domenica 25 febbraio 2007

Alla Regione la legittimazione delle occupazioni abusive di suoli gravati da usi civici

Restano assegnate al Commissario per il riordino degli usi civici le sole attribuzioni di carattere giurisdizionale inerenti l'accertamento della demanialità del suolo. Tra queste non rientrano le funzioni di carattere amministrativo.



Corte Costituzionale
SENTENZA N. 39 del 20 febbraio 2007

ANNO 2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco BILE Presidente

- Giovanni Maria FLICK Giudice

- Francesco AMIRANTE "

- Ugo DE SIERVO "

- Romano VACCARELLA "

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

- Alfonso QUARANTA "

- Franco GALLO "

- Luigi MAZZELLA "

- Gaetano SILVESTRI "

- Sabino CASSESE "

- Maria Rita SAULLE "

- Giuseppe TESAURO "

- Paolo Maria NAPOLITANO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito della sentenza del Commissario regionale per il riordino degli usi civici in Abruzzo del 21 ottobre 2005 n. cron. 571 – rep. n. 25, promosso con ricorso della Regione Abruzzo notificato il 9 gennaio 2006, depositato in cancelleria il 10 gennaio 2006 ed iscritto al n. 1 del registro conflitti tra enti 2006.

Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 9 gennaio 2007 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

udito l'avvocato Sandro Pasquali per la Regione Abruzzo.


Ritenuto in fatto

Con atto del 23 dicembre 2005, notificato in data 29 dicembre 2005 sia al Presidente del Consiglio dei ministri sia al Commissariato regionale per il riordino degli usi civici in Abruzzo, la Regione Abruzzo, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, ha proposto ricorso per conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione alla sentenza n. 25 emessa dal Commissario regionale per il riordino degli usi civici in Abruzzo in data 21 ottobre 2005.

La Regione ricorrente riferisce che il provvedimento impugnato è stato pronunziato all'esito di un giudizio demaniale fra il Comune di Casalbordino e la signora Marinelli Sabia, la quale, assumendo di essere occupante abusiva di terreni facenti parte del demanio civico del detto Comune, aveva inoltrato al Commissario istanza diretta ad ottenere la legittimazione della predetta occupazione ai sensi dell'art. 9 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del regio decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici del Regno, del regio decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del regio decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del regio decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del regio decreto legge 22 maggio 1924, n. 751).

Il Commissario, dichiarata la natura demaniale civica dei suoli in questione, accertata la ricorrenza dei presupposti per la legittimazione della occupazione e determinata la somma da corrispondersi per il loro affrancamento, ha disposto la trasmissione della sentenza al «Ministro delle Politiche Agrarie per la definitiva approvazione della legittimazione», nonché al Comune di Casalbordino perché, dopo l'approvazione ministeriale, «perfezioni l'atto di affrancazione».

Tanto premesso, la Regione lamenta la invasività di tale provvedimento con riferimento alle competenze ad essa attribuite dalla Costituzione in materia di usi civici, comprendenti anche il potere di concedere la legittimazione di cui al citato art. 9 della legge n. 1766 del 1927.

In particolare, la Regione osserva che, ai sensi degli artt. 66 e 71 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 delle legge 22 luglio 1975, n. 382), a partire dal 1978 tutte le funzioni amministrative in materia di usi civici sono state trasferite alle Regioni, avendo, allora, conservato lo Stato la sola approvazione delle legittimazioni da effettuarsi con decreto del Presidente della Repubblica, d'intesa con la Regione interessata.

Competendo, pertanto, alle Regioni di «assentire la legittimazione» dei beni abusivamente occupati, la Regione Abruzzo ha provveduto, con l'art. 5, comma primo, della legge regionale 3 marzo 1988, n. 25 (Norme in materia di usi civici e gestione delle terre civiche – Esercizio delle funzioni amministrative), ad assegnare al Consiglio regionale la relativa attribuzione.

Successivamente, aggiunge la ricorrente Regione, per effetto della legge 12 gennaio 1991, n. 13 (Determinazione degli atti amministrativi da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica), la competenza ad approvare le legittimazioni è passata, ferma la necessaria intesa con la singola Regione interessata, dal Presidente della Repubblica al Ministro dell'agricoltura.

Osserva, ancora, la ricorrente che l'art. 5 della legge 4 dicembre 1993, n. 491 (Riordinamento delle competenze regionali e statali in materia agricola e forestale e istituzione del Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali), ha trasferito al Ministro della giustizia le competenze già del Ministro dell'agricoltura relative ai Commissari agli usi civici stante la natura di organi giurisdizionali di questi ultimi.

In tal modo sarebbe cessata ogni interferenza statale nelle funzioni amministrative in materia.

Conformemente a ciò, la Regione Abruzzo ha emanato la legge regionale 14 settembre 1999, n. 68 (Integrazioni alla legge regionale 3 marzo 1988, n. 25: Procedure per la determinazione dei valori dei suoli gravati da diritti di uso civico e per le utilizzazioni particolari delle terre civiche), che, all'art. 3, comma 1, nel testo risultante a seguito delle modifiche apportate dall'art. 194, comma 6, della legge regionale 8 febbraio 2005, n. 6 (Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio annuale 2005 e pluriennale 2005-2007 della Regione Abruzzo - Legge finanziaria regionale 2005), prevede, fra l'altro, che «la legittimazione (…) dei suoli di uso civico (è) res(a) definitiv(a) con decreto del Presidente della Giunta regionale, previa conforme deliberazione della Giunta regionale».

Aggiunge la ricorrente che il Commissario per il riordino degli usi civici, essendo un organo della giurisdizione, non può «autonomamente recuperare funzioni amministrative» di cui non è più investito per effetto di disposizioni legislative statali, regionali e costituzionali.

Denunciata, pertanto, la violazione da parte del Commissario per il riordino degli usi civici degli artt. 24, 101, 117 e 118 della Costituzione, la ricorrente Regione chiede che, previa affermazione della non spettanza allo Stato di concedere la legittimazione delle occupazioni abusive di suoli gravati da usi civici, sia annullata la sentenza oggetto del ricorso.

Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, in subordine, infondato.

Osserva la difesa erariale che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, la proposizione del conflitto di attribuzione fra enti avente ad oggetto un atto giurisdizionale non può tramutarsi in uno strumento di impugnazione straordinario dell'atto stesso; ai fini della ammissibilità del conflitto è, pertanto, necessario che il ricorrente contesti radicalmente la riconducibilità dell'atto alla funzione giurisdizionale ovvero che sia contestata la esistenza del potere giurisdizionale nei confronti del ricorrente.

Nella fattispecie non sarebbe in discussione la natura giurisdizionale dell'organo che ha emesso l'atto oggetto del ricorso, né questo, secondo la resistente difesa, si è «arrogato alcuna potestà costituzionalmente riconosciuta alla Regione, né (ha) invaso la competenza della medesima». Il ricorso sarebbe quindi inammissibile, posto che gli unici rimedi attivabili contro l'atto in questione sarebbero quelli di tipo endoprocessuale previsti dall'ordinamento.

A parere dell'Avvocatura, vi è anche un altro profilo di inammissibilità, costituito dal fatto che la concessione della legittimazione, di cui all'art. 9 della legge n. 1766 del 1927, non deriva dal provvedimento giurisdizionale, in quanto la stessa sentenza censurata attribuisce detto potere, di natura amministrativa, all'organo di Governo cui la decisione è trasmessa «per la definitiva approvazione della legittimazione».

Da ciò la difesa erariale fa discendere la non lesività per la Regione dell'atto oggetto del conflitto, potendo questa, semmai, verificarsi se e quando la legittimazione sarà approvata dalla Autorità amministrativa. Il ricorso, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, dovrebbe essere dichiarato inammissibile poiché il Commissario per il riordino degli usi civici si è pronunciato in via meramente incidentale.

Nell'imminenza dell'udienza pubblica la difesa della Regione Abruzzo ha depositato memoria illustrativa nella quale ha ribadito gli argomenti già illustrati in precedenza.


Considerato in diritto

1. – La Regione Abruzzo ha sollevato, nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, conflitto di attribuzione in relazione alla sentenza n. 25 emessa in data 21 ottobre 2005 dal Commissario regionale per il riordino degli usi civici in Abruzzo, con la quale, dichiarata la natura demaniale civica di un fondo agricolo occupato abusivamente, ne è stata pronunziata la legittimazione in favore dell'occupante, ai sensi dell'art. 9 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del regio decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici del Regno, del regio decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del regio decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del regio decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del regio decreto legge 22 maggio 1924, n. 751), previo accertamento della ricorrenza delle condizioni previste dal predetto art. 9 della legge n. 1766 del 1927, nonché previa determinazione della somma da corrispondersi, ai sensi dell'art. 10 della legge n. 1766 del 1927, da parte dell'occupante medesimo.

Osserva la ricorrente che, essendo state trasferite alle Regioni, per effetto degli artt. 66 e 71 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 delle legge 22 luglio 1975, n. 382), tutte le funzioni amministrative in materia di usi civici, ivi comprese quelle relative al procedimento di legittimazione, con l'atto impugnato sono state lese competenze costituzionalmente ad essa medesima attribuite.

1.1 – Stante il suo carattere pregiudiziale, va esaminata prioritariamente l'articolata eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla resistente difesa erariale.

Con essa si sostiene la inammissibilità del ricorso sia per avere ad oggetto un atto giurisdizionale, nei cui confronti sarebbero esercitabili esclusivamente le forme di gravame previste nei singoli sistemi processuali, sia per la carenza di interesse a ricorrere in capo alla Regione, stante la asserita “non lesività” dell'atto impugnato, essendo lo stesso destinato ad essere integrato da un successivo atto di «definitiva approvazione della legittimazione» da parte dell'organo di Governo al quale il Commissario per il riordino degli usi civici dell'Abruzzo ha, per il fine in questione, trasmesso la sentenza oggetto del presente conflitto.

1.2 – L'esposta eccezione non è fondata sotto entrambi i profili dedotti.

Quanto al primo, più volte questa Corte ha affermato che lo strumento del conflitto di attribuzione fra enti è esperibile anche in relazione ad atti della giurisdizione ogni qualvolta sia dal ricorrente «radicalmente contestata la riconducibilità dell'atto che determina il conflitto alla funzione giurisdizionale ovvero sia messa in questione l'esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente» (fra le altre: sentenze nn. 326 e 276 del 2003; n. 27 del 1999; n. 432 del 1994), là dove il conflitto sarebbe, invece, inammissibile se il provvedimento che ne è oggetto fosse censurato quanto a pretesi errores in iudicando commessi dall'organo giurisdizionale, risolvendosi, in quest'ultima ipotesi, il giudizio di fronte alla Corte costituzionale in un improprio strumento di gravame le cui risultanze si andrebbero a sovrapporre allo scrutinio sull'atto già operato nella sede propria.

Nel caso in questione la Regione ricorrente, lungi dal censurare il merito della decisione assunta dal Commissario per il riordino degli usi civici, contesta invece, in radice, la stessa riconducibilità del contenuto della decisione da questo assunta, cioè la potestà di provvedere in tema di legittimazione delle occupazioni abusive dei terreni gravati da usi civici, all'esercizio della funzione giurisdizionale, trattandosi, secondo la sua prospettazione, al contrario, di un atto di amministrazione attiva ad essa spettante in via esclusiva.

