giovedì 15 febbraio 2007

Telefonate reiterate, anche se mute, integrano il reato di molestia alle persone

Cassazione Sezione Penale, 16.09.2003 n° 34967


Anche lo squillo ripetuto dell'apparecchio telefonico integra gli estremi del reato, qualora la condotta sia tenuta nella consapevolezza d'arrecare fastidio e, sul punto, dubbio non può sussistere, attesa la cessazione dei rapporti con la parte offesa.Va rilevato che, a prescindere dal turbamento riportato dall'interessato, oggettivamente le reiterate telefonate sono fonte di aggressione del bene giuridico tutelato dalla norma, che tende a proteggere la vita privata di ognuno da illegittime interferenze.


La Cassazione ha stabilito che anche telefonare in modo muto integra il reato di «molestia o disturbo alle persone» in presenza della consapevolezza d'arrecare fastidio.



Cassazione

Sezione Sesta Penale Feriale

Sentenza 16 settembre 2003 n. 35544

(Presidente B. Rossi - Relatore A. Morgigni)

Osserva

Il ricorso è inammissibile.

La prima parte del primo motivo è manifestamente infondata, poiché l'interruzione del fidanzamento da parte della donna non giustificava il comportamento di disturbo mediante continue telefonate, non essendosi in presenza di un'esimente. Anche lo squillo ripetuto dell'apparecchio telefonico integra gli estremi del reato, qualora la condotta sia tenuta nella consapevolezza d'arrecare fastidio e, sul punto, dubbio non può sussistere, attesa la cessazione dei rapporti con la parte offesa. La presenza di L. nell'abitazione era nota a G. che, pur non volendo parlare con il medesimo, continuava a telefonare. Va rilevato che, a prescindere dal turbamento riportato dall'interessato, oggettivamente le reiterate telefonate sono fonte di aggressione del bene giuridico tutelato dalla norma, che tende a proteggere la vita privata di ognuno da illegittime interferenze.

La seconda parte del primo motivo muove da un presupposto di fatto (reazione a condotta asseritamene diffamatoria) che non può essere prospettato in sede di legittimità.

La prima parte del secondo motivo evidenzia per un verso questioni non deducibili in sede di legittimità, in quanto il preteso travisamento dei fatti non emerge dal testo del provvedimento impugnato, e per l'altro è ripetitiva del tema già esposto innanzi in ordine all'affermata insussistenza dell'assenza della molestia nel telefonare in modo muto.

La seconda parte del secondo motivo prospetta pretese contraddizioni interne alle dichiarazioni delle parti offese. Tale censura non è deducibile in Cassazione, poiché richiede l'esame degli atti che il giudice di legittimità non può svolgere, ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen..

Con la terza parte del secondo motivo il ricorrente tenta ancora di conseguire un risultato non consentito dal codice di rito: ottenere da parte del giudice di legittimità la formazione di un convincimento diverso da quello legittimamente e correttamente espresso dai giudici del territorio e, comunque, la doglianza è parimenti basata su una pretesa diversa valutazione delle dichiarazioni delle parti, non consentita in sede di legittimità

Con il quarto punto del secondo motivo il ricorrente si duole di un inesistente difetto di motivazione, rilevando che quest'ultima non gli consentirebbe di "avvalersi degli argomenti invocati o invocandi dei fatti, che trovano il loro fondamento in una visione alternativa dei fatti o una diversa lettura degli atti." Tale critica mostra ictu oculi la sua pretestuosità, poiché pone in luce che la motivazione è completa sotto il profilo logico, perché non presenta alcuna discrepanza. D'altronde ancora una volta il ricorso viola il dettato dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., presentando questioni attinenti ad una diversa interpretazione delle risultanze processuali, non richiedibile alla Cassazione.

Il quinto punto ugualmente si risolve in un coacervo di considerazioni di merito in ordine all'applicazione della pena ed alla sospensione condizionale della sua esecuzione: ciò risulta dalla stessa prospettazione delle "apprezzabili ragioni dal punto di vista umano, morale e giuridico".

Né corrisponde alla realtà processuale l'assunto del difetto di motivazione sulla mancata applicazione della provocazione ovvero sulla subordinazione della sospensione condizionale dell'esecuzione della pena al risarcimento del danno. Sia il primo che il secondo giudice hanno fornito spiegazione del loro convincimento. È quest'ultimo ad essere contestato dal ricorrente nella sostanza e tale censura non è consentita in sede di legittimità, poiché la sentenza sul tema è motivata in modo congruo con l'apprezzamento della gravità del fatto e della condotta tenuta dall'imputato. Non è necessario esaminare ogni aspetto disciplinato dall'art. 133 cod. pen., essendo sufficiente richiamare i profili normativi che si ritengono determinanti..

Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro cinquecento alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 500,00 alla cassa delle ammende.

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