Corte Costituzionale , sentenza 17.07.2009 n° 224
nel bilanciamento tra la libertà di associarsi in partiti, tutelata dall'art. 49 Cost., e l'esigenza di assicurare la terzietà dei magistrati ed anche l'immagine di estraneità agli interessi dei partiti che si contendono il campo, l'art. 98, terzo comma, Cost. ha demandato al legislatore ordinario la facoltà di stabilire «limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati» (nonché per le altre categorie di funzionari pubblici ivi contemplate: «i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero»).
La Costituzione, quindi, se non impone, tuttavia consente che il legislatore ordinario introduca, a tutela e salvaguardia dell'imparzialità e dell'indipendenza dell'ordine giudiziario, il divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati: quindi, per rafforzare la garanzia della loro soggezione soltanto alla Costituzione e alla legge e per evitare che l'esercizio delle loro delicate funzioni sia offuscato dall'essere essi legati ad una struttura partitica che importa anche vincoli gerarchici interni.
Corte Costituzionale
Sentenza 17 luglio 2009, n. 224
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d), numero 2), della legge 24 ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell'efficacia nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario), promosso dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nel procedimento relativo a L.B., con ordinanza dell'11 novembre 2008, iscritta al n. 23 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2009.
Udito nella camera di consiglio del 10 giugno 2009 il Giudice relatore Paolo Maddalena.
Ritenuto in fatto
La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con ordinanza dell'11 novembre 2008, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 18, 49 e 98 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d), numero 2), della legge 24 ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell'efficacia nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario).
La Sezione disciplinare rimettente premette che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha esercitato l'azione disciplinare nei confronti del dott. Luigi Bobbio, magistrato attualmente fuori del ruolo organico della magistratura perché addetto ad una funzione di consulenza parlamentare, già parlamentare egli stesso, contestandogli la violazione degli artt. 1 e 3, comma 1, lettera h), del d.lgs. n. 109 del 2006, come modificato dalla legge n. 269 del 2006, nonché del codice etico della magistratura, per avere egli in data 5 maggio 2007 accettato ed assunto la carica di presidente della federazione provinciale di Napoli del partito di Alleanza Nazionale.
La norma denunciata configura quale illecito disciplinare l'iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato.
Il giudice a quo rileva che, nella lettera e nella logica della legge, l'incarico politico, ovvero l'assunzione della qualità di appartenente ad un partito politico e più ancora l'assunzione di una carica rilevante in un partito politico, atti che esplicitano e presuppongono una coerente attività politica, non vengono in alcun modo differenziate a seconda che si tratti, o meno, di partiti politici sicuramente “legittimi” e come tali anche rappresentati in Parlamento.
Secondo il rimettente, l'art. 49 Cost. fonda il diritto, in capo ad ogni cittadino senza distinzione di sorta, di associarsi liberamente, ovvero senza condizionamento formale o sostanziale, in partiti, per concorrere all'obiettivo fondamentale che è la determinazione democratica della politica nazionale.
Osserva ancora la Sezione disciplinare che l'art. 98, ultimo comma, Cost. prevede che la legge possa stabilire limitazioni all'esercizio del diritto di elettorato passivo, tra l'altro, dei magistrati. La legge ordinaria disciplina espressamente l'esercizio di siffatto diritto con l'apposita limitazione costituita dal preventivo collocamento fuori ruolo (art. 8 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 – «Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati», nel testo modificato dalla legge 3 febbraio 1997, n. 13). La pacifica legittimità della candidatura elettorale di un magistrato fa ritenere che il legislatore non ignori la natura intrinsecamente politica ed inevitabilmente partitica della stessa, la quale dunque, se giustifica il limite della previsione della predetta cautela, non verrebbe perciò stesso respinta.
Invece, la norma denunciata – precisa il rimettente – introduce «un vero e proprio divieto formale ed assoluto» di iscrizione ai partiti politici per i magistrati, «rafforzato da una sanzione per la sua violazione».
Ad avviso della Sezione disciplinare, «nell'economia del giudizio di non manifesta infondatezza», siffatto divieto assoluto andrebbe «oltre la nozione giuridica della mera limitazione, ovvero di una regolamentazione che contemperi il diritto politico del singolo con l'esigenza di imparzialità, anche percepita, del giudice».
Nella volontà del Costituente sarebbe esclusa ogni assimilazione tra i partiti politici in quanto tali ed i centri di affari o di potere affaristico, che la norma denunciata tuttavia menziona, nella sua previsione punitiva, nel medesimo contesto e con una particella alternativa, quasi che il giudizio di disvalore per tutte siffatte possibili appartenenze che al giudice si intendono vietare debba essere di necessità eguale.
Ad avviso del giudice rimettente, «quanto alla partecipazione o al coinvolgimento del magistrato in centri di affari o di potere anche politicamente orientati» non si porrebbe alcun «problema di rispetto del principio costituzionale della parità dei diritti politici, a partire dal diritto di associazione di cui all'art. 2 Cost., in capo a tutti i cittadini», mentre detto problema si presenterebbe per la minacciata punizione della iscrizione e della partecipazione sistematica alla vita di un “partito legittimo”.
La disposizione denunciata, in definitiva, rivelerebbe una sorta di contraddizione – non superabile in via interpretativa – con la normativa che legittima, disciplinandola, la partecipazione del magistrato alle elezioni.
Vi sarebbe, inoltre, un evidente contrasto tra la proibizione e la punizione di cui si tratta ed il complesso ed articolato regime costituzionale, imperniato sull'art. 18 Cost., che vede nel partito politico rispettoso del metodo della legge fondamentale, e quindi non organizzato militarmente, un essenziale luogo di democrazia ed individua la partecipazione allo stesso anche quale diritto della personalità, oltre che quale irrinunciabile strumento di democrazia e, dunque, estensione del principio di cui all'art. 3 della Costituzione.
Considerato in diritto
1. La questione di legittimità costituzionale posta dall'ordinanza in epigrafe investe l'art. 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d), numero 2), della legge 24 ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell'efficacia nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario), il quale configura quale illecito disciplinare – accanto al coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato – l'iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa del magistrato a partiti politici.
Ad avviso della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, che ha sollevato il dubbio di legittimità costituzionale in riferimento agli articoli 2, 3, 18, 49 e 98 della Costituzione, il divieto formale ed assoluto di iscrizione ai partiti politici per il magistrato, rafforzato da una sanzione per la sua violazione, andrebbe oltre la nozione giuridica della mera limitazione, ovvero di una regolamentazione che contemperi il diritto politico del singolo con l'esigenza di imparzialità, anche percepita, del giudice; e irragionevolmente assimilerebbe nel medesimo giudizio di disvalore l'appartenenza a partiti politici ed a centri di affari o di potere affaristico.
La norma denunciata, inoltre, confliggerebbe con il principio costituzionale della parità dei diritti politici, a partire dal diritto di associazione di cui all'art. 2 Cost., in capo a tutti i cittadini; e rivelerebbe una contraddizione con la normativa (art. 8 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 – «Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati», nel testo modificato dalla legge 3 febbraio 1997, n. 13) che legittima, disciplinandola attraverso l'istituto del preventivo collocamento fuori ruolo, la partecipazione del magistrato alle elezioni.
Più in generale, la proibizione e la punizione in esame contrasterebbero con il complesso ed articolato regime costituzionale, imperniato sull'art. 18 Cost., che vede nel partito politico rispettoso del metodo della legge fondamentale, e quindi non organizzato militarmente, un essenziale luogo di democrazia ed individua la partecipazione allo stesso anche quale diritto della personalità, oltre che quale irrinunciabile strumento di democrazia e, dunque, estensione del principio di cui all'art. 3 della Costituzione.
2. La questione non è fondata.
Deve riconoscersi – e non sono possibili dubbi in proposito – che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino e che quindi possono, com'è ovvio, non solo condividere un'idea politica, ma anche espressamente manifestare le proprie opzioni al riguardo.
Ma deve, del pari, ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale (sentenza n. 100 del 1981).
Per la natura della loro funzione, la Costituzione riserva ai magistrati una disciplina del tutto particolare, contenuta nel titolo IV della parte II (artt. 101 e ss.): questa disciplina, da un lato, assicura una posizione peculiare, dall'altro, correlativamente, comporta l'imposizione di speciali doveri.
I magistrati, per dettato costituzionale (artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità.
Proprio in questa prospettiva, nel bilanciamento tra la libertà di associarsi in partiti, tutelata dall'art. 49 Cost., e l'esigenza di assicurare la terzietà dei magistrati ed anche l'immagine di estraneità agli interessi dei partiti che si contendono il campo, l'art. 98, terzo comma, Cost. ha demandato al legislatore ordinario la facoltà di stabilire «limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati» (nonché per le altre categorie di funzionari pubblici ivi contemplate: «i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero»).
La Costituzione, quindi, se non impone, tuttavia consente che il legislatore ordinario introduca, a tutela e salvaguardia dell'imparzialità e dell'indipendenza dell'ordine giudiziario, il divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati: quindi, per rafforzare la garanzia della loro soggezione soltanto alla Costituzione e alla legge e per evitare che l'esercizio delle loro delicate funzioni sia offuscato dall'essere essi legati ad una struttura partitica che importa anche vincoli gerarchici interni.
La norma impugnata ha dato attuazione alla previsione costituzionale stabilendo che costituisce illecito disciplinare non solo l'iscrizione, ma anche «la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici»: accanto al dato formale dell'iscrizione, pertanto, rileva, ed è parimenti precluso al magistrato, l'organico schieramento con una delle parti politiche in gioco, essendo anch'esso suscettibile, al pari dell'iscrizione, di condizionare l'esercizio indipendente ed imparziale delle funzioni e di comprometterne l'immagine.
Non è ravvisabile, pertanto, alcuna violazione dei parametri costituzionali invocati dal giudice rimettente, perché, nel disegno costituzionale, l'estraneità del magistrato alla politica dei partiti e dei suoi metodi è un valore di particolare rilievo e mira a salvaguardare l'indipendente ed imparziale esercizio delle funzioni giudiziarie, dovendo il cittadino essere rassicurato sul fatto che l'attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica.
In particolare, non contrasta con quei parametri l'assolutezza del divieto, ossia il fatto che esso si rivolga a tutti i magistrati, senza eccezioni, e quindi anche a coloro che, come nel caso sottoposto all'attenzione della Sezione disciplinare rimettente, non esercitano attualmente funzioni giudiziarie. Infatti, l'introduzione del divieto si correla ad un dovere di imparzialità e questo grava sul magistrato, coinvolgendo anche il suo operare da semplice cittadino, in ogni momento della sua vita professionale, anche quando egli sia stato, temporaneamente, collocato fuori ruolo per lo svolgimento di un compito tecnico.
Né vi è contraddizione con il diritto di elettorato passivo spettante ai magistrati, e ciò sia per la diversità delle situazioni poste a raffronto (un conto è l'iscrizione o comunque la partecipazione sistematica e continuativa alla vita di un partito politico, altro è l'accesso alle cariche elettive), sia perché quel diritto non è senza limitazioni.
Infine, non è ragione di illegittimità costituzionale la circostanza che la disposizione censurata configuri come illecito disciplinare, sotto la medesima lettera h), accanto alla iscrizione o alla partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici, il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato. Non si tratta di una indebita assimilazione, in un medesimo giudizio di disvalore, di due ipotesi di ben diversa portata. Il legislatore, piuttosto, è stato spinto dall'esigenza di porre una tutela rafforzata dell'immagine di indipendenza del magistrato, la quale può essere posta in pericolo tanto dall'essere il magistrato politicamente impegnato e vincolato ad una struttura partitica, quanto dai condizionamenti, anche sotto il profilo dell'immagine, derivanti dal coinvolgimento nella attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d), numero 2), della legge 24 ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell'efficacia nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario), sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 18, 49 e 98 della Costituzione, dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo MADDALENA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2009.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Libero Professionista, esercente la professione forense nel Foro di Brindisi, distretto Corte d'Appello di Lecce (Italy)- già Magistrato, abilitato innanzi alle Giurisdizioni Superiori (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale)
mercoledì 22 luglio 2009
martedì 21 luglio 2009
Zona e area, distinzione concettuale nell'urbanistica
T.A.R. Toscana, Sezione III, 7 maggio 2009
Sulla distinzione concettuale della zona con l’area: siamo di fronte a due concetti diversi , quello di zona e quello di area dalla cui distinzione nascono conseguenze giuridiche rilevanti proprio con riferimento alla natura dei vincoli apposti dalle destinazioni.
Invero, mentre la zona ( nella specie, la sottozona)identifica una parte del territorio cui corrisponde una funzione specializzata , l’area, invece, è un concetto topografico più ristretto e precisamente una porzione più limitata in ordine alla quale l’Amministrazione in sede di PRG effettua una sorte di prenotazione per insediarvi impianti ed opere pubbliche, con la conseguenza , in questo caso, che se l’opzione fatta dall’Ente pubblico non viene attuata in un determinato arco di tempo, l’area in questione viene liberata da quella sorte di ipoteca ad uso pubblico apposta in origine dallo strumento urbanistico.
