In tema di capacità di fare il riconoscimento del figlio,
disciplinata - in base alle norme del diritto internazionale privato
(art. 35, secondo comma, della legge 31 maggio 1995, n. 218) - dalla
legge nazionale del genitore, il principio di ordine pubblico
internazionale che riconosce il diritto alla acquisizione
dello "status" di figlio naturale a chiunque sia stato concepito,
indipendentemente dalla natura della relazione tra i genitori,
costituisce un limite generale all'applicazione della legge straniera
(nella specie, egiziana, recepente in materia di "statuto personale"
il diritto islamico) che, attribuendo all'uomo la paternità
unicamente nell'ipotesi in cui il figlio sia stato generato in
un "rapporto lecito", preclude al padre di riconoscere il figlio nato
da una relazione extra matrimoniale. In tal caso, stante la rilevata
contrarietà all'ordine pubblico internazionale della norma straniera
applicabile in base al sistema di diritto internazionale privato,
trova applicazione la corrispondente norma di diritto interno (art.
250 cod. civ.), la quale, in relazione alla capacità del padre di
addivenire al riconoscimento del figlio naturale, si sostituisce
integralmente alla norma straniera, ai sensi dell'art. 16, secondo
comma, della citata legge n. 218 del 1995.
Riferimenti normativi: Legge 31/05/1995 num. 218 art. 16
Legge 31/05/1995 num. 218 art. 17
Legge 31/05/1995 num. 218 art. 35
Costituzione art. 2
Costituzione art. 3
Costituzione art. 30
Massime precedenti Vedi: N. 1951 del 1999 Rv. 523930, N. 2878 del
2005 Rv. 579033, N. 23074 del 2005 Rv. 583900
Sez. 1, Sentenza n. 27592 del 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente -
Dott. MORELLI Mario Rosario - Consigliere -
Dott. BONOMO Massimo - Consigliere -
Dott. GIULIANI Paolo - rel. Consigliere -
Dott. PANZANI Luciano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
R. D. V., elettivamente domiciliata in Roma, Via Città
della Pieve n. 19, presso lo studio degli Avv.ti BOTTIGLIERI Romilda
e MARTINO Claudio che la rappresentano e difendono, anche
disgiuntamente, in forza di procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
E. M. M. A.
- intimato -
avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, sezione per i
minorenni, n. 3387/2004 pronunciata il 4.5.2004 e pubblicata il
19.7.2004;
Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del
25.9.2006 dal Consigliere Dott. GIULIANI Paolo;
Udito il difensore della ricorrente;
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
UCCELLA Fulvio, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso in data 17.10.2001, E. M. M. A.,
premesso di avere intrattenuto nel 1997 una relazione con R.
D. V. dalla quale, il 10.5.1998, era nata la figlia
F., riconosciuta dalla sola madre, chiedeva al Tribunale per i
Minorenni di Roma di dichiarare l'ammissibilità dell'azione per
l'accertamento giudiziale della paternità che intendeva proporre nei
confronti della minore, avendogli la Ramos Davila impedito il
riconoscimento.
Radicatosi il contraddittorio, quest'ultima, dopo avere eccepito che
la domanda proposta dall'E. M. era da qualificare in
termini di istanza ai sensi dell'art. 250 c.c., comma 2, deduceva la
necessità di acquisire la legislazione peruviana ed egiziana in
materia di riconoscimento di figlio naturale, essendo la minore e la
madre cittadine peruviane ed il ricorrente cittadino egiziano.
Acquisita la suddetta documentazione, il Tribunale adito, con
ordinanza in data 23.9.2003, dopo avere affermato che la legislazione
egiziana attribuiva al ricorrente la capacità di effettuare il
riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio, rimetteva la
causa in istruttoria per l'ulteriore corso.
Avverso tale ordinanza, con due distinti atti qualificati come
reclami, proponeva impugnazione la R. .chiedendo che la
Corte di Appello capitolina, in riforma del provvedimento gravato,
assunto sulla base di una erronea interpretazione della legislazione
egiziana in materia, accertasse l'incapacità del ricorrente di
riconoscere la minore, dichiarando, per l'effetto, inammissibile il
ricorso proposto dall'E. M..
