mercoledì 17 ottobre 2007

Prescrizione reati di competenza del Giudice di Pace, tre anni oltre eventuali nove mesi


Tribunale Grosseto, sez. Orbetello, sentenza 24.05.2007


Termine triennale previsto per i reati puniti con pene diverse da quelle detentive e pecuniarie per i reati di competenza del Giudice di Pace [art. 157, co. 5°, c.p.]


I reati puniti alternativamente con pena pecuniaria e pene paradetentive, sono soggetti all'applicazione della nuova disposizione contenuta nel comma quinto dell’art. 157 c.p. che stabilisce il termine ordinario di prescrizione in anni tre.





Tribunale di Grosseto

Sezione di Orbetello

Sentenza 24 maggio 2007

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Gli imputati erano citati a giudizio dinanzi a questo Tribunale competente per rispondere dei reati di cui in epigrafe.

Si costituiva regolarmente in giudizio la parte civile chiedendo di essere integralmente risarcita dei danni conseguenti alle condotte illecite poste in essere a suo discapito dall’imputato

Questo giudice, subentrato nel ruolo al precedente magistrato, all’udienza del 24.5.2007 decideva la causa come da dispositivo di cui era data lettura in udienza.

2. I reati sono prescritti.

I delitti contestati rientrano tra quelli indicati dall’art. 4, comma primo, lett. a), d.lgs. n. 274 del 2000, ma la competenza appartiene a questo Tribunale in composizione monocratica trattandosi di fatti commessi anteriormente al 2 gennaio 2002 (v.art. 64, co. 1). Tuttavia, debbono essere applicate le sanzioni previste per i reati di competenza del giudice di pace, stante il combinato disposto di cui agli artt. 63 e 64, comma secondo, primo periodo, d.lgs. cit.

In particolare, in relazione alle sanzioni originariamente previste per i reati contestati (art. 582, co. 1, e 635, co. 1, c.p.) è applicabile il trattamento sanzionatorio stabilito dall’art. 52, co. 2, lett. a), secondo periodo (pena pecuniaria o pena del lavoro di pubblica utilità o pena della permanenza domiciliare).

2.1. Orbene, l’art. 157, comma quinto, c.p., come sostituito dall’art. 6 legge n. 251/05, prevede la prescrizione triennale quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria.

I primi commentatori hanno subito evidenziato i problemi relativi all’esatta delimitazione del campo applicativo della norma.

Preso atto del silenzio dei lavori parlamentari sul punto, l’attenzione è stata accentrata sui reati di competenza del giudice di pace, in relazione alle sanzioni della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità (v. artt. 52 e ss. d.lgs. n. 274/00).

Tali sanzioni, in effetti, sono diverse dalle pene ordinarie di natura detentiva e pecuniaria, per cui è ravvisabile l’unico presupposto applicativo contemplato dalla disposizione di cui al nuovo art. 157, comma quinto, c.p., rappresentato per l’appunto dalla punibilità del reato per cui si procede con pene diverse da quelle tipiche.

Vi è, in realtà, chi ha obiettato che la disposizione de qua non può trovare applicazione in ordine alle pene applicabili dal giudice di pace stante il disposto di cui all’art. 58, comma primo, d.lgs. cit., in cui si stabilisce che per ogni effetto giuridico le pene dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria.

Tale obiezione, però, non appare condivisibile.

La norma di cui all’art. 58, infatti, prevede soltanto un’assimilazione quanto agli effetti giuridici, finendo però in tal modo per rimarcare, anziché per negare, la diversa natura giuridica delle pene applicabili dal giudice di pace rispetto alle ordinarie pene detentive.

Il legislatore del 2005, emulando quello del 1981 (v. art. 57 legge n. 689/81), ha dettato una norma di chiusura del sistema con l’intento di colmare i vuoti normativi che possono insorgere ogni qualvolta si debba fare applicazione di una disciplina dettata per le sole pene ordinarie (e non anche specificatamente per quelle diverse applicabili nei reati di competenza del giudice di pace). In effetti, il sistema giuridico penale è costruito attorno alle sanzioni ordinarie (di natura pecuniaria e detentiva) per cui ogni qualvolta viene prevista una sanzione differente da quella tipica si pongono problemi di coordinamento con i diversi istituti giuridici, e di qui l’esigenza di una norma di chiusura come quella richiamata. Tale disposizione, però, lungi dal produrre un’equiparazione tra le pene paradentive e quelle detentive ordinarie, ha semplicemente natura suppletiva, nel senso che è applicabile tutte le volte in cui per un determinato effetto giuridico non sia ravvisabile una disciplina specifica dettata proprio in relazione alle pene diverse da quelle ordinarie.