T.A.R. Toscana, Sezione III, 7 maggio 2009
SENTENZA N. 775
1. La destinazione “F2e” con il simbolo impianti tecnologici e servizi annessi va considerata come normale vincolo di natura conformativa, discendente dalle ordinarie scelte di pianificazione urbanistica, quindi non soggetta al normale termine quinquennale di decadenza, la cui validità è a tempo indeterminato( come stabilito dall’art.11 della legge “urbanistica” n.1150 del 17 agosto 1942) e senza che possa nella specie configurarsi una compressione del diritto di proprietà nei sensi di cui all’art.42 terzo comma della Costituzione.
2. La giurisprudenza costituzionale ha elaborato, com’è noto i criteri di individuazione dei vincoli di inedificabilità assoluta e preordinati all’esproprio ovvero aventi caratteri sostanzialmente espropriativo rispetto ai c.d. vincoli conformativi, in ispecie, con le sentenze 29 maggio 1999 n.179, 18 dicembre 2001 n.411 e 9 maggio 2003 n.148, identificandoli con quelli che producono lo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, incidono sul godimento del bene , tanto da renderlo inutilizzabile ovvero da diminuirne in modo significativo il valore di scambio : in tali sensi peraltro si è espressa la giurisprudenza amministrativa formatasi in relazione all’art.2 della legge n.1187 del 1968( ex multis, Cons Stato Sez. V 3/172001 n.3 e 24/2/2004 n.745). Tali indicazioni poi possono valere anche nell’attuale vigenza dell’art.9 commi 3 e 4 del DPR 8 giugno 2001 n.237 che ha solo disciplinato con una diversa terminologia la regola della durata quinquennale, disciplinando espressamente gli istituti della decadenza e della reiterazione. Natura e contenuto diversi ha invece la categoria dei vincoli c.d. conformativi, enucleabile in relazione ad una previsione di tipologia urbanistica che non configura una “prenotazione” dell’Amministrazione all’inedificabilità assoluta o all’espropriazione , trattandosi di una prescrizione diretta a regolare concretamente l’attività edilizia e per ciò stesso con validità a tempo indeterminato , ai sensi dell’art.11 della legge n.1150 del 17 agosto 1942.
2. Parte ricorrente contesta la legittimità della scelta operata dall’Amministrazione di subordinare l’intervento edificatorio de quo alla presentazione e approvazione di un piano di recupero. Invero, la critica mossa alla scelta operata dall’Amministrazione si fonda su una interpretazione per così dire restrittiva dell’istituto urbanistico del piano di recupero, lì dove si accede da parte ricorrente ad una visione che, per il vero, la giurisprudenza ha ampliato dagli angusti limiti propri dell’originaria definizione. Vero è, infatti, che il presupposto richiesto per legittimare la redazione e approvazione di un Piano di Recupero è rappresentato principaliter dall’esistenza concreta ed effettiva di un patrimonio edilizio degradato, costituito cioè da immobili fatiscenti, abbandonati, coma da superfetazioni e che quindi tali condizioni nella specie non sussisterebbero; ciònondimeno, il Collegio ritiene di dovere aderire a quell’orientamento giurisprudenziale (cfr Cons stato Sez. IV 11/4/2007 n.1606) secondo cui “i piani di recupero possono prevedere non solo il mero recupero, ma anche le modificazioni urbanistiche necessarie al più consono assetto del territorio”. Il divisamento assunto dal Comune con la deliberazione per cui è causa si pone esattamente nell’alveo delle caratteristiche e finalità conferite dalla giurisprudenza testé citata allo strumento del Piano di Recupero e tanto è ricavabile dalla disamina delle ragioni esplicitamente contenute nell’atto deliberativo de quo. Il Consiglio Comunale prendendo l’abbrivio dalla vicenda processuale qui all’esame e tenuto conto delle connotazioni specifiche delle realtà territoriali come quella costituita dall’ex sede Telecom ha deciso, nell’esercizio di un suo preciso potere discrezionale di procedere a conferire per alcune parti del territorio, identificate con i perimetri che includono le zone F e G, , “interne al Centro Storico”e “per dimensione e localizzazione di particolare significato per la città” un assetto pianificatorio coerente ed unitario , in modo da non stravolgere il contenuto dell’impianto urbanistico generale .
3. La redazione e approvazione di un Piano di Recupero è un modulo procedimentale di definizione degli interessi pubblico-privati che ben si attaglia al caso di specie dove una ridefinizione degli standard urbanistici si rende necessaria per il “nuovo” utilizzo direzionale delle aree e dei fabbricati in questione, le quante volte, la progettata trasformazione degli immobili comporti un decremento di detti standard con innegabili riflessi di carattere negativo in ordine alla qualità della vita delle persone abitanti nella zona interessata.
FATTO
La ricorrente è proprietaria , per acquisto effettuato nel giugno del 2005 dell’immobile adibito ad ex sede della Telecom di Firenze, formato da due corpi di fabbrica in comunicazione tra loro e posti su via Masaccio e via Fattori. Detto immobile ricade , secondo la normativa di PRG in zona A3, centro storico fuori le mura , nella sottozona “F2e”, con simbolo di area per impianti tecnologici e servizi annessi, è stato costruito, come riferito in ricorso, come struttura ad uso direzionale,non ha mai perso tale destinazione” ed è rimasto inutilizzato per molti anni.
In data 18/9/2007 la Società proprietaria dell’immobile ha presentato una d.i.a “per opere di risanamento conservativo volte a realizzare , attraverso interventi interni un pluralità di unità immobiliari tutte direzionali”.
Il Comune di Firenze, con ordinanza n.917 del 1 ottobre 2008, rilevando il contrasto con l’art.182.4 del Regolamento Edilizio e la non compatibilità della destinazione d’uso direzionale proposta con le previsioni di PRG, Zona F2e, ha ordinato la non esecuzione dei lavori.
Lo stesso Comune poi, con deliberazione consiliare n.88 del 13 ottobre 2008 ha proceduto ad individuare , ai sensi dell’art.27 della legge n.457/78, come zone di recupero le zone F e G inserite all’interno del centro storico così come definito dall’art.15 delle NTA del PRG, con l’obbligo di Piano di recupero “quando si intenda riutilizzare gli immobili preesistenti già destinati a funzioni pubbliche o di pubblico interesse per destinazioni d’uso diverse dalla disciplina generale delle zone “F2 e “ G “ .
La società Telma ha impugnato con il ricorso all’esame sia l’ordinanza inibitoria sia la delibera consiliare suindicate, deducendo i seguenti motivi:
quanto all’ordinanza dirigenziale:
Violazione e falsa applicazione degli artt.182.4 e 1999del Regolamento edilizio di Firenze. Eccesso di potere per travisamento ed errore sui presupposti: il progetto di risanamento conservativo presentato dalla ricorrente è pienamente rispettoso delle prescrizioni regolamentari opposte dall’amministrazione dal momento che il prospetto esterno dell’immobile rimane totalmente immodificato. Inoltre, quanto alla destinazione d’uso direzionale contestata dall’Amministrazione, l’ edificio nasce come edificio direzionale, tale è stato utilizzato e l’intervento di risanamento conservativo progettato non muta tale destinazione d’uso del fabbricato;
Violazione e falsa applicazione del PRG del Comune di Firenze( in particolare artt.50 e 52 delle NTA). Eccesso di potere per carenza del presupposto: la destinazione F2e con il simbolo “impianti tecnologici e servizi annessi” apposto sul complesso immobiliare in parola non ha valore prescrittivo ( volto a conservare tale destinazione) ma unicamente ricognitivo che, come tale, non può comprimere la libertà di utilizzazione dell’immobile per destinazioni diverse da quella ad impianti tecnologici e servizi connessi, una volta che l’uso che ha dato luogo alla funzione rilevata dal PRG sia venuto meno;
Violazione e falsa applicazione art.9 DPR 8/6/2001 n.327; eccesso di potere per illogicità manifesta: anche a voler riconoscere efficacia prescrittiva alla destinazione F2e, la stessa destinazione, essendo preordinata all’esproprio e/o in edificabilità assoluta, sarebbe comunque decaduta per decorso del termine del quinquennio dall’approvazione del Piano Regolatore ( avvenuta il 9/2/1998), di talchè il caso di specie ricadrebbe sotto la disciplina di cui all’art.9 del DPR 327/2001 che ammette in zone a vincolo decaduto interventi fino al restauro e il risanamento conservativo.
Quanto alla delibera consiliare n.88/2008:
Violazione art.27 legge n.457/78, art.7 legge n.241/90: eccesso di potere per errore, travisamento, difetto del presupposto e di istruttoria: l’individuazione delle zone di recupero deve avvenire, in primis, all’interno dello strumento urbanistico comunale e comunque la delibera recante siffatta individuazione avrebbe dovuto essere preceduta dall’avviso di inizio del procedimento per consentire ai proprietari di partecipare .In ogni caso, mancano nella specie i presupposti per qualificare le zone di che trattasi come degradate urbanisticamente e ciò anche in riferimento al fatto che il fabbricato de quo si trova in condizioni tutt’altro che disdicevoli..
Si è costituito in giudizio il Comune di Firenze che ha contestato la fondatezza dei motivi di gravame del quale ha chiesto la reiezione.
DIRITTO
Questa Sezione è chiamata a pronunziarsi, in sostanza, sull’assentibilità o meno di un intervento edilizio proposto a mezzo di una denuncia di inizio attività presentata al Comune di Firenze in data 18/9/2008 ( D.I.A. n.4914/08), relativamente ad un complesso immobiliare di proprietà della Società ricorrente.
Oggetto del progettato intervento edilizio è un edificio, composto da due corpi di fabbrica, sito tra via Masaccio e via Fattori, realizzato dalla Società Telefonica Tirrena in base a licenza edilizia del 1960, già utilizzato come sede della Telecom Firenze e inserito dalla Variante Generale al PRG del 1998 in zona omogenea F,sottozona “F2e” “Attrezzature e servizi pubblici esistenti”con simboli “impianti tecnologici e servizi annessi” all’interno della zona omogenea A3 “centro storico fuori le mura”.
Le opere per le quali è stata prodotta la D.I.A. consistono, in particolare, come da elaborati tecnici allegati, in “ modifiche interne in risanamento conservativo con identificazione di nuove unità immobiliari direzionali” e comportano, secondo la scheda relativa all’ istruttoria tecnica predisposta dal Comune , il frazionamento dell’attuale unica unità immobiliare in 142 unità direzionali private.
Ciò detto e passando più da vicino ad esaminare le questioni giuridiche sollevate col ricorso avverso il primo dei provvedimenti impugnati ( l’ordinanza n.917 dell’1/10/2008) l’Amministrazione comunale si è determinata ad inibire l’inizio dei lavori, mettendo, così, in non cale la validità della presentata d.i.a., sulla base di due rilievi, l’uno costituito dal fatto che alcune pareti divisorie interesserebbero le aperture di facciate prospicienti spazi pubblici, in contrasto con quanto al riguardo stabilito dal regolamento edilizio ( art.182.4), l’atro , dalla circostanza per cui nella specie si sarebbe inverato un cambio di destinazione d’uso dell’immobile, non consentito dalla classificazione di PRG F2e “attrezzature e servizi pubblici esistenti”.
Con riferimento alla prima delle ragioni opposte dall’Amministrazione, parte ricorrente col primo mezzo d’impugnazione contesta l’addebito mosso dal Comune , sostenendo come in realtà le tramezzature interne agiscano in corrispondenza dei montanti delle finestre, senza andare ad incidere sui prospetti esterni dell’edificio.
Sul punto le argomentazioni svolte dalla Società non sono del tutto convincenti, lì dove, di contro, anche il Comune, come si evince dalla relazione della Direzione Urbanistica prot. n.5283/09/36 del 4 febbraio 2009, adduce una serie di ragioni tecniche volte a dimostrare che tali tramezzature per come progettate vanno ad interessare le aperture di facciata, incidendo in modo pregiudizievole sulla composizione architettonica dei prospetti esterni del fabbricato.