Quanto alla seconda, deve essere qui ribadito il principio, già affermato da questa Corte, secondo il quale è considerato «idoneo ad innescare un conflitto di attribuzione qualsiasi atto o comportamento significante, imputabile allo Stato o alla regione, purché sia dotato di efficacia o di rilevanza esterna e sia diretto ad esprimere in modo chiaro ed inequivoco la pretesa di esercitare una data competenza il cui svolgimento possa determinare un'invasione della altrui sfera di attribuzioni» (sentenza n. 771 del 1988).

Nella presente fattispecie va, per un verso, considerato che il provvedimento impugnato, nell'indicare, peraltro in maniera impropria, il «Ministro delle politiche agrarie» quale organo competente a procedere alla definitiva «approvazione della legittimazione», è atto a determinare, già per tale individuazione, una violazione delle attribuzioni rivendicate dalla Regione Abruzzo.

Per altro verso va rilevato che, stante la sua tipologia, l'atto impugnato è idoneo, oltretutto, a divenire immodificabile a seguito del suo passaggio in giudicato e, perciò, oltre a costituire l'origine di diritti di carattere sostanziale in capo ai soggetti da esso coinvolti, ad essere anche il fondamento per la adozione di ulteriori, successivi, provvedimenti diretti ad assicurarne la attuazione, anche coattiva.

Pertanto non pare realisticamente discutibile il fatto che, rispondendo alle descritte caratteristiche di «comportamento significante, imputabile allo Stato (…), dotato di efficacia o di rilevanza esterna (…), diretto ad esprimere in modo chiaro ed inequivoco la pretesa di esercitare una data competenza» oggetto, appunto, di contestazione, l'atto impugnato valga a radicare l'interesse a ricorrere di chi contesti la legittimità della attribuzione esercitata attraverso la sua adozione.

2. – Nel merito, il ricorso è fondato.

Infatti il Commissario per il riordino degli usi civici dell'Abruzzo, dopo aver accertato – sebbene, a quanto risulta, il punto non fosse oggetto di alcuna contestazione – la natura demaniale civica dei terreni in relazione ai quali vi era stata istanza di legittimazione, ha preso in esame la questione relativa alla sussistenza delle condizioni previste dall'art. 9 della legge n. 1766 del 1927 al fine della legittimazione stessa, provvedendo, altresì, in merito a quest'ultima.

Assume, infatti, testualmente «che permane in capo (a lui) la competenza a pronunciare sulla legittimazione, essendo questa tuttora l'unica residuata(gli) nonostante la normativa di devoluzione alla Regione della competenza a porre in essere gli atti amministrativi già del Commissario», e dispone, quindi, conseguentemente al suo assunto, in ordine alla legittimazione («che, dunque, va dichiarata in questa sede»), determinando, infine, l'importo della somma che l'istante deve versare a fronte della avvenuta legittimazione.

Vi è, quindi, un'esplicita vindicatio potestatis del Commissario a decidere in ordine alla legittimazione dei terreni demaniali soggetti ad usi civici che siano stati illegittimamente occupati, ed è nei confronti di tale pretesa che la Regione Abruzzo solleva il presente conflitto.

Così precisato l'ambito provvedimentale dell'atto oggetto del conflitto, va innanzitutto rilevato che – come affermato, con consolidata giurisprudenza, da questa Corte (sentenza n. 46 del 1995 e ordinanze n. 391 del 1998 e n. 117 del 1995) – il procedimento per la legittimazione delle occupazioni abusive di terreni gravati da usi civici ha carattere amministrativo e non giurisdizionale.

Infatti il d.P.R. n. 616 del 1977, nell'ambito del complessivo trasferimento di funzioni amministrative precedentemente attribuite allo Stato, o a suoi organi periferici, ha espressamente previsto, all'art. 66, che «sono altresì trasferite (alle Regioni) le competenze attribuite (…) al Commissario per la liquidazione degli usi civici dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766, dal regolamento approvato con regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332, dalla legge 10 giugno 1930, n. 1078, dal regolamento approvato con regio decreto 15 novembre 1925, n. 2180, dalla legge 16 marzo 1931, n. 737». Perciò anche le funzioni in materia di legittimazione delle occupazioni abusive sono state trasferite alle Regioni.

Restano quindi assegnate al Commissario per il riordino degli usi civici, coerentemente con la sua collocazione ordinamentale nel novero degli organi giudiziari (sentenza n. 398 del 1989), le sole attribuzioni di carattere giurisdizionale, inerenti, in caso di contestazione, all'accertamento della demanialità del suolo. Tra queste non solo non rientrano le funzioni di carattere amministrativo innanzi indicate, ma neppure quella, di cui al punto 4) del dispositivo, di inoltrare la sentenza «al Sig. Ministro delle Politiche Agrarie per la definitiva approvazione della legittimazione».

Già in passato questa Corte ha affermato che possono realizzare violazione di attribuzioni costituzionalmente rilevanti gli atti lesivi di funzioni rimesse alle Regioni, come nel caso attualmente in esame, dal d.P.R. n. 616 del 1977 (sentenza n. 559 del 1988). Va, infine, considerato che, per effetto della entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 118 della Costituzione, l'attribuzione di queste funzioni costituisce realizzazione, nella indicata materia, dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, dato che la loro allocazione a livello regionale ne permette l'idoneo esercizio unitario. Ne è riprova l'ampia casistica di normative regionali (quali, oltre alla già ricordata legge Regione Abruzzo 3 marzo 1988, n. 25, la legge Regione Basilicata 12 settembre 2000, n. 57; la legge Regione Campania 17 marzo 1981, n. 11; la legge Regione Puglia 28 gennaio 1998, n. 7, quanto alla legislazione delle Regioni a statuto ordinario) che, in vigenza del precedente testo dell'art. 118 della Costituzione (basato sul principio del parallelismo tra l'ambito di attribuzione delle competenze legislative delle Regioni e quello delle funzioni amministrative), disciplinavano la materia degli usi civici e della procedura finalizzata alla legittimazione delle occupazioni di terreni demaniali.

Poiché nel presente caso il Commissario ha esorbitato dai limiti che, in materia, competevano alla funzione giurisdizionale, provvedendo a dichiarare la legittimazione e determinando la misura del canone ex art. 10 della legge 1766 del 1927, ne deriva che ha invaso l'ambito di attribuzioni riservato alla Regione. Trasmettendo, inoltre, al «Ministro delle Politiche Agrarie per la definitiva approvazione» la suddetta sentenza, viene inspiegabilmente a configurare quell'accertamento giurisdizionale come fase di un procedimento che si concluderebbe con un atto di approvazione ministeriale.

In accoglimento del ricorso deve, pertanto, dichiararsi che non spetta allo Stato, e per esso al Commissario per il riordino degli usi civici né accertare, in assenza di contestazione, la sussistenza delle condizioni previste dall'art. 9 della legge n. 1766 del 1927 ai fini della legittimazione delle occupazioni abusive dei terreni gravati da usi civici, né provvedere alla legittimazione stessa, né, infine, determinare la misura del canone che, ex art. 10 della legge n. 1766 del 1927, l'occupante abusivo deve versare per potersi giovare della legittimazione.

Deve conseguentemente essere annullato, nei limiti sopra descritti, l'atto impugnato dalla ricorrente Regione Abruzzo, cioè la sentenza n. 25 emessa dal Commissario regionale per il riordino degli usi civici in Abruzzo in data 21 ottobre 2005.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spettava allo Stato, e per esso al Commissario regionale per il riordino degli usi civici in Abruzzo, dichiarare la legittimazione delle occupazioni abusive dei terreni gravati da usi civici, né determinare la somma di danaro che, ex art. 10 della legge n. 1766 del 1927, l'occupante abusivo doveva versare per potersi giovare della legittimazione, e, conseguentemente

annulla, nei limiti sopra descritti, la sentenza n. 25 emessa dal Commissario regionale per il riordino degli usi civici in Abruzzo in data 21 ottobre 2005.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 febbraio 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 febbraio 2007.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

giovedì 15 febbraio 2007

Privacy e diritto di accesso alla documentazione bancaria


Garante Privacy , provvedimento 07.12.2006

Il diritto di accesso ai dati personali tutelato dall'art. 7 del Codice della Privacy è distinto dal diritto di accesso alla documentazione bancaria di cui all'art. 119 del Testo Unico Bancario (D.lg. n. 385/1993) il quale prevede che il "cliente, colui che gli succede a qualunque titolo e colui che subentra nell'amministrazione dei suoi beni hanno diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni".

Lo ha stabilito il Garante della Privacy, con la decisione del 7 dicembre 2006, accogliendo il ricorso di un correntista contro una banca la quale si rifiutava di comunicare ai ricorrenti i dati inerenti i contratti e i movimenti e/o le operazioni concluse mediante la banca medesima appellandosi all'art. 119 TUB.

Il Garante riconosce perciò il diritto degli interessati ad ottenere, in base all'art. 7 del Codice della Privacy ( e quindi gratuitamente), anche i dati inerenti le operazioni effettuate.


GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI

Provvedimento del 7 dicembre 2006

IL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI

NELLA riunione odierna, in presenza del prof. Francesco Pizzetti, presidente, del dott. Giuseppe Chiaravalloti, vicepresidente, del dott. Mauro Paissan e del dott. Giuseppe Fortunato, componenti e del dott. Giovanni Buttarelli, segretario generale;

VISTO il ricorso presentato al Garante il 12 ottobre 2006 dai coniugi G.G. e G.R. (cointestatari di un contratto di conto corrente e di un contratto di deposito titoli presso la filiale di Marsala di Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A.), rappresentati e difesi dall'avv. Giacomina Picheo, con il quale gli interessati hanno ribadito nei confronti di tale banca la richiesta formulata ai sensi degli artt. 7 e 8 del Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lg. 30 giugno 2006, n. 196), volta ad accedere ai dati personali che li riguardano relativi ai rapporti bancari dagli stessi intrattenuti, "in particolare i servizi finanziari e le operazioni di investimento attuate presso e tramite l'istituto di credito" (con particolare riguardo all'acquisto di titoli della Repubblica Argentina), e ad ottenere la comunicazione in forma intelligibile di tali dati, nonché a conoscerne l'origine, le finalità e le modalità del trattamento, gli estremi identificativi del titolare del trattamento e del responsabile, se designato, e i soggetti ai quali i dati possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza; rilevato che i ricorrenti hanno chiesto, altresì, di porre a carico delle controparti le spese sostenute per il procedimento;

VISTI gli ulteriori atti d'ufficio e, in particolare, la nota del 30 ottobre 2006 con la quale questa Autorità, ai sensi dell'art. 149 del Codice, ha invitato il titolare del trattamento a fornire riscontro alle richieste degli interessati;