Resisteva nel grado quest'ultimo, preliminarmente eccependo
l'inammissibilità dei reclami per essere stati proposti avverso un
provvedimento non definitivo e carente di contenuto decisorio, nonché
oltre il termine di dieci giorni previsto dall'art. 739 c.p.c..
Riuniti i due procedimenti, la Corte territoriale di Roma, nella sua
specializzata composizione per i minorenni, con sentenza in data
4.5/19.7.2004, confermava il provvedimento reso dal primo Giudice,
assumendo:
a) che l'azione esperita dall'E. M dovesse essere
qualificata come azione ex art. 250 c.c., comma 4, diretta ad
ottenere una pronuncia sostitutiva del consenso dell'altro genitore
al fine di procedere al riconoscimento della figlia naturale;
b) che il provvedimento impugnato, seppure denominato "ordinanza" dal
Tribunale minorile, contenesse una statuizione in merito alla
contestata capacità del ricorrente di riconoscere la figlia medesima,
onde tale Giudice aveva, in realtà, emesso una sentenza non
definitiva su una questione preliminare del giudizio;
c) che fossero, quindi, infondate le eccezioni, sollevate
dall'Elgamal Mahamoud, relative alla pretesa inammissibilità delle
impugnazioni esperite dalla Ramos Davila;
d) che, nel merito, non potesse trovare conferma la motivazione che
aveva indotto il Tribunale per i Minorenni a riconoscere la capacità
dello stesso E. M. di effettuare il riconoscimento della
figlia naturale F., dichiaratamente nata da una relazione
adulterina intrattenuta dall'appellato, coniugato con altra donna,
con la R. D., dal momento che il diritto egiziano, applicabile
al fine di valutare la capacità del ricorrente, cittadino di quello
Stato, ai sensi dell'art. 35, comma 2, della L. n. 218 del 1995,
attribuisce all'uomo la paternità unicamente nell'ipotesi in cui il
figlio sia stato generato in un rapporto lecito, non conoscendo la
differenza tra figlio legittimo e figlio naturale ed attribuendo lo
stato di figlio soltanto al primo, non già al secondo;
e) che, tuttavia, si dovesse egualmente giungere all'affermazione di
capacità del ricorrente, nel senso che una norma straniera la quale,
pur applicabile al caso concreto, neghi giuridicità ad una qualunque
specie di filiazione e non attribuisca al padre naturale alcuna
azione per far valere il suo diritto di paternità appunto, contrasta
con l'ordine pubblico internazionale e, segnatamente, con i principi
fondamentali che riguardano la persona nell'ordinamento italiano,
onde la necessità di far capo alla corrispondente norma del diritto
interno (art. 250 c.c.) che, in relazione all'aspetto normativo in
esame (capacità di riconoscimento da parte del ricorrente), si
sostituisce integralmente alla legge straniera ai sensi della già
richiamata L. n. 218 del 1995, art. 16, comma 2.
Avverso tale sentenza, ricorre per Cassazione la R. D.,
deducendo due motivi di gravame ai quali non resiste l'E.