Ad ogni buon conto osserva il Collegio che “l’addebito” relativo al preteso contrasto con l’art.182.4 del Regolamento Edilizio non assume nell’ambito delle ragioni poste a fondamento del provvedimento inibitorio un ruolo decisivo, dipendendo, invero la verifica della legittimità o meno dell’atto comunale de quo dagli altri addebiti pure formulati dall’Amministrazione , quelli riguardanti il contestato contrasto con la normativa del PRG, rivestenti, questi sì, carattere dirimente .Passando allora al punctum dolens della controversia , parte ricorrente rileva l’assenza di un mutamento di destinazione d’uso sotto un primo profilo, quello per cui il complesso immobiliare in questione sarebbe nato come edificio direzionale, come tale è stato adibito ad uffici e tale destinazione direzionale rimarrebbe a seguito del realizzando progetto edilizio, sicchè non sarebbe configurabile alcun mutamento di destinazione d’uso
Una siffatta prospettazione va necessariamente verificata quanto alla sua fondatezza o meno con le previsioni recate sul punto dallo strumento urbanistico generale ( l’area e il fabbricato sono classificati F2e “attrezzature e servizi pubblici esistenti”) e più in generale con la disciplina vigente di rango legislativo e regolamentare, applicabile nel caso all’esame.
Ebbene, la Legge Regione Toscana n.1 del 2005 all’art.154, dal titolo “ mutamenti di destinazione d’uso” così dispone: “1 ai sensi dell’art.58… sono comunque considerati mutamenti di destinazione d’uso i passaggi dall’una all’altra delle seguenti categorie: a) residenziale; b) industriale e artigianale;c) commerciale; d) turistico-ricettiva; e) direzionale; f) di servizi; ha) commerciale all’ingrosso e depositi; h) agricola e funzioni connesse”.
Il Regolamento Edilizio del Comune di Firenze , poi, si occupa della disciplina delle destinazioni d’uso all’art.194 dove, richiamando il disposto di cui all’art.59 della L.R. n.1/2005 identifica ciascuna delle destinazioni previste dalla norma legislativa sopra riportata con l’indicazione delle funzioni , nei seguenti termini: …e) direzionale: rientrano nella destinazione d’uso direzionale le banche, le assicurazioni, le sedi preposte alla direzione ed organizzazione di enti e società fornitrici di servizi, gli uffici privati, gli studi professionali in genere; f) di servizio: rientrano nella destinazione d’uso di servizio i servizi e le attrezzature pubbliche di qualsiasi tipo e natura, i servizi e le attrezzature private che rivestano interesse pubblico, ivi comprese le attrezzature ricreative e per il tempo libero e le altre attività di servizio alla residenza anche quando esercitate in forma artigianale”.
La classificazione F2e attribuita al complesso immobiliare ex Telecom ben si inquadra quindi nella categoria di cui alla lettera f) in ragione del fatto che da sempre l’edificio è stato adibito allo svolgimento di servizi che rivestono un interesse pubblico e tale funzione pubblicistica il Piano Regolatore Generale a mezzo della destinazione urbanistica in questione ha voluto all’uopo consacrare e conservare.
Dunque vi è una categoria di destinazione d’uso direzionale ed una categoria di destinazione d’uso di servizio, ciascuna con una propria identità ed autonomia e ognuna delle quali tipizza la funzione delle aree e degli immobili ai quali viene assegnata e in relazione alle quali è parametrato il fabbisogno di standard urbanistici , di talchè il progettato intervento edilizio dal momento che prevede la realizzazione di n.142 unità immobiliari direzionali non è conservativo di una originaria destinazione e , in particolare, comporta il passaggio da una categoria di destinazione d’uso, quella di servizio ( di tipo pubblicistico) ad un’altra, quella direzionale ( di tipo privatistico) che non sono interscambiabili, ma hanno autonomia e funzioni ben distinte.
Se così è, il contrasto con la prescrizione delle NTA del PRG F2e che impone per l’immobile de quo quella determinata destinazione ( e non altre ), è di palmare evidenza e il provvedimento comunale che nega l’ammissibilità di quello che è indubitabilmente un cambio di destinazione d’uso risulta supportato da giustificate ragioni di fatto e di diritto saldamente ancorate, in particolare,all’esistenza di una disciplina urbanistica di tipo preclusivo.
Col secondo e terzo motivo di gravame che per ragioni di logica connessione vanno congiuntamente esaminati parte ricorrente contesta in radice la valenza ostativa della disciplina urbanistica del PRG prevista per l’ex sede Telecom con riferimento a due specifiche argomentazioni:
la dicitura F2e con relativo simbolo “attrezzature e servizi pubblici” non avrebbe portata prescrittiva;
anche a voler ammettere una valenza prescrittiva, la destinazione impressa sarebbe decaduta per decorrenza del termine quinquennale.
In particolare, l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione, secondo la tesi di parte ricorrente, sarebbe data dal fatto che la classificazione “F2e” e il simbolo “impianti tecnologici e servizi annessi” al complesso immobiliare “de quo” non costituiscono una prescrizione finalizzata ad imporre la conservazione della destinazione d’uso in parola, rivestendo, in particolare, il simbolo di che trattasi un valore meramente ricognitivo.
In altri termini, secondo la Società Telma, la destinazione recata dal PRG in quanto meramente descrittiva non può comprimere la libertà di utilizzazione dell’immobile per destinazioni diverse da quella di impianti tecnologici e servizi annessi di talchè una volta cessato tale uso, il compendio immobiliare può essere adibito alle destinazioni diverse ammesse per il centro storico fuori le mura fino agli interventi di ristrutturazione.
Tale tesi, ancorchè pregevolmente prospettata, non appare condivisibile.
La disciplina esplicativa delle sottozone “F2”( attrezzature e servizi pubblici di interesse urbano e territoriale ) è contenuta nell’art.52 delle NTA che così dispone: “52.1 – Tali sottozone comprendono le aree e gli edifici destinati ad attrezzature pubbliche amministrative…..
Le specifiche destinazioni d’uso sono individuate con apposita simbologia nelle planimetrie di PRG”.
Inoltre, “52.2: In tali sottozone il PRG si attua per intervento edilizio diretto, previa redazione ed approvazione da parte del Comune di un progetto unitario esteso all’intera perimetrazione”.
Ciò precisato il problema giuridico di fondo da dirimere è quello della valenza delle previsioni appena indicate e precisamente appurare se la classificazione F2 e il simbolo impianti tecnologici e servizi annessi costituiscono un precetto volto alla conservazione di tale destinazione d’uso( come interpretato dall’Amministrazione) oppure hanno invece una funzione meramente ricognitiva o comunque di censimento del patrimonio esistente di guisa che la destinazione pubblicistica cessa col venir meno dell’uso specifico ( quello di sede del servizio pubblico di telefonia)
Ebbene, dall’ordito normativo recato dal PRG appare ragionevole ritenere che si è in presenza di prescrizioni introduttive di una destinazione di zona e cioè di una classificazione tipologica della zona di riferimento, con la destinazione di funzioni specifiche, quelle che individuano ai sensi del D.M. 2 aprile 1968 n.1444 le zone di pubblico interesse.
Un tanto è peraltro evincibile da un elemento ben preciso, quello per cui il citato art.52.1 delle NTA comprende nelle sottozone F2 le aree e gli edifici destinati ad attrezzature pubbliche, lì dove siamo di fronte a due concetti diversi , quello di zona e quello di area dalla cui distinzione nascono conseguenze giuridiche rilevanti proprio con riferimento alla natura dei vincoli apposti dalle destinazioni.
Invero, mentre la zona ( nella specie, la sottozona)identifica una parte del territorio cui corrisponde una funzione specializzata , l’area, invece, è un concetto topografico più ristretto e precisamente una porzione più limitata in ordine alla quale l’Amministrazione in sede di PRG effettua una sorte di prenotazione per insediarvi impianti ed opere pubbliche, con la conseguenza , in questo caso, che se l’opzione fatta dall’Ente pubblico non viene attuata in un determinato arco di tempo, l’area in questione viene liberata da quella sorte di ipoteca ad uso pubblico apposta in origine dallo strumento urbanistico.
Nel caso in esame, allora, le previsioni di cui all’ art 52 del PRG del Comune di Firenze, quali dati normativi posti a fondamento degli adottati provvedimenti di annullamento delle varie D.I.A., anche in ragione della dizione letterale recata, hanno operato in concreto una zonizzazione e non una localizzazione ed in tal senso la classificazione F2 ha sì valore precettivo.
Per il vero, va dato atto che un elemento di mera ricognizione nella specie pure sussiste ed è rappresentato dalla simbologia impianti tecnologici e servizi annessi che connota quella specifica funzione attribuita dal fabbricato esistente , allo stato, e che può naturalmente cessare e quindi non più essere conservata , senza che ciò però faccia venir meno la più generale funzione ad uso pubblico recata dalla destinazione F2 che, come sopra osservato, accomuna gli edifici e le aree di una più vasta parte del territorio ( appunto, la sottozona) e che perciò stesso rimane validamente impressa . In altri termini, la disciplina urbanistica nella specie è congegnata in modo tale che ad una destinazione d’uso caratterizzante il singolo complesso immobiliare che viene meno “naturaliter” subentri la destinazione generale di zona (più propriamente della sottozona) e siffatto meccanismo normativo non appare contra legem e/o incongruente e neppure risulta produttivo di lesioni delle posizioni del soggetto privato
A questo punto ci si deve occupare degli altri , intersecanti profili di illegittimità dedotti dalla parte ricorrente del quale si afferma l’ammissibilità dell’intervento edilizio oggetto delle denunce di inizio attività e la correlata illegittimità dei provvedimenti qui impugnati, sul rilievo che nella specie la destinazione “F2e” con il simbolo impianti tecnologici e servizi annessi, in quanto costituente un vincolo preordinato all’espropriazione o comunque sostanzialmente ablatorio, sarebbe decaduta per decorso del quinquennio dall’approvazione del piano regolatore generale, con la possibilità, in tal modo per i privati interessati di realizzare un intervento di restauro e risanamento conservativo
Anche tali censure, ad una approfondita indagine , non paiono cogliere nel segno.
La giurisprudenza costituzionale ha elaborato, com’è noto i criteri di individuazione dei vincoli di inedificabilità assoluta e preordinati all’esproprio ovvero aventi caratteri sostanzialmente espropriativo rispetto ai c.d. vincoli conformativi, in ispecie, con le sentenze 29 maggio 1999 n.179, 18 dicembre 2001 n.411 e 9 maggio 2003 n.148, identificandoli con quelli che producono lo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, incidono sul godimento del bene , tanto da renderlo inutilizzabile ovvero da diminuirne in modo significativo il valore di scambio : in tali sensi peraltro si è espressa la giurisprudenza amministrativa formatasi in relazione all’art.2 della legge n.1187 del 1968( ex multis, Cons Stato Sez. V 3/172001 n.3 e 24/2/2004 n.745) .Tali indicazioni poi possono valere anche nell’attuale vigenza dell’art.9 commi 3 e 4 del DPR 8 giugno 2001 n.237 che ha solo disciplinato con una diversa terminologia la regola della durata quinquennale , disciplinando espressamente gli istituti della decadenza e della reiterazione.
Natura e contenuto diversi ha invece la categoria dei vincoli c.d. conformativi, enucleabile in relazione ad una previsione di tipologia urbanistica che non configura una “prenotazione” dell’Amministrazione all’inedificabilità assoluta o all’espropriazione , trattandosi di una prescrizione diretta a regolare concretamente l’attività edilizia e per ciò stesso con validità a tempo indeterminato , ai sensi dell’art.11 della legge n.1150 del 17 agosto 1942.
La Corte costituzionale con la citata, fondamentale sentenza n.179 del 1999 ha avuto modi di precisare che “sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo con le connesse garanzie costituzionali i vincoli che importano una destinazione ( anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene”.
Trattasi, in altri termini di limiti non ablatori posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica connaturali alla proprietà e che per ciò stesso sfuggono allo schema ablatorio e che si risolvono nell’imporre per il titolare del diritto dominicale intenzionato a trarre relative utilità dal bene l’osservanza di una data procedura( cfr TAR Lombardia Brescia 11/6/2007 n.507; TAR veneto Sez. II 3/4/2008 n.3128): in tale ottica e con le predette finalità “limitative” vanno lette le disposizioni di cui agli artt.50 e 52 delle NTA del PRG lì dove prevedono che l’attuazione delle previsioni dello strumento urbanistico generale debba avvenire.. “ previa redazione ed approvazione da parte del Comune di un progetto unitario esteso alla intera perimetrazione
Ritornando al concetto giuridico di vincoli senza valenza ablatoria, lo stesso è stato peraltro più volte ribadito dai giudici di merito , lì dove si è statuito che non possono essere annoverati nella categoria dei vincoli sostanzialmente espropriativi ( secondo la definizione di cui all’art.39 comma 1 del citato DPR n.327/2001) quei vincoli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l’iniziativa privata in regime di economia di mercato ( cfr, tra le tante, Cons Stato sez V 6/10/2000 n.5327; idem Sez VI 14/5/2000 n.2934; Sez.IV 28/2/2005 n.693 ; Cass. Civ. 26 gennaio 2006 n.1626).