VISTA la nota inviata via fax il 14 novembre 2006 con la quale Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A., nel comunicare ai ricorrenti alcuni dati personali che li riguardano e talune informazioni inerenti alle operazioni d'investimento effettuate dai ricorrenti, ha sostenuto di non poter trasmettere copia della documentazione relativa ai restanti dati in quanto la richiesta di comunicazione degli stessi non sarebbe "riconducibile all'esercizio del diritto di accesso di cui all'art 7 del d.lg. 196/2003", essendo piuttosto "compresa tra le attività e gli obblighi posti a carico della Banca dall'art. 119 del d.lg. 385/1993-Testo Unico Bancario, e da quanto specificamente previsto in materia di intermediazione finanziaria (…)"; rilevato che la banca ha altresì precisato che, "trascorso il periodo di 10 anni previsto dalla legge (…), per la conservazione delle scritture contabili e della documentazione ad esse afferente (…) procede, di norma, alla distruzione della medesima (…)";

VISTE le memorie inviate dai ricorrenti il 17 novembre 2006 e il 22 novembre 2006, con le quali gli stessi hanno contestato la completezza del riscontro, esprimendo perplessità in ordine alle ragioni per le quali "la Banca, dopo aver inviato una parte della documentazione, ritenga, invece, che l'accesso ai dati patrimoniali antecedenti il 29.08.2000 sia disciplinato da altra normativa"; rilevato che nelle medesime note i ricorrenti hanno rappresentato l'urgenza di ottenere i riscontri richiesti "tenuto conto della prescrizione nel prossimo dicembre 2006, dei diritti" che gli interessati intendono far valere;

RILEVATO che il diritto di accesso ai dati personali tutelato dall'art. 7 del Codice è distinto dal diritto di accesso alla documentazione bancaria di cui all'art. 119 del d.lg. n. 385/1993 ("Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia") il quale prevede che il "cliente, colui che gli succede a qualunque titolo e colui che subentra nell'amministrazione dei suoi beni hanno diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni";

RILEVATO che l'esercizio del diritto di accesso ai dati personali conservati dal titolare del trattamento consente di ottenere, ai sensi dell'art. 10 del Codice, la comunicazione in forma intelligibile dei soli dati personali effettivamente detenuti, estrapolati dai documenti che li contengono ovvero -quando l'estrazione dei dati risulti particolarmente difficoltosa- la consegna in copia dei documenti in questione con l'omissione di ciò che non costituisce "dato personale" dell'interessato (cfr. art. 10, comma 4 e 5, del Codice); rilevato che il citato art. 10 del Codice non consente invece di richiedere al titolare del trattamento, né di ottenere, sempre e necessariamente, copia (fotostatica o autenticata) dei documenti detenuti, ovvero la creazione di documenti inesistenti -o non più esistenti- nei propri archivi o l'innovativa aggregazione dei dati personali trattati secondo modalità prospettate dall'interessato;

RITENUTO di dover accogliere il ricorso in relazione alla richiesta di accesso ai dati personali dei ricorrenti (esplicitamente avanzata dagli stessi ai sensi della normativa in materia di protezione dei dati personali) non ancora comunicati agli stessi e relativi ai contratti bancari di cui in premessa; ritenuto che va quindi disposto che la resistente aderisca a tale richiesta, nei limiti e con le modalità sopra richiamate in relazione all'art. 10 del Codice, entro il 28 dicembre 2006, dando conferma dell'avvenuto adempimento a questa Autorità entro la medesima data;

RITENUTO che va, invece, dichiarato non luogo a provvedere sul ricorso ai sensi dell'art. 149, comma 2, del Codice, in riferimento ai dati personali già messi a disposizione dei ricorrenti, nonché in ordine alle restanti richieste formulate ai sensi dell'art. 7 del Codice, avendo la resistente fornito nel corso del procedimento un sufficiente riscontro in merito alle stesse;

VISTA la determinazione generale del 19 ottobre 2005 sulla misura forfettaria dell'ammontare delle spese e dei diritti da liquidare per i ricorsi; ritenuto congruo, su questa base, determinare l'ammontare delle spese e dei diritti inerenti all'odierno ricorso nella misura forfettaria di euro 500, di cui euro 150 per diritti di segreteria, considerati gli adempimenti connessi, in particolare, alla presentazione del ricorso e ritenuto di porli a carico di Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A nella misura di 400 euro, previa compensazione della residua parte per giusti motivi;

VISTI gli artt. 145 e s. del Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lg. 30 giugno 2003, n. 196);

VISTE le osservazioni dell'Ufficio formulate dal segretario generale ai sensi dell'art. 15 del regolamento del Garante n. 1/2000;

RELATORE il dott. Giuseppe Fortunato;

TUTTO CIÒ PREMESSO IL GARANTE

a) accoglie il ricorso in ordine alla richiesta di accesso ai dati personali dei ricorrenti non ancora comunicati agli stessi ed ordina alla banca resistente di comunicare ai ricorrenti tali dati, entro il 28 dicembre 2006, dando conferma, entro la medesima data, a questa Autorità dell'avvenuto adempimento;

b) dichiara non luogo a provvedere sul ricorso in riferimento ai dati personali già messi a disposizione degli interessati, nonché in ordine alle restanti richieste formulate dai ricorrenti ai sensi dell'art. 7 del Codice;

c) determina nella misura forfettaria di euro 500 l'ammontare delle spese e dei diritti del procedimento posti in misura pari a 400 euro, previa compensazione per giusti motivi della residua parte, a carico di Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A, la quale dovrà liquidarli direttamente a favore dei ricorrenti.


Roma, 7 dicembre 2006

IL PRESIDENTE
Pizzetti

IL RELATORE
Fortunato

IL SEGRETARIO GENERALE
Buttarelli

Telefonate reiterate, anche se mute, integrano il reato di molestia alle persone

Cassazione Sezione Penale, 16.09.2003 n° 34967


Anche lo squillo ripetuto dell'apparecchio telefonico integra gli estremi del reato, qualora la condotta sia tenuta nella consapevolezza d'arrecare fastidio e, sul punto, dubbio non può sussistere, attesa la cessazione dei rapporti con la parte offesa.Va rilevato che, a prescindere dal turbamento riportato dall'interessato, oggettivamente le reiterate telefonate sono fonte di aggressione del bene giuridico tutelato dalla norma, che tende a proteggere la vita privata di ognuno da illegittime interferenze.


La Cassazione ha stabilito che anche telefonare in modo muto integra il reato di «molestia o disturbo alle persone» in presenza della consapevolezza d'arrecare fastidio.



Cassazione

Sezione Sesta Penale Feriale

Sentenza 16 settembre 2003 n. 35544

(Presidente B. Rossi - Relatore A. Morgigni)

Osserva

Il ricorso è inammissibile.

La prima parte del primo motivo è manifestamente infondata, poiché l'interruzione del fidanzamento da parte della donna non giustificava il comportamento di disturbo mediante continue telefonate, non essendosi in presenza di un'esimente. Anche lo squillo ripetuto dell'apparecchio telefonico integra gli estremi del reato, qualora la condotta sia tenuta nella consapevolezza d'arrecare fastidio e, sul punto, dubbio non può sussistere, attesa la cessazione dei rapporti con la parte offesa. La presenza di L. nell'abitazione era nota a G. che, pur non volendo parlare con il medesimo, continuava a telefonare. Va rilevato che, a prescindere dal turbamento riportato dall'interessato, oggettivamente le reiterate telefonate sono fonte di aggressione del bene giuridico tutelato dalla norma, che tende a proteggere la vita privata di ognuno da illegittime interferenze.

La seconda parte del primo motivo muove da un presupposto di fatto (reazione a condotta asseritamene diffamatoria) che non può essere prospettato in sede di legittimità.

La prima parte del secondo motivo evidenzia per un verso questioni non deducibili in sede di legittimità, in quanto il preteso travisamento dei fatti non emerge dal testo del provvedimento impugnato, e per l'altro è ripetitiva del tema già esposto innanzi in ordine all'affermata insussistenza dell'assenza della molestia nel telefonare in modo muto.

La seconda parte del secondo motivo prospetta pretese contraddizioni interne alle dichiarazioni delle parti offese. Tale censura non è deducibile in Cassazione, poiché richiede l'esame degli atti che il giudice di legittimità non può svolgere, ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen..

Con la terza parte del secondo motivo il ricorrente tenta ancora di conseguire un risultato non consentito dal codice di rito: ottenere da parte del giudice di legittimità la formazione di un convincimento diverso da quello legittimamente e correttamente espresso dai giudici del territorio e, comunque, la doglianza è parimenti basata su una pretesa diversa valutazione delle dichiarazioni delle parti, non consentita in sede di legittimità

Con il quarto punto del secondo motivo il ricorrente si duole di un inesistente difetto di motivazione, rilevando che quest'ultima non gli consentirebbe di "avvalersi degli argomenti invocati o invocandi dei fatti, che trovano il loro fondamento in una visione alternativa dei fatti o una diversa lettura degli atti." Tale critica mostra ictu oculi la sua pretestuosità, poiché pone in luce che la motivazione è completa sotto il profilo logico, perché non presenta alcuna discrepanza. D'altronde ancora una volta il ricorso viola il dettato dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., presentando questioni attinenti ad una diversa interpretazione delle risultanze processuali, non richiedibile alla Cassazione.

Il quinto punto ugualmente si risolve in un coacervo di considerazioni di merito in ordine all'applicazione della pena ed alla sospensione condizionale della sua esecuzione: ciò risulta dalla stessa prospettazione delle "apprezzabili ragioni dal punto di vista umano, morale e giuridico".

Né corrisponde alla realtà processuale l'assunto del difetto di motivazione sulla mancata applicazione della provocazione ovvero sulla subordinazione della sospensione condizionale dell'esecuzione della pena al risarcimento del danno. Sia il primo che il secondo giudice hanno fornito spiegazione del loro convincimento. È quest'ultimo ad essere contestato dal ricorrente nella sostanza e tale censura non è consentita in sede di legittimità, poiché la sentenza sul tema è motivata in modo congruo con l'apprezzamento della gravità del fatto e della condotta tenuta dall'imputato. Non è necessario esaminare ogni aspetto disciplinato dall'art. 133 cod. pen., essendo sufficiente richiamare i profili normativi che si ritengono determinanti..

Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro cinquecento alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 500,00 alla cassa delle ammende.

mercoledì 14 febbraio 2007

Pertinenza nel diritto urbanistico, meno estesa nel diritto comune


TAR Emilia Romagna-Bologna, sez. II, sentenza 13.09.2006 n° 2029

"In materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza urbanistica, sottratta al regime della concessione edilizia e assoggettata a quello dell'autorizzazione gratuita, ha peculiarità proprie e distinte dalla nozione civilistica, giacché deve avere una propria identità fisica ed una propria conformazione strutturale ed essere preordinata ad un'esigenza effettiva dell'edificio principale, al cui servizio deve essere posta in via funzionale ed oggettiva, mentre non deve possedere un autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede (Cassazione penale, sez. III, 9 dicembre 2004, n. 5465 e 5 marzo 2004, n. 35084).
Alla stregua dei principi che precedono e diversamente da quanto accadrebbe in applicazione delle categorie civilistiche che valorizzano l’unitarietà del fondo agricolo e degli immobili che vi insistono, occorre, ai differenti fini edilizi."

