Corte di cassazione
Sentenza 26 marzo 2007, n. 7246
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 27 luglio 1992, I.P. e G.D., A.D., S.D. e R.T., questi ultimi quali eredi di F.D., convenivano in giudizio A.C. ed esponevano:
- che, in base a contratto stipulato il 1° giugno 1990, i coniugi F.D. e I.P. avevano promesso di vendere ad A.C., che aveva promesso di acquistare, l'appartamento sito in Bracciano, via Odescalchi n. 13, piano quarto, al prezzo di lire 121.974.651;
- che detto prezzo avrebbe dovuto essere, per una parte, corrisposto dalla C. mediante accollo di due mutui fondiari, gravanti rispettivamente sull'immobile oggetto del contratto (per lire 28.902.836) e su altro immobile di proprietà dei promittenti venditori (per lire 80.757.918);
- che, stipulato il 27 giugno 1990 il contratto di vendita, la compratrice si era accollato il solo mutuo gravante sull'immobile oggetto del contratto, ed aveva corrisposto le rate di entrambi i mutui fino al giugno 1991, omettendo però di pagare le successive rate semestrali del mutuo gravante sull'altro immobile;
- che, richiesta dell'adempimento dagli eredi di F.D., nel frattempo deceduto, A.C. aveva rifiutato il pagamento;
- che la compratrice era decaduta dal beneficio del termine ai sensi dell'art. 1186 c.c. e, pertanto, essi attori avevano diritto alla corresponsione della parte residua del prezzo effettivamente convenuto, pari a lire 69.894.225;
- che, su ricorso di essi attori, il Presidente del Tribunale li aveva, con ordinanza del 17 giugno 1992, autorizzati ad eseguire sequestro conservativo sui beni di A.C. fino alla concorrenza di lire 70.000.000, imponendo cauzione di lire 20.000.000;
- che il sequestro era stato eseguito mediante trascrizione, eseguita il 17 luglio 1992, del provvedimento sui registri immobiliari.
Sulla base di tali premesse, gli attori chiedevano: la convalida del sequestro conservativo concEsso in loro favore con l'ordinanza del 19 giugno 1992; l'accertamento che il prezzo di vendita dell'immobile sopra indicato era pari a lire 121.974.651; l'accertamento dell'inadempimento della convenuta alla obbligazione di pagamento della somma di lire 69.894.225, quale parte residua del prezzo; la condanna della convenuta al pagamento della somma di lire 69.894.225, quale parte residua del prezzo, ed al risarcimento dei danni dipendenti dall'inadempimento, "da quantificare in corso di giudizio, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi come per legge".
La convenuta si costituiva deducendo:
- che in base ad accordi fra le parti del contratto preliminare del 1° giugno 1990 il prezzo della vendita dell'immobile che ne costituiva l'oggetto era stato parzialmente ridotto e che, pertanto, essa A.C. avrebbe pagato le rate del mutuo gravante sull'immobile oggetto della vendita e si sarebbe accollata le rate del mutuo dell'altro immobile appartenente ai venditori fino alla concorrenza di lire 30.000.000;
- che tale accordo era stato solo in parte trasfuso nel contratto di vendita del 27 giugno 1990, in cui le parti avevano dichiarato, a fini tributari, un prezzo pari a lire 41.000.000, da corrispondersi in parte mediante il solo accollo del mutuo gravante sull'immobile oggetto del contratto;
- che, pertanto, l'esatto contenuto dell'accordo era solo quello risultante dall'atto pubblico di vendita, essendo, ormai, inefficaci, sul punto, le pattuizioni contenute nel contratto preliminare;
- che, pertanto, il sequestro conservativo non avrebbe potuto essere concesso, attesa l'inesistenza del credito vantato dagli attori.
Con sentenza in data 11 marzo 1998 il tribunale di Roma accoglieva le domande degli attori.
A.C. proponeva appello, che veniva rigettato dalla Corte di appello di Roma con sentenza in data 20 novembre 2001.