Pertanto, la stessa disposizione non elimina affatto la diversità tra la sanzione atipica e quella detentiva ordinaria.

D’altra parte, quest’ultima conclusione trova sostegno anche in alcune disposizioni della stessa disciplina che regola il processo dinanzi al giudice di pace. Così, l’art. 56 d.lgs. cit. esclude la configurabilità del reato di evasione ex art. 385 c.p. in caso di violazione delle medesime pene atipiche, a dimostrazione del fatto che l’equiparazione tra le pene suddette è ammissibile solo in difetto di una disposizione speciale.

Analogamente, la non sospendibilità, ai sensi dell’art. 60 d.lgs. cit., delle pene applicate dal giudice di pace (ivi comprese quelle del lavoro di pubblica utilità e della permanenza domiciliare), deve giustificarsi anche in relazione alla diversità tra le pene c.d. paradentive e quelle detentive ordinarie, posto che, diversamente, cioè laddove si volesse ravvisare una perfetta equiparazione tra di esse, si prospetterebbe probabilmente una questione di legittimità costituzionale della disposizione indicata.

Si può allora concludere che l’art. 58 d.lgs. cit. non consente di affermare che le pene atipiche in questione sono pene detentive, trattandosi invece di pene diverse da quelle ordinarie, con la conseguenza che la stessa disposizione non è di per sé d’ostacolo alla applicabilità del nuovo art. 157, comma quinto, c.p. ai reati di competenza del giudice di pace in quanto quest’ultima si pone come norma speciale prevalente.

Così, correttamente la suprema Corte, prima dell’entrata in vigore della legge n. 251/05, ha affermato con orientamento consolidato che ai fini della determinazione del tempo necessario per la prescrizione dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, puniti con la pena pecuniaria o, in alternativa, con le sanzioni c.d. paradetentive, si doveva aver riguardo alla disciplina delle pene detentive ordinarie in virtù della disposizione di cui all’art. 58 d.lgs. cit. (v., per tutte, Cass.pen., sez. IV, 22.4.2004, n. 18640).

Tale orientamento, però, non può più essere invocato dopo la novella legislativa in esame, in quanto la norma di cui al nuovo art. 157, comma quinto, quanto agli effetti della determinazione del tempo necessario a prescrivere, assume i connotati di norma speciale prevalente rispetto alla disposizione generale di cui all’art. 58 d.lgs. cit. Ed infatti la suprema Corte, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del nuovo articolo codicistico sull’evidente assunto del superamento dell’art. 58 cit. quanto agli effetti della individuazione dei termini di prescrizione (v. ord. n. 29786 del 31.8.2006, su cui si tornerà più avanti).

Sotto altro profilo e sempre ai fini della individuazione del campo applicativo della disposizione in esame, è opportuno osservare che le pene diverse in questione, a differenza delle sanzioni sostitutive previste dalla legge n. 689/81, non sono applicabili alternativamente alla pena detentiva ordinaria, in quanto quest’ultima sanzione non è mai applicabile ai reati di competenza del giudice di pace. La mancanza di tale discrezionalità porta quindi a considerare le pene diverse come pene dirette (unitamente a quelle pecuniarie).

A favore della tesi che qui si sostiene milita anche un argomento di natura logica-sistematica, in quanto si deve ritenere che il legislatore abbia voluto prevedere un termine di prescrizione più breve per i reati di competenza del giudice di pace, non solo in relazione alla minore gravità degli stessi, ma anche in considerazione della durata più breve delle indagini preliminari riguardo a tali procedimenti (v. art. 16 d.lgs. cit.). Secondo una certa ricostruzione, infatti, la ratio della disciplina della prescrizione dei reati risponde alla finalità sostanziale costituita dalla durata ragionevole del processo penale (v. Cass.pen, sez I, n. 172803/86), e tale impostazione risulta ancor più convincente a seguito della modifica dell’art. 111 Cost. apportata dalla legge cost. n. 2 del 1999. Ne deriva che appare conforme a logica ritenere che il legislatore del 2005 abbia voluto stabilire un termine di prescrizione più breve in ordine ai reati assoggettati ad una disciplina procedimentale più celere e snella, qual è quella riservata ai reati de quibus.