Questa è la sostanza della decisione con la quale il T.A.R. Emiliano è giunto al convincimento che non sia da annullare l’atto con il quale si è disposta la demolizione di un fabbricato abusivo e che, in verità, i ricorrenti intendevano far rientrare nella categoria edilizia delle “pertinenze”, assoggettate ad un regime giuridico meno stringente rispetto ai nuovi fabbricati ad uso autonomo.

Si trattava, invero, di comprendere se ed in che termini un fienile, che era «fisicamente e strutturalmente distinte dall’edificio principale», caratterizzato «da dimensioni significative (mt 10,00 x 10,30 ed altezza da mt. 2,95 in gronda a mt 4,75 al colmo)», funzionale «ad una destinazione ben precisa (fienile)» eppure evidentemente suscettibile di una utilizzazione autonoma».

Il T.A.R. ivi citato, comunque, non fa altro che aderire alla lettura maggioritaria presente nella giurisprudenza amministrativa: sul tema, del resto, si è già vista la sentenza del Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 8 agosto 2006, n. 4780, con la quale – appunto – veniva ribadita la diversità fra “pertinenza in senso edilizio” e “pertinenza in senso civile” e, conseguentemente, la diversità di consistenza sostanziale che ciascuna delle definizioni giuridiche assume nel rispettivo campo di applicazione.



T.A.R.

Emilia Romagna-Bologna

Sezione II

Sentenza 13 settembre 2006, n. 2029

(L. Papiano Pres. - G. Calderoni Est.)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER L'EMILIA-ROMAGNA
BOLOGNA - SEZIONE II

nelle persone dei Signori:
LUIGI PAPIANO - Presidente
G. CALDERONI - Cons., relatore
UGO DI BENEDETTO - Cons.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso 580/2003 proposto da:

R. G. E V. G.

rappresentati e difesi da:

MARANGONI AVV. DANTE
MOSCATO AVV. MICHELE

con domicilio eletto in BOLOGNA

VIA MAZZINI N. 82/7
presso
MOSCATO AVV. MICHELE

contro

COMUNE DI RAVENNA

rappresentato e difeso da:

BALDRATI AVV. ENRICO
GIULIANINI AVV. PATRIZIA
DONATI AVV. GIORGIA

con domicilio eletto in BOLOGNA

P.ZZA ALDROVANDI 3
presso
LISTA AVV. MARIA CHIARA

per l’annullamento

- dell’ingiunzione a demolire 10.3.2003 n. 13059/03;
- in parte qua (sanzione pecuniaria), dell’ordinanza 10.3.2003 n. 13048/03;

Visti gli atti e i documenti depositati con il ricorso;
Visti gli atti tutti della causa;
Udito, alla pubblica udienza del 29 giugno 2006, il relatore Cons. G. Calderoni e uditi, altresì, i difensori presenti come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO E DIRITTO

I. Con l’atto introduttivo del giudizio, i ricorrenti espongono di essere imprenditori agricoli e di aver effettuato – “per impellenti necessità” – alcune opere asseritamente di manutenzione straordinaria, in relazione alle quali il Comune di Ravenna ha assunto i provvedimenti in epigrafe, che vengono impugnati per i seguenti motivi:
1) eccesso di potere per falso presupposto di fatto, erronea valutazione, illogicità e contraddittorietà, trattandosi di opere agricole (ricovero attrezzi, deposito sementi, fienile), di carattere pertinenziale e destinate a rendere l’immobile più funzionale alla sua destinazione agricola;
2) omessa, carente, perplessa, illogica e contraddittoria motivazione (del provvedimento di irrogazione della sanzione pecuniaria), anche perché, essendo state le opere compiute nel corso di lavori regolarmente concessionati, si tratterebbe di costruzione in difformità e non in assenza di concessione;
3) violazione degli artt. 7, 9, 10 e 12 legge n. 47/85, dell’art. 1 legge n. 1/78 e falsa applicazione degli artt. XIII.8 e XIII.3 delle vigenti NTA del PRG, non sussistendo i presupposti per la demolizione delle opere stesse (ovvero per l’applicazione della sanzione sostitutiva), trattandosi di difformità parziale ovvero di interventi di manutenzione straordinaria.

II. Resiste al ricorso il Comune di Ravenna, che ha dimesso documentazione, nonché memoria conclusiva in vista della trattazione della controversia nel merito.
Indi, all’odierna pubblica udienza la causa è passata in decisione.

III.1. Ciò premesso, il Collegio osserva, in punto di fatto, quanto segue:
a) entrambi i provvedimenti impugnati contengono un’analitica descrizione, articolata in otto capi, delle opere relative tanto al fabbricato principale ad uso abitazione rurale, quanto all’adiacente corpo servizi e ritenute – in sede di rigetto della domanda di sanatoria, presentata dai ricorrenti il 14.3.2001 – non conformi agli strumenti urbanistici vigenti al momento della loro esecuzione;
b) mentre non sono state sanzionate le opere di cui ai capi 1 e 3, con l’ordinanza 10.3.2003, n. 13059/03 è stata ingiunta la demolizione delle opere di cui al capo 7 (nuova costruzione di un fabbricato ad uso ricovero attrezzi/deposito sementi) ed al capo 8 (nuova costruzione di fabbricato ad uso fienile, delle dimensioni di mt 10,00 x 10,30 ed altezza da mt. 2,95 in gronda a mt 4,75 al colmo);
c) per le restanti opere (capi 2, 4, 5 e 6: cambi d’uso; creazione di due bagni; realizzazione nel corpo servizi di tramezzature interne, nuovo solaio e nuovo portico), con l’ordinanza 10.3.2003, n. 13048/03 si è ritenuto che le stesse fossero inquadrabili in un intervento di ristrutturazione edilizia soggetto a regime concessorio e che, tuttavia, il ripristino non fosse possibile senza pregiudizio per le parti conformi, così irrogandosi una sanzione pecuniaria di euro 19.720;
d) in data 13.2.2004, i ricorrenti hanno presentato domanda di condono edilizio esclusivamente riferita alle opere di cui al capo 7 (ricovero attrezzi/deposito sementi): il tutto come risulta dalla documentazione prodotta dal Comune il 30 settembre 2005.

III.2. Quale prima conseguenza - in linea di diritto - dell’evenienza fattuale di cui alla precedente lett. d), occorre dichiarare la parziale improcedibilità del ricorso, quanto all’impugnativa dell’ordine di demolizione dell’opera (ricovero attrezzi/deposito sementi), per cui è stata presentata domanda di condono: invero, è noto che l’orientamento generale assunto dalla giurisprudenza (per questa Sezione si vedano ad es. 4.10.2001, n. 723 e 30.1.2002, n. 187; n. 2385 del 2005, nn. 219 e 220 del 2006, nn. 710 e 730 del 2006) è nel senso che - nell’ambito del sistema delle leggi nn. 47/05 e 326/2003 - qualora l'interessato abbia attivato il procedimento per ottenere la concessione di costruzione edilizia in sanatoria di abusi, il ricorso proposto contro un provvedimento demolitorio, emesso in precedenza, diviene improcedibile, essendo venuta meno l’efficacia dell’ordine repressivo impugnato, atteso che a seguito dell'istanza di condono esso deve essere sostituito o dalla concessione in sanatoria (espressa o implicita) o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.

III.3. Circa l’ulteriore opera di cui è stata ordinata la demolizione (fienile) e la specifica censura in contrario dedotta con il primo mezzo di impugnazione (suo presunto carattere pertinenziale), va, invece, preliminarmente rammentato che la giurisprudenza - tanto amministrativa, quanto della Cassazione penale - è costante nell’affermare, rispettivamente e convergentemente, ai fini della soggezione al regime concessorio:
• che la nozione di pertinenza dettata dal diritto civile è più ampia di quella che regola la materia urbanistica, per cui beni che, secondo la normativa privatistica, assumono senz'altro natura pertinenziale, non sono tali ai fini dell'applicazione delle regole che governano l'attività edilizia, perlomeno in tutti quei casi in cui gli stessi assumano una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime concessorio. Ne consegue che non può ritenersi pertinenza un intervento edilizio che non sia coessenziale al bene principale e che possa essere successivamente utilizzato in modo autonomo e separato (T.A.R. Lazio, sez. II, 4 febbraio 2005, n. 1036; T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 2 aprile 2004, n. 273); in ogni caso un'opera pertinenziale è tale soltanto se sia effettivamente strumentale rispetto all'opera principale, senza che possa essere utilizzata in modo diverso dal dominus ed a prescindere dalla destinazione impressa da quest'ultimo (T.A.R. Sicilia Catania, sez. I, 4 marzo 2003, n. 414);
• che in materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza urbanistica, sottratta al regime della concessione edilizia e assoggettata a quello dell'autorizzazione gratuita, ha peculiarità proprie e distinte dalla nozione civilistica, giacché deve avere una propria identità fisica ed una propria conformazione strutturale ed essere preordinata ad un'esigenza effettiva dell'edificio principale, al cui servizio deve essere posta in via funzionale ed oggettiva, mentre non deve possedere un autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede (Cassazione penale, sez. III, 9 dicembre 2004, n. 5465 e 5 marzo 2004, n. 35084).
Alla stregua dei principi che precedono e diversamente da quanto accadrebbe in applicazione delle categorie civilistiche che valorizzano l’unitarietà del fondo agricolo e degli immobili che vi insistono, occorre, ai differenti fini edilizi che qui vengono in rilievo, escludere la natura pertinenziale delle opere di cui si tratta, siccome:
- fisicamente e strutturalmente distinte dall’edificio principale;
- caratterizzate da dimensioni significative (mt 10,00 x 10,30 ed altezza da mt. 2,95 in gronda a mt 4,75 al colmo);
- funzionali ad una destinazione ben precisa (fienile);
- conclusivamente e all’evidenza suscettibili di una utilizzazione autonoma.
Del resto, ad identica conclusione la Sezione è pervenuta assai di recente (21 giugno 2006, n. 877), con riferimento ad una fattispecie assolutamente sovrapponibile alla presente (ordine di demolizione di una tettoia di circa m. 10, 50 x m. 10,00 con h. media m. 3.50, preordinata a consentire il temporaneo deposito di materiale e di macchine necessarie allo svolgimento dell’attività agricola).

III.4. Il secondo e terzo motivo di ricorso sono rivolti avverso il provvedimento di irrogazione della sanzione pecuniaria, sostenendosi rispettivamente:
- che le opere ivi indicate sarebbero in difformità parziale e non in assenza di concessione;
- che le stesse configurerebbero un intervento di manutenzione straordinaria.
Entrambe le argomentazioni sono prive di pregio.

