mercoledì 10 marzo 2010

Separazioni, accordi, validità clausole per trasferimento di immobili o costituzione diritti reali minori

Tribunale di Varese Ordinanza 23 gennaio 2010

"la giurisprudenza ormai costante ha, dunque, ripetutamente affermato che l’accordo di separazione costituisce un atto di natura essenzialmente negoziale - più precisamente, un negozio giuridico bilaterale a carattere non contrattuale (in quanto privo, almeno nel suo nucleo centrale del connotato della “patrimonialità”) - rispetto al quale il provvedimento di omologazione si atteggia a mera condizione sospensiva (legale) di efficacia: avendo detto provvedimento la circoscritta funzione di verificare che la convenzione sia compatibile con le norma cogenti ed i principi di ordine pubblico, nonché di controllare, la termini più pregnanti, che l’accordo relativo all’affidamento e al mantenimento dei figli non contrasti con l’interesse di questi ultimi. Con la conseguenza, tra l’altro, che l’avvenuta omologazione lancia affatto impregiudicata la facoltà delle parti di esperire nei confronti della convenzione l’azione di annullamento per vizi della volontà, in base alle regole generali (Cassazione, 6625/05; 17902/04; 17607/03; 3149/01)."



"la Cassazione ha costantemente riconosciuto la validità dello clausole dell’accordo di separazione che, nel quadro della complessiva regolamentazione dei rapporti tra i coniugi, prevedano il trasferimento di beni immobili (Cassazione, 43061/97; 12110/92; con particolare riguardo ai riflessi fiscali, 11458/05; 7493/02), ovvero la costituzione di diritti reali minori, tra cui, in primis, il diritto di abitazione (cfr., in tal senso, già la remota Cassazione, 1594/63): clausole che presentano, peraltro, una loro propria “individualità”, quali espressioni di libera autonomia contrattuale della parti interessate (cfr. Cassazione, 12897/91), dando vita, nella sostanza a veri e propri contratti atipici, con particolari presupposti e finalità, non riconducibili né al paradigma delle convenzioni matrimoniali né a quello della donazione, ma diretti comunque a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sonni dell’articolo 1322 c.c. (Cassazione, 11342/04; 12110/92; 9500/87; 3299/72; con riguardo altresì a clausola inserita in un accordo per la separazione di fatto, Cassazione, 7470/92).
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Tribunale di Varese

Ordinanza 23 gennaio 2010

(Giudice Buffone)

Osserva

In fatto

In data 20 marzo 2009, il Tribunale di Varese omologava, con proprio decreto, l’accordo di separazione sottoscritto dalle parti oggi in lite e depositato in cancelleria in data 14 novembre 2008. La clausola n. 2 dell’accordo, inserito nel ricorso per la separazione consensuale, prevede testualmente:

La casa coniugale, della quale i ricorrenti sono comproprietari, verrà posta in vendita, anche per l’eventuale tramite di un mediatore, al prezzo di euro 230.000,00.

Propone ricorso per procedimento sommario la C. “La domanda che la ricorrente propone è relativa alla nomina di un mediatore che si occupi, così come stabilito dall’art. 2 dell’omologa di separazione, della vendita della casa cointestata ai coniugi” (pag. 3 del ricorso).

Natura giuridica dell’accordo oggetto di lite.

