sabato 15 dicembre 2007

Contratto, silenzio o reticenza, condizioni per annullamento

Cassazione civile , sez. II, sentenza 20.04.2006 n° 9253

La sentenza riafferma che, il dolo omissivo può viziare la volontà e produrre l’annullamento del contratto, quando l’inerzia della parte contraente si inserisca in «un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia e astuzia, a realizzare l’inganno perseguito».

In precedenza, si è affermato che il silenzio sic et simpliciter, anche se serbato su elementi di interesse per la controparte, non costituisce causa di invalidità del contratto. Per essere rilevante a tal fine, deve essere espressione di un atteggiamento che denoti, nel complesso, un’astuzia ed una malizia preordinata a immutare la rappresentazione della realtà dell’altro contraente e non limitarsi a non contrastare la percezione di essa cui quest’ultimo sia pervenuto autonomamente (ex plurimis, Cass. 18.10.1991, n. 11038; Cass. 11.10.1994, n. 8295).

In linea, «la reticenza ed il silenzio non sono sufficienti a costituire il dolo se non in rapporto alle circostanze ed al complesso del contegno che determina l’errore del deceptus, che devono essere tali da configurarsi quali malizia e astuzia volte a realizzare l’inganno perseguito» (così anche Cass. 12.2.2003, n. 21024).

Sicchè, il silenzio e la reticenza non presentano, di per sé, alcuna attitudine ingannatoria, giacché essi si limitano a non contrastare la percezione della realtà, alla quale sia pervenuto il contraente: diventano, invece, causa di annullamento del contratto qualora, uniti alle circostanze e al contegno del decipiens, inducano in errore il deceptus, alterando la sua rappresentazione della realtà.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 20 aprile 2006, n. 9253

(Presidente M. Spadone, Relatore V. Mazzacane)

Svolgimento del processo

Il 10.12.1991 L.A.M. in proprio e quale procuratrice di L.M. e C.M.A. vendeva ad D.A. l'appartamento al piano seminterrato sito in ***, Via ***, avente autonomo accesso dalla strada, contraddistinto con il civico ***.

A seguito di contestazioni insorte con i venditori l'acquirente proponeva nei confronti di questi ultimi dinanzi al Tribunale di Roma tre distinti giudizi successivamente riuniti.

Con il primo il D. deduceva l'esistenza di numerosi vizi dell'immobile, consistenti in particolare nella assoluta mancanza di manutenzione della rete fognaria che aveva provocato, nell'agosto 1993, il crollo del muro di contenimento ed il conseguente smottamento nel proprio giardino di diversi metri cubi di terreno; aggiungeva che le precarie condizioni statiche del manufatto erano state oggetto di un precedente giudizio, risalente al 1987, tra il Condominio confinante di *** e quello di ***, e che quest'ultimo, a seguito del crollo, aveva provveduto ai relativi lavori di ripristino per una spesa complessiva di L. 117.850.000.

Il D. asseriva che le gravi carenze dell'immobile lo avevano reso inidoneo all'uso cui il bene era destinato e comunque avevano pregiudicato il godimento di esso, che i venditori gli avevano dolosamente taciuto la reale situazione del bene e che tale comportamento si configurava da un lato come violazione del dovere di buona fede nello svolgimento delle trattative e dall'altro integrava gli artifici ed i raggiri di cui all'art. 1439 c.c.; sulla base di tali premesse chiedeva la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni subiti, l'annullamento per dolo del Contratto di compravendita o la sua risoluzione ai sensi dell'art. 1492 c.c., o ai sensi dell'art. 1453 c.c..

Con il secondo giudizio il D. proponeva opposizione avverso il decreto emesso il 6.5.1994 con il quale il Presidente del Tribunale di Roma gli aveva ingiunto il pagamento dell'importo di L. 68.765.000 corrispondente al residuo prezzo che l'acquirente si era obbligato a versare ai venditori mediante accollo del mutuo che essi avevano stipulato con la Banca Popolare di Milano; il D. adduceva a sostegno della opposizione le stesse circostanze esposte nel precedente giudizio.