III.5. Quanto al primo profilo, va tenuto presente che la giurisprudenza qualifica univocamente la "parziale difformità" come una categoria residuale, nella quale non rientrano da un lato i lavori effettuati senza concessione, in totale difformità o in variazione essenziale, dall'altro quelli qualificati in corso d'opera (cfr. T.A.R. Liguria, sez. I, 3 giugno 2005, n. 851 e Consiglio Stato, sez. V, 22 novembre 2001, n. 5926); in particolare:
• mentre il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento costruttivo sia realizzato secondo modalità diverse da quelle consacrate a livello progettuale, pur nel sostanziale rispetto della tipologia edilizia adottata; la totale difformità, al contrario, comporta la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto della concessione stessa (T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. III, 24 novembre 2004, n. 8257);
• dalla disposizione di cui all'art. 7 l. n. 47/1985 che, con riguardo alle opere eseguite in totale difformità dalla concessione, le descrive - per l’appunto -come quelle "che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto della concessione stessa...", occorre desumere un concetto di "totale difformità" ancorato, più che al raffronto tra la singola difformità e le previsioni progettuali dell'intervento edilizio, alla comparazione sintetica tra l'organismo progettato e quello scaturente dalla complessiva attività di edificazione. In altre parole, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di "parziale difformità" ha carattere analitico; quello destinato ad accertare la "totale difformità" si fonda su di una valutazione di sintesi correlata alla omogeneità o meno del risultato complessivo dell'attività edilizia, rispetto a quello preventivato in fase di assenso amministrativo (T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 3 maggio 2002, n. 930).
Ai fini di tale giudizio sintetico, acquista rilievo dirimente, nel caso di specie, la circostanza che tra le opere contestate (sub 6 dell’ordinanza nn. 13048/2003) figuri “la realizzazione, sul prolungamento della falda anteriore del solaio di copertura del corpo servizi, di un nuovo portico delle dimensioni in pianta di mt. 2,45 x 16,84, appoggiato su n. 5 pilastri in muratura.”: è sufficiente questo quid novi a far mutare qualitativamente di segno all’insieme delle opere pecuniariamente sanzionate (e già indicate alla lett. C) del capo III.1. che precede), nel senso di condurre ad un edificio che per superficie e sagoma è significativamente disomogeneo rispetto a quello concessionato.
Per le stesse ragioni, la realizzazione de qua non può certamente essere considerata come rientrante nel novero degli interventi soggetti a mera manutenzione straordinaria.
Donde la legittimità delle considerazioni e determinazioni contenute nella controversa ordinanza comunale n. 13048/2003.

IV. Conclusivamente, in ordine al ricorso in epigrafe vanno assunte le seguenti statuizioni:
a) l’impugnativa dell’ordine di demolizione 10 marzo 2003, nn. 13059 va in parte dichiarata improcedibile e, per la restante parte, rigettata;
b) l’impugnativa dell’ordinanza 10 marzo 2003, nn. 13048 va respinta in toto;
c) le spese di lite seguono l’anzidetto esito della controversia e sono, in parte, compensate e, per la restante parte, poste a carico della parte ricorrente, secondo la misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo per l’Emilia-Romagna, Sezione II, definitivamente pronunziando sul ricorso in premessa, così decide:
1) dichiara in parte improcedibile (abuso sub 7) l’impugnativa dell’ordine di demolizione 10 marzo 2003, n. 13059 e, per la restante parte (abuso sub 8), la RESPINGE;
2) RESPINGE in toto l’impugnativa dell’ordinanza 10 marzo 2003, n. 13048;
3) compensa parzialmente le spese di lite tra le parti e, per il residuo, condanna i ricorrenti a rifondere al Comune di Ravenna, a tale titolo, la somma di € 1.500,00 (euro millecinquecento/00), al netto delle ritenute di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.


Depositata in Segreteria in data 13/09/2006.



sabato 10 febbraio 2007

Divisione ereditaria giudiziale e nullità degli atti giuridici relativi ad edifici


Tribunale Marsala, sentenza 14.12.2006

La pronunzia giudiziale di scioglimento della divisione, avendo funzione suppletiva di quella negoziale, incontra gli stessi limiti di quest’ultima, poiché altrimenti opinando si finirebbe per attribuire alla prima una funzione elusiva delle norme imperative che governano la seconda.

Ne consegue che, dovendosi ritenere il negozio di scioglimento della comunione ereditaria un atto inter vivos, la sostitutiva pronunzia giudiziale non può essere emessa in violazione 17, I comma, legge 1985 n. 47 (oggi abrogato e sostituito dall’analogo art. 46, d.p.r. 2001 n. 380), che sanziona di nullità gli atti tra vivi relativi ad edifici o loro parti laddove non risultino gli estremi della concessione ad edificare (oggi permesso di costruire) od in sanatoria.

Con l’apertura della successione, infatti, i coeredi divengono, sin da tale momento, titolari del diritto ad una quota ideale del tutto, ma le operazioni divisionali (sia amichevoli che giudiziali) sono volte a trasformare tali diritti già acquisiti su quote ideali in diritti di proprietà individuali sui singoli beni (Trib. Napoli 15.10.2003, in Giur. Merito 2004, pg. 1110), diritti di proprietà che nascono da un’autonoma iniziativa di soggetti diversi dal de cuius.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI MARSALA

SEZIONE CIVILE

in persona del dr. Pier Luigi Tomaiuoli, in funzione di Giudice unico, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado, iscritta al n. 1683 R.G. degli Affari Civili Contenziosi dell'anno 2000 e vertente

TRA

M. MATTEO, M. MARIANO, elett.te dom.ti in Marsala, Via Lungomare Boeo n. 24, presso lo studio dell’Avv. Lorenzo Carini, rappresentante e difensore come da procura a margine dell’atto di citazione;

- attori -

E

M. GIACOMA, elett.te domiciliata in Marsala, via G. Amendola “pal. Impero”, presso lo studio dell’Avv. Sergio Sanfilippo, rappresentante e difensore unitamente all’Avv. Giovanni Gaudino, come da procura in calce alla copia notificata dell’atto di citazione;

- convenuta –

OGGETTO: Divisione ereditaria giudiziale.

CONCLUSIONI come da rispettivi atti introduttivi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 4.12.2000 M. Matteo e M. Mariano convenivano in giudizio la sorella M. Giacoma, chiedendo al Tribunale adito di disporre in tre quote uguali la divisione dei cespiti ereditari rientranti nell’asse della loro madre deceduta Laudicina Giuseppa, e di condannare la convenuta alla corresponsione della quota parte dei frutti loro spettante per il godimento esclusivo dell’immobile a far data dal 2.2.1999; con vittoria di spese.

A sostegno delle proprie domande gli attori allegavano che in data 2.4.1973 era deceduta Laudicina Giuseppa, lasciando a succederle in via legittima i tre figli (gli attori e la convenuta), oltre che il coniuge M. Giacomo, titolare dell’usufrutto uxorio su un terzo dell’asse ereditario; che quest’ultimo era deceduto il 2.2.1999 e l’usufrutto si era pertanto consolidato alla nuda proprietà; che l’asse ereditario relitto dalla Laudicina era composto da 1) immobile sito in Marsala, ad angolo tra la via G. Amendola e la via Dagotti, n. 6, iscritto in catasto al NCEU, partita n. 1023633, foglio di mappa 204, parti. 204, sub B; 2) la metà indivisa di due piccoli vani di secondo piano siti in Marsala, via Dagotti, distinti in catasto al NCEU, partita 1023634, foglio di mappa 204 all c, particella 203 sub 7; 3) la metà indivisa di un vano di terzo piano soprastante i due vani di cui sopra; 4) la metà indivisa di mq 30 di superficie coperta con terrazza di mq. 21, sovrastante l’appartamento; che gli eredi, in quanto fratelli legittimi, erano titolari ciascuno della quota di un terzo; che a far data dal 2.2.1999, deceduto il padre che abitava l’immobile con la convenuta, quest’ultima era rimasta nell’esclusivo godimento dell’immobile ereditario e, pertanto, doveva corrispondere agli altri eredi una quota parte dei frutti tratti.

Si costituiva M. Giacoma, eccependo l’usucapione della quota di due terzi dell’immobile ereditario, avendo ella goduto di tale quota ideale sin dal decesso della madre, e dovendosi pertanto procedere alla divisione del solo terzo rimasto in comunione perché oggetto dell’usufrutto uxorio in capo al padre; che la richiesta di corresponsione di £ 200.000 a titolo di quota parte dei frutti ricavati dal godimento esclusivo dell’immobile non teneva in considerazione il reale valore locativo dell’immobile e delle quote spettanti agli attori; tutto quanto sopra premesso, concludeva per la divisione dell’asse ereditario, con attribuzione a sé della quota di due terzi dell’immobile.

La causa, istruita con produzione di documenti, audizione di testimoni ed esperimento di consulenze tecniche d’ufficio, veniva trattenuta in decisione all’udienza del 6.12.2006, previa assegnazione alle parti dei termini ex art. 190 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda congiunta di divisione dei beni in comunione ereditaria deve essere rigettata per i motivi di cui appresso.

E’ pacifico tra le parti che oggetto dell’asse ereditario sia il seguente bene immobile identificato dal c.t.u.: appartamento di secondo e terzo piano sito ad angolo tra le vie Dagotti ed Amendola, iscritto in catasto al n.c.e.u. del Comune di Marsala, f.m. 208, particelle 204, sub 4 e 203 sub 7.

Il detto appartamento, pur sviluppandosi su due piani, costituisce un unicum abitativo come emerge dalla relazione di c.t.u. e dall’allegata planimetria (dalla quale si evince che il primo piano è sostanzialmente adibito a camere da letto e soggiorno, mentre il secondo, al quale è il primo è collegato da una scala interna, presenta diversi vani, tra cui cucina e tinello).

E’ oggetto di controversia, per contro, la consistenza delle quote ideali di ciascun coerede, posto che la convenuta ha eccepito in via riconvenzionale l’avvenuta usucapione di due terzi dell’immobile in questione, per averlo abitato da oltre 20 anni e sino al 1999 con la propria famiglia unitamente al padre, titolare dell’usufrutto sul restante terzo dell’immobile.

L’eccezione è infondata.

E’ vero che il coerede può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri coeredi, senza che sia necessaria una vera e propria interversione del titolo del possesso, ma è anche vero che tale possibilità passa per l’esclusività del godimento dei beni ereditari (ex multis: Cass. Civ., Sez. II, 25.9.2002, n. 13921; Cass. Civ., Sez. , II, 20.8.2002, n. 12260; Cass. Civ., Sez. II, 7.7.1999, n. 7075), con il relativo corpus possessionis ed animus rem sibi habendi uti dominus (e non già uti condominus).

Nel caso di specie, invece, è pacifico che ad abitare l’immobile sino al 1999 siano stati la convenuta ed altro coerede, il defunto genitore attributario dell’usufrutto sulla quota ideale di un terzo, con la conseguenza che il bene ereditario non è stato nell’esclusiva disponibilità della convenuta, la quale pertanto non può eccepire l’avvenuta usucapione delle altrui quote.

Dalla relazione di c.t.u. depositata agli atti emerge, però, oltre alla non comoda divisibilità del bene in tre lotti, che “parte delle fabbriche di terzo piano sono state costruite sopra un cornicione” e che per esse “non erano state rilasciate autorizzazioni né concessioni”.

Dei 104 mq di terzo piano, dunque, ben 54 sono stati costruiti abusivamente (cucina, tinello, disimpegno e wc).

Viene all’esame di questo giudice, quindi, la questione relativa alla divisibilità o meno della comunione ereditaria formatasi su un immobile (parzialmente) abusivo.