E’ con quest’ultimo taglio interpretativo ( quello che definisce le previsioni di tipologia urbanistica inerenti alla potestà conformativa ) che va letta e interpretata la destinazione della sottozona F2e- attrezzature e servizi pubblici e tanto anche alla luce della disciplina urbanistico-edilizia recata in subjecta materia da alcune disposizioni del Regolamento edilizio del Comune di Firenze del 2007, quelle contenute all’art.202/bis, dal seguente , inequivocabile tenore:
“1 Il vincolo preordinato all’esproprio che può gravare sia su aree libere che su edifici esistenti ha la durata di cinque anni da quando diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità: lo stesso decade se entro tale termine non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell’opera e trova applicazione entro i termini di efficacia del vigente PRG la disciplina dettata dall’art.9 del DPR n.380/2001 e dall’art.27 quarto comma della legge n.457/1978;
…3 in caso di immobili classificati dal vigente PRG come attrezzature esistenti, caratterizzate dalla lettera “e” ( esistente) associata al relativo simbolo identificativo, indipendentemente dall’effettivo permanere in loco dell’attività che ha dato origine alla classificazione , non trattandosi di vincolo preordinato all’esproprio, non si determina alcuna decadenza;
4 le aree per le quali siano decaduti i vincoli preordinati all’esproprio comprese entro i perimetri di cui alla zone omogenee A1,A2,A3,A4,A5 ( art.15 NTA) non sono da considerarsi come aree non pianificate ma sono soggette alla disciplina di cui alle sottozone corrispondenti”.
In tali norme viene consacrata in maniera espressa la volontà dell’Amministrazione comunale di configurare dei vincoli di conformità proprio in relazione alla parte di territorio omogenea , di aree e fabbricati contrassegnata dalla tipologia F2e e ciò nell’ambito di un potere discrezionale tradizionalmente riconosciuto all’Ente pubblico in sede di pianificazione territoriale.
Conclusivamente, sul punto,la previsione F2e va considerata come normale vincolo di natura conformativa, discendente dalle ordinarie scelte di pianificazione urbanistica, quindi non soggetta al normale termine quinquennale di decadenza, la cui validità è a tempo indeterminato( come stabilito dall’art.11 della legge “urbanistica” n.1150 del 17 agosto 1942 )e senza che possa nella specie configurarsi una compressione del diritto di proprietà nei sensi di cui all’art.42 terzo comma della Costituzione
Passando all’esame del motivo d’impugnazione rivolto avverso la delibera del Consiglio Comunale di Firenze n.88 del 13/10/2008 avente ad oggetto : “individuazione come zone di recupero delle zone F e G”, parte ricorrente lamenta in primo luogo il fatto che il Comune avrebbe potuto procedere ad adottare il Piano di Recupero solo in sede di strumento urbanistico a mezzo di un’apposita variante,ma tale rilievo non appare accoglibile , atteso che la norma di cui all’art.27 della legge n.457/78 consente in presenza di un Piano Regolatore Generale vigente ( è il caso di Firenze) di utilizzare la modalità procedurale dell’atto deliberativo consiliare . Non appare, inoltre, condivisibile la doglianza dedotta circa la mancata attivazione da parte del Comune della procedura di partecipazione dei privati (di cui agli artt.7 e ss della legge n.241/90) al processo decisionale relativo alla individuazione delle zone di recupero: trattasi di scelte di carattere generale a fronte delle quali non è configurabile per l’Amministrazione uno specifico onere di comunicazione dell’avvio del procedimento ( cfr Cons Stato sez.IV 11/4/2007 n.1668).
Parte ricorrente, infine, contesta la legittimità della scelta operata dall’Amministrazione di subordinare l’intervento edificatorio de quo alla presentazione e approvazione di un piano di recupero sul rilievo che tale prescrizione è affetta da un travisamento dei fatti dal momento che nella specie non sussisterebbero le condizioni di degrado che giustificano l’applicazione dell’istituto di cui all’art.27 della legge n.457/78
La tesi sostenuta dalle ricorrenti non appare condivisibile.
Invero, la critica mossa alla scelta operata dall’Amministrazione si fonda su una interpretazione per così dire restrittiva dell’istituto urbanistico del piano di recupero, lì dove si accede da parte ricorrente ad una visione che , per il vero, la giurisprudenza ha ampliato dagli angusti limiti propri dell’originaria definizione.
Vero è, infatti, che il presupposto richiesto per legittimare la redazione e approvazione di un Piano di Recupero è rappresentato principaliter dall’esistenza concreta ed effettiva di un patrimonio edilizio degradato, costituito cioè da immobili fatiscenti, abbandonati, coma da superfetazioni e che quindi tali condizioni nella specie non sussisterebbero; ciònondimeno, il Collegio ritiene di dovere aderire a quell’orientamento giurisprudenziale( cfr Cons stato Sez. IV 11/4/2007 n.1606) secondo cui “ i piani di recupero possono prevedere non solo il mero recupero, ma anche le modificazioni urbanistiche necessarie al più consono assetto del territorio”.
Il divisamento assunto dal Comune con la deliberazione per cui è causa si pone esattamente nell’alveo delle caratteristiche e finalità conferite dalla giurisprudenza testè citata allo strumento del Piano di Recupero e tanto è ricavabile dalla disamina delle ragioni esplicitamente contenute nell’atto deliberativo de quo.
Il Consiglio Comunale prendendo l’abbrivio dalla vicenda processuale qui all’esame e tenuto conto delle connotazioni specifiche delle realtà territoriali come quella costituita dall’ ex sede Telecom ha deciso, nell’esercizio di un suo preciso potere discrezionale di procedere a conferire per alcune parti del territorio , identificate con i perimetri che includono le zone F e G, , “interne al Centro Storico”e “ per dimensione e localizzazione di particolare significato per la città”un assetto pianificatorio coerente ed unitario , in modo da non stravolgere il contenuto dell’impianto urbanistico generale .
In questa ottica, l’Organo consiliare si è fatto carico della necessità di approntare una disciplina per quelle situazioni, come quella qui in rilievo, in cui venga ad aversi una dismissione e poi la successiva trasformazione di numerose ed estese aree del territorio urbano, ricadenti in Zona A, sottozone F e G e destinate in origine ad attrezzature e servizi pubblici di interesse urbano e territoriale”, lì dove in tali situazioni il riutilizzo di contenitori come quello che ha ospitato la sede del servizio telefonico ben può dare luogo a fenomeni di degrado , in assenza di un disciplina che regoli in maniera più dettagliata gli interventi modificativi o sostitutivi a farsi e tanto, come sottolineato nella parte motiva dell’atto deliberativo de quo al fine di contemperare le legittime aspettative dei proprietari delle aree con le altrettanto legittime competenze pianificatorie del Comune.
Ora, in concreto la redazione e approvazione di un Piano di Recupero è un modulo procedimentale di definizione degli interessi pubblico-privati che ben si attaglia al caso di specie dove una ridefinizione degli standard urbanistici si rende necessaria per il “nuovo” utilizzo direzionale delle aree e dei fabbricati in questione, le quante volte, la progettata trasformazione degli immobili comporti un decremento di detti standard con innegabili riflessi di carattere negativo in ordine alla qualità della vita delle persone abitanti nella zona interessata.
Quelle sopra illustrate costituiscono la ratio e la portata della scelta recata dalla deliberazione consiliare n.88/2008 in contestazione , delle quali l’Amministrazione procedente ha dato compiuta e corretta contezza con l’articolata motivazione ivi esposta sia in punto di fatto che di diritto.
D’altra parte, se così è, nella specie, tutt’al più si può parlare dell’introduzione di un “aggravio procedurale”, imposto alla Società ricorrente, beninteso, a tutela delle esigenze di una razionale pianificazione del territorio come valutate dall’Amministrazione comunale nell’esercizio di un potere discrezionale spettante da sempre all’Ente pubblico, ma anche a garanzia della Società proprietaria dell’immobile che vede riconosciuto in maniera indiscutibile il proprio jus aedificandi sia pure secondo le modalità e i limiti costruttivi recati dall’approvando Piano di Recupero.
Non si può parlare dunque di un divieto di intervento edilizio diretto tout court, venendo unicamente in rilievo una previsione di un intervento edilizio per così dire concordato dettato dall’esigenza di tutelare aspetti di gestione del territorio non capricciosamente voluti dall’Amministrazione, ma imposti dalla constatata necessità di disciplinare in dettaglio l’entità degli standard urbanistici preordinati ad evitare possibili situazioni di degrado nei sensi già esposti e comunque posti a garanzia di una utilizzazione del patrimonio immobiliare migliore di quella, allo stato, esistente.
L’operato del Comune , quindi si appalesa legittimo, risulta adeguatamente giustificato dalla copiosa motivazione di ordine tecnico-amministrativa esposta nella parte narrativa della delibera de qua, rivelandosi in sintonia con le prescrizioni del PRG che agli artt.50 e 52 prevedono l’attuazione delle previsioni dello strumento urbanistico “previa redazione e approvazione da parte del Comune di un progetto unitario esteso all’intera perimetrazione”. Vale, inoltre, osservare in ordine alla lamentata compressione del diritto all’edificazione che nella specie con la prescritta approvazione del piano di recupero non si va a limitare le destinazioni d’uso contemplate dal PRG, bensì unicamente a disciplinare le modalità di realizzazione di tali destinazioni d’uso, il che non solo non è vietato e neppure precluso dalla normativa urbanistica comunale , ma rientra nelle facoltà rimesse alla pubblica amministrazione .
Conclusivamente sia l’ordinanza inibitoria n.917/2008 sia la deliberazione consiliare n.88/08 recante la individuazione delle zone F e G come zone di recupero si appalesano immuni dai vizi di legittimità denunciati col ricorso all’esame che, in quanto infondato, va respinto
Le spese e competenze del giudizio seguono la regola della soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sezione III, definitivamente pronunziando sul ricorso in epigrafe, lo Rigetta.
Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore del resistente Comune di Firenze, delle spese e competenze del giudizio che si liquidano complessivamente in euro3.000,00(tremila) + IVA e CPA.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 26/02/2009 con l'intervento dei Magistrati:
Angela Radesi, Presidente
Andrea Migliozzi, Consigliere, Estensore
Alessio Liberati, Primo Referendario
Sulla distinzione concettuale della zona con l’area: siamo di fronte a due concetti diversi , quello di zona e quello di area dalla cui distinzione nascono conseguenze giuridiche rilevanti proprio con riferimento alla natura dei vincoli apposti dalle destinazioni.
Invero, mentre la zona ( nella specie, la sottozona)identifica una parte del territorio cui corrisponde una funzione specializzata , l’area, invece, è un concetto topografico più ristretto e precisamente una porzione più limitata in ordine alla quale l’Amministrazione in sede di PRG effettua una sorte di prenotazione per insediarvi impianti ed opere pubbliche, con la conseguenza , in questo caso, che se l’opzione fatta dall’Ente pubblico non viene attuata in un determinato arco di tempo, l’area in questione viene liberata da quella sorte di ipoteca ad uso pubblico apposta in origine dallo strumento urbanistico.
T.A.R. Toscana, Sezione III, 7 maggio 2009
SENTENZA N. 775
1. La destinazione “F2e” con il simbolo impianti tecnologici e servizi annessi va considerata come normale vincolo di natura conformativa, discendente dalle ordinarie scelte di pianificazione urbanistica, quindi non soggetta al normale termine quinquennale di decadenza, la cui validità è a tempo indeterminato( come stabilito dall’art.11 della legge “urbanistica” n.1150 del 17 agosto 1942) e senza che possa nella specie configurarsi una compressione del diritto di proprietà nei sensi di cui all’art.42 terzo comma della Costituzione.
2. La giurisprudenza costituzionale ha elaborato, com’è noto i criteri di individuazione dei vincoli di inedificabilità assoluta e preordinati all’esproprio ovvero aventi caratteri sostanzialmente espropriativo rispetto ai c.d. vincoli conformativi, in ispecie, con le sentenze 29 maggio 1999 n.179, 18 dicembre 2001 n.411 e 9 maggio 2003 n.148, identificandoli con quelli che producono lo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, incidono sul godimento del bene , tanto da renderlo inutilizzabile ovvero da diminuirne in modo significativo il valore di scambio : in tali sensi peraltro si è espressa la giurisprudenza amministrativa formatasi in relazione all’art.2 della legge n.1187 del 1968( ex multis, Cons Stato Sez. V 3/172001 n.3 e 24/2/2004 n.745). Tali indicazioni poi possono valere anche nell’attuale vigenza dell’art.9 commi 3 e 4 del DPR 8 giugno 2001 n.237 che ha solo disciplinato con una diversa terminologia la regola della durata quinquennale, disciplinando espressamente gli istituti della decadenza e della reiterazione. Natura e contenuto diversi ha invece la categoria dei vincoli c.d. conformativi, enucleabile in relazione ad una previsione di tipologia urbanistica che non configura una “prenotazione” dell’Amministrazione all’inedificabilità assoluta o all’espropriazione , trattandosi di una prescrizione diretta a regolare concretamente l’attività edilizia e per ciò stesso con validità a tempo indeterminato , ai sensi dell’art.11 della legge n.1150 del 17 agosto 1942.