I giudici di secondo grado ritenevano che infondatamente l'appellante si lamentava del fatto che il tribunale di Roma avesse dato ingresso alle prove testimoniali offerte sulla differente entità del prezzo effettivamente pattuito fra le parti (rispetto a quello risultante dall'atto pubblico) sui rilievi che: in tema di simulazione relativa la prova per testi fra le parti è consentita solo per far valere l'illiceità del negozio dissimulato; e che - trattandosi di negozio che richiedeva la forma scritta per la validità - la prova testimoniale avrebbe richiesto la dimostrazione della perdita incolpevole del documento (ex art. 2725 c.c.); il primo giudice aveva, invece, richiamato erroneamente la disposizione dell'art. 2724, n. 1, c.c., attribuendo fra l'altro valore di principio di prova scritta al contratto preliminare, che era stato superato dalle pattuizioni consacrate nell'atto pubblico.
La decisione di primo grado, infatti, era conforme alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo la quale la prova, per testimoni o presunzioni, della simulazione del prezzo della vendita immobiliare non incontra, tra le parti, i limiti dettati dall'art. 1417 c.c., né contrasta con il divieto posto dall'art. 2722. La pattuizione di celare una parte del prezzo non è equiparabile, infatti, per mancanza di una propria autonomia strutturale o funzionale, all'ipotesi di dissimulazione del contratto, che conserva inalterati i suoi elementi di validità, inerenti al documento di cui si assume la falsificazione. Alla inefficacia della pattuizione apparente, concernente il prezzo, può dunque ovviarsi con una prova che ha scopo e natura semplicemente integrativa del contratto, e può risultare anche da deposizioni testimoniali o presunzioni.
Presunzioni bene ricavabili anche dal tenore del preliminare, quando non risultIno, fra questo e la data del definitivo, fatti che abbiano alterato in maniera sensibile gli interessi delle parti composti nel contratto.
Contro tale decisione ha proposto ricorso per cassazione A.C., con cinque motivi, illustratati da memoria.
Resistono con controricorso G.D., A.D., S.D., R.T.
La causa è stata rimessa alle Sezioni unite in ordine al contrasto esistente in giurisprudenza in ordine alla possibilità di provare per testimoni la simulazione del prezzo della vendita.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente ribadisce la tesi secondo la quale la prova per testimoni del prezzo effettivamente pattuito non poteva essere ammessa in considerazione del disposto dell'art. 2722 c.c.
La sentenza impugnata si è rifatta alla giurisprudenza meno recente di questa Suprema Corte.
Si è, in proposito, affermato che, allorquando l'accordo simulatorio investe solo uno degli elementi del contratto (quale è il prezzo di una vendita immobiliare), per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, il contratto simulato non perde la sua connotazione peculiare, ma conserva inalterati gli altri suoi elementi - ad eccezione di quello interessato dalla simulazione - con la conseguenza che, non essendo il contratto in tali termini simulato né nullo né annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti, gli elementi negoziali interessati dalla simulazione possono essere sostituiti o integrati con quelli effettivamente voluti dai contraenti. Pertanto, la prova per testimoni del prezzo effettivo della vendita, versato o ancora da corrispondere, non incontra, tra alienante e acquirente, i limiti dettati dall'art. 1417 c.c. in tema di simulazione, in contrasto con il divieto posto dall'art. 2722 c.c., in quanto la pattuizione di celare una parte del prezzo non può essere equiparata, per mancanza di una propria autonomia strutturale, all'ipotesi di dissimulazione del contratto, così che la prova relativa ha scopo e materia semplicemente integrativa e può pertanto risultare anche da deposizioni testimoniali (sent. 24 aprile 1996, n. 3857; 23 gennaio 1988, n. 526).
In altra occasione si è più genericamente affermato che il requisito di forma è adempiuto ove sussista nel contratto simulato o in quello dissimulato, in considerazione della sostanziale validità del contratto (sent. 9 luglio 1987, n. 5975).