I c.d. accordi sulla separazione vanno annoverati nell’alveo dei negozi di diritto familiare. Giova, al riguardo, premettere che la Corte di Cassazione - dopo avere con l’ormai lontana sentenza n. 14 del 5 gennaio 1984 negato la possibilità di simili accordi - è, quindi, addivenuta, con le successive sentenze (già: n. 2270 del 24 febbraio 1993 e n. 657 del 22 gennaio 1994), ad un approfondito riesame della questione affermandone la validità ed efficacia. In accordo con i postulati della concezione c.d. “privatistica” della separazione consensuale, a cui favore militano tanto il tenore letterale degli articoli 158, comma 1, Cc e 711, comma 4, Cpc, quanto i limiti si poteri di controllo del giudica prefigurati dall’articolo 158, comma 2, c.c., la giurisprudenza ormai costante ha, dunque, ripetutamente affermato che l’accordo di separazione costituisce un atto di natura essenzialmente negoziale - più precisamente, un negozio giuridico bilaterale a carattere non contrattuale (in quanto privo, almeno nel suo nucleo centrale del connotato della “patrimonialità”) - rispetto al quale il provvedimento di omologazione si atteggia a mera condizione sospensiva (legale) di efficacia: avendo detto provvedimento la circoscritta funzione di verificare che la convenzione sia compatibile con le norma cogenti ed i principi di ordine pubblico, nonché di controllare, la termini più pregnanti, che l’accordo relativo all’affidamento e al mantenimento dei figli non contrasti con l’interesse di questi ultimi. Con la conseguenza, tra l’altro, che l’avvenuta omologazione lancia affatto impregiudicata la facoltà delle parti di esperire nei confronti della convenzione l’azione di annullamento per vizi della volontà, in base alle regole generali (Cassazione, 6625/05; 17902/04; 17607/03; 3149/01).

Al tempo stesso, la Cassazione ha costantemente riconosciuto la validità dello clausole dell’accordo di separazione che, nel quadro della complessiva regolamentazione dei rapporti tra i coniugi, prevedano il trasferimento di beni immobili (Cassazione, 43061/97; 12110/92; con particolare riguardo ai riflessi fiscali, 11458/05; 7493/02), ovvero la costituzione di diritti reali minori, tra cui, in primis, il diritto di abitazione (cfr., in tal senso, già la remota Cassazione, 1594/63): clausole che presentano, peraltro, una loro propria “individualità”, quali espressioni di libera autonomia contrattuale della parti interessate (cfr. Cassazione, 12897/91), dando vita, nella sostanza a veri e propri contratti atipici, con particolari presupposti e finalità, non riconducibili né al paradigma delle convenzioni matrimoniali né a quello della donazione, ma diretti comunque a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sonni dell’articolo 1322 c.c. (Cassazione, 11342/04; 12110/92; 9500/87; 3299/72; con riguardo altresì a clausola inserita in un accordo per la separazione di fatto, Cassazione, 7470/92).

L’accordo per cui è lite va, dunque, qualificato come patto avente natura negoziale (in specie: contrattuale), c.d. “occasionato” dalla separazione e connotato da propria ed autonoma causa giuridica. Nel caso di specie, la ragione sottesa alla clausola n. 2, va intravista nella volontà dei coniugi di procedere ad uno scioglimento convenzionale della comunione legale in parte qua e, cioè, con riferimento alla comproprietà indivisa della casa coniugale. Tale ragione, tuttavia, costituisce, il “motivo comune” dei contraenti atteso che, guardando alla causa “concreta” (Cass. civ. Sez. Un., 11 novembre 2008 nn. 26972, 26973, 26974, 26975, v. in parte motiva), vi è la comune volontà di realizzare l’effetto traslativo dell’immobile in favore di un terzo da individuare mediante successivi comportamenti, se del caso, esecutivi o a carattere negoziale. Altrimenti detto: per realizzare la divisione del bene, i coniugi ne programmano la vendita e la spartizione del ricavato in denaro.

Tale scopo preso di mira viene ad essere realizzato con una comune decisione preliminare che prelude alle successive attività negoziali le quali, di fatto, al termine, integreranno un vero e proprio collegamento negoziale.

Ed, infatti:

1) “l’abitazione verrà posta in vendita” (contratto ad effetti obbligatori: le parti si impegnano a prestare il consenso alla vendita dell’immobile);

2) vi sarà la materiale vendita dell’immobile a terzi (contratto ad effetti reali);

3) “il provento della vendita sarà ripartito tra i coniugi in parti uguali” (divisione del ricavato dalla vendita).