2. Parte ricorrente contesta la legittimità della scelta operata dall’Amministrazione di subordinare l’intervento edificatorio de quo alla presentazione e approvazione di un piano di recupero. Invero, la critica mossa alla scelta operata dall’Amministrazione si fonda su una interpretazione per così dire restrittiva dell’istituto urbanistico del piano di recupero, lì dove si accede da parte ricorrente ad una visione che, per il vero, la giurisprudenza ha ampliato dagli angusti limiti propri dell’originaria definizione. Vero è, infatti, che il presupposto richiesto per legittimare la redazione e approvazione di un Piano di Recupero è rappresentato principaliter dall’esistenza concreta ed effettiva di un patrimonio edilizio degradato, costituito cioè da immobili fatiscenti, abbandonati, coma da superfetazioni e che quindi tali condizioni nella specie non sussisterebbero; ciònondimeno, il Collegio ritiene di dovere aderire a quell’orientamento giurisprudenziale (cfr Cons stato Sez. IV 11/4/2007 n.1606) secondo cui “i piani di recupero possono prevedere non solo il mero recupero, ma anche le modificazioni urbanistiche necessarie al più consono assetto del territorio”. Il divisamento assunto dal Comune con la deliberazione per cui è causa si pone esattamente nell’alveo delle caratteristiche e finalità conferite dalla giurisprudenza testé citata allo strumento del Piano di Recupero e tanto è ricavabile dalla disamina delle ragioni esplicitamente contenute nell’atto deliberativo de quo. Il Consiglio Comunale prendendo l’abbrivio dalla vicenda processuale qui all’esame e tenuto conto delle connotazioni specifiche delle realtà territoriali come quella costituita dall’ex sede Telecom ha deciso, nell’esercizio di un suo preciso potere discrezionale di procedere a conferire per alcune parti del territorio, identificate con i perimetri che includono le zone F e G, , “interne al Centro Storico”e “per dimensione e localizzazione di particolare significato per la città” un assetto pianificatorio coerente ed unitario , in modo da non stravolgere il contenuto dell’impianto urbanistico generale .
3. La redazione e approvazione di un Piano di Recupero è un modulo procedimentale di definizione degli interessi pubblico-privati che ben si attaglia al caso di specie dove una ridefinizione degli standard urbanistici si rende necessaria per il “nuovo” utilizzo direzionale delle aree e dei fabbricati in questione, le quante volte, la progettata trasformazione degli immobili comporti un decremento di detti standard con innegabili riflessi di carattere negativo in ordine alla qualità della vita delle persone abitanti nella zona interessata.
FATTO
La ricorrente è proprietaria , per acquisto effettuato nel giugno del 2005 dell’immobile adibito ad ex sede della Telecom di Firenze, formato da due corpi di fabbrica in comunicazione tra loro e posti su via Masaccio e via Fattori. Detto immobile ricade , secondo la normativa di PRG in zona A3, centro storico fuori le mura , nella sottozona “F2e”, con simbolo di area per impianti tecnologici e servizi annessi, è stato costruito, come riferito in ricorso, come struttura ad uso direzionale,non ha mai perso tale destinazione” ed è rimasto inutilizzato per molti anni.
In data 18/9/2007 la Società proprietaria dell’immobile ha presentato una d.i.a “per opere di risanamento conservativo volte a realizzare , attraverso interventi interni un pluralità di unità immobiliari tutte direzionali”.
Il Comune di Firenze, con ordinanza n.917 del 1 ottobre 2008, rilevando il contrasto con l’art.182.4 del Regolamento Edilizio e la non compatibilità della destinazione d’uso direzionale proposta con le previsioni di PRG, Zona F2e, ha ordinato la non esecuzione dei lavori.
Lo stesso Comune poi, con deliberazione consiliare n.88 del 13 ottobre 2008 ha proceduto ad individuare , ai sensi dell’art.27 della legge n.457/78, come zone di recupero le zone F e G inserite all’interno del centro storico così come definito dall’art.15 delle NTA del PRG, con l’obbligo di Piano di recupero “quando si intenda riutilizzare gli immobili preesistenti già destinati a funzioni pubbliche o di pubblico interesse per destinazioni d’uso diverse dalla disciplina generale delle zone “F2 e “ G “ .
La società Telma ha impugnato con il ricorso all’esame sia l’ordinanza inibitoria sia la delibera consiliare suindicate, deducendo i seguenti motivi:
quanto all’ordinanza dirigenziale:
Violazione e falsa applicazione degli artt.182.4 e 1999del Regolamento edilizio di Firenze. Eccesso di potere per travisamento ed errore sui presupposti: il progetto di risanamento conservativo presentato dalla ricorrente è pienamente rispettoso delle prescrizioni regolamentari opposte dall’amministrazione dal momento che il prospetto esterno dell’immobile rimane totalmente immodificato. Inoltre, quanto alla destinazione d’uso direzionale contestata dall’Amministrazione, l’ edificio nasce come edificio direzionale, tale è stato utilizzato e l’intervento di risanamento conservativo progettato non muta tale destinazione d’uso del fabbricato;
Violazione e falsa applicazione del PRG del Comune di Firenze( in particolare artt.50 e 52 delle NTA). Eccesso di potere per carenza del presupposto: la destinazione F2e con il simbolo “impianti tecnologici e servizi annessi” apposto sul complesso immobiliare in parola non ha valore prescrittivo ( volto a conservare tale destinazione) ma unicamente ricognitivo che, come tale, non può comprimere la libertà di utilizzazione dell’immobile per destinazioni diverse da quella ad impianti tecnologici e servizi connessi, una volta che l’uso che ha dato luogo alla funzione rilevata dal PRG sia venuto meno;
Violazione e falsa applicazione art.9 DPR 8/6/2001 n.327; eccesso di potere per illogicità manifesta: anche a voler riconoscere efficacia prescrittiva alla destinazione F2e, la stessa destinazione, essendo preordinata all’esproprio e/o in edificabilità assoluta, sarebbe comunque decaduta per decorso del termine del quinquennio dall’approvazione del Piano Regolatore ( avvenuta il 9/2/1998), di talchè il caso di specie ricadrebbe sotto la disciplina di cui all’art.9 del DPR 327/2001 che ammette in zone a vincolo decaduto interventi fino al restauro e il risanamento conservativo.
Quanto alla delibera consiliare n.88/2008:
Violazione art.27 legge n.457/78, art.7 legge n.241/90: eccesso di potere per errore, travisamento, difetto del presupposto e di istruttoria: l’individuazione delle zone di recupero deve avvenire, in primis, all’interno dello strumento urbanistico comunale e comunque la delibera recante siffatta individuazione avrebbe dovuto essere preceduta dall’avviso di inizio del procedimento per consentire ai proprietari di partecipare .In ogni caso, mancano nella specie i presupposti per qualificare le zone di che trattasi come degradate urbanisticamente e ciò anche in riferimento al fatto che il fabbricato de quo si trova in condizioni tutt’altro che disdicevoli..
Si è costituito in giudizio il Comune di Firenze che ha contestato la fondatezza dei motivi di gravame del quale ha chiesto la reiezione.
DIRITTO
Questa Sezione è chiamata a pronunziarsi, in sostanza, sull’assentibilità o meno di un intervento edilizio proposto a mezzo di una denuncia di inizio attività presentata al Comune di Firenze in data 18/9/2008 ( D.I.A. n.4914/08), relativamente ad un complesso immobiliare di proprietà della Società ricorrente.
Oggetto del progettato intervento edilizio è un edificio, composto da due corpi di fabbrica, sito tra via Masaccio e via Fattori, realizzato dalla Società Telefonica Tirrena in base a licenza edilizia del 1960, già utilizzato come sede della Telecom Firenze e inserito dalla Variante Generale al PRG del 1998 in zona omogenea F,sottozona “F2e” “Attrezzature e servizi pubblici esistenti”con simboli “impianti tecnologici e servizi annessi” all’interno della zona omogenea A3 “centro storico fuori le mura”.
Le opere per le quali è stata prodotta la D.I.A. consistono, in particolare, come da elaborati tecnici allegati, in “ modifiche interne in risanamento conservativo con identificazione di nuove unità immobiliari direzionali” e comportano, secondo la scheda relativa all’ istruttoria tecnica predisposta dal Comune , il frazionamento dell’attuale unica unità immobiliare in 142 unità direzionali private.
Ciò detto e passando più da vicino ad esaminare le questioni giuridiche sollevate col ricorso avverso il primo dei provvedimenti impugnati ( l’ordinanza n.917 dell’1/10/2008) l’Amministrazione comunale si è determinata ad inibire l’inizio dei lavori, mettendo, così, in non cale la validità della presentata d.i.a., sulla base di due rilievi, l’uno costituito dal fatto che alcune pareti divisorie interesserebbero le aperture di facciate prospicienti spazi pubblici, in contrasto con quanto al riguardo stabilito dal regolamento edilizio ( art.182.4), l’atro , dalla circostanza per cui nella specie si sarebbe inverato un cambio di destinazione d’uso dell’immobile, non consentito dalla classificazione di PRG F2e “attrezzature e servizi pubblici esistenti”.
Con riferimento alla prima delle ragioni opposte dall’Amministrazione, parte ricorrente col primo mezzo d’impugnazione contesta l’addebito mosso dal Comune , sostenendo come in realtà le tramezzature interne agiscano in corrispondenza dei montanti delle finestre, senza andare ad incidere sui prospetti esterni dell’edificio.
Sul punto le argomentazioni svolte dalla Società non sono del tutto convincenti, lì dove, di contro, anche il Comune, come si evince dalla relazione della Direzione Urbanistica prot. n.5283/09/36 del 4 febbraio 2009, adduce una serie di ragioni tecniche volte a dimostrare che tali tramezzature per come progettate vanno ad interessare le aperture di facciata, incidendo in modo pregiudizievole sulla composizione architettonica dei prospetti esterni del fabbricato.
Ad ogni buon conto osserva il Collegio che “l’addebito” relativo al preteso contrasto con l’art.182.4 del Regolamento Edilizio non assume nell’ambito delle ragioni poste a fondamento del provvedimento inibitorio un ruolo decisivo, dipendendo, invero la verifica della legittimità o meno dell’atto comunale de quo dagli altri addebiti pure formulati dall’Amministrazione , quelli riguardanti il contestato contrasto con la normativa del PRG, rivestenti, questi sì, carattere dirimente .Passando allora al punctum dolens della controversia , parte ricorrente rileva l’assenza di un mutamento di destinazione d’uso sotto un primo profilo, quello per cui il complesso immobiliare in questione sarebbe nato come edificio direzionale, come tale è stato adibito ad uffici e tale destinazione direzionale rimarrebbe a seguito del realizzando progetto edilizio, sicchè non sarebbe configurabile alcun mutamento di destinazione d’uso
Una siffatta prospettazione va necessariamente verificata quanto alla sua fondatezza o meno con le previsioni recate sul punto dallo strumento urbanistico generale ( l’area e il fabbricato sono classificati F2e “attrezzature e servizi pubblici esistenti”) e più in generale con la disciplina vigente di rango legislativo e regolamentare, applicabile nel caso all’esame.
Ebbene, la Legge Regione Toscana n.1 del 2005 all’art.154, dal titolo “ mutamenti di destinazione d’uso” così dispone: “1 ai sensi dell’art.58… sono comunque considerati mutamenti di destinazione d’uso i passaggi dall’una all’altra delle seguenti categorie: a) residenziale; b) industriale e artigianale;c) commerciale; d) turistico-ricettiva; e) direzionale; f) di servizi; ha) commerciale all’ingrosso e depositi; h) agricola e funzioni connesse”.
Il Regolamento Edilizio del Comune di Firenze , poi, si occupa della disciplina delle destinazioni d’uso all’art.194 dove, richiamando il disposto di cui all’art.59 della L.R. n.1/2005 identifica ciascuna delle destinazioni previste dalla norma legislativa sopra riportata con l’indicazione delle funzioni , nei seguenti termini: …e) direzionale: rientrano nella destinazione d’uso direzionale le banche, le assicurazioni, le sedi preposte alla direzione ed organizzazione di enti e società fornitrici di servizi, gli uffici privati, gli studi professionali in genere; f) di servizio: rientrano nella destinazione d’uso di servizio i servizi e le attrezzature pubbliche di qualsiasi tipo e natura, i servizi e le attrezzature private che rivestano interesse pubblico, ivi comprese le attrezzature ricreative e per il tempo libero e le altre attività di servizio alla residenza anche quando esercitate in forma artigianale”.
La classificazione F2e attribuita al complesso immobiliare ex Telecom ben si inquadra quindi nella categoria di cui alla lettera f) in ragione del fatto che da sempre l’edificio è stato adibito allo svolgimento di servizi che rivestono un interesse pubblico e tale funzione pubblicistica il Piano Regolatore Generale a mezzo della destinazione urbanistica in questione ha voluto all’uopo consacrare e conservare.