Da tale orientamento, che non incontra il favore di una parte rilevante della dottrina, si è di recente distaccata la sentenza di questa Suprema Corte in data 19 marzo 2004, n. 5539, la quale ha così motivato:
«Per una corretta impostazione del problema è opportuno prendere le mosse dal disposto dell'art. 2722 c.c. Tale norma esclude che tra le parti si possa dare per testimoni la prova di un patto aggiunto o contrario al contenuto di un documento, ove si alleghi che la stipulazione del patto sia stata anteriore o contemporanea alla redazione del documento medesimo. Al pari che in tutte le altre disposizioni sui limiti della prova testimoniale, traspare qui un certo grado di ragionevole diffidenza del legislatore nei riguardi di un tale genere di prova, soprattutto quando essa sia volta a sormontare risultanze assai meno controvertibili quali quelle documentali. Chiaro, cioè, l'intento di impedire che rapporti giuridici tra le parti, quando documentalmente provati, possano essere alterati da prove per testi, appunto perché queste non offrono la stessa garanzia di veridicità di quella documentale e perché non è logico presumere che, una volta scelta la via della documentazione degli accordi contrattuali tra esse intercorsi, le parti ne abbiano affidato la modifica ad intese meramente verbali. Sicché ben si comprende anche la ragione del superamento del suindicato limite alla prova testimoniale quando, nei casi specificamente contemplati dal successivo art. 2724, quella negativa presunzione possa invece essere superata.
Il limite alla prova testimoniale di cui si sta discutendo, per le ragioni che vi sono sottese, è quindi destinato ad operare in qualsiasi caso si sostenga esservi una divaricazione tra il contenuto di un contratto, formalmente consacrato in un documento, ed una diversa pattuizione, ugualmente pregna di contenuto negoziale, che nel documento medesimo non sia riportata e di cui, tuttavia, si assuma esservi stata una stipulazione anteriore o contemporanea.
Il fenomeno della simulazione contrattuale, sia essa assoluta o relativa, non esaurisce l'area di possibile applicazione di detto art. 2722, ma sicuramente ne occupa una larga parte. Ed, infatti, nel disciplinare ex professo i limiti della prova testimoniale della simulazione, il legislatore non ha dettato una disposizione in sé compiuta ed autosufficiente, ma si è unicamente preoccupato di chiarire, nell'art. 1417 c.c., che quella prova è ammessa senza limiti tanto nel caso di domanda proposta da creditori o da terzi quanto nell'ipotesi in cui, essendo proposta dalle parti, la domanda sia volta a far valere l'illiceità del contratto dissimUlato. I limiti cui il citato art. 1417 allude - e che consente di superare solo nelle suddette particolari situazioni - sono, ovviamente, quelli dettati dagli artt. 2721 e segg., ed in particolare quelli già sopra richiamati a proposito dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento.
Stando così le cose, quando la prova tra le parti della simulazione di un contratto documentale non riguardi l'illiceità del contratto dissimulato, è evidente che essa incontra i suaccennati limiti di prova (vedi anche, in tal senso, Cass. n. 16021 del 2002 e n. 4073 del 1992). Ma appare difficile negare che tali limiti operino anche in presenza di una simulazione soltanto parziale, ogni qual volta questa si traduca nell'allegazione di un accordo ulteriore e diverso da quello risultante dal contratto, comunque destinato a modificare l'assetto degli interessi negoziali riportato nel documento sottoscritto dalle parti. Né certo sarebbe ragionevole sostenere che la clausola di determinazione del prezzo non abbia rilevanza centrale nell'economia degli interessi regolati mediante un contratto di compravendita.
D'altronde, affermare che la pattuizione con cui le parti convengano un prezzo diverso da quello indicato nel documento contrattuale da esse sottoscritto non integrerebbe gli estremi di una vera e propria simulazione, avendo scopo meramente integrativo, non risolve in alcun modo il problema. Se anche così fosse, infatti, resterebbe comunque difficilmente eludibile il rilievo per cui una tale pattuizione si pone in contrasto con il contenuto di un documento contrattuale contestualmente stipulato e, come tale, ricade nella previsione dell'art. 2722 c.c.
La differenza che l'orientamento giurisprudenziale qui non condiviso introduce - tra la prova della simulazione, soggetta agli anzidetti limiti legali, e la prova di patti meramente integrativi del contratto, che detti limiti non incontrerebbe perché quei patti difetterebbero di una propria autonomia strutturale o funzionale - non sembra perciò trovare un sufficiente appiglio: né nella lettera del citato art. 2722, che si riferisce ai "patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento", e quindi anche a quelli di carattere integrativo se essi contengano elementi nuovi o contrastanti con quelli documentati; né nella già richiamata ratio legis, che evidentemente abbraccia ogni ipotesi nella quale si pretenda di dare, per mezzo di testimoni, la prova di obblighi o diritti di portata diversa da quanto risulta da accordi consacrati in un documento e perciò dotati di un grado di certezza non superabile con quel genere di prova».