Infine con atto di citazione notificato il 27/29.12.1994 il D. conveniva in giudizio i L. e la C. chiedendone la Condanna al pagamento della somma di L. 18.524.960 versata a titolo di oblazione per sanare gli abusi edili perpetrati dai venditori e chiedendo la declaratoria di nullità del Contratto per incommerciabilità del bene ai sensi della L. n. 47 del 1985 o comunque la sua risoluzione per inadempimento dei venditori.

Si costituivano in tutti i suddetti giudizi i convenuti chiedendo il rigetto delle domande attrici.

Con sentenza del 16.3.1999 l'adito Tribunale respingeva le domande proposte dal D..

Proposto gravame da parte del D. cui resistevano L. A.M., L.M. e C.M.A. la Corte di Appello di Roma con sentenza del 18.9.2001 ha respinto l'impugnazione.

La Corte Territoriale ha rilevato anzitutto che dalla documentazione in atti era risultato che in data 16.2.1961 anche in relazione all'unità immobiliare sita al piano seminterrato dell'edificio, all'epoca destinata ad uso ufficio, era stato rilasciato il certificato di abitabilità; tale circostanza, secondo l'assunto del Giudice di Appello comportava l'irrilevanza della diversa destinazione (deposito) prevista nel progetto approvato, cosicchè ad essa doveva farsi riferimento al fine di valutare le conseguenze derivanti dalla intervenuta utilizzazione del bene ad uso abitativo; orbene, poichè il mutamento in questione non era stato accompagnato dalla esecuzione di specifiche opere, doveva concludersi per l'inesistenza sotto questo profilo, della nullità L. n. 47 del 1985, ex articoli 17 e 40.

La Corte Territoriale ha poi aggiunto che l'incommerciabilità del bene ai sensi della L. n. 47 del 1985 doveva essere esclusa anche per quanto concerneva l'intervenuto frazionamento, posto che non era emerso che la realizzazione di due distinte unità immobiliari fosse stata eseguita in epoca successiva al 2.9.1967, considerato che solo in tale evenienza ai sensi dell'art. 40 della legge menzionata l'atto avrebbe dovuto richiamare gli estremi del provvedimento amministrativo.

La sentenza impugnata inoltre ha confermato altresì il rigetto della domanda di annullamento della compravendita stipulata tra le parti sia sotto il profilo di cui all'art. 1439 c.c. sia come dolo incidente, osservando da un lato che non poteva ritenersi che il silenzio tenuto dai venditori in merito alla denuncia di danno temuto proposta nei confronti del Condominio di *** dal confinante Condominio di *** svariati anni prima della conclusione del Contratto di compravendita fosse stato intenzionalmente diretto a trarre in inganno l'acquirente in ordine alle condizioni dell'immobile, e dall'altro che l'appellante non aveva indicato alcuno specifico elemento dal quale potesse desumersi che l'eventuale conoscenza della circostanza avrebbe influito sulla determinazione volitiva del D..

Per la cassazione di tale sentenza il D. ha proposto un ricorso affidato a sette motivi cui L.A.M. ed C.A. hanno resistito con controricorso; L.M. non ha svolto attività difensiva in questa sede; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione degli articoli 1453 - 1460 1476 - 1477 c.c.; L. n. 47 del 1985, artt. 17 e 40 nonchè vizio di motivazione.

Con il secondo motivo il D.deduce violazione dell'art. 116 c.p.c. e vizio di motivazione.

Con le enunciate censure il ricorrente sostiene che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che, premessa la destinazione ad uso ufficio dell'immobile per cui è causa, la sua effettiva utilizzazione ad uso abitativo non era stata accompagnata dall'esecuzione di specifiche opere rilevanti ai fini di una declaratoria di nullità L. n. 47 del 1985, ex articoli 17 e 40 ed aggiunge che neppure può essere condiviso l'assunto in ordine alla commerciabilità del bene suddetto nonostante l'avvenuto frazionamento.