La giurisprudenza di merito maggioritaria ritiene che osti a tale divisibilità il disposto di cui all’art. 17, I comma, legge 1985 n. 47 (oggi abrogato e sostituito dall’analogo art. 46, d.p.r. 2001 n. 380), a mente del quale “gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo l’entrata in vigore della presente legge, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria”; ovvero il disposto di cui all’art. 40 della stessa legge che analogamente dispone per gli abusi edilizi realizzati prima della sua entrata in vigore in mancanza di presentazione della concessione in sanatoria, ovvero della relativa istanza accompagnata dal versamento della rate di oblazione previste.

La comminazione della sanzione della nullità per gli atti inter vivos sopra detti risponde alla ratio pubblicistica di impedire il consolidarsi di gravi violazioni urbanistiche mediante la circolazione dei beni abusivi, circolazione ritenuta confliggente con l’interesse superindividuale ad un ordinato assetto del territorio.

La tesi della non divisibilità della comunione ereditaria, tuttavia, è stata sconfessata dalla Corte di Cassazione con la pronunzia n. 15133 del 28.11.2001, secondo cui la sanzione in questione, stando al tenore letterale della norma, trova applicazione unicamente con riferimento agli atti tra vivi, con esclusione di quelli mortis causa, tra cui dovrebbe annoverarsi lo scioglimento della comunione ereditaria.

Sempre secondo tale pronunzia, la divisione ereditaria, pur attuandosi dopo la morte del de cuius, “costituisce l’evento terminale della vicenda successoria e, quindi, rispetto a questa non può considerarsi autonoma”.

La conferma della natura derivata della divisione ereditaria sarebbe data dall’art. 757 c.c., che assegna efficacia retroattiva alle attribuzioni scaturenti dall’atto divisionale.

Si osserva, peraltro, che diversamente opinando “si perverrebbe ad irragionevoli differenze di trattamento rispetto a situazioni sostanzialmente omogenee, non potendosi in alcun modo giustificare l’esigenza dell’applicazione della norma in esame alla divisione ereditaria e la non applicazione di essa alla divisione operata dal testatore oppure l’applicazione della norma in ipotesi di attribuzione ereditaria di un edificio a più soggetti e la non applicazione all’ipotesi di attribuzione ereditaria dello stesso edificio ad un solo soggetto”.

L’argomento principale della tesi sopra esposta è, dunque, la natura mortis causa dello scioglimento della comunione ereditaria, in quanto mero atto dipendente dall’apertura della successione e dall’efficacia dichiarativa.

Esso, tuttavia, non convince appieno.

Va precisato, in primo luogo che - come riconosciuto anche dalla citata sentenza della Cassazione - la pronunzia giudiziale di scioglimento della divisione, avendo funzione suppletiva di quella negoziale, di certo incontra gli stessi limiti di quest’ultima, poiché altrimenti opinando si finirebbe per attribuire alla prima una funzione elusiva delle norme imperative che governano la seconda.

E’ stato osservato, poi, che la divisione ereditaria giudiziale (al pari di quella amichevole) non è equiparabile od assimilabile ad un atto mortis causa, sebbene dalla morte di un soggetto tragga la sua causa remota (Trib. Termini Imerese 12.5.2003, in Giur. It. 2004, 987; Trib. Napoli 16.10.2002, in Giur. Napoletana 2003, 32).

Con l’apertura della successione, infatti, i coeredi divengono, sin da tale momento, titolari del diritto ad una quota ideale del tutto, ma le operazioni divisionali (sia amichevoli che giudiziali) sono volte a trasformare tali diritti già acquisiti su quote ideali in diritti di proprietà individuali sui singoli beni (Trib. Napoli 15.10.2003, in Giur. Merito 2004, pg. 1110), diritti di proprietà che nascono da un’autonoma iniziativa di soggetti diversi dal de cuius.

Quivi si nota la differenza sostanziale con la non omogenea ipotesi della divisione operata dal testatore, laddove l’attribuzione di singole proprietà è operata direttamente dal de cuius, di guisa che essa prescinde da una vera e propria comunione.

La tesi della natura meramente dichiarativa dello scioglimento della comunione ereditaria, sottesa alla pronunzia della Corte, è del resto attualmente recessiva in dottrina, ove si sottolinea la sostanziale identità nella sistematica del codice del negozio di divisione, a prescindere dalla fonte della comunione (inter vivos o mortis causa), e la sua natura costitutiva (si veda per una chiara affermazione in tal senso, sia pure quale obiter dictum, Cass. Civ., Sez. II, 29.4.2003, n. 6653, in parte motiva).

A tale configurazione non sembrerebbe ostare il disposto di cui all’art. 757 c.c., in forza del quale il coerede è reputato immediato successore in tutti i beni attribuitigli in seguito alla divisione, poiché tale disposizione si limita, con una fictio iuris e per ragioni di certezza nella circolazione dei beni giuridici, a far retroagire gli effetti (costitutivi) della stessa.

Lo stesso tenore letterale della norma, a mente della quale il coerede “si reputa” e non già “è” coerede, deporrebbe per l’esclusione della natura meramente dichiarativa della sentenza di divisione.

Né, infine, la tesi della natura costitutiva della divisione (anche) ereditaria sembra comportare un irragionevole disparità di trattamento tra l’ipotesi dell’attribuzione di un bene a più coeredi e quella di attribuzione ad un solo soggetto.

In tale ultima ipotesi, infatti, mancando la comunione, manca anche il negozio di scioglimento che rientra tra gli atti vietati dalla norma de qua, la quale non sanziona l’abusività in sé ma (di nullità) il conseguente traffico giuridico.

Anche a non volere condividere la tesi della natura di atto inter vivos del negozio di scioglimento della comunione ereditaria (con i riflessi evidenziati sulla sostitutiva pronunzia giudiziale), vi è di certo che nell’ipotesi, come quella di specie, in cui lo scioglimento debba avvenire non già mediante attribuzione di singoli beni (o parte di beni) ai condividenti ovvero con assegnazione del tutto indivisibile ad un coerede richiedente, ma mediante vendita giudiziale (stante la non divisibilità e la mancata richiesta di assegnazione da alcuna delle parti), non può sostenersi la non applicabilità dell’art. 17, comma I, legge 1985 n. 47 (oggi art. 46 d.p.r. 2001 n. 380).

In questo caso lo scioglimento della comunione passa per l’atto di vendita ad un soggetto terzo, il quale all’evidenza è estraneo alla vicenda successoria, sicché il suo acquisto non può di certo essere qualificato mortis causa per il semplice fatto che i suoi danti causa (i comunisti) hanno acquistato il bene in via ereditaria.

Così opinando, infatti, si dovrebbe (non condivisibilmente) ritenere che qualsiasi acquisto da un soggetto cui il bene sia pervenuto in via ereditaria debba qualificarsi mortis causa.

Alla luce delle considerazioni che precedono, dunque, la domanda di scioglimento della comunione ereditaria deve essere rigettata.

Vale la pena di osservare che siffatta conclusione non determina chiaramente uno stato di permanente coatta comunione, ben potendo i comproprietari, nei modi e nei limiti previsti dall’ordinamento a tutela delle loro facoltà di comunisti, attivarsi per eliminare l’abuso e procedere indi a divisione.

Va disposta la trasmissione di copia della presente sentenza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Marsala per le proprie determinazioni in ordine all’abuso di cui in parte motiva.

La parte attrice ha, poi, spiegato domanda di condanna del coerede alla corresponsione della quota parte dei frutti derivati dal godimento esclusivo del bene comune.

Non avendo il c.t.u. fornito risposta al quesito postogli al riguardo, la causa deve essere rimessa sul ruolo per l’accertamento del canone di locazione ritraibile dal bene in questione a far data dal 2.2.1999.

Spese al definitivo.

P.Q.M.

Il Tribunale di Marsala, non definitivamente pronunciando, ogni altra istanza, domanda od eccezione disattese, così provvede:

1. rigetta la domanda di divisione;

2. rimette la causa sul ruolo come da separata ordinanza per l’ulteriore istruttoria di cui in parte motiva;

3. spese al definitivo.

Così deciso in Marsala, 14.12.2006.

Obbligo del Giudice civile di motivare la decisione di compensazione delle spese

INTRODOTTO, NEL MARZO 2006, L’OBBLIGO PER IL GIUDICE DI MOTIVARE LA DECISIONE DI COMPENSAZIONE DELLE SPESE

In base alla legge 28 dicembre 2005 n. 263 – (Cassazione Sezione Prima Civile n. 1595 del 24 gennaio 2007, Pres. Luccioli, Rel. San Giorgio).
Per i procedimenti giudiziari iniziati prima del 1 marzo 2006 la decisione di compensare totalmente o parzialmente le spese processuali rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiede specifica motivazione. Ai procedimenti instaurati a far tempo dal 1 marzo 2006 si applica la legge 28 dicembre 2005 n. 263, il cui articolo 2 ha introdotto l’obbligo del giudice di indicare motivi della compensazione.

venerdì 9 febbraio 2007

Trasportato, codice delle assicurazioni e profili di legittimità costituzionale


Giudice di Pace

Montepulciano

Ordinanza 19 dicembre 2006

UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE DI MONTE PULCIANO ORDINANZA DI RIMESSIONE ATTI ALLA CORTE COSTITUZIONALE EX ART.•23 L. 11.03.1957, N. 83

II Giudice di Pace, di Montepulciano,

letto il ricorso per risarcimento danni da incidente stradale depositato presso la Cancellerìa di questo Ufficio in data 25.9.2006, iscritto al n. r.g. 691/06, con il quale…

omissis

- rilevato che alla prima udienza il convenuto sollevava eccezione preliminare ai sensi degli artt. 134 cost. art. 23 L. 87/1953, ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente dell'art, 141 del D.lgs 07.09.2005 n. 209 per contrasto con gli artt. 3-24-76 della Costituzione della Repubblica Italiana nella parte in cui prevede, in caso di lesioni del terzo trasportato la risarcibilità in capo alla compagnia assicuratrice del vettore indipendentemente dalla responsabilità di detto conducente e conseguentemente sospendere il presente giudizio, provvedendo l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

- osservato che ad avviso di questo giudice la menzionata norma - art. 141 del D.lgs 209/2005 acquista rilievo sotto il profilo dell'incostituzionalità, riportandosi in diritto integralmente alla memoria difensiva di costituzione del convenuto G. S. e cioè:

Incostituzionalità dell'art. 141 del decreto Legislativo 7 settembre 2005 n_« 209 Codice delle Assicurazioni private (G.U. n. 239 del 13.10.2005, Supplemento Ordinarlo)

La ricorrente espone che trovavasi trasportata sull'auto condotta dall'odierno convenuto che venne tamponata da altra auto e pertanto, essendo pacifica l'assoluta non responsabilità del vettore (C . sul quale viaggiava, ha agito in via diretta nei confronti del predetto conducente - vettore e della relativa compagnia assicurativa mediante la disposizione dell'art. 141 del codice delle Assicurazioni).

Occorre pertanto soffermarsi prima su detto articolo 141 e dèi relativo iter di approvazione e sollevare poi, incidentalmente, .eccezione di incostituzionalità della norma de gua per i motivi che in seguito esporremo non prima di aver esposto le conseguenze (negative) in capo al terzo trasportato tra il .passaggio dal vecchio al nuovo modello.