Dunque vi è una categoria di destinazione d’uso direzionale ed una categoria di destinazione d’uso di servizio, ciascuna con una propria identità ed autonomia e ognuna delle quali tipizza la funzione delle aree e degli immobili ai quali viene assegnata e in relazione alle quali è parametrato il fabbisogno di standard urbanistici , di talchè il progettato intervento edilizio dal momento che prevede la realizzazione di n.142 unità immobiliari direzionali non è conservativo di una originaria destinazione e , in particolare, comporta il passaggio da una categoria di destinazione d’uso, quella di servizio ( di tipo pubblicistico) ad un’altra, quella direzionale ( di tipo privatistico) che non sono interscambiabili, ma hanno autonomia e funzioni ben distinte.
Se così è, il contrasto con la prescrizione delle NTA del PRG F2e che impone per l’immobile de quo quella determinata destinazione ( e non altre ), è di palmare evidenza e il provvedimento comunale che nega l’ammissibilità di quello che è indubitabilmente un cambio di destinazione d’uso risulta supportato da giustificate ragioni di fatto e di diritto saldamente ancorate, in particolare,all’esistenza di una disciplina urbanistica di tipo preclusivo.
Col secondo e terzo motivo di gravame che per ragioni di logica connessione vanno congiuntamente esaminati parte ricorrente contesta in radice la valenza ostativa della disciplina urbanistica del PRG prevista per l’ex sede Telecom con riferimento a due specifiche argomentazioni:
la dicitura F2e con relativo simbolo “attrezzature e servizi pubblici” non avrebbe portata prescrittiva;
anche a voler ammettere una valenza prescrittiva, la destinazione impressa sarebbe decaduta per decorrenza del termine quinquennale.
In particolare, l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione, secondo la tesi di parte ricorrente, sarebbe data dal fatto che la classificazione “F2e” e il simbolo “impianti tecnologici e servizi annessi” al complesso immobiliare “de quo” non costituiscono una prescrizione finalizzata ad imporre la conservazione della destinazione d’uso in parola, rivestendo, in particolare, il simbolo di che trattasi un valore meramente ricognitivo.
In altri termini, secondo la Società Telma, la destinazione recata dal PRG in quanto meramente descrittiva non può comprimere la libertà di utilizzazione dell’immobile per destinazioni diverse da quella di impianti tecnologici e servizi annessi di talchè una volta cessato tale uso, il compendio immobiliare può essere adibito alle destinazioni diverse ammesse per il centro storico fuori le mura fino agli interventi di ristrutturazione.
Tale tesi, ancorchè pregevolmente prospettata, non appare condivisibile.
La disciplina esplicativa delle sottozone “F2”( attrezzature e servizi pubblici di interesse urbano e territoriale ) è contenuta nell’art.52 delle NTA che così dispone: “52.1 – Tali sottozone comprendono le aree e gli edifici destinati ad attrezzature pubbliche amministrative…..
Le specifiche destinazioni d’uso sono individuate con apposita simbologia nelle planimetrie di PRG”.
Inoltre, “52.2: In tali sottozone il PRG si attua per intervento edilizio diretto, previa redazione ed approvazione da parte del Comune di un progetto unitario esteso all’intera perimetrazione”.
Ciò precisato il problema giuridico di fondo da dirimere è quello della valenza delle previsioni appena indicate e precisamente appurare se la classificazione F2 e il simbolo impianti tecnologici e servizi annessi costituiscono un precetto volto alla conservazione di tale destinazione d’uso( come interpretato dall’Amministrazione) oppure hanno invece una funzione meramente ricognitiva o comunque di censimento del patrimonio esistente di guisa che la destinazione pubblicistica cessa col venir meno dell’uso specifico ( quello di sede del servizio pubblico di telefonia)
Ebbene, dall’ordito normativo recato dal PRG appare ragionevole ritenere che si è in presenza di prescrizioni introduttive di una destinazione di zona e cioè di una classificazione tipologica della zona di riferimento, con la destinazione di funzioni specifiche, quelle che individuano ai sensi del D.M. 2 aprile 1968 n.1444 le zone di pubblico interesse.
Un tanto è peraltro evincibile da un elemento ben preciso, quello per cui il citato art.52.1 delle NTA comprende nelle sottozone F2 le aree e gli edifici destinati ad attrezzature pubbliche, lì dove siamo di fronte a due concetti diversi , quello di zona e quello di area dalla cui distinzione nascono conseguenze giuridiche rilevanti proprio con riferimento alla natura dei vincoli apposti dalle destinazioni.
Invero, mentre la zona ( nella specie, la sottozona)identifica una parte del territorio cui corrisponde una funzione specializzata , l’area, invece, è un concetto topografico più ristretto e precisamente una porzione più limitata in ordine alla quale l’Amministrazione in sede di PRG effettua una sorte di prenotazione per insediarvi impianti ed opere pubbliche, con la conseguenza , in questo caso, che se l’opzione fatta dall’Ente pubblico non viene attuata in un determinato arco di tempo, l’area in questione viene liberata da quella sorte di ipoteca ad uso pubblico apposta in origine dallo strumento urbanistico.
Nel caso in esame, allora, le previsioni di cui all’ art 52 del PRG del Comune di Firenze, quali dati normativi posti a fondamento degli adottati provvedimenti di annullamento delle varie D.I.A., anche in ragione della dizione letterale recata, hanno operato in concreto una zonizzazione e non una localizzazione ed in tal senso la classificazione F2 ha sì valore precettivo.
Per il vero, va dato atto che un elemento di mera ricognizione nella specie pure sussiste ed è rappresentato dalla simbologia impianti tecnologici e servizi annessi che connota quella specifica funzione attribuita dal fabbricato esistente , allo stato, e che può naturalmente cessare e quindi non più essere conservata , senza che ciò però faccia venir meno la più generale funzione ad uso pubblico recata dalla destinazione F2 che, come sopra osservato, accomuna gli edifici e le aree di una più vasta parte del territorio ( appunto, la sottozona) e che perciò stesso rimane validamente impressa . In altri termini, la disciplina urbanistica nella specie è congegnata in modo tale che ad una destinazione d’uso caratterizzante il singolo complesso immobiliare che viene meno “naturaliter” subentri la destinazione generale di zona (più propriamente della sottozona) e siffatto meccanismo normativo non appare contra legem e/o incongruente e neppure risulta produttivo di lesioni delle posizioni del soggetto privato
A questo punto ci si deve occupare degli altri , intersecanti profili di illegittimità dedotti dalla parte ricorrente del quale si afferma l’ammissibilità dell’intervento edilizio oggetto delle denunce di inizio attività e la correlata illegittimità dei provvedimenti qui impugnati, sul rilievo che nella specie la destinazione “F2e” con il simbolo impianti tecnologici e servizi annessi, in quanto costituente un vincolo preordinato all’espropriazione o comunque sostanzialmente ablatorio, sarebbe decaduta per decorso del quinquennio dall’approvazione del piano regolatore generale, con la possibilità, in tal modo per i privati interessati di realizzare un intervento di restauro e risanamento conservativo
Anche tali censure, ad una approfondita indagine , non paiono cogliere nel segno.
La giurisprudenza costituzionale ha elaborato, com’è noto i criteri di individuazione dei vincoli di inedificabilità assoluta e preordinati all’esproprio ovvero aventi caratteri sostanzialmente espropriativo rispetto ai c.d. vincoli conformativi, in ispecie, con le sentenze 29 maggio 1999 n.179, 18 dicembre 2001 n.411 e 9 maggio 2003 n.148, identificandoli con quelli che producono lo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, incidono sul godimento del bene , tanto da renderlo inutilizzabile ovvero da diminuirne in modo significativo il valore di scambio : in tali sensi peraltro si è espressa la giurisprudenza amministrativa formatasi in relazione all’art.2 della legge n.1187 del 1968( ex multis, Cons Stato Sez. V 3/172001 n.3 e 24/2/2004 n.745) .Tali indicazioni poi possono valere anche nell’attuale vigenza dell’art.9 commi 3 e 4 del DPR 8 giugno 2001 n.237 che ha solo disciplinato con una diversa terminologia la regola della durata quinquennale , disciplinando espressamente gli istituti della decadenza e della reiterazione.
Natura e contenuto diversi ha invece la categoria dei vincoli c.d. conformativi, enucleabile in relazione ad una previsione di tipologia urbanistica che non configura una “prenotazione” dell’Amministrazione all’inedificabilità assoluta o all’espropriazione , trattandosi di una prescrizione diretta a regolare concretamente l’attività edilizia e per ciò stesso con validità a tempo indeterminato , ai sensi dell’art.11 della legge n.1150 del 17 agosto 1942.
La Corte costituzionale con la citata, fondamentale sentenza n.179 del 1999 ha avuto modi di precisare che “sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo con le connesse garanzie costituzionali i vincoli che importano una destinazione ( anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene”.
Trattasi, in altri termini di limiti non ablatori posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica connaturali alla proprietà e che per ciò stesso sfuggono allo schema ablatorio e che si risolvono nell’imporre per il titolare del diritto dominicale intenzionato a trarre relative utilità dal bene l’osservanza di una data procedura( cfr TAR Lombardia Brescia 11/6/2007 n.507; TAR veneto Sez. II 3/4/2008 n.3128): in tale ottica e con le predette finalità “limitative” vanno lette le disposizioni di cui agli artt.50 e 52 delle NTA del PRG lì dove prevedono che l’attuazione delle previsioni dello strumento urbanistico generale debba avvenire.. “ previa redazione ed approvazione da parte del Comune di un progetto unitario esteso alla intera perimetrazione
Ritornando al concetto giuridico di vincoli senza valenza ablatoria, lo stesso è stato peraltro più volte ribadito dai giudici di merito , lì dove si è statuito che non possono essere annoverati nella categoria dei vincoli sostanzialmente espropriativi ( secondo la definizione di cui all’art.39 comma 1 del citato DPR n.327/2001) quei vincoli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l’iniziativa privata in regime di economia di mercato ( cfr, tra le tante, Cons Stato sez V 6/10/2000 n.5327; idem Sez VI 14/5/2000 n.2934; Sez.IV 28/2/2005 n.693 ; Cass. Civ. 26 gennaio 2006 n.1626).
E’ con quest’ultimo taglio interpretativo ( quello che definisce le previsioni di tipologia urbanistica inerenti alla potestà conformativa ) che va letta e interpretata la destinazione della sottozona F2e- attrezzature e servizi pubblici e tanto anche alla luce della disciplina urbanistico-edilizia recata in subjecta materia da alcune disposizioni del Regolamento edilizio del Comune di Firenze del 2007, quelle contenute all’art.202/bis, dal seguente , inequivocabile tenore:
“1 Il vincolo preordinato all’esproprio che può gravare sia su aree libere che su edifici esistenti ha la durata di cinque anni da quando diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità: lo stesso decade se entro tale termine non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell’opera e trova applicazione entro i termini di efficacia del vigente PRG la disciplina dettata dall’art.9 del DPR n.380/2001 e dall’art.27 quarto comma della legge n.457/1978;
…3 in caso di immobili classificati dal vigente PRG come attrezzature esistenti, caratterizzate dalla lettera “e” ( esistente) associata al relativo simbolo identificativo, indipendentemente dall’effettivo permanere in loco dell’attività che ha dato origine alla classificazione , non trattandosi di vincolo preordinato all’esproprio, non si determina alcuna decadenza;
4 le aree per le quali siano decaduti i vincoli preordinati all’esproprio comprese entro i perimetri di cui alla zone omogenee A1,A2,A3,A4,A5 ( art.15 NTA) non sono da considerarsi come aree non pianificate ma sono soggette alla disciplina di cui alle sottozone corrispondenti”.
In tali norme viene consacrata in maniera espressa la volontà dell’Amministrazione comunale di configurare dei vincoli di conformità proprio in relazione alla parte di territorio omogenea , di aree e fabbricati contrassegnata dalla tipologia F2e e ciò nell’ambito di un potere discrezionale tradizionalmente riconosciuto all’Ente pubblico in sede di pianificazione territoriale.
