo, nessun elemento positivo sul quale possa fondarsi la buona fede del ricorrente. Al contrario, emerge dalla documentazione in atti che quest’ultimo è, anche, colui al quale venne rilasciata l’originaria licenza edilizia n. 55 del 9 giugno 1962, rispetto alla quale è stata constatata la difformità nell’esecuzione dei lavori, che ha portato all’ordine di demolizione. Se ne deduce che l’odierno ricorrente era (o quantomeno doveva essere) sin dall’inizio – e cioè a far tempo dall’ultimazione dell’edificio, epoca in cui, secondo la sua stessa ricostruzione, sarebbe stata realizzata la difformità – consapevole del contrasto delle opere eseguite rispetto alla licenza ottenuta: per l’effetto, non è ipotizzabile in capo allo stesso la buona fede, né un affidamento meritevole di tutela.
Non essendovi nessun affidamento da tutelare, non appare pertanto individuabile un obbligo del Comune di motivare con ragioni di interesse pubblico prevalenti, ulteriori rispetto al solo interesse al ripristino della legalità violata, il sacrificio di un tale affidamento.
Da quanto detto si ricava l’infondatezza della censura esaminata, non occorrendo, a tal fine, valutare se il riferimento al contrasto dell’opera con rilevanti interessi urbanistici, contenuto nel provvedimento impugnato, integri o meno una motivazione sufficiente.


Passando al secondo motivo di ricorso, con lo stesso si contestano la violazione dell’art. 31 della l. n. 1150/1942, l’eccesso di potere per difetto dei presupposti e travisamento dei fatti e la carenza di motivazione, giacché le opere difformi sarebbero state realizzate in un periodo nel quale non risultava vigente alcuno strumento urbanistico nel Comune di C. e perciò l’attività edilizia doveva considerarsi libera e non sottoposta ad alcun titolo.
A dire del ricorrente, avendo la licenza edilizia n. 55, rilasciata il 9 giugno 1962, un termine di efficacia di sei mesi, essa avrebbe consumato i propri effetti prima dell’approvazione del primo strumento urbanistico di C. (il Piano di Fabbricazione approvato con decreto del 1963), con la conseguenza che, al tempo dell’ultimazione dell’edificio, per la disciplina della attività edilizia, nel caso de quo, doveva farsi riferimento all’art. 31 della l. n. 1150/1942 (nel testo anteriore alle modifiche apportatevi con la l. n. 765/1967). Secondo tale disposizione, la licenza edilizia occorreva solo nel caso di interventi ricadenti nei centri abitati o nelle zone di espansione dei Comuni dotati di Piano Regolatore. In assenza di Piano Regolatore (come nel caso del Comune di Cogliate), dunque, l’attività edilizia doveva reputarsi libera.
Per conseguenza, con riferimento all’immobile per cui è causa, l’incremento dell’altezza del sottotetto – in difformità dal titolo rilasciato – e la sua destinazione residenziale (verificatasi prima sia dell’approvazione dello strumento urbanistico comunale, sia del 1967) sarebbero conformi alla disciplina all’epoca vigente e, quindi, del tutto legittimi; sarebbe, invece, priva dei presupposti per la sua adozione e perciò viziata sotto il profilo ora in esame, l’impugnata ordinanza di demolizione.
Sia nelle note di udienza depositate nella Camera di consiglio per la discussione dell’istanza cautelare, sia nella memoria depositata in vista dell’udienza pubblica di merito, il ricorrente ha ulteriormente sviluppato tale censura, evidenziando che:
- le opere contestate sarebbero state realizzate nel 1962;
- all’epoca dell’ultimazione dell’edificio l’approvazione di uno strumento urbanistico non era obbligatoria per tutti i Comuni e nondimeno l’art. 34 della l. n. 1150/1942 stabiliva, per i Comuni privi di Piano Regolatore, l’inclusione nel proprio regolamento edilizio di un Piano di Fabbricazione, da approvarsi con decreto interministeriale (Piano che, prima del decreto di approvazione, non poteva comportare limitazioni allo jus aedificandi);
- nel Comune di C. il Piano di Fabbricazione, già adottato all’epoca dell’edificazione dell’immobile, venne approvato solo successivamente, e cioè nel 1963;
- per conseguenza, non essendo ancora conclusa la procedura di approvazione del Piano di Fabbricazione al momento di ultimazione delle opere, l’area di proprietà dell’interessato non sarebbe stata subordinata al rispetto di alcuna disciplina urbanistica e l’attività edilizia non si sarebbe potuta considerare vincolata, anche in ragione del fatto che le misure di salvaguardia di cui alla l. n. 1902/1952 non si applicavano al Piano di Fabbricazione (al quale sarebbero state estese solo con una legge del 1966).