Ritiene il collegio di condividere tale più recente orientamento.
Va, in proposito, osservato che il fatto che il contratto simulato non sia nullo o annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti non giustifica la conclusione che il contratto dissimulato, il quale è destinato ad avere effetto tra le parti, non debba avere i requisiti di forma necessari per la validità dello stesso, secondo quanto espressamente stabilito dall'art. 1414, secondo comma, c.c.
Né si potrebbe sostenere che il requisito di forma sarebbe soddisfatto dal negozio simulato (come sembra sostenere la sent. 9 luglio 1987, n. 5975).
Una tesi analoga era stata sostenuta questa Suprema Corte anche in tema di interposizione fittizia, ma è stata successivamente abbandonata (cfr. sent. 22 aprile 1986, n. 2816; 22 novembre 1979, n. 6074), in base alla considerazione che l'interposizione deve risultare anch'essa da un patto rivestito della forma solenne.
Né, con riferimento specifico al problema della prova del prezzo, si potrebbe sostenere che la prova per testimoni sarebbe destinata soltanto ad integrare soltanto un elemento negoziale per il quale il requisito di forma è soddisfatto dal contratto simulato.
È facile osservare che il prezzo è un elemento essenziale della vendita, per cui anch'esso deve risultare per iscritto e per intero quando per tale contratto è prevista la forma scritta ad substantiam, non essendo sufficiente che quest'ultima sussista in relazione alla manifestazione di volontà di vendere e di acquistare.
In altri termini, la prova per testimoni del prezzo dissimulato di una vendita immobiliare non riguarda un elemento accessorio del contratto, in relazione al quale non opera il divieto di cui all'art. 2722 c.c., ma un elemento essenziale, con conseguente applicabilità delle limitazioni in tema di prova previste da tale disposizione.
Alla luce delle considerazioni svolte, il primo motivo del ricorso va accolto, con assorbimento degli altri motivi, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che provvederà anche in ordine alle speSe del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso; dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
La procedura di assunzione degli invalidi civili iscritti nelle liste di collocamento, mediante selezione da parte della Pubblica Amministrazione, non è assimilabile alle procedure concorsuali e, pertanto, le relative controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario.
Così ha concluso il Tar per la Puglia, Bari, sezione seconda, nella sentenza 6 marzo 2007, n. 624.
La vicenda ha visto coinvolto un soggetto invalido civile al 50% che, dopo aver partecipato alle prove selettive per l’assunzione di otto commessi, presso la locale ASL, è stato giudicato non idoneo.
Il Tar investito della causa – per cui ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione – ha ritenuto che “la procedura di assunzione mediante selezione da parte della p.a. degli iscritti nelle liste di collocamento non è assimilabile alle procedure concorsuali, atteso che essa sostanzialmente consiste nella mera assunzione diretta di coloro che sono iscritti nelle prime posizioni della graduatoria corrispondenti al numero dei posti indicati nella richiesta di assunzione inoltrata dall’amministrazione e, pertanto, le relative controversie sono devolute alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, ai sensi dell’art. 63, comma 1, d.lgv. 165/2001”.
Il Collegio, richiamando conforme giurisprudenza (Cass. Sez. Unite 27 maggio 1999, n. 302) ha affermato che in tema di collocameto obbligatorio, debbono essere distinti due momenti ben precisi:
una prima fase di catattere puramente amministrativa, riguardante l’esame della condizione di invalidità, attraverso la quale si verificano la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge e posti in essere dalla pubblica amministrazione, per cui il lavoratore è titolare esclusivamente interessi legittimi;
una seconda fase, successiva all’accertamento delle menomazioni e quindi al riconoscimento dello status di invalido, che comporta l’esistenza di diritti soggettivi, in cui rileva l'individuo in rapporto diretto con la pubblica amministrazione e la "personalizzazione" della tutela costituzionale, che prevede il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale per ogni cittadino inabile al lavoro, sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, e, pertanto, “il diritto degli inabili e dei minorati all'educazione e all'avviamento professionale a cui provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”.
In questo secondo momento, dunque, secondo il Collegio, essendo la causa petendi costituita dalla violazione di un diritto soggettivo, quale il diritto all'assunzione, la controversia spetta al giudice ordinario (Cass. SU n. 5806 del 1998; Cass. n. 5338 del 1993).