Infine, può essere addotto un ulteriore argomento poggiante su una regola ermeneutica di conservazione della disposizione di legge, secondo cui la norma giuridica deve interpretarsi nel senso in cui possa avere qualche applicazione, anziché in quello secondo cui non ne avrebbe alcuna. Ebbene, coloro che sostengono la non applicabilità della disposizione di cui al comma quinto del nuovo art. 157 c.p. ai reati di competenza del giudice di pace sono costretti a riconoscere che la stessa norma non risulta applicabile ad altre fattispecie penali, per cui appare preferibile l’interpretazione che le riconosce un suo ambito applicativo.

Sotto altro profilo, c’è chi ha osservato, argomentando principalmente dal dato letterale, che la norma de qua si applica nelle ipotesi in cui il reato risulti punibile esclusivamente con pene diverse e non anche nei casi in cui la pena diversa sia applicabile in via alternativa rispetto a quella pecuniaria. Muovendo da tale premessa, si è quindi osservato che la stessa disposizione non potrebbe comunque trovare applicazione in ordine ai reati di competenza del giudice di pace in quanto, relativamente a questi ultimi, le pene diverse non sarebbero mai previste come pene principali esclusive, bensì sempre come alternative alla pena pecuniaria, con la conseguenza che il termine necessario a prescrivere dovrebbe comunque determinarsi con riferimento al regime previsto per le pene pecuniarie (nuovo art. 157, comma primo).

Quest’ultima osservazione non è condivisibile perché poggia su un assunto erroneo, in quanto non tiene conto dell’art. 52, comma terzo, d.lgs. cit., che prevede che nei casi di recidiva reiterata infraquinquennale si deve applicare la pena della permanenza domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilità, salvo che siano ritenute prevalenti o equivalenti le circostanze attenuanti.

Rispetto a quest’ultima clausola, si è tentato di individuarvi un argomento a favore della tesi opposta a quella che qui si sostiene, mediante l’osservazione che non si potrebbe affermare (neppure rispetto alla ipotesi del recidivo reiterato infraquinquennale) che la pena paradentetiva sia prevista in via edittale per la fattispecie di reato, in quanto la sua concreta applicazione dipenderebbe, oltre che dalla recidivanza qualificata, dal tenore della contestazione, dalla sussistenza di eventuali circostanze attenuanti e dall’esito del giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p.

L’argomentazione non è condivisibile.

Si osserva, infatti, che il nuovo art. 157 c.p. stabilisce che il tempo necessario a prescrivere si determina senza tener conto delle circostanze attenuanti e delle aggravanti, fatta eccezione per le aggravanti per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto (comma secondo). Inoltre, il successivo terzo comma stabilisce che non si deve tener conto del giudizio di comparazione ex art. 69 c.p.

Ciò significa che in caso di contestazione della recidiva reiterata infraquinquennale in ordine ad un reato di competenza del giudice di pace, diverso da quelli di cui al comma primo ed al comma secondo, lett. a), primo periodo, dell’art. 52 (stante il disposto di cui al comma quarto), il tempo necessario a prescrivere deve essere determinato con esclusivo riferimento alle pene principali della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità. Infatti, da un lato deve tenersi conto del trattamento sanzionatorio riservato alla ipotesi di contestazione della recidiva reiterata infraquinquennale in quanto si tratta di circostanza aggravante per cui viene prevista una pena diversa da quella ordinaria (nuovo art. 157, comma secondo) e, dall’altro, non può tenersi conto della prevalenza o della equivalenza con le attenuanti (stante il divieto di cui al comma terzo), con la conseguenza che, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, si deve aver riguardo, in questi casi, solo alle pene diverse, anche nella ipotesi in cui il giudice, in sede di decisione, ritenga di dichiarare la equivalenza o la prevalenza delle attenuanti.

Risulta, pertanto, confutata l’obiezione secondo cui i reati devoluti alla competenza del giudice di pace non sarebbero mai puniti con la sola pena paradentiva, in quanto si è dimostrato che in ordine alle fattispecie più gravi di competenza del giudice di pace, in cui sia stata contestata la recidiva reiterata infraquinquennale, si deve fare riferimento, al fine di valutare il termine di prescrizione, esclusivamente alle pene paradetentive (non potendosi tener conto neppure dell’esito del bilanciamento ex art. 69 c.p.).

Alla luce di tali considerazioni, si deve affermare che la nuova disposizione di cui all’art. 157, comma quinto, c.p. si riferisce al trattamento sanzionatorio dei reati di competenza del giudice di pace.

Tale conclusione è stata condivisa dalla suprema Corte con l’ordinanza n. 29786 del 31.8.2006, con cui è stata proposta questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 157, co. 5, c.p. nella parte in cui prevede il termine di anni tre per i reati puniti con pene diverse da quelle ordinarie, muovendosi evidentemente dall’assunto della applicabilità della nuova disposizione proprio ai reati di competenza del giudice di pace.