Impegno a vendere, in futuro, la casa coniugale

Le coordinate che precedono inducono a qualificare l’accordo in esame come funzionale alla divisione di un bene immobile comune, nella risistemazione dei rapporti patrimoniali a seguito della crisi del vincolo di coniugio. In argomento, la Suprema Corte (v. Cass. civ. , sez. I, sentenza 22 novembre 2007 n. 24321) ha affermato che l’accordo mediante il quale i coniugi, nel quadro della complessiva regolamentazione dei loro rapporti in sede di separazione consensuale, stabiliscano il trasferimento di beni immobili (e, segnatamente, come nella specie, di quello che costituisce la casa familiare), dà vita ad un contratto atipico, il quale, volto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 1322 c.c., nonché caratterizzato da propri presupposti e finalità senza risultare, del resto, necessariamente collegato alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della donazione, risponde, di norma, ad un originario spirito di sistemazione, in occasione appunto dell’evento di “separazione consensuale”, di tutta quell’ampia serie di rapporti (anche del tutto frammentari) aventi significati (o, eventualmente, anche solo riflessi) patrimoniali maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana convivenza matrimoniale (Cass. n. 9034/1997, cit.; Cass. 23 marzo 2004, n. 5741; Cass. 17 giugno 2004, n. 1342; Cass. 14 marzo 2006, n. 5473; Cass. n. 9863/2007).

In particolare, la clausola della separazione consensuale istitutiva dell’impegno futuro di vendita dell’immobile adibito a casa coniugale si configura come del tutto “autonoma” rispetto al regolamento concordato dai coniugi in ordine alla separazione “in senso stretto” (v. Cass. civ. 24321/07 cit.) e presuppone la attiva collaborazione di entrambi i contraenti per la esecuzione dello stesso e, cioè, per la vendita del bene stesso a terzi (su cui, v. Cass. civ. Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26739).

Ciò vuol dire che, successivamente all’accordo confezionato nelle condizioni di omologa, è ben possibile e configurabile un comportamento inadempiente di una delle parti all’obbligo di scioglimento della comunione avente ad oggetto l’immobile adibito a casa coniugale: come la parte ricorrente denuncia nel caso di specie.

Vi è, allora, da chiarire quale sia lo strumento giuridico di tutela in questi casi.

Ed, infatti, secondo la ricorrente il giudice potrebbe (e dovrebbe) nominare un esecutore dell’accordo (nel caso di specie: un mediatore) affinché renda vitale ed attivo l’impegno assunto.

La tesi non può trovare accoglimento.

In primo luogo, come correttamente osserva la difesa del resistente, l’interpretazione dell’accordo (secondo il canone oggettivo del significato proprio delle parole), conduce a rilevare che la clausola espressamente prevede solo “l’eventualità” della nomina di un mediatore che, dunque, non può dirsi affatto un obbligo certo e tipizzato dalla convenzione.

Ma vi è, invero, di più: a prescindere dalla circostanza sopra indicata, il giudice non potrebbe giammai portare ad esecuzione l’accordo de quo nel modo indicato dalla ricorrente atteso che la pronuncia richiesta non è affatto configurabile. Nell’ipotesi di specie, infatti, l’accordo stipulato è affine al contratto preliminare di contratto definitivo a favore del terzo: le parti si impegnano a stipulare un contratto definitivo di compravendita con un terzo da identificare; e l’identificazione “può” essere rimessa ad un mediatore che le parti stesse devono designare.

Orbene: trattasi di un obbligo dai connotati infungibili, poiché la condotta ad esso sottesa è demandata alla discrezionalità dei contraenti.

Ed, infatti, l’accordo dei coniugi: non prevede l’obbligo della nomina di un mediatore (ma l’eventualità); non indica i criteri per pervenire alla nomina; non indica il bacino da cui attingere per la designazione. È, dunque, accordo del tutto discrezionale che prevede l’insostituibile partecipazione dei contraenti alla fase esecutiva. Ebbene: vuoi ove sia violato l’obbligo a prestare il consenso, vuoi ove sia violato l’obbligo a nominare un mediatore per le operazioni di vendita, la domanda richiede una pronuncia che non può essere concessa.