M.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i due motivi sopraindicati, del cui esame congiunto si palesa la
necessità in ragione della stessa illustrazione unitaria che ne ha
fatto la ricorrente, lamenta quest'ultima violazione e falsa
applicazione, sotto più profili, della L. 31 maggio 1995, n. 218,
art. 35, nonché motivazione contraddittoria e comunque assolutamente
insufficiente su un punto decisivo della controversia, in relazione
all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, assumendo:
a) che la disposizione di cui alla richiamata L. n. 218 del 1995,
art. 35, comma 2, là dove prevede che "La capacità del genitore di
fare il riconoscimento è regolata dalla sua legge nazionale", opera
un rinvio generale alla normativa del paese di appartenenza del
soggetto che intende fare il riconoscimento, rinvio che, pertanto,
non incontra il limite dell'ordine pubblico interno, dacché,
altrimenti, il legislatore avrebbe operato una scelta assai
differente, individuando nel diritto italiano, anche per lo
straniero, la norma regolatrice della capacità di fare il
riconoscimento;
b) che evidente, dunque, è la violazione e falsa applicazione della
L. n. 218 del 1995, art. 35, comma 2, a torto ritenuto nella specie
inapplicabile in quanto (erroneamente) ritenuto soggetto al limite
dell'ordine pubblico;
c) che parimenti evidente, sotto questo profilo, è il distinto vizio
di motivazione insufficiente, in quanto l'applicabilità alla
fattispecie del diritto egiziano, doverosa in forza del rinvio
operato dal già menzionato art. 35, è stata viceversa esclusa sol
perché in contrasto con l'ordine pubblico nazionale, laddove giammai
avrebbe potuto costituire un limite all'applicazione dell'unica
normativa che, nella specie, il Giudice italiano era ed è tenuto ad
applicare;
d) che la violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995,
art. 35 menzionato, appare sotto distinto profilo tenuto conto che,
contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, non può
dirsi esistente, nel nostro ordinamento, un principio di ordine
pubblico secondo cui è consentito, sempre e comunque, a chi assuma di
essere padre di taluno di agire in giudizio per conseguire il
relativo riconoscimento;
e) che, in base al diritto vivente, infatti, la legittimazione
all'azione di riconoscimento della paternità non è assoluta, ma è
comunque sempre subordinata ad una verifica che, sempre ed in ogni
caso, ha ad oggetto l'interesse del minore e che, in alcune ipotesi
(art. 251 c.c.), è esclusa del tutto;
f) che, se il legislatore italiano ha fissato limiti non soltanto
riconducibili alla valutazione dell'interesse del minore, ma anche
alla particolare situazione in cui il figlio è nato (il caso dei
figli incestuosi), non può affermarsi l'esistenza, nel nostro
ordinamento, di un principio di ordine pubblico in forza del quale
sia poi consentito eludere, per asserita contrarietà a detto
principio, l'applicazione di una norma di altro ordinamento che, a
propria volta, sulla base di canoni e criteri propri di tale
ordinamento, abbia compiuto una autonoma valutazione ed escluso, per
altra categoria di persone, la possibilità di agire per il
riconoscimento;
g) che, peraltro, il riferimento del nostro ordinamento ai figli
incestuosi sembra, in certo modo, assimilabile alla "relazione
illecita" che, nel diritto egiziano, esclude la possibilità di fare
il riconoscimento;
h) che la decisione impugnata ha, dunque, a torto, ritenuto
sussistente un principio di ordine pubblico nel nostro ordinamento
(secondo cui solo una normativa straniera che consenta il
riconoscimento risulterebbe applicabile), il quale sarebbe di
ostacolo alla diretta applicabilità della legislazione egiziana che
esclude la possibilità di riconoscimento per i figli nati da una
relazione adulterina, laddove il mero richiamo all'ordine pubblico
(nei termini sopra individuati, senza tenere conto del completo
assetto normativo in tema di riconoscimento di figli naturali, come
dianzi richiamato) si palesa affetto altresì dal vizio di
insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia;
i) che la L. n. 218 del 1995, art. 35, comma 2, là dove stabilisce
che la capacità del genitore di fare il riconoscimento è regolata
dalla sua legge nazionale, è una norma speciale la quale deroga a
quella generale e vale contro la mera giurisprudenza, onde, anche se
si potesse affermare che, in linea generale, il diritto di agire per
il riconoscimento di un figlio è, nel nostro ordinamento, un
principio di ordine pubblico, si dovrebbe comunque riconoscere che il
diritto, per uno straniero, di agire ai fini del riconoscimento di un
figlio in Italia è sempre sottomesso alla di lui capacità giuridica,
trattandosi di questione di stato personale per la quale la legge
dello straniero prevale senz'altro su quella italiana e non può,
quindi, produrre effetti contrari all'ordine pubblico che si
evidenzierebbero proprio per il fatto che non statuire secondo la
legge personale contraddice il principio, questo certamente di ordine
pubblico, per cui in materia di stato si segue la legge della persona.