Il D. rileva in senso contrario che dalla espletata Consulenza Tecnica di Ufficio erano emersi abusi edilizi consistenti nel frazionamento, nel cambio di destinazione d'uso con esecuzione di opere e nell'aumento di superficie utile e di cubatura; inoltre il Giudice di Appello non ha valutato le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio formale dalle convenute C.M.A. ed L.A., le quali avevano ammesso che l'immobile per cui è causa e l'appartamento soprastante erano stati uniti negli anni 70 con una scala interna successivamente eliminata, cosicchè i due appartamenti erano stati divisi ed abitati separatamente con la costruzione di una scala esterna.

Le enunciate censure, da esaminare contestualmente, sono infondate.

Anzitutto la sentenza impugnata, pur dando atto dell'intervenuto mutamento di destinazione dell'immobile in questione rispetto a quella prevista nel progetto approvato (deposito) e della effettiva utilizzazione dello stesso ad abitazione, ha rilevato che tale mutamento non era stato accompagnato dalla esecuzione di opere specifiche, ed ha aggiunto, sulla scia di quanto già affermato dal Giudice di primo grado, che non poteva escludersi che l'aumento di cubatura riscontrato dal Consulente Tecnico d'Ufficio fosse riconducibile allo stesso D., che aveva realizzato cospicui lavori di ristrutturazione del bene; contrariamente all'assunto del ricorrente, quindi, il Giudice di Appello ha preso in esame gli elementi emergenti dalla Consulenza Tecnica d'Ufficio, ma li ha diversamente valutati offrendo una logica motivazione di tale convincimento.

La Corte Territoriale ha inoltre escluso una incommerciabilità dell'immobile L. n. 47 del 1985, ex art. 40, per effetto dell'intervenuto frazionamento, rilevando in proposito l'assenso di una prova in ordine alla realizzazione di due distinte unità immobiliari in epoca successiva al 2.9.1967, ed evidenziando invece la circostanza che alla data del 6.5.1970 l'appartamento al piano internato e quello sovrastante già costituivano due distinte unità immobiliari, come tali indicate nell'atto di acquisto concluso dai L. con la venditrice R.; pertanto tale ultima considerazione, non oggetto di specifica censura in questa sede, ha implicitamente indotto la Corte Territoriale a ritenere irrilevanti altri elementi di eventuale segno contrario, in conformità del principio secondo cui spetta al Giudice di merito attingere il proprio convincimento da quelle risultanze probatorie che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso; al riguardo è sufficiente, al fine della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti considerati nel loro complesso, pur senza una esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati o non accolti anche se allegati, perchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, a quelli utilizzati, come appunto nella fattispecie.

Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione dell'art. 1460 c.c. nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto, sulla base dell'avvenuto rilascio nel 1961 di un certificato per la destinazione ad uso ufficio dell'immobile per cui è causa, che in realtà tale certificato consentisse l'uso del bene come casa di abitazione.

Il ricorrente assume invece che si era in presenza della avvenuta vendita di un bene destinato ad uso ufficio e non ad abitazione, come pattuito, circostanza che integrava la vendita di aliud pro alio o, in ogni caso, legittimava una eccezione ex art. 1460 c.c., invero regolarmente sollevata dall'esponente a seguito della opposizione a decreto ingiuntivo di cui al secondo dei tre giudizi sopra menzionati e successivamente riuniti.

La censura è fondata.

Il Giudice di Appello, nell'aderire al convincimento del Tribunale di Roma, che aveva rigettato la domanda proposta dal D. di risoluzione della compravendita stipulata tra le parti per la mancata consegna della licenza di abitabilità, ha ritenuto che la accertata destinazione ad uso ufficio a far data dal 16.2.1961 dell'immobile in questione costituiva la prova dell'avvenuto rilascio del certificato di abitabilità.