Nel primo caso, ove si accedesse alla lettura ermeneutica per cui si tratta di un preliminare, la parte non ha avanzato alcuna richiesta ex art. 2932 c.c., ove sono scolpite le norme per pervenire alla esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto. Per tali motivi, l’aspetto non va sindacato in questa sede (art. 112 c.p.c.).

“La domanda che la ricorrente propone è relativa alla nomina di un mediatore che si occupi, così come stabilito dall’art. 2 dell’omologa di separazione, della vendita della casa cointestata ai coniugi” (v. atto di ricorso).

Nel secondo caso, ove si assuma violato l’obbligo di nomina di un mediatore immobiliare, la richiesta, come già detto, non può trovare consensi.

Ed, infatti, l’obbligo dedotto nella clausola va inscritto nell’alveo degli obblighi di fare aventi ad oggetto una prestazione che può essere adempiuta dal solo obbligato, il quale si trova in una situazione non surrogabile da altri (comproprietario del bene immobile che deve porre in essere una condotta esecutiva in attuazione di un accordo di omologa). Come hanno chiarito le Sezioni Unite penali del 5 ottobre 2007 n. 36692, seppur in via di obiter dicta rilevanti interpretando l’art. 388 c.p., gli obblighi sono infungibili quando la natura personale delle prestazioni imposte esclude che l’esecuzione possa prescindere dal contributo dell’obbligato. Nel caso di specie, non è il comportamento in sé ad essere determinante per tale giudizio, quanto la specifica indeterminatezza ed eventualità dell’obbligo: ed, invero, è proprio la successiva volontà delle parti a dare un volto alla stipula non essendo, dunque, ammissibile un intervento “integrativo” del giudice che frantumerebbe il principio stesso dell’autonomia negoziale.

Concludendo: non è possibile l’esecuzione specifica delle obbligazioni infungibili di fare, così come non è possibile l’esecuzione specifica di obblighi che comportino determinazione autonoma di volontà di un terzo (Cass. civ., Sez. II, 26 marzo 1979, n. 1756); su cui, peraltro, oggi potrebbero essere date nuove risposte alla luce del neofita istituto di cui all’art. 614-bis c.p.c., introdotto dalla legge 69/2009, non oggetto, però, dell’odierno giudizio.

A ben guardare, comunque, la pronuncia di cui si chiede l’emissione andrebbe ad incidere - integrandolo - sullo statuto negoziale con una decisione imposta unilateralmente dal giudice senza alcun appiglio nella scheda negoziale, così invadendo il terreno riservato al comune volere dei contraenti.

E, peraltro, il mediatore, come le parti affermano entrambe, è stato, comunque nominato dal resistente, ragion per cui la pronuncia del giudice andrebbe anche a porsi in contrasto con una dinamica negoziale già attuata.

Per le ragioni esposte, la domanda introduttiva del giudizio va rigettata.

Condotta contraria a buona fede

Nonostante la domanda introduttiva del giudizio sia, per i motivi sin qui esposti, da rigettare per ragioni che anticipano il sindacato di merito, al riguardo, alcune considerazioni non possono essere omesse.

In primo luogo è pacifico, come già rilevato, che il mediatore, alla fine, sia stato effettivamente designato dalla controparte (a maggio del 2009) e le censure e doglianze della ricorrente si siano concentrate sulle qualità dell’operatore indicato.

Ma trattasi di censure che non appaiono né serie, né condivisibili.

Successivamente all’accordo di omologa, la ricorrente ha sollecitato l’adempimento all’impegno assunto in sede di separazione inviando lettera formale al marito del seguente tenore:

“La invito (…) ad indicare una agenzia immobiliare di Sua Scelta ove porre in vendita (…) l’immobile”.