I due motivi non sono fondati.
Per quanto attiene, innanzi tutto, ai profili di doglianza meglio
illustrati sotto le lettere "a", "b", "e" ed "i" che precedono, giova
premettere come la Corte territoriale, con altrettanti apprezzamenti
di per sè incensurati, abbia ritenuto:
a) che "l'azione introdotta da E.M. deve essere
qualificata...come azione ex art. 250 c.c., comma 4, diretta ad
ottenere una pronuncia sostitutiva del consenso dell'altro genitore,
al fine di procedere al riconoscimento del figlio naturale";
b) che "il provvedimento impugnato...contiene una statuizione in
merito alla contestata capacità del ricorrente di riconoscere il
figlio naturale...e pertanto deve essere necessariamente qualificato
come sentenza non definiti va...(avendo) il Tribunale...emesso una
pronuncia (non definitiva appunto) sul merito di una questione
preliminare del giudizio";
c) che, nel merito del gravame, "ai sensi della L. 31 maggio 1995, n.
218, art. 34 (rectius 35) la capacità del genitore di fare il
riconoscimento è regolata dalla sua legge nazionale", (onde), nella
specie, al fine di valutare la capacità del ricorrente, cittadino
egiziano, si deve fare ricorso alla legislazione egiziana". Posto,
dunque, che, sulla base dei riferiti (ed incensurati) apprezzamenti,
è da ritenere (definitivamente) accertato come la materia controversa
risulti attinente "alla contestata capacità" dell'odierno intimato di
effettuare il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio e
come, al riguardo, essendo egli cittadino egiziano, occorra "fare
ricorso alla legislazione egiziana", ai sensi del disposto della L.
31 maggio 1995, n. 218, art. 35, comma 2 ("La capacità del genitore
di fare il riconoscimento è regolata dalla sua legge nazionale"), si
osserva che il citato art. 35 figura compreso nel Capo 4^ ("Rapporti
di famiglia") del Titolo 3^ ("Diritto applicabile") della L. n. 218
del 1995, il quale contiene un Capo 1^ ("Disposizioni generali") in
cui trovasi l'art. 16 che, sotto la rubrica "Ordine pubblico",
recita, al comma 1, "La legge straniera non è applicata se i suoi
effetti sono contrari all'ordine pubblico" e, al comma 2, "In tal
caso si applica la legge richiamata mediante altri criteri di
collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi
normativa. In mancanza si applica la legge italiana". Appare, perciò,
indubitabile che la "disposizione generale" di cui al richiamato art.
16, lungi dal venire "derogata" (così come erroneamente assume
l'odierna ricorrente) dalle disposizioni particolari, del tipo di
quella dettata dal pure menzionato art. 35, contenute nei successivi
capi (dal 2^ all'11) del Titolo 3^ della L. n. 218 del 1995, trova,
invece, diretta ed immediata applicazione a queste ultime, secondo
quanto induce altresì a credere:
a) il fatto che la stessa L. n. 218/1995, attraverso il successivo
art. 17, parimenti compreso nel Capo 1^ del Titolo 3^, impone un
ulteriore limite al funzionamento delle norme di conflitto ed alla
relativa applicazione della legge straniera alle situazioni o ai
rapporti che presentano elementi di internazionalità, rappresentato
dalle "norme di applicazione necessaria" ("È fatta salva la
prevalenza sulle disposizioni che seguono delle norme italiane che,
in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere
applicate nonostante il richiamo alla legge straniera"), le quali,
sulla base dell'elaborazione compiuta al riguardo dalla dottrina,
costituiscono norme di ordine pubblico "interno" che opera come
limite appunto al riconoscimento del diritto straniero per effetto
della funzione sua propria di imporre l'applicazione del diritto
nazionale (distinguendosi dall'ordine pubblico internazionale, che ha
per funzione sua propria, caratteristica e diretta, di limitare il
riconoscimento del diritto straniero, ma è costituito soltanto da
principi informatori) e la cui individuazione (così, ad esempio in
materia di previdenze contributive, fra le quali la tredicesima