Non sono, invece, condivisibili le conseguenze che la suprema Corte fa derivare dalla medesima disposizione in punto di non manifesta infondatezza della questione.

A parere del giudice rimettente, infatti, la disciplina vigente (che prevede il termine di quattro o sei anni in caso di reato punito con la sola pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 159, co. 1, e di tre anni nei casi di reati puniti anche con le pene paradetentive) risulta “priva di razionalità intrinseca e tale da vulnerare, ad un tempo, il principio di ragionevolezza ed il canone di uguaglianza (…) giacché l’evidente aporia normativa che con essa si introduce nel sistema non può giustificarsi alla luce di nessun valore, esigenza o ratio essendi intrinseca alla intera disciplina che il legislatore ha intesto novellare”.

Simile ragionamento non può essere condiviso per una duplice ragione.

Anzi tutto, la questione – così come proposta dal giudice di legittimità – introduce la problematica della sindacabilità costituzionale delle norme penali di favore.

A tal riguardo, non può non essere richiamata la recente sentenza della Corte costituzionale (n. 394 del 2006) che ha affrontato in maniera compiuta la problematica suddetta, offrendo preziosi spunti sia in ordine al principio della riserva di legge quale limite alle pronunce di incostituzionalità in malam partem sia relativamente al concetto di norma penale di favore. Molto sinteticamente, a giudizio della Corte il principio della riserva di legge non può ritenersi violato nei casi di norme penali di favore, espressione quest’ultima che denota l’insieme di “norme che sottraggono una determinata classe di soggetti o di condotte dall’ambito applicativo di un’altra norma comune o comunque più generale (nel senso di maggiormente comprensiva) accordandogli un trattamento privilegiato”. Non sono, invece, norme penali di favore quelle che “delimitano l’area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di reato”.

Ebbene, a modesto avviso di questo giudice, la disposizione di cui all’art. 159, co. 5, c.p. non può ricondursi alla categoria delle norme penali di favore.

Tale disposizione, infatti, si riferisce ad un trattamento sanzionatorio (le pene diverse da quelle detentive e pecuniarie) rispetto al quale non esiste una disciplina generale.

Se è vero, infatti, che il legislatore del 2005 ha scelto di stabilire i nuovi termini minimi di prescrizione facendo riferimento, rispettivamente, ai delitti ed alle contravvenzioni e non già, come nel regime previgente, con riferimento al tipo di pena ordinaria prevista, è altrettanto vero che anche nel nuovo regime la disciplina del tempo necessario a prescrivere continua a fare perno sulla distinzione tra pena detentiva e pena pecuniaria. Così, ad esempio, il comma quarto – analogamente a quello previgente – stabilisce la prevalenza della pena detentiva su quella pecuniaria in caso di trattamento congiunto. Va da sé, allora, che le fattispecie criminose punite con pene diverse da quelle ordinarie, così come non erano disciplinate dalla vecchia disciplina, continuerebbero a difettare di esplicita previsione in assenza del nuovo comma quinto. Si pensi proprio ai reati di competenza del giudice di pace in cui le pene paradetentive sono previste alternativamente a quelle pecuniarie: in questi casi, in assenza del comma quinto, si porrebbe la questione di come risolvere il rapporto fra le diverse sanzioni, in quanto il comma quarto, che disciplina la relazione tra la pena detentiva e quella pecuniaria, non potrebbe essere invocato stante l’evidente differenza tra la prima e la pena paradentiva. Né varrebbe invocare l’art. 58 cit., in quanto si dovrebbe ripetere che tale norma costituisce solo una disposizione suppletiva deputata a risolvere problemi di coordinamento e non già a dettare una disciplina generale in materia di prescrizione. Oltre tutto, la stessa problematica insorgerebbe ogni qualvolta venisse introdotta una nuova ipotesi di reato punita con pena diversa, rispetto alla quale non potrebbe essere invocata la norma di cui all’art. 58 che si riferisce solo alle pene paradetentive previste dal d.lgs. n. 274/2000, e ciò costituisce la riprova della affermazione di partenza, vale a dire che la norma contenuta nel quinto comma del nuovo art. 157 c.p. non sottrae determinate ipotesi dalla applicazione della disciplina generale, ma piuttosto concorre al completamento della normativa del tempo necessario a prescrivere. Ne segue che la stessa non può essere ricondotta alla categoria delle norme penali di favore.

Ma, come si anticipava in precedenza, la questione proposta dalla suprema Corte non appare fondata neppure nel merito.