Ebbene, il tenore della comunicazione in parola è chiaro, preciso e non equivoco: la stessa ricorrente intimava al resistente di attivarsi per l’esecuzione dell’impegno assunto in sede di omologa scegliendo, unilateralmente e discrezionalmente, un mediatore.

Coglie nel segno, al riguardo, la deduzione rassegnata dalla difesa del resistente, là dove, in sintesi, si denuncia un esercizio disfunzionale della situazione giuridica soggettiva. Ed, infatti, il comportamento univoco della ricorrente (al di là delle effettive intenzioni) è stato chiaramente idoneo ad ingenerare nella controparte la convinzione che questa potesse effettuare una “scelta” libera, purché immediata. Al riguardo, il principio sotteso al cd. venire contra factum proprium - risvolto applicativo della clausola generale di buona fede - vuole che una parte non possa agire in modo contraddittorio rispetto ad un intendimento che ha ingenerato nell’altra parte, e sul quale questa ha ragionevolmente fatto affidamento a proprio svantaggio (così, anche, i Principi Unidroit, 2004).

L’azione, conseguentemente, sotto altro aspetto, deve considerarsi come contraria al canone della buona fede, di recente valorizzato dalla Suprema Corte, in sede nomofilattica, principio cogente anche nella fase della tutela giudiziale, nell’ottica dell’affermazione del canone del giusto processo (Cass. Civ. Sezioni Unite sentenza 15 novembre 2007 n. 23726) e criterio che deve orientare la condotta delle parti nei rapporti in itinere (Cass. civ. Sezioni Unite sentenza 18 dicembre 2007 n. 26617).

Anche sotto tale profilo, la domanda introduttiva del giudizio va respinta.

Spese di lite

Le spese vanno poste a carico della parte soccombente ai sensi degli artt. 91, 92 e 702-ter, comma VII, c.p.c.

In merito all’ammontare della liquidazione, va ricordato quanto affermato dalle Sezioni Unite dell’11 settembre 2007 n. 19014: le spese di lite vanno liquidate giusta la natura ed il valore della controversia, l’importanza ed il numero delle questioni trattate, nonché la fase di chiusura del processo. Il principio di adeguatezza e proporzionalità impone, peraltro, una costante ed effettiva relazione tra la materia del dibattito processuale e l’entità degli onorari per l’attività professionale svolta. Il decisum prevale quindi, di regola, sul disputatum (Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 11 settembre 2007, n. 19014) salvo il caso in cui vi sia rigetto integrale della domanda attorea ove consegue che il valore della controversia è quello corrispondente alla somma domandata dall’attore (Cass. civ., Sez. I, 11 marzo 2006, n. 5381).

Orbene, tenendo conto del corso del giudizio, atteso il valore della causa e, per tali indici, applicati i barèmes tariffari, le spese del procedimento vanno liquidate come da dispositivo, tenendo presente che la controversia si è conclusa in una sola udienza ed in assenza di istruttoria. Vanno aggiunte le spese forfetarie, giusta l’art. 14 DM 8.4.2004 n. 127, nonché il rimborso dell’Iva e del Cpa giusta l’art. 11 legge 20 settembre 1980, n. 576.

Condanna ex Officio

All’esito del giudizio, sono emersi elementi in fatto e diritto che impongono di sanzionare la ricorrente per l’esercizio dell’azione in violazione del canone del giusto Processo.

La ricorrente, in estrema sintesi:

- lamenta che non sia stato eseguito l’accordo di omologa: ma su sua intimazione, il resistente immediatamente nomina un mediatore (intimazione del: 5.5.2009; risposta con nomina, del 18.5.2009);

- lamenta il nominativo del mediatore scelto (ma è la ricorrente stessa a dichiarare che sia il resistenza ad indicare un mediatore su “Sua scelta”);

- lamenta il contenuto della nomina (ma si tratta, come risulta ad acta, di operatore regolarmente iscritto all’Albo dei mediatori immobiliari al n. 589),

- denuncia la mancanza di imparzialità: ma trattasi di denuncia del tutto infondata, atteso che ricorrente e resistente, in quanto “parte venditrice”, sono accomunati dal medesimo interesse alla vendita e l’unico interesse avverso può essere quello dell’acquirente, il terzo da individuare.