Orbene tale affermazione non può essere condivisa in quanto la ritenuta equivalenza tra destinazione di un immobile ad uso ufficio e destinazione ad uso abitativo contrasta con lo scopo peculiare della licenza di abitabilità nella vendita di immobili destinati ad abitazione, costituendo un elemento che caratterizza il bene in relazione alla sua capacità di assolvere una determinata funzione economico - sociale e, quindi, di soddisfare i concreti bisogni che hanno indotto l'acquirente ad effettuare l'acquisto (Cass. 20.1.1996 n. 442), non vi è dubbio quindi che il certificato di abitabilità, in relazione alla sua evidenziata funzione, assicura il legittimo godimento e la commerciabilità del bene destinato ad abitazione (e non quindi ad uso ufficio), cosicchè la sua mancata consegna, determinando l'acquisto di un bene che presenta problemi di commerciabilità, implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo alla risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile (Cass. 19.7.1999 n. 7681); nè a diverse conclusioni può giungersi sulla base del rilievo del Giudice di primo grado, cui la Corte Territoriale sembra aver aderito, della concreta utilizzazione del bene ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari e dello stesso D., posto che tale circostanza è irrilevante (vedi in tal senso Cass. 3.7.2000 n. 8880), non incidendo sulla ridotta commerciabilità dell'immobile.

Con il quarto motivo il ricorrente, deducendo violazione degli articoli 1439 e 1440 c.c., nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver respinto la domanda di annullamento del Contratto di vendita stipulato tra le parti per dolo.

Il D. afferma che tale domanda era basata su tre diverse circostanze, poichè i venditori avevano taciuto l'esistenza di un contenzioso sorto prima del 1981 con il Condominio confinante riguardante la pericolosità del muro di confine successivamente crollato, l'esecuzione di opere abusive e l'avvenuto rilascio della licenza di abitabilità solo per uso ufficio, si era quindi in presenza di un illecito comportamento dei venditori diretto a trarre in inganno l'acquirente, determinandolo a porre in essere una attività negoziale che, senza il dolo, non avrebbe compiuto o avrebbe compiuto a condizioni diverse.

La censura è infondata.

Il Giudice di Appello, nel disattendere la domanda proposta dal D. ex articoli 1439 e 1440 c.c., ha escluso che il silenzio tenuto dai venditori in merito alla denuncia di danno temuto proposta nei confronti del Condominio di Via *** dal confinante Condominio di *** diversi anni prima della conclusione del Contratto di compravendita stipulato tra le parti fosse stato intenzionalmente diretto a trarre in inganno l'acquirente in ordine alle condizioni dell'immobile, ed inoltre ha aggiunto che l'appellante non aveva indicato alcun elemento specifico dal quale potesse desumersi che l'eventuale conoscenza della menzionata circostanza avrebbe influito sulla determinazione volitiva del D.; a tale riguardo la sentenza impugnata ha anzi evidenziato che una simile conseguenza appariva in contrasto con il cospicuo valore attribuito all'immobile nel Contratto, destinato ad essere limitatamente inciso da eventuali lavori che fossero stati eseguiti sul muro condominiale al fine di assicurarne la stabilità.

Orbene tali rilievi, non oggetto di specifiche censure da parte del ricorrente, sono decisivi soprattutto per quanto attiene alla mancata deduzione da parte dell'appellante di alcun elemento concreto dal quale potersi evincere che, qualora egli avesse conosciuto le sopra evidenziate circostanze, non avrebbe concluso il Contratto o avrebbe comunque preteso di stipulare a condizioni diverse.