mensilità e l'indennità di anzianità; in materia di scioglimento del
matrimonio, L. n. 898 del 1970, ex art. 3, n. 2, lettera "e",; in
materia di adozione, L. n. 184 del 1983, ex art. 37, ora art. 37 bis
a seguito della novella introdotta dalla L. n. 149 del 2001) rende
superflua, in via preliminare, ogni indagine sulla legge straniera
competente in base al diritto internazionale privato, nel senso,
cioè, che disposizioni imperative interne, le quali sono dirette a
perseguire obiettivi di particolare importanza per lo Stato che le ha
emanate, trovano una loro espressa sfera di applicazione (attraverso
un criterio "unilaterale") alle fattispecie da esse stesse previste
anche quando il rapporto giuridico sul quale incidono è sottoposto ad
un ordinamento straniero, in deroga a quanto stabilito dal criterio
di collegamento "bilaterale" adottato in genere dalle norme di
conflitto, sovrapponendosi ai risultati del funzionamento del diritto
internazionale privato ed al processo di applicazione del diritto
straniero che ne consegue, onde, in presenza di simili fattispecie,
il giudice deve porre in disparte la regola di conflitto competente e
fare spazio alla norma di applicazione necessaria nei limiti che essa
stabilisce, i quali possono essere esplicitati nella norma medesima
oppure risultare dal richiamo di una serie di altre norme del foro
cui viene attribuita la precedenza rispetto al gioco delle medesime
norme di conflitto;
b) il fatto che già il testo dell'art. 31 preleggi, corrispondente
all'attuale L. n. 218 del 1995, art. 16, ed in vigore anteriormente
all'abrogazione, con effetto dal 1.9.1995, di cui al combinato
disposto della stessa L. n. 218 del 1995, artt. 73 e 74, stabiliva,
mediante una previsione "di chiusura" a carattere
evidentemente "generale" siccome relativa a tutte le norme di diritto
internazionale privato all'epoca esistenti, che, "Nonostante le
disposizioni degli articoli precedenti (dal 17 al 30), in nessun caso
le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamenti e gli atti
di qualunque istituzione o ente, o le private disposizioni e
convenzioni possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando
siano contrari all'ordine pubblico o al buon costume";
c) il fatto che anche la dottrina può dirsi concorde nel ritenere che
l'ordine pubblico di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 6, il quale è
quello che tradizionalmente si suole definire come ordine
pubblico "internazionale", per distinguerlo dall'ordine
pubblico "interno" che, nelle fattispecie in cui il rapporto è
soggetto alla legge italiana, costituisce un limite all'autonomia
negoziale dei privati (artt. 1343 e 1418 c.c.), risulti formato da
quell'insieme di principi, desumibili dalla Carta Costituzionale o,
comunque, pur non trovando in essa collocazione, fondanti l'intero
assetto ordinamentale siccome immanenti ai più importanti istituti
giuridici quali risultano dal complesso delle norme inderogabili
provviste del carattere di fondamentalità che le distingue dal più
ampio genere delle norme imperative, tali da caratterizzare
l'atteggiamento dell'ordinamento stesso in un determinato momento
storico e da formare il cardine della struttura etica, sociale ed
economica della comunità nazionale conferendole una ben individuata
ed inconfondibile fisionomia (Cass. 13 dicembre 1999, n. 13928; Cass.
6 dicembre 2002, n. 17349; Cass. 26 novembre 2004, n. 22332; Cass. 7
dicembre 2005, n. 26976; Cass. 23 febbraio 2006, n. 4040), i quali
devono essere rispettati "sempre", anche se il rapporto è sottoposto
ad una legge straniera, costituendo il limite "generale"
all'applicazione di detta legge conseguente al normale funzionamento
delle norme di diritto internazionale privato ed avendo la funzione
di evitare l'inserimento nel diritto interno di valori giuridici,
stranieri appunto, in contrasto con i principi fondamentali del
nostro ordinamento.