A. Tutela del trasportato sino al 31.12.2005.

Per verificare appieno la portata involutiva del nuovo codice delle assicurazioni sull'art. 141 occorre, sinteticamente, ripercorrere come funzionava il sistema risarcitorio per i terzi trasportati sino al 31.12.2005.

Al terzo trasportato, in caso di sinistri stradali, erano concesse tre vie risarcitorie alternative : a.) ex art, 1681 qualora vi _fosse un contratto di trasporto anche a titolo gratuito; b) ex art, 2054 C, C. contro il soggetto che aveva effettuato il trasporto e, mediante l'art. 1 L. 990/69, nei della compagnia assicurativa del medesimo qualora nel ministro stradale non fossero coinvolti altri veicoli (il caso di uscita di strada- e lesioni al trasportato ; e) caso di scontro, mediante l'art. 2054 C.C., comma 2° contro l’assicurazione del veicolo antagonista ed il responsabile; d) in caso di scontro tra veicoli contro tutti i responsabili ed i relativi istituti assicurativi avvalendosi della presunzione di cui ali'art. 2055 C.C..

Ne deriva che nel vecchio sistema il terzo trasportato aveva un ventaglio di possibilità di tutele ovvero una nutrita schiera di debitori solidali.

B. Tutela del trasportato dal 01.01.2006 mediante l'art. 141 Codice Assicurazioni.

La situazione sopra descritta muta radicalmente con l'entrata in vigore del nuovo sistema rappresentato dall'art. 141 dei Codice delle Assicurazioni, già in vigore per i sinistri accaduti a far data dal 01/01/2006 in avanti come quello per cui è scaturito il presente procedimento.

La riforma ha stabilito che il terzo trasportato deve essere risarcito dal vettore e dalla compagnia di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro a prescindere dall'accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro: è fatto salvo il caso fortuito, inciso questo sul quale torneremo. In sintesi la nuova disciplina prevede che: a) l'impresa assicuratrice del veicolo sul quale viaggiava il trasportato lo risarcisce indipendentemente dalla condotto colposa del guidatore; b) il terzo trasportato ha azione diretta solo contro l'assicurazione del vettore. Detta disciplina sopra descritta impone una riflessione: la trasformazione della tutela del terzo trasportato in un sistema di no-fault ossia uno schema che prescìnde integralmente dalla colpa od altrimenti detta responsabilità oggettiva prestando quindi il fianco, almeno sui risarcimento del danno morale giacché, se è pur vero che la Cassazione è venuta a superare i limiti di rìsarcibìlità ogni qualvolta siano Stati lesi beni tutelati dalla Costituzione, è altresì vero che la Consulta, è ferma nel limitare la risarcibilità di tale danno morale alla colpa presunta ma non alla responsabilità oggettiva!

In apparenza potrebbe sembrare una notevole semplificazione quella per ottenere il risarcimento per il trasportato: solo però apparentemente in quanto non è tutto oro quel che luccica.

In ogni caso, qualora anche vi fosse un quid pluris (in realtà vedremo che non è così!) rimarrebbe un dato oggettivo ineludìbile": il trasportato è obbligato a percorrere una determinata via e tale limitazione, così incidente sul diritto del terzo trasportato, non è stata prevista né in sede di legge delega in violazione dell'art. 76 Cost. né all'art. 178 dello Schema di decreto legislativo sottoposto al parere del Consiglio di Stato e poi al vaglio delle Commissioni parlamentari che non individuava modifiche rispetto all'ordinario criterio di individuazione dell'impresa legittimata passiva.

C. Il quadro normativo e l'iter approvativo dell'art. 141 Cod. Ass.

1. La scelta del decreto legislativo.

II nostro legislatore, per riordinare il settore assicurativo, ha scelto la strada del decreto legislativo ovvero una nonna dell'ordinamento giuridico con forza di legge emanato, in via eccezionale, dal Governo su delega del Parlamento; quest'ultimo ricorre alla delega dell'esercizio del potere legislativo, nei casi in cui la materia oggetto del decreto sia molto complessa o richieda un lungo procedimento di formazione della legge; per cui il Governo, che può avvalersi dell'aiuto di organi consultivi tecnici, appare come il più idoneo a legiferare. La delega deve essere esercitata in un termine prefissato e nel rispetto dì principi e criteri direttivi indicati nella legge delega,, così come previsto dall'articolo 76 della Costituzione: nell'emanare il decreto il Governo deve rispettare rigorosamente i limiti ed i principi sanciti nella legge delega. Se ciò non avviene il decreto legislativo è viziato d'incostituzionalità per eccesso di delega- II procedimento di formazione del decreto legislativo è disciplinato dall'art.14 della Legge n.400 del 1988 che configura, appunto, il Governo come soggetto competente ad adottare l'atto.

2. La legge delega.

Nel caso del Codice delle Assicurazioni o meglio del Decreto Legislativo 7 settembre 2005, n.259, la legge delega è la nr. 229 del 29 luglio 2003, che ha riservato al riassetto del settore assicurativo l'art. 4.

Ecco esattamente cosa stabiliva il predetto art, 4:

"1. Il Governo è delegato ad adottare entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge uno o più decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni, ai sensi e secondo i principi e criteri direttivi di cui all'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, come sostituito dall'articolo 1 della presente legge, e nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

a) adeguamento della normativa alle disposizioni comunitarie e agli accordi Internazionali;

b) tutela dei consumatori e, in generale, dei contraenti più deboli, sotto il profilo della trasparenza delle condizioni contrattuali, nonché dell 'informativa, preliminare, contestuale e successiva alla conclusione del contratto, avendo riguardo anche alla correttezza dei messaggi pubblicitari e del processo di liquidazione dei sinistri ? compresi gli aspetti strutturali tale Servìzio;

salvaguardia dell'effettiva concorrenza tra le Imprese fattorizzate all'esercizio dell'attivita assicurativa in Italia operanti in regime di libertà di prestazioni di servizi;

previsione di specifici requisiti di accesso e di esercizio

le società di mutua assicurazione esonerate dal pieno rispetto delle norme comunitarie, nonché per le imprese di riassicurazione;

e) garanzia di una corretta gestione patrimoniale e finanziaria delle imprese autorizzate all'esercizio dell'attività assicurativa, anche nell 'ipotesi di una loro appartenenza ad un gruppo assicurativo, nonché con riferimento alle partecipazioni di imprese assicurative in soggetti esercenti attività connesse a quella assicurativa e di partecipazione di questi ultimi in imprese assicurative;

f) armonizzazione della disciplina delle diverse figure di intermediari nell'attività di distribuzione dei servizi assicurativi, compresi i soggetti che, per conto di intermediari, svollgono questa attività nei confronti del pubblico;

g) armonizzazione della disciplina sull’esercizio e sulla vigilanza delle imprese di assicurazione e degli intermediari assicurativi alla normativa comunitaria;

h) riformulazione dell'apparato sanzionatorio alla luce dei principi generali in materia ;

1) affiancando alle ipotesi di ricorso alla sanzione amministrativa pecuniaria nei riguardi di imprese e operatori del settore, la previsione di specifiche sanzioni penali, modulate tra limiti minimi e massimi, nei casi di abusivo esercizio di attività assicurativa, agenziale, mediatizia e peritale da parte dì imprese e soggetti non autorizzati o non iscritti ai previsti albi e ruoli ovvero di rifiuto di accesso, opposto ai funzionare dell'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo (ISVAP), agli uffici o alla documentazione relativa alle anzidette attività, anche esercitate in via di fatto o, infine, di truffa assicurati va;

2) prevedendo la facoltà di difesa in giudizio da parte dell'ISVAP, a mezzo dei suoi funzionar!, nei ricorsi contro i provvedimenti sanzionatori di cui all'articolo 6 della legge 5 marzo 2001, n. 51;

i) riassetto della disciplina dei rapporti tra l'ISVAP e il Governo, in ordine alle procedure di crisi cui sono assoggettate le imprese di assicurazione.''

Non essendo il Governo riuscito a rispettare il limite temporale di un anno, con la legge 27 luglio 2004, n.186 si è ampliato il limite temporale a due anni, rimanendo fermo il resto.

D. I profili e i motivi di incostituzionalità dell'art. 141 Codice Assicurazioni.

Il principio introdotto dall'art. 141 è lo stesso che ha condotto il legislatore delegato a formulare il successivo ai 149 del Codice delle Assicurazioni; entrambi sono già stati ampiamente commentati da autorevole dottrina che li ha tacciati di palese incostituzionalità e, in merito all'art. 141 valgono certamente tutti i palesati dubbi di incostituzionalità che sono già stati rilevati per l'art, 149.

In esercizio della delega conferita e poi prorogata, il Governo ha emanato il decreto legislativo del 07 Settembre 2005 n. 209 Codice delle Assicurazioni private. Per quanto interessa il presente giudizio, l'art. 141 ha introdotto nell'ordinamento interno il sistema di risarcimento del terzo trasportato, secondo cui "salva l'ipotesi di sinistro cagionato da caso fortuito, il danno subito dal terzo trasportato è risarcito dall'impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro entro il massimale minimo di legge, fermo restando quanto previsto all'articolo 140, a prescindere dall'accertamenti della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro, fermo il diritto al risarcimento dell'eventuale maggior danno nei confronti dell'impresa di assicurazione del responsabile civile, se il veicolo di quest'ultimo è coperto per un massimale superiore o quello minimo. Per ottenere il risarcimento il terzo trasportato promuove nei confronti dell'impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro la procedura di risarcimento prevista dall'articolo 148. L'azione diretta avente ad oggetto il risarcimento è esercitata nei confronti dell'impresa di assicurazione del veicolo sul quale il danneggiato era a bordo, al momento del Sinistro- nei termini di cui all'articolo 145. L'impresa di assicurazione del responsabile civile può intervenire nel giudizio e può estromettere l'impresa di assicurazione del veicolo, riconoscendo la responsabilità del proprio assicurato. Si applicano, in guanto compatibili, Je disposizioni del capo 17, l'impresa di assicurazione che ha effettuato il pagamento ha ' diritto - di rivalsa nei confronti dell'impresa di assicurazione del responsabile civile nei limiti ed alle condizioni previste dall'articolo 150",

In estrema sintesi: il trasportato deve necessariamente rivolgere la propria richiesta danni al proprio vettore ed alla relativa compagnia indipendentemente da qualsiasi responsabilità in capo al vettore: vengono stravolti ed abdicati i canoni classici e tipici della responsabilità civile.

Il danneggiato non ha alcuna possibilità di rivolgere le proprie istanze risarcitorie alla compagnia del civile responsabile in spregio ed in aperto contrasto con la Direttiva 2005/14/CE del Parlamento Europeo, il cui art. 4 quinquies obbliga gli stati membri a provvedere affinchè le persone lese da un sinistro, causato da un veicolo assicurato/ possano avvalersi di un'azione diretta nei confronti dell'impresa che assicura contro la responsabilità civile la persona "^responsabile del sinistro,

1) La rilevanza della questione.