Così esposta la doglianza del ricorrente, osserva il Collegio come essa riceva in primo luogo smentita dalla condotta del ricorrente stesso, il quale ebbe a richiedere, per la costruzione del fabbricato in parola, un’apposita licenza di costruzione, come risulta dal testo della suddetta licenza (cfr. doc. n. 2 allegato al ricorso).


In altri termini, è condivisibile l’affermazione della difesa comunale, secondo cui il fatto che l’odierno ricorrente avesse all’epoca chiesto (ed ottenuto dal Comune) il titolo edilizio per la costruzione dell’immobile indica che, per intervenire nell’area di sua proprietà, occorreva il predetto titolo, il cui contenuto non avrebbe potuto poi essere disatteso.
Ed invero, a parte la questione dell’inidoneità, all’epoca dei fatti, del Piano di Fabbricazione a limitare lo jus aedificandi dell’interessato, in quanto solamente adottato dal Comune e non ancora approvato a livello ministeriale, non può comunque condividersi che l’attività edilizia relativa al fabbricato in parola fosse libera, atteso che, come risulta dalla documentazione in atti, l’art. 3, primo comma, del Regolamento edilizio comunale allora vigente subordinava la costruzione di edifici entro il perimetro del territorio comunale al rilascio di apposita licenza da parte del Sindaco.
Sul punto si precisa che è quindi irrilevante che l’immobile non si trovasse nel centro abitato del Comune di C., atteso che non è contestato che esso fosse comunque situato entro il perimetro del territorio comunale, con il corollario del suo assoggettamento alla disciplina di cui al citato art. 3, primo comma, del Regolamento edilizio.
Ove, pertanto, si volesse accogliere la ricostruzione contenuta nel gravame, secondo la quale l’esecuzione delle opere difformi sarebbe avvenuta al tempo dell’originaria realizzazione del fabbricato, ma dopo la scadenza del termine di efficacia della licenza n. 55/1962, comunque non si potrebbe ammettere che l’attività edilizia eseguita sull’immobile fosse libera, dovendo invece reputarsi che, per essa, occorresse un nuovo titolo (o la proroga di quello rilasciato). Con il che non muta il giudizio sul carattere abusivo dell’intervento realizzato.
Peraltro, nel gravame non si adduce alcun elemento a dimostrazione dell’effettivo svolgersi dei fatti secondo quanto ivi affermato. In particolare, non vi sono elementi che consentano di sostenere che le opere difformi siano state in effetti ultimate dopo la scadenza del termine di efficacia della licenza n. 55 cit. (anche, se, come sopra visto, ciò non muterebbe la soluzione del problema), e non invece sotto la vigenza di questa. E va da sé che in argomento si deve condividere l’affermazione della difesa comunale, secondo cui, una volta ottenuta la licenza di costruzione, il proprietario non poteva disattenderla, violandone il contenuto precettivo, come invece ammette di aver fatto, pur negando la vincolatività del titolo.
Nessuna significatività può poi attribuirsi, nell’ambito della vicenda in esame, al disinteresse che l’ordinamento mostrerebbe per le forme di abusivismo anteriori alla l. n. 765/1967, sia alla luce di quanto prima visto sulla disciplina dettata dall’art. 3 del Regolamento edilizio del Comune resistente, sia in quanto la limitazione del condono agli immobili successivi al 1967, discendente dall’art. 31, ult. comma, della l. n. 47/1985, non ha alcuna valenza di limitazione temporale del potere sanzionatorio-repressivo degli abusi edilizi: potere che, come si è detto più sopra a confutazione del primo motivo di gravame, non è sottoposto ad alcun termine di prescrizione o di decadenza.
In definitiva, anche la censura ora analizzata risulta priva di fondamento.