La previsione di un termine di prescrizione più breve per i reati di competenza del giudice di pace, infatti, non introduce un trattamento privilegiato sprovvisto di ogni giustificazione.

In primo luogo, i reati de quibus risultano di minore gravità, per cui è ragionevole supporre che si tratti anche di fattispecie criminose che necessitano di indagini meno complesse. D’altra parte, come già rilevato precedentemente, tale ultima conclusione sembra trovare conferma nella previsione della minor durata delle indagini preliminari rispetto agli stessi reati (v. art. 16 d.lgs. n. 274/2000). Si è già richiamato in precedenza l’assunto giurisprudenziale secondo cui la ratio della disciplina della prescrizione dei reati risponde alla finalità sostanziale costituita dalla durata ragionevole del processo penale (v. Cass.pen, sez I, n. 172803/86, e le ulteriori considerazioni che potrebbero essere aggiunte oggi alla luce del nuovo art. 111 Cost.), per cui non è affatto irragionevole la scelta del legislatore di aver indicato un termine più breve di prescrizione in ordine a quei reati rispetto ai quali è prevista una minore durata delle indagini preliminari. Incongrua, semmai, sarebbe risultata la scelta diversa (cui si perverrebbe in caso di accoglimento della questione di legittimità costituzionale nei termini esposti dalla suprema Corte), in quanto non si comprenderebbe perché mai, in questi casi, il giudice dibattimentale dovrebbe poter contare su un maggior lasso di tempo per concludere i processi.

Si ritiene, pertanto, che la previsione di un termine più breve di prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace non risulti affatto ingiustificata, ma anzi si presenti come una scelta congrua in relazione alla disciplina procedimentale riservata agli stessi reati.

Vero è che l’attuale regime normativo difetta di ragionevolezza in un senso opposto a quello suggerito dal giudice di legittimità, in quanto l’aporia normativa è ravvisabile nel fatto che il termine più breve di prescrizione è applicabile solo alle ipotesi di reati puniti alternativamente con pena pecuniaria e pena paradetentiva, e non anche ai casi di reati (di competenza del giudice di pace) punito solo con la pena pecuniaria, in quanto in quest’ultima evenienza appare obbligata l’applicazione del primo comma dell’art. 157 c.p.

Questo giudice, difatti, in altri procedimenti aventi per oggetto reati rientranti tra quelli di cui all’art. 4 d.lgs. cit. (ma appartenenti alla competenza del tribunale ratione temporis) puniti con la sola pecuniaria ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost. nel senso inverso a quello proposto dalla suprema Corte, ritenendo cioè illegittima la previsione del termine minimo di sei e quattro anni (rispettivamente, per i delitti e le contravvenzioni di competenza del giudice di pace) anziché di anni tre.

Nel presente giudizio, tuttavia, trattandosi di reati puniti alternativamente con pena pecuniaria e pene paradetentive, la questione suddetta non rileva, in quanto può farsi applicazione della nuova disposizione contenuta nel comma quinto dell’art. 157 c.p. che stabilisce il termine di prescrizione in anni tre.

Da ultimo, va ribadito che le nuove disposizioni in materia di prescrizione soggiacciono certamente al principio della successione di cui all’art. 2, comma 4, c.p., come tra l’altro ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 393 del 2006 già citata.

2.2. Alla luce di tali considerazioni, si deve rilevare come nella fattispecie i reati contestati risultino già prescritti: tutte le condotte, infatti, risalgono all’8.10.2001 per cui la prescrizione massima di anni tre e mesi nove (ai sensi del combinato disposto di cui al comma quinto del nuovo art. 157 e del comma secondo del nuovo art. 161 c.p.) è maturata in data 8.7.2005 stante l’assenza di periodi di sospensione intermedi.

D’altra parte, non essendo state ancora escusse le prove testimoniali e non avendo gli imputati rinunciato ad avvalersi della prescrizione, non può essere emessa sentenza assolutoria più favorevole non emergendo dagli atti la prova evidente della loro innocenza.

Infine, appare utile ricordare che la regola della decisione sulle questioni civili in caso di pronuncia di estinzione per prescrizione, contemplata dall’art. 578 c.p.p., riguarda solo i giudizi di impugnazione e non anche quelli di primo grado come nel caso di specie.

p.q.m.

Il Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello,

visto l’art. 531 c.p.p., dichiara

NON DOVERSI PROCEDERE

nei confronti di in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti perché estinti per intervenuta prescrizione.

Indica in gg. trenta il termine per la motivazione.

Orbetello, li 24 maggio 2007.

IL GIUDICE

Sergio Compagnucci

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