Conclusivamente, sul punto,la previsione F2e va considerata come normale vincolo di natura conformativa, discendente dalle ordinarie scelte di pianificazione urbanistica, quindi non soggetta al normale termine quinquennale di decadenza, la cui validità è a tempo indeterminato( come stabilito dall’art.11 della legge “urbanistica” n.1150 del 17 agosto 1942 )e senza che possa nella specie configurarsi una compressione del diritto di proprietà nei sensi di cui all’art.42 terzo comma della Costituzione
Passando all’esame del motivo d’impugnazione rivolto avverso la delibera del Consiglio Comunale di Firenze n.88 del 13/10/2008 avente ad oggetto : “individuazione come zone di recupero delle zone F e G”, parte ricorrente lamenta in primo luogo il fatto che il Comune avrebbe potuto procedere ad adottare il Piano di Recupero solo in sede di strumento urbanistico a mezzo di un’apposita variante,ma tale rilievo non appare accoglibile , atteso che la norma di cui all’art.27 della legge n.457/78 consente in presenza di un Piano Regolatore Generale vigente ( è il caso di Firenze) di utilizzare la modalità procedurale dell’atto deliberativo consiliare . Non appare, inoltre, condivisibile la doglianza dedotta circa la mancata attivazione da parte del Comune della procedura di partecipazione dei privati (di cui agli artt.7 e ss della legge n.241/90) al processo decisionale relativo alla individuazione delle zone di recupero: trattasi di scelte di carattere generale a fronte delle quali non è configurabile per l’Amministrazione uno specifico onere di comunicazione dell’avvio del procedimento ( cfr Cons Stato sez.IV 11/4/2007 n.1668).
Parte ricorrente, infine, contesta la legittimità della scelta operata dall’Amministrazione di subordinare l’intervento edificatorio de quo alla presentazione e approvazione di un piano di recupero sul rilievo che tale prescrizione è affetta da un travisamento dei fatti dal momento che nella specie non sussisterebbero le condizioni di degrado che giustificano l’applicazione dell’istituto di cui all’art.27 della legge n.457/78
La tesi sostenuta dalle ricorrenti non appare condivisibile.
Invero, la critica mossa alla scelta operata dall’Amministrazione si fonda su una interpretazione per così dire restrittiva dell’istituto urbanistico del piano di recupero, lì dove si accede da parte ricorrente ad una visione che , per il vero, la giurisprudenza ha ampliato dagli angusti limiti propri dell’originaria definizione.
Vero è, infatti, che il presupposto richiesto per legittimare la redazione e approvazione di un Piano di Recupero è rappresentato principaliter dall’esistenza concreta ed effettiva di un patrimonio edilizio degradato, costituito cioè da immobili fatiscenti, abbandonati, coma da superfetazioni e che quindi tali condizioni nella specie non sussisterebbero; ciònondimeno, il Collegio ritiene di dovere aderire a quell’orientamento giurisprudenziale( cfr Cons stato Sez. IV 11/4/2007 n.1606) secondo cui “ i piani di recupero possono prevedere non solo il mero recupero, ma anche le modificazioni urbanistiche necessarie al più consono assetto del territorio”.
Il divisamento assunto dal Comune con la deliberazione per cui è causa si pone esattamente nell’alveo delle caratteristiche e finalità conferite dalla giurisprudenza testè citata allo strumento del Piano di Recupero e tanto è ricavabile dalla disamina delle ragioni esplicitamente contenute nell’atto deliberativo de quo.
Il Consiglio Comunale prendendo l’abbrivio dalla vicenda processuale qui all’esame e tenuto conto delle connotazioni specifiche delle realtà territoriali come quella costituita dall’ ex sede Telecom ha deciso, nell’esercizio di un suo preciso potere discrezionale di procedere a conferire per alcune parti del territorio , identificate con i perimetri che includono le zone F e G, , “interne al Centro Storico”e “ per dimensione e localizzazione di particolare significato per la città”un assetto pianificatorio coerente ed unitario , in modo da non stravolgere il contenuto dell’impianto urbanistico generale .
In questa ottica, l’Organo consiliare si è fatto carico della necessità di approntare una disciplina per quelle situazioni, come quella qui in rilievo, in cui venga ad aversi una dismissione e poi la successiva trasformazione di numerose ed estese aree del territorio urbano, ricadenti in Zona A, sottozone F e G e destinate in origine ad attrezzature e servizi pubblici di interesse urbano e territoriale”, lì dove in tali situazioni il riutilizzo di contenitori come quello che ha ospitato la sede del servizio telefonico ben può dare luogo a fenomeni di degrado , in assenza di un disciplina che regoli in maniera più dettagliata gli interventi modificativi o sostitutivi a farsi e tanto, come sottolineato nella parte motiva dell’atto deliberativo de quo al fine di contemperare le legittime aspettative dei proprietari delle aree con le altrettanto legittime competenze pianificatorie del Comune.
Ora, in concreto la redazione e approvazione di un Piano di Recupero è un modulo procedimentale di definizione degli interessi pubblico-privati che ben si attaglia al caso di specie dove una ridefinizione degli standard urbanistici si rende necessaria per il “nuovo” utilizzo direzionale delle aree e dei fabbricati in questione, le quante volte, la progettata trasformazione degli immobili comporti un decremento di detti standard con innegabili riflessi di carattere negativo in ordine alla qualità della vita delle persone abitanti nella zona interessata.
Quelle sopra illustrate costituiscono la ratio e la portata della scelta recata dalla deliberazione consiliare n.88/2008 in contestazione , delle quali l’Amministrazione procedente ha dato compiuta e corretta contezza con l’articolata motivazione ivi esposta sia in punto di fatto che di diritto.
D’altra parte, se così è, nella specie, tutt’al più si può parlare dell’introduzione di un “aggravio procedurale”, imposto alla Società ricorrente, beninteso, a tutela delle esigenze di una razionale pianificazione del territorio come valutate dall’Amministrazione comunale nell’esercizio di un potere discrezionale spettante da sempre all’Ente pubblico, ma anche a garanzia della Società proprietaria dell’immobile che vede riconosciuto in maniera indiscutibile il proprio jus aedificandi sia pure secondo le modalità e i limiti costruttivi recati dall’approvando Piano di Recupero.
Non si può parlare dunque di un divieto di intervento edilizio diretto tout court, venendo unicamente in rilievo una previsione di un intervento edilizio per così dire concordato dettato dall’esigenza di tutelare aspetti di gestione del territorio non capricciosamente voluti dall’Amministrazione, ma imposti dalla constatata necessità di disciplinare in dettaglio l’entità degli standard urbanistici preordinati ad evitare possibili situazioni di degrado nei sensi già esposti e comunque posti a garanzia di una utilizzazione del patrimonio immobiliare migliore di quella, allo stato, esistente.
L’operato del Comune , quindi si appalesa legittimo, risulta adeguatamente giustificato dalla copiosa motivazione di ordine tecnico-amministrativa esposta nella parte narrativa della delibera de qua, rivelandosi in sintonia con le prescrizioni del PRG che agli artt.50 e 52 prevedono l’attuazione delle previsioni dello strumento urbanistico “previa redazione e approvazione da parte del Comune di un progetto unitario esteso all’intera perimetrazione”. Vale, inoltre, osservare in ordine alla lamentata compressione del diritto all’edificazione che nella specie con la prescritta approvazione del piano di recupero non si va a limitare le destinazioni d’uso contemplate dal PRG, bensì unicamente a disciplinare le modalità di realizzazione di tali destinazioni d’uso, il che non solo non è vietato e neppure precluso dalla normativa urbanistica comunale , ma rientra nelle facoltà rimesse alla pubblica amministrazione .
Conclusivamente sia l’ordinanza inibitoria n.917/2008 sia la deliberazione consiliare n.88/08 recante la individuazione delle zone F e G come zone di recupero si appalesano immuni dai vizi di legittimità denunciati col ricorso all’esame che, in quanto infondato, va respinto
Le spese e competenze del giudizio seguono la regola della soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sezione III, definitivamente pronunziando sul ricorso in epigrafe, lo Rigetta.
Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore del resistente Comune di Firenze, delle spese e competenze del giudizio che si liquidano complessivamente in euro3.000,00(tremila) + IVA e CPA.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 26/02/2009 con l'intervento dei Magistrati:
Angela Radesi, Presidente
Andrea Migliozzi, Consigliere, Estensore
Alessio Liberati, Primo Referendario
Negare all'ex coniuge il figlio, violando le statuizioni del giudice è reato
Corte di Cassazione – Sentenza n. 27995/2009
Violazione delle statuizioni del giudice in materia di affidamento dei figli
Rileva la Corte, in ordine alla prima doglianza, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento giurisdizionale adottato in sede di separazione dei coniugi si realizza anche attraverso la mancata ottemperanza al provvedimento medesimo. “Eludere”, infatti, significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione, che, nella specie, è consistita nel rifiuto della F., alla quale era affidato il bambino, di far sì che lo stesso trascorresse col padre il periodo di vacanza prestabilito. L’asserito esercizio del diritto-dovere di avere agito esclusivamente nell’interesse del minore, che avrebbe manifestato indisponibilità ad allontanarsi, sia pure temporaneamente, dal suo ambiente abituale, è rimasto indimostrato. Non va, peraltro, sottaciuto che rientra nei doveri del genitore affidatario quello di favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. L’ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo.
Non risulta che la F. si sia mossa nella direzione che il suo dovere di madre, a prescindere da spinte egoistiche, le imponeva a tutela della posizione del figlio, né risulta una situazione che rendeva impraticabile l’affidamento, sia pure temporaneo, del minore al padre, situazione che, peraltro, se reale, avrebbe dovuto essere rappresentata tempestivamente alla competente Autorità Giudiziaria per gli opportuni provvedimenti.
Corte di Cassazione Sezione Sesta Pen. - Sent. del 08.07.2009, n. 27995
Fatto e diritto
1 - Il Tribunale di Agrigento - sezione di Canicattì -, con sentenza 22/3/2005, dichiarava L. F. colpevole del reato di cui all’art. 388 c.p. (per avere eluso il provvedimento del giudice civile in ordine all’affidamento del figlio minore A., impedendo al padre, G. L., di tenerlo con sé nel periodo stabilito) e la assolveva dal reato di tentata violenza privata (per avere tentato di costringere il marito, con la minaccia di non fargli vedere il figlio, a corrispondergli l’assegno mensile stabilito in sede di separazione) perché il fatto non sussiste.
2 - La Corte d’Appello di Palermo, investita dai gravami dell’imputata e del P.G., con sentenza 23/11/2005, riformando in parte la decisione di primo grado, dichiarava la F. colpevole anche di tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.), cosi qualificata l’originaria imputazione ex artt. 56-610 c.p., unificava i due reati sotto il vincolo della continuazione, rideterminava la pena, tenuto conto delle già concesse attenuanti generiche, in giorni venti di reclusione, sostituiti con euro 760,00 di multa, e confermava nel resto la pronuncia impugnata.
3 - Ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, lamentando la violazione della legge penale e il vizio di motivazione: a) quanto al reato di cui all’art. 388 c.p., ha stigmatizzato lo scarso interesse del L. ad intrattenere rapporti significativi col figlio, tanto che quest’ultimo, a lei affidato, non aveva dimostrato alcuna disponibilità ad allontanarsi, nel mese di ( …) dal suo ambiente abituale, sicché la scelta da lei fatta era stata determinata dalla sola ragione di evitare un trauma al bambino; b) quanto al reato di cui agli artt. 56-393 c.p., nessuna prova affidabile era stata acquisita.
Il ricorso non è fondato.
Rileva la Corte, in ordine alla prima doglianza, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento giurisdizionale adottato in sede di separazione dei coniugi si realizza anche attraverso la mancata ottemperanza al provvedimento medesimo. “Eludere”, infatti, significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione, che, nella specie, è consistita nel rifiuto della F., alla quale era affidato il bambino, di far sì che lo stesso trascorresse col padre il periodo di vacanza prestabilito. L’asserito esercizio del diritto-dovere di avere agito esclusivamente nell’interesse del minore, che avrebbe manifestato indisponibilità ad allontanarsi, sia pure temporaneamente, dal suo ambiente abituale, è rimasto indimostrato. Non va, peraltro, sottaciuto che rientra nei doveri del genitore affidatario quello di favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. L’ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo.
Non risulta che la F. si sia mossa nella direzione che il suo dovere di madre, a prescindere da spinte egoistiche, le imponeva a tutela della posizione del figlio, né risulta una situazione che rendeva impraticabile l’affidamento, sia pure temporaneo, del minore al padre, situazione che, peraltro, se reale, avrebbe dovuto essere rappresentata tempestivamente alla competente Autorità Giudiziaria per gli opportuni provvedimenti.
La seconda censura è assolutamente generica e non idonea a porre in crisi gli argomenti che il Giudice a quo ha posto a base del ritenuto reato di cui agli artt. 56-393 c.p., provato dalla precisa e attendibile testimonianza del L., destinatario della telefonata ricattatoria da parte della moglie, che, per indurlo a rispettare più puntualmente i suoi obblighi di natura economica, aveva minacciato di ostacolare in ogni modo gli incontri tra padre e figlio, circostanza quest’ultima che rappresenta - tra l’altro - una ulteriore conferma della fondatezza del primo capo d’accusa.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Consegue, di diritto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Violazione delle statuizioni del giudice in materia di affidamento dei figli
Rileva la Corte, in ordine alla prima doglianza, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento giurisdizionale adottato in sede di separazione dei coniugi si realizza anche attraverso la mancata ottemperanza al provvedimento medesimo. “Eludere”, infatti, significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione, che, nella specie, è consistita nel rifiuto della F., alla quale era affidato il bambino, di far sì che lo stesso trascorresse col padre il periodo di vacanza prestabilito. L’asserito esercizio del diritto-dovere di avere agito esclusivamente nell’interesse del minore, che avrebbe manifestato indisponibilità ad allontanarsi, sia pure temporaneamente, dal suo ambiente abituale, è rimasto indimostrato. Non va, peraltro, sottaciuto che rientra nei doveri del genitore affidatario quello di favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. L’ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo.