Per quanto, poi, attiene all'ulteriore profilo di censura relativo
alla pretesa inesistenza di un principio di ordine pubblico secondo
cui debba ritenersi consentito, sempre e comunque, a chi assuma di
essere padre di taluno di agire in giudizio per conseguire il
relativo riconoscimento e che, nella specie, sarebbe di ostacolo alla
diretta applicabilità della normativa egiziana la quale esclude,
invece, la possibilità di riconoscimento per i figli nati da una
relazione adulterina, laddove solo una normativa straniera che
consenta il riconoscimento medesimo sarebbe applicabile nel nostro
ordinamento, giova premettere come la Corte territoriale, con
apprezzamento di per sè incensurato, abbia ritenuto:
a) che la legislazione egiziana, cui, come si è visto, occorre fare
riferimento al fine di valutare la capacità dell'odierno intimato
(cittadino egiziano appunto) di fare il riconoscimento del figlio
naturale frutto della relazione dallo stesso intrattenuta con la
Ramos Davila, recependo in materia di "statuto personale" (con tale
espressione intendendosi l'insieme di regole che disciplinano la
materia familiare e successoria) il diritto islamico, attribuisce
all'uomo la paternità unicamente nell'ipotesi in cui il figlio sia
stato generato in un rapporto lecito, ovvero nel matrimonio o in
regime di concubinato legale (istituto però abrogato dal 1923), là
dove il riconoscimento poteva essere effettuato nei confronti del
figlio nato dalla schiava;
b) che il diritto egiziano non conosce la differenza tra figlio
legittimo e figlio naturale, riconoscendo lo stato di figlio soltanto
al figlio legittimo;
c) che, alla luce di tali considerazioni, non può essere confermata
la motivazione che ha indotto il Tribunale minorile a riconoscere la
capacità dell'E. di effettuare il riconoscimento della figlia
naturale F., nata pacificamente e dichiaratamente da una
relazione adulterina (e come tale illecita) intrattenuta
dall'appellante - coniugato con altra donna - con la R. D.
Malgrado quest'ultima premessa, detto Giudice ha, tuttavia, ritenuto
che si debba egualmente giungere alla affermazione di capacità
dell'odierno intimato, pur se attraverso un diverso iter
motivazionale ed, in particolare, mediante l'esame della
compatibilità con l'ordine pubblico di una norma straniera in forza
della quale al padre naturale non è riconosciuta alcuna azione per
far valere il suo diritto di paternità, addivenendo, così,
all'accertamento circa "la contrarietà all'ordine pubblico
internazionale della norma straniera applicabile al caso concreto" ed
al consequenziale riconoscimento della necessità di far capo alla
corrispondente norma di diritto interno (art. 250 c.c.) la quale, in
relazione all'aspetto normativo in esame (capacità di riconoscimento
del medesimo intimato), si sostituisce integralmente alla norma
straniera L. n. 218 del 1995, ex art. 6, comma 2.
Una simile conclusione non soggiace alle censure dedotte dalla
ricorrente e merita, invece, di essere pienamente condivisa. Al
riguardo, giova subito notare come questa stessa Corte, chiamata ad
apprezzare, in altra analoga fattispecie, la compatibilità con
l'ordine pubblico internazionale del diritto marocchino e musulmano
che non conoscono l'istituto del riconoscimento del rapporto di
filiazione naturale, abbia, quindi, ritenuto, nella sentenza n. 1951
dell'8 marzo 1999, "che una norma che si ispira ad un rifiuto
assoluto di protezione della filiazione naturale, della quale esclude
ogni rilievo, se non al fine di determinare addirittura una
conseguenza sanzionatoria nei confronti del genitore, non possa
essere inserita nel nostro ordinamento, per contrasto con un
principio di ordine pubblico internazionale italiano, che alla
filiazione naturale assegna comunque rilievo e tutela". Più in
particolare, si è in quella sede precisato che "il nostro ordinamento
riconnette al fatto della procreazione la posizione di figlio ed il
relativo status, a tutela di una fondamentale esigenza della persona"
dalla quale deriva il diritto alla affermazione pubblica di tale
posizione (laddove) l'evoluzione dell'istituto verso la parificazione
con la posizione del figlio legittimo consente di riportare lo stato
di figlio ad un concetto unitario, dentro il quale si specificano le
ulteriori indicazioni di figlio naturale e di figlio legittimo
(onde), se per l'ingresso di una normativa straniera sulla materia
non è certo richiesto che essa riproduca una tale parificazione di
posizioni e di tutela, contrastano tuttavia con i principi
fondamentali che riguardano la persona nel nostro ordinamento le
regole che negano giuridicità ad una qualunque specie di filiazione".