In linea di diritto deve invero assumersi che, pur potendo il dolo omissivo viziare la volontà e determinare l'annullamento del Contratto, tuttavia esso rileva a tal fine solo quando l'inerzia della parte contraente si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia od astuzia, a realizzare l'inganno perseguito;

pertanto il semplice silenzio, anche su situazioni di interesse della controparte, e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione di essa alla quale sia pervenuto l'altro contraente, non costituiscono causa invalidante del Contratto (Cass., 18.10.1991 n. 11038; Cass. 11.10.1994 n. 8295); la reticenza ed il silenzio quindi non sono sufficienti a costituire il dolo se non in rapporto alle circostanze ed al complesso del contegno che determina l'errore del "deceptus", che devono essere tali da configurarsi quali malizia o astuzia volte a realizzare l'inganno perseguito (Cass. 12.2.2003 n. 2104).

Orbene nella fattispecie il D., cui incombeva il relativo onere probatorio, non ha dedotto tutti gli elementi necessari ad integrare il preteso dolo omissivo dei venditori con riferimento sia al contesto sopra evidenziato nel quale il silenzio da essi tenuto avrebbe dovuto inserirsi per essere rilevante, sia alla idoneità del silenzio stesso sulle circostanze sopra dedotte dal ricorrente ad incidere sulla determinazione volitiva dell'acquirente.

Con il quinto motivo il ricorrente, denunciando violazione degli articoli 1490 - 1492 - 1494 e 1495 c.c. nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di garanzia per i vizi che caratterizzavano l'immobile, non avendo considerato che la denuncia di tali vizi, essendo essi occulti, non era necessaria, e che l'azione relativa era stata tempestivamente esercitata il 17.2.1994.

La censura è infondata.

La Corte Territoriale ha rigettato il motivo di appello al riguardo proposto dal D. sulla base del rilievo dell'avvenuta maturazione del termine annuale di prescrizione, decorrente dalla consegna della casa, entro il quale deve essere esercitata l'azione di garanzia per i vizi, posto che la consegna dell'immobile era avvenuta il 10.12.1991 contestualmente alla stipula dell'atto di compravendita, e la suddetta azione era stata proposta allorchè il suddetto termine era ampiamente trascorso.

Orbene tale "ratio decidendi" sufficiente a sorreggere il convincimento espresso dal giudice di Appello, non è stata specificatamente censurata in questa sede, cosicchè il motivo in esame deve essere disatteso.

Con il sesto motivo il ricorrente, deducendo violazione degli articoli 1490 - 1492 - 1494 c.c. e L. n. 47 del 1985, art. 31, comma 3, nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver inspiegabilmente rigettato la domanda di rimborso delle spese sostenute per ottenere la sanatoria di alcune opere abusive eseguite dai venditori sull'immobile per cui è causa.

La censura è inammissibile.

Come emerge dalla sentenza impugnata, il Giudice di primo grado aveva rigettato la domanda suddetta per la mancanza di prove in ordine alla realizzazione di opere abusive da parte dei venditori nell'appartamento in questione; orbene, pur avendo il D. con l'atto di appello chiesto la condanna delle controparti al rimborso per la evidenziata causale della somma di L. 13.507.200 (vedi conclusioni riportate nella epigrafe della sentenza impugnata), la Corte Territoriale non si è pronunciata al riguardo; tuttavia il ricorrente con il motivo in esame non denuncia in proposito la violazione dell'art. 112 c.p.c., ma deduce inammissibilmente l'omessa motivazione sul mancato accoglimento della domanda, in realtà non esaminata dal Giudice di Appello.

Con il settimo motivo il ricorrente, deducendo violazione dell'art. 96 c.p.c. e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver condannato l'esponente al pagamento delle spese di giudizio in misura eccessiva e punitiva.

Il motivo resta ambito per effetto dell'accoglimento del terzo motivo di ricorso.

In definitiva, quindi, all'esito dell'accoglimento del terzo motivo di ricorso la sentenza impugnata deve essere cassata, e la causa deve esser rinviata per un nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma che provvederà anche alla pronuncia sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, dichiara assorbito il settimo e rigetta tutti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2005.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2006.

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