Fermo quanto già detto sulla circostanza che la trasportata si 'trovava sull'auto condotta dall'odierno convenuto che venne tamponata da altra auto e pertanto, l'agire della M. G. nei confronti del G. S., che non ha alcuna responsabilità nella causazione del sinistro, non può che avvenire mediante l'utilizzo della previsione legislativa dell'art. 141 del Codice delle Assicurazioni.

Nel caso de guo il collegamento giuridico e non già di mero fatto, tra la res iuridicancte e la norma di legge ritenuta in contrasto con il dettato costituzionale si evidenzia ictu oculi ed appare fondamentale ai finì sostanziali, atteso che, in assenza dì detto articolo, 1'azione sarebbe stata interposta nei confronti del responsabile del danno e della relativa compagnia assicurativa, soggetti diversi dagli odierni convenuti e pertanto 1'aderenza o meno al detta costituzionale di detto* articolo 141 appare indiscutibilmente rilevante ai fini decisori: infatti ove si ritenesse il suddetto disposto normativo in contrasto con la Costituzione la domanda risarcitoria dovrebbe essere rivolta al responsabile del sinistro ed alla relativa Compagnia.

2) La non manifesta infondatezza.

Il (mancato) parere del Consiglio di stato.

Il primo comma dell'art. 4 della L.229/2003 rimanda ai ""principi e criteri direttivi di cui all'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, come sostituito dall'articolo 1 della legge delega in esame, e nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi": fra questi vi è l'obbligatorietà della preventiva richiesta di parere al Consiglio di Stato, che, in effetti in data 14 febbraio 2005, ha emesso il parere n. 11603. Occorre evidenziare che, al Consiglio di Stato, è stato sottoposto uno schema di codice che era parzialmente diverso da quello poi emanato e, soprattutto, assolutamente privo delle norme relative al risarcimento diretto. Ora, non è come chi non veda che, quando il Governo ha deciso di modificare, radicalmente, il Codice delle Assicurazioni nserendo i nuovi artt. 141, 149 e 150, in virtù degli artt. 4 e 1 della L,229/2003 ed in applicazione all'art. 76 deÌla Costituzione, avrebbe dovuto risottoporre al Consiglio di Stato il Codice, onde ottenerne un nuovo parere. Ma cosi non è stato, anche perché, altrimenti, sarebbe "scaduta" la delega conferita. E' evidente, quindi, che già per questi motivi gli articoli relativi al risarcimento (rectius indennizzo) del terzo trasportato da ritenersi incostituzionali essendo stati inseriti all'ultimo momento senza il rigoroso rispetto del dettato della legge delega il quale richiedeva l'obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato.

b) L'eccesso di delega ex art. 76 della Costituzione ed il risarcimento del danno.

II potere normativo delegato, essendo testualmente limitato ad una funzione di riassetto delle disposizioni vìgenti in materia assicurativa, anche se inteso non come attività di mera compilazione, non può estendersi sino all'innovazione sostanziale o all'abrogazione di fatto di norme esistenti, operazione questa istituzionalmente sottoposta alla decisione del Parlamento.

Già si è visto come, la mancata richiesta preventiva del parere del Consiglio di Stato, configuri ipotesi di eccesso di delega. Ora, limitiamoci invece ad esaminare il contenuto della legge delega, in tema di risarcimento del danno e liquidazione dei sinistri.

Ad onor del vero, la legge delega in nessun punto entra specificatamente nel merito del risarcimento dei danni e nella liquidazione dei sinistri, se non alla lettera b) ove impone al Governo di rispettare i principi e criteri direttivi a tutela del consumatore e, in generale, dei contraenti più deboli, limitatamente al profilo della trasparenza delle condizioni contrattuali, nonché dell'informativa preliminare, contestuale e successiva alla conclusione del contratto, avendo riguardo anche al processo di liquidazione dei sinistri, compresi gli aspetti strutturali di tale servizio.

" E' chiaro che il legislatore intendeva tutelare due soggetti ben, precisi: il consumatore ed il contraente più debole e non certo modificare i principi generali di risarcimento dei danni.. II consumatore, come veniva definito dall'arti.2 della L.281/1998, altri non è se non la persona fisica che acquista o utilizza beni o servizi per scopi non riferibili all''attivìtà imprenditoriale e professionale eventualmente svolta. Analogamenter il contraente altri non è se non chi ha contratto una polizza di assicurazioni. Pertanto, la tutela doveva essere riservata a tutti i rapporti contrattuali (e non extra-contrattuali), ovvero alle cosiddette garanzie dirette, a favore degli assicurati-consumatori-contraenti., L'art. 141, al pari del 149, del Codice delle Assicurazioni non prende assolutamente in considerazione i soggetti sopra descritti/ ma bensì i danneggiati o, dando un'altra definizione, i le vìttime di un sinistro stradale. Il danneggiato in .' conseguenza di un sinistro non è nella fattispecie consumatore e tanto meno contraente, ma bensì controparte di un altro soggetto -col quale non vi è nessun rapporto contrattuale o di contraerea- il quale commettendo un fatto illecito ha causato dei danni ingiusti che debbono essere risarciti ai sensi degli , artt. 2043 e 2054 c.c, . In virtù dell'art. 141 i danneggiati, che rientrino in uno dei casi ivi previsti, sono ora obbligati a chiedere il risarcimento del danno non a chi è responsabile dello stesso, ai termini del codice civile, ma bensì ad un altro soggetto; ovvero alla compagnia assicuratrice del proprio vettore indipendentemente dalla sussistenza o meno in capo allo .stesse di alcuna responsabilità in capo al vettore anche in via meramente residuale. E’ pertanto chiaro che il decreto legislativo ha modificato, sia sostanzialmente sia proceduralmente, i diritti dei danneggiati, facoltà questa non concessa dalla legge delega.

Ma non solo. Il Codice delle Assicurazioni ha altresì ridotto i doveri anche dei responsabili dei sinistri stradali datosì che costoro non dovranno più neppure essere convenuti in giudizio ed in prima persona non saranno più tenuti a rispondere in solido del danno cagionato. Infatti, l'art. 141 punto 3 prevede che il danneggiato possa proporre l'azione diretta di cui all'art. 145, nei soli confronti dell'impresa di assicurazione del vettore senza far menzione alcuna anche al responsabile del sinistro (in contrasto con quanto previsto dall'art. 144 dello stesso codice oltre che dei principi generali dell'ordinamento giuridico) ed ovviamente alla compagnia del civile responsabile. Responsabile che, del resto, fino ad allora potrebbe, anzi dovrebbe, non aver mai neppure ricevuto una richiesta di risarcimento visto il richiamo operato all'art. 148.

Ciò posto, tornando all'argomento principe, è evidente che il Parlamento, conferendo la delega al Governo, voleva tutelare i consumatori-contraenti come sopra meglio definiti e non agevolare (o favorire) i responsabili dei sinistri (come avviene con l'indennizzo diretto del terzo trasportato) o modificare i diritti dei danneggiati. E, comunque, non ha conferito delega alcuna circa l'eventuale modifica dei diritti-doveri dei danneggiati-danneggianti mediante lo stravolgimento del principio generale del ueminem ledere e del codice civile (nonché processuale). L'emanazione dell'art. 141 dimostra invece il diverso comportamento del legislatore delegato e pertanto è evidente come il Governo sia andato ben oltre alla delega conferita.

Non meno grave è la violazione del diritto comunitario laddove si è, con il risarcimento diretto, disattesa la V Direttiva, eliminando l'azione diretta nei confronti dell'impresa del civile responsabile e pertanto, a breve, è facile prevedere sin da ora anche ricorsi alla Corte Europea.

C) Violazione dell'art. 3 della Costituzione.

Un principio fondamentale della nostra carta costituzionale è quello dell'uguaglianza avanti alla legge.

Con l'introduzione del sistema risarcìtorio previsto dall'art, 141 del Codice delle Assicurazioni l'indennizzo diretto tale principio viene meno in quanto, per il medesimo fatto illecito, i cittadini devono sottostare a norme giuridiche, risarcimento, attribuzione dì responsabilità ed a comportamenti differenti. In realtà la norma apre un vulnus di tutela in varie ipotesi, che, solo in via sintetica si può indicare:

- qualora il sinistro sia ascrivibile alla responsabilità esclusiva di un soggetto non coperto da Rca;'

- qualora la responsabilità sia ascrivibile, in via concorsuali al vettore del proprio mezzo nonché all'ente gestore della strada,

È facile osservare che in dette ipotesi, il terzo trasportato avrà una tutela maggiore in ambi i casi in quanto potrà contare ed agire nei confronti di più soggetti od in altri termini avrà più debitori solidali da escutere mentre il trasportato potrà agire soltanto nei confronti dell'assicuratore del proprio vettore mentre la disciplina prevista dall'art. 141 prevede un minus di tutela. Vi è di più. La norma testualmente fa riferimento alla nozione di danno subito dal terzo trasportato e quindi sembra escludere l'ipotesi di decesso del passeggero e quindi gli eredi del defunto potranno contare sui principi generali in materia di responsabilità e trovarsi di fronte più debitori solidali diversamente dal trasportato macroleso!

Ma le disparità di trattamento e di tutela tra situazioni giuridiche analoghe sono infinite a dimostrazione della palese incostituzionalità della norma.

d) Violazione dell'art. 24 della Costituzione.

Il 1° comma dell'art. 141 del Codice delle Assicurazioni esordisce affermando che l'assicuratore del vettore è tenuto ad indennizzare il terzo trasportato "salva l'ipotesi di sinistro cagionato”'da caso fortuito".

Il caso fortuito secondo l'opinione condivisa dalla Suprema Corte da oltre mezzo secolo comprende anche il fatto del terzo: pertanto la responsabilità dell'assicuratore del vettore è esclusa quando il sinistro è dovuto sia a cause naturali sia a colpa di altro conducente.

Al di là della contraddizione in termini nell'affermare che l'assicuratore risponde "salvo il caso fortuito" e l'aggiungere che tale responsabilità "prescinde dall'accertamento della responsabilità di altri conducente, vi è una vera e propria lesione del diritto di difesa in capo alla compagnia assicurativa del vettore, la quale, non potrà efficacemente tutelarsi non disponendo di elementi idonei a dimostrare l'esclusiva responsabilità dell'altro conducente visto e considerato che, detto altro conducente qualora operi l'art. 149 Codice Assicurazioni, viene risarcito dalla propria compagnia. In altre parole la compagnia del vettore avrà notevoli difficoltà a dimostrare la colpa esclusiva dell'altro conducente ed far scattare l'inoperatività dell'art. 141;

- considerato pertanto che la questione appare, rilevante ai fini della decisione nel giudizio per sospetta incostituzionalità, la cui decisione scaturirà dalla decisione che la Corte Costituzionale darà alla questione, visto l'art. 23, comma 3, L. 11.3.1957, n. 3 solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 141 del decreto legislativo 1 settembre 2005 n. 209,per contrasto con gli artt. 3-24-76 della Costituzione,

per i motivi di cui alla presente ordinanza,

sospende il presente giudizio in corso,

dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale in Roma,

ordina alla cancelleria dì notificare con urgenza la presente ordinanza alle parti in causa e al Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché di comunicarla al Sig. Presidente del Senato della Repubblica e al Sig. Presidente della Camera dei Deputati.

Montepulciano, 19.12.2006

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