Venendo, infine, all’esame del terzo motivo di ricorso, con esso si contestano la violazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, il difetto dei presupposti e la violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità, per non avere l’Amministrazione irrogato la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 34 cit., in luogo di quella demolitoria, nonostante ricorressero gli estremi per l’applicazione di detta disposizione.
In particolare, il ricorrente lamenta che il Comune di C. avrebbe omesso di valutare la possibilità di demolire la porzione dell’immobile oggetto dell’abuso senza compromettere gravemente la staticità del piano inferiore, la cui regolare edificazione è indiscussa.
Nel caso di specie, quindi, il provvedimento impugnato sarebbe viziato in quanto il Comune non avrebbe potuto emetterlo senza prima deliberare in merito all’eventuale pregiudizio che l’ottemperanza all’ordine di demolizione avrebbe potuto cagionare alla rimanente parte del fabbricato.
Ne deriverebbe l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 cit., tenuto conto che quest’ultimo si applica se non si può demolire la sola parte del fabbricato realizzata in violazione delle norme poste a salvaguardia del territorio senza pregiudicare la restante parte del manufatto, pur quando la costruzione sia avvenuta in mancanza del titolo. Ciò varrebbe a fortiori per la vicenda in esame, in cui, a ben vedere, sarebbe configurabile una difformità, o comunque una carenza di titolo, solamente parziale.
La doglianza non può essere condivisa.
In proposito, va subito evidenziato che l’ordinanza gravata qualifica l’abuso contestato come opera eseguita in totale difformità rispetto al titolo edilizio. Detta qualificazione – di cui nel ricorso ci si lamenta solo incidentalmente, affermandone il carattere meramente apodittico e immotivato, ma senza elevare tale affermazione a vera e propria censura – è confermata sia dalla ricostruzione dei fatti svolta nello stesso gravame, sia dalla documentazione, soprattutto quella fotografica, versata in atti.
Occorre premettere che è il medesimo ricorrente a chiarire che l’opera difforme è consistita nell’esecuzione di un sottotetto diviso in più vani ed avente un’altezza in gronda di 130/165 cm. ed in colmo di 220/245 cm. (anziché un sottotetto a vano unico, con altezza in gronda di 50 cm. ed in colmo di 180 cm.). Aggiunge, poi, che il manufatto, reso così di fatto abitabile, ha ricevuto sin dall’inizio destinazione residenziale, venendo più volte locato.
Da siffatte asserzioni – del resto coincidenti con il contenuto del verbale prot. n. 3568 del 24 marzo 2005, relativo al sopralluogo del 22 marzo 2005 – risulta confermata la qualificazione dell’abuso effettuata dall’ordinanza gravata (e, nell’ultima memoria, dalla difesa comunale) in termini di opera eseguita in totale difformità dal titolo. Ciò, tenuto conto che l’aumento di altezza ha comportato un aumento del numero di piani, come si evince dalla documentazione fotografica in atti, e che l’aumento di volumetria ha implicato la formazione di un organismo edilizio utilizzabile (ed utilizzato) autonomamente.
Se ne deduce l’applicabilità alla fattispecie non già dell’art. 34, bensì dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, con conseguente infondatezza della doglianza avanzata sul punto nel gravame. Ad identica conclusione, del resto, si perviene ove si voglia qualificare l’abuso in termini di variazione essenziale al progetto approvato, ai sensi dell’art. 54 della l.r. n. 12/2005, poiché ne deriva comunque l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 31 e non dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001.


In definitiva, dunque, il ricorso è infondato e, come tale, va respinto.


Sussistono, comunque, giusti motivi per disporre la compensazione delle spese, considerata l’esistenza, in ordine al primo motivo di ricorso, di indirizzi giurisprudenziali difformi.


P.Q.M.


Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sezione Seconda, così definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge.
Compensa le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.


Così deciso in Milano, dal T.A.R. per la Lombardia, Sezione II,

nella Camera di consiglio del 5 luglio 2007, con l’intervento dei signori magistrati:
MARIO AROSIO Presidente
ALESSIO LIBERATI Giudice
PIETRO DE BERARDINIS Giudice, estensore

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