Peraltro, alla prima udienza di comparizione, la ricorrente non è comparsa (mentre è comparso il resistente) adducendo motivi astratti, dichiarati tramite il legale, ma senza alcuna giustificazione documentale dell’impedimento, così manifestando disinteresse verso una possibile soluzione conciliativa.

Tutti i motivi sopra esposti inducono a dover dichiarare la responsabilità aggravata della ricorrente ai sensi dell’art. 96, comma III, c.p.c., da rilevare d’Ufficio.

Come già questo Tribunale ha osservato, il Legislatore, consapevole del ristretto fascio applicativo dell’art. 96 c.p.c. e, per l’effetto, del suo tendenziale “fallimento” operativo, con la legge 18 giugno 2009 n. 69, ha introdotto una previsione di nuovo conio nella volta dell’art. 96 c.p.c.: “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. La nuova norma, come si rileva all’esito di una corretta interpretazione, estende il fascio applicativo dell’equità poiché il giudice ne può fare uso non solo nel quantum ma anche nell’an e persino d’ufficio. Si vuol dire che attraverso la nuova previsione, viene introdotta una fattispecie a carattere sanzionatorio che prende le distanze dalla struttura tipica dell’illecito civile per confluire nelle cd. condanne punitive (natura giuridica che in questi termini è confermata dai lavori parlamentari e dalla relazione al primo disegno di Legge). Come ha autorevolmente osservato la dottrina, una previsione del genere «assume le fogge di una “pena privata” dal carattere inedito per il nostro ordinamento» (così ha scritto l’Autore citato, riferendosi all’art. 385, comma IV, c.p.c. da cui tratto l’art. 96, comma III, c.p.c. e di contenuto sostanzialmente identico).

Sulla scorta del nuovo grimaldello normativo, il giudice può (e, invero, deve) responsabilizzare la parte che abbia proposto una domanda giudiziale senza sperimentare alcuna seria soluzione conciliativa ed adducendo - a sostegno delle proprie richieste - argomenti dai quali è possibile evincere un contegno tradottosi in un abuso dello strumento processuale. La norma risponde anche all’esigenza di preservare l’interesse pubblico ad una Giustizia sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso che, aggravando il ruolo del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in trattazione mosse da ragioni serie e, spesso, necessità impellenti o urgenze nonché agli interessi pubblici primari dello Stato che, in conseguenza dei ritardi, è sottoposto alle sanzioni previste dalla legge 89/2001, giusta l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

La somma oggetto di condanna va determinata equitativamente. Tenuto conto della natura del giudizio e dell’oggetto della lite, nonché della durata del processo, la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 96, comma III, c.p.c. va condannata al pagamento, a favore della controparte, della somma di euro 300,00, quale sanzione per la lite introdotta.

P.Q.M.

Il Tribunale di Varese in composizione monocratica, in persona del giudice dott. Giuseppe Buffone, definendo la controversia ai sensi dell’art. 702-ter, comma V, c.p.c.

Rigetta la domanda proposta da C

Condanna la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 702-ter, comma VII c.p.c., alla rifusione delle spese di lite in favore della parte resistente, che liquida in complessivi euro 1.000,00 di cui euro 590,00 per onorari ed euro 410,00 per diritti. Vanno aggiunte le spese forfetarie, giusta l’art. 14 DM 8.4.2004 n. 127, nonché il rimborso dell’Iva e del Cpa giusta l’art. 11 legge 20 settembre 1980, n. 576.

Condanna, altresì, la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 96, comma III, c.p.c. al pagamento, in favore della controparte, della somma di euro 300,00.

Manda alla cancelleria per i provvedimenti di competenza.

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