Da simili argomentazioni, ritenute meritevoli di integrale conferma,
il Collegio odierno non stima di doversi discostare, essendo, semmai,
in relazione alle specifiche censure dedotte dall'attuale ricorrente,
opportuno aggiungere:
a) che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il
riconoscimento del figlio naturale minore infrasedicenne, già
riconosciuto da un genitore, costituisce un diritto soggettivo
primario dell'altro genitore, garantito dall'art. 30 Cost., commi 1 e
3, entro i limiti stabiliti dalla legge (art. 250 c.c., comma 4), cui
la Costituzione medesima rinvia, il quale non si pone in termini di
contrapposizione con l'interesse del minore, ma come misura ed
elemento di definizione del medesimo, segnato dal complesso dei
diritti che al minore stesso derivano dal riconoscimento ed, in
particolare, dal diritto di quest'ultimo all'identità personale nella
sua integrale e precisa dimensione, inteso come diritto ad una
genitorialità piena e non dimidiata, onde tale secondo
riconoscimento, là dove vi sia contrapposizione dell'altro genitore
che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato,
anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del
fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa esecutiva in
Italia con la L. 27 maggio 1991, n. 176, solo in presenza di fatti di
importanza proporzionale al valore del diritto sacrificato, ovvero di
motivi, gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare il pericolo di
una seria compromissione dello sviluppo psico - fisico del minore
(Cass. 3 aprile 2003, n. 5115; Cass. 8 agosto 2003, n. 11949; Cass. 3
novembre 2004, n. 21088; Cass. 11 febbraio 2005, n. 2878; Cass. 16
novembre 2005, n. 23074);
b) che il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 494 del 28 novembre
2002 (per l'applicazione della quale, si veda anche Cass. 27 agosto
2003, n. 12536) pronunciata sull'incidente sollevato da questa stessa
Corte mediante l'ordinanza n. 9724 del 4 luglio 2002, ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 278 c.c., comma 1, nella
parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e
della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a
norma dell'art. 251 c.c., comma 1, il riconoscimento dei figli
incestuosi è vietato, là dove detto Giudice, pur non coinvolgendo
tale divieto nell'accoglimento della questione di costituzionalità
secondo i termini precisati, ha, tuttavia, espressamente affermato
che "l'attribuzione dell'azione per la dichiarazione giudiziale di
paternità e maternità naturale ai figli di genitori incestuosi, alla
stessa stregua di quanto spetta ai figli naturali riconoscibili, è
conforme alla classificazione operata dalla Costituzione, (la quale),
come avviene nella stragrande maggioranza degli ordinamenti oggi
vigenti, conosce, all'art. 30, comma 1 e 3, solo due categorie di
figli (ovvero) quelli nati entro e quelli nati fuori del matrimonio,
senza ulteriori distinzioni tra questi ultimi", aggiungendo che "la
Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica
delle persone e dei loro diritti: nella specie, il diritto del
figlio, ove non ricorrano costringenti ragioni contrarie nel suo
stesso interesse, al riconoscimento formale di un proprio status
filiationis, un diritto che, come affermato da questa Corte (sentenza
n. 120 del 2001), è elemento costitutivo dell'identità personale,
protetta, oltre che dagli artt. 7 e 8 della citata Convenzione sui
diritti del fanciullo, dall'art. 2 Cost.";
c) che ancora il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 50 del 10
febbraio 2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.
274 c.c., là dove figurava, al comma 1, la disposizione che ammetteva
l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità
naturale "solo quando concorrono specifiche circostanze tali da farla
apparire giustificata", essendo da sottolineare, al riguardo, come,
nella decisione sopra richiamata, la Corte Costituzionale abbia
espressamente confermato l'opinione di quanti avevano definito il
giudizio di ammissibilità di cui trattasi "un ramo secco
dell'ordinamento che limita il diritto dei figli all'accertamento
della paternità senza più salvaguardare le esigenze del preteso
genitore", rilevando inoltre che "l'intrinseca, manifesta
irragionevolezza della norma (art. 3 Cost.) fa sì che il giudizio di
ammissibilità ex art. 274 c.c., si risolva in un grave ostacolo
all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24 Cost., e
ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti
fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica...".
Da quanto sopra illustrato, è dato, perciò, di ricavare ulteriori
argomenti a sostegno dell'assunto circa l'esistenza, nel nostro
ordinamento, di un principio di ordine pubblico (internazionale) che
riconosce il diritto alla acquisizione dello status di figlio
naturale a chiunque sia stato concepito, indipendentemente dalla
natura della relazione tra i genitori (Cass. 27 febbraio 2002, n.
2907), nel senso esattamente che le stesse limitazioni imposte dal
già citato art. 251 c.c. (nonché dall'art. 253 c.c., a tutela
dei "diritti dei membri della famiglia legittima", secondo il dettato
dell'art. 30 Cost., ultima parte del comma 3) costituiscono delle
previsioni di carattere "eccezionale" rispetto al principio generale,
di segno contrario, che, sulla base di disposizioni di rango
costituzionale (art. 30 Cost., commi 1 e 3), ammette la figura del
riconoscimento quale espressione fondamentale di "tutela giuridica
(dei) figli nati fuori del matrimonio", riconducibile all'art. 2
Cost. ed al principio di uguaglianza, di cui al successivo art. 3, in
termini di pari dignità sociale di tutti i cittadini e di divieto di
differenziazioni legislative basate su condizioni personali e
sociali, laddove, nel diritto egiziano, come si è visto in relazione
al caso di specie, è esattamente un simile riconoscimento "in sè" a
sottostare ad un divieto di carattere "assoluto", non conoscendo tale
diritto "la differenza tra figlio legittimo e figlio naturale" ed
attribuendo esso "lo stato di figlio soltanto al figlio legittimo",
onde, secondo quanto correttamente ritenuto dalla Corte
territoriale, "contrastano...con i principi fondamentali che
riguardano la persona nel nostro ordinamento (ed, in particolare, i
figli, anche se nati fuori del matrimonio) le regole (come appunto
quelle contenute nella legislazione egiziana) che negano giuridicità
ad una qualunque specie di filiazione" che non sia quella legittima.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Nulla è a pronunciare circa la sorte delle spese del giudizio di
cassazione, non avendo l'intimato, in questa sede, ne' resistito ne',
comunque, svolto attività difensiva alcuna.
P.Q.M.
LA CORTE
rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 25 settembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2006
E' legittimo il diniego di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria nel caso in cui le opere realizzate senza titolo autorizzativo ledono l'estetica ed il decoro urbano.
Invero, il giudizio espresso dal Comune sull'opera oggetto della domanda di sanatoria, in ordine alla sua portata lesiva dell'estetica e del decoro dell'ambiente, attiene ad una valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione, censurabile dinanzi al giudice Amministrativo solo ove venisse riscontrata la sussistenza di evidenti e macroscopici vizi di irragionevolezza, incongruenza, illogicità e contraddittorietà che nel caso di specie difettano.
La sentenza, che qui si commenta, si pone tuttavia in evidente contrasto con il prevalente orientamento della giurisprudenza formatosi prima dell'entrata in vigore del T.U. dilizia, secondo la quale "è illegittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia per ragioni meramente estetiche" (cfr. fra tante C.d.S. sez. V, sentenza 4.11.04, n. 7142).