Non risulta che la F. si sia mossa nella direzione che il suo dovere di madre, a prescindere da spinte egoistiche, le imponeva a tutela della posizione del figlio, né risulta una situazione che rendeva impraticabile l’affidamento, sia pure temporaneo, del minore al padre, situazione che, peraltro, se reale, avrebbe dovuto essere rappresentata tempestivamente alla competente Autorità Giudiziaria per gli opportuni provvedimenti.
Corte di Cassazione Sezione Sesta Pen. - Sent. del 08.07.2009, n. 27995
Fatto e diritto
1 - Il Tribunale di Agrigento - sezione di Canicattì -, con sentenza 22/3/2005, dichiarava L. F. colpevole del reato di cui all’art. 388 c.p. (per avere eluso il provvedimento del giudice civile in ordine all’affidamento del figlio minore A., impedendo al padre, G. L., di tenerlo con sé nel periodo stabilito) e la assolveva dal reato di tentata violenza privata (per avere tentato di costringere il marito, con la minaccia di non fargli vedere il figlio, a corrispondergli l’assegno mensile stabilito in sede di separazione) perché il fatto non sussiste.
2 - La Corte d’Appello di Palermo, investita dai gravami dell’imputata e del P.G., con sentenza 23/11/2005, riformando in parte la decisione di primo grado, dichiarava la F. colpevole anche di tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.), cosi qualificata l’originaria imputazione ex artt. 56-610 c.p., unificava i due reati sotto il vincolo della continuazione, rideterminava la pena, tenuto conto delle già concesse attenuanti generiche, in giorni venti di reclusione, sostituiti con euro 760,00 di multa, e confermava nel resto la pronuncia impugnata.
3 - Ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, lamentando la violazione della legge penale e il vizio di motivazione: a) quanto al reato di cui all’art. 388 c.p., ha stigmatizzato lo scarso interesse del L. ad intrattenere rapporti significativi col figlio, tanto che quest’ultimo, a lei affidato, non aveva dimostrato alcuna disponibilità ad allontanarsi, nel mese di ( …) dal suo ambiente abituale, sicché la scelta da lei fatta era stata determinata dalla sola ragione di evitare un trauma al bambino; b) quanto al reato di cui agli artt. 56-393 c.p., nessuna prova affidabile era stata acquisita.
Il ricorso non è fondato.
Rileva la Corte, in ordine alla prima doglianza, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento giurisdizionale adottato in sede di separazione dei coniugi si realizza anche attraverso la mancata ottemperanza al provvedimento medesimo. “Eludere”, infatti, significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione, che, nella specie, è consistita nel rifiuto della F., alla quale era affidato il bambino, di far sì che lo stesso trascorresse col padre il periodo di vacanza prestabilito. L’asserito esercizio del diritto-dovere di avere agito esclusivamente nell’interesse del minore, che avrebbe manifestato indisponibilità ad allontanarsi, sia pure temporaneamente, dal suo ambiente abituale, è rimasto indimostrato. Non va, peraltro, sottaciuto che rientra nei doveri del genitore affidatario quello di favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. L’ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo.
Non risulta che la F. si sia mossa nella direzione che il suo dovere di madre, a prescindere da spinte egoistiche, le imponeva a tutela della posizione del figlio, né risulta una situazione che rendeva impraticabile l’affidamento, sia pure temporaneo, del minore al padre, situazione che, peraltro, se reale, avrebbe dovuto essere rappresentata tempestivamente alla competente Autorità Giudiziaria per gli opportuni provvedimenti.
La seconda censura è assolutamente generica e non idonea a porre in crisi gli argomenti che il Giudice a quo ha posto a base del ritenuto reato di cui agli artt. 56-393 c.p., provato dalla precisa e attendibile testimonianza del L., destinatario della telefonata ricattatoria da parte della moglie, che, per indurlo a rispettare più puntualmente i suoi obblighi di natura economica, aveva minacciato di ostacolare in ogni modo gli incontri tra padre e figlio, circostanza quest’ultima che rappresenta - tra l’altro - una ulteriore conferma della fondatezza del primo capo d’accusa.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Consegue, di diritto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
legale esterno, i criteri di conferimento dell'incarico per la P.A.
C o r t e d e i C o n t i
Sezione regionale di controllo per la Basilicata
Potenza Deliberazione n. 19/2009/PAR Parere n. 8/2009
1. se per l’affidamento di incarichi ad avvocati esterni all’Ente per la difesa giudiziale occorre seguire il procedimento di evidenza pubblica di cui agli artt. 20 e 27 del D.Lgs. n. 163/2006;
2. se è necessario che la Giunta deliberi circa l’opportunità o meno di promuovere o resistere in giudizio oppure se è sufficiente la determinazione ed il parere del Responsabile del Servizio interessato indirizzato al Sindaco;
3. se, nel caso di risposta affermativa al primo quesito, occorre istituire l’Albo dei Fornitori dei Servizi Legali e se competente per il procedimento di scelta è il Dirigente del servizio coinvolto nella controversia o l’Ufficio addetto agli affari contenziosi se esiste;
4. se occorre stipulare con il Professionista affidatario dell’incarico apposita convenzione stabilendo il compenso.
Quanto all’organo deputato a esprimersi in ordine all’opportunità di iniziare o resistere alla lite, come anche al soggetto dotato di legittimazione, che sottoscriverà la procura alla lite, in generale occorre fare riferimento a quanto indicato nello Statuto (art. 6 T.U.E.L.), dal momento che esso potrebbe attribuire la legittimazione attiva anche a dirigenti dell’ente (Cass. Civ., V, 4 febbraio 2008, n. 2585).
Quanto, poi, al soggetto legittimato a stipulare il contratto di patrocinio o di appalto di servizio con il professionista, questi non può che essere il Dirigente, ai sensi dell’art. 107 del T.U.E.L., e non già la Giunta (Cons. Stato, IV, n. 263/2008, cit.; TAR Calabria, R.C., n. 330/2007; TAR Calabria, CZ, n. 453/2006; TAR Campania, n. 3081/2004).
In ogni caso, si segnala che per il contratto d’opera professionale, quando ne sia parte committente una p.a., è richiesta la forma scritta a pena di nullità, ai sensi degli artt. 16 e 17 R.D. n. 2440/1923 (Cass., 8.6.2007, n. 13508).
2.5. Relativamente al compenso spettante al professionista, occorre distinguere. Se nell’invito per la selezione era stato richiesta anche l’indicazione di detto compenso, ovvero il modo di determinarlo in riferimento alla tariffa vigente, l’affidamento al professionista porta già con sé la determinazione di detto onere.
Se, invece, la scelta è avvenuta senza la preventiva determinazione della componente economica, occorre che sia indicato l’importo del compenso o il criterio della sua determinazione, dovendosi richiamare l’Ente all’osservanza, comunque, di misure di natura prudenziale, quali ad esempio quelle indicate dalla Sezione regione di controllo per l’Abruzzo con la delibera n. 360/2008, del 14.7.2008.
Giova ribadire, sul punto, che proprio le possibilità di determinazione del compenso professionale, anche al di sotto dei minimi tariffari, impone all’Ente – al fine della tutela del pubblico erario - di convenire sempre e preventivamente gli onorari dovuti, vigilando e controllando che le altre voci di spesa siano congrue rispetto all’attività effettivamente svolta.
Deliberazione n. 19/2009/PAR
Parere n. 8/2009
La Sezione regionale di controllo per la Basilicata così composta:
Presidente di Sezione: dr.ssa Laura Di Caro Presidente
Consigliere: dr. Antonio Nenna Componente
Primo Referendario dr. Rocco Lotito Componente
Referendario dr. Giuseppe Teti Componente-relatore
nella Camera di consiglio del 3 aprile 2009
Visto l’art.100 della Costituzione;
Visto il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con R.D. 12 luglio 1934, n.1214 e successive modificazioni ed integrazioni;
Vista la legge 14 gennaio 1994, n.20 e successive modificazioni;
Visto l’art. 7, comma 8, della legge 5 giugno 2003, n. 131;
Vista la deliberazione n.14/2000 in data 16 giugno 2000 delle Sezioni Riunite della Corte dei conti, con la quale è stato deliberato il regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, e successive modificazioni ed integrazioni;
Visti gli indirizzi e criteri generali per l’esercizio dell’attività consultiva approvati dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti nell’adunanza del 27 aprile 2004;
Vista la richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003 formulata dal Sindaco del comune di Teana (PZ), con nota prot. n. 2496 del 5 dicembre 2008;
Vista l’ordinanza del Presidente di questa Sezione regionale di controllo n. 8/2009 del 3 aprile 2009, con la quale è stata deferita la questione all’esame collegiale della Sezione per l’odierna seduta e con la quale è stato nominato relatore il referendario dr. Giuseppe Teti;
Udito nella camera di consiglio il relatore;
Premesso in fatto
Con la succitata nota il Sindaco del comune di Teana ha chiesto a questa Sezione un parere avente ad oggetto il conferimento di incarichi di patrocinio legale ad avvocati esterni all’ente.
Al riguardo, prima della formulazione degli specifici quesiti, si sostiene che l’attività di difesa giudiziale tende a conseguire un risultato ed è resa da soggetti con organizzazione strutturata e prodotta anche senza caratterizzazione personale. Il Trattato CE ricomprende, tra le prestazioni di servizi, quelle rese nell’ambito dell’attività delle libere professioni e, del resto, il D.Lgs. n. 163 del 2006 (“Codice dei contratti pubblici di lavori servizi e forniture”), adeguandosi alla Direttiva CE n. 18/2004, ha inserito nell’allegato II B anche i servizi legali tra quelli aggiudicabili mediante appalto, la cui disciplina, tuttavia, richiamata dall’art. 20 di detto Codice, è ristretta all’osservanza dei soli artt. 68, 65 e 225 del predetto Codice.
Ciò posto, dopo aver richiamato precedenti di giurisprudenza comunitaria, amministrativa e della stessa Corte dei conti, avendo rilevato che “da quanto innanzi pare che gli Enti Pubblici non possono più conferire gli incarichi di patrocinio legale ad avvocati esterni in modo diretto e personale nel rispetto del principio di concorrenza”, l’Ente istante chiede che questa Sezione si pronunci sui seguenti quesiti, appresso riportati nel loro letterale tenore:
1. se per l’affidamento di incarichi ad avvocati esterni all’Ente per la difesa giudiziale occorre seguire il procedimento di evidenza pubblica di cui agli artt. 20 e 27 del D.Lgs. n. 163/2006;
2. se è necessario che la Giunta deliberi circa l’opportunità o meno di promuovere o resistere in giudizio oppure se è sufficiente la determinazione ed il parere del Responsabile del Servizio interessato indirizzato al Sindaco;
3. se, nel caso di risposta affermativa al primo quesito, occorre istituire l’Albo dei Fornitori dei Servizi Legali e se competente per il procedimento di scelta è il Dirigente del servizio coinvolto nella controversia o l’Ufficio addetto agli affari contenziosi se esiste;
4. se occorre stipulare con il Professionista affidatario dell’incarico apposita convenzione stabilendo il compenso.
Considerato in diritto
1. Sull’ammissibilità della richiesta
1.1 La richiesta di parere è senz’altro ammissibile sotto il profilo soggettivo.
L’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003 ha abilitato sia le Regioni, direttamente, che i Comuni, le Provincie e le Città Metropolitane, di norma tramite il consiglio delle autonomie locali, se istituito, a richiedere alle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti pareri in materia di contabilità pubblica.
Peraltro, la mancata istituzione del consiglio delle autonomie locali, previsto dall’art. 123 della Costituzione, non può considerarsi motivo ostativo alla richiesta di parere. Condizione di ammissibilità è, infatti, che la richiesta stessa sia formulata - come in questo caso è formulata - soltanto dai massimi organi rappresentativi degli enti locali (presidente della giunta regionale, presidente della provincia, sindaco o, nel caso di atti di normazione, presidente del consiglio regionale, provinciale, comunale), come puntualizzato – tra l’altro – dagli indirizzi e criteri generali approvati nell’adunanza della Sezione delle Autonomie del 27 aprile 2004.
1.2 Quanto all’ambito oggettivo che delimita le questioni che possono essere portate all’esame della Corte dei conti, va detto che, in generale, il conferimento di incarichi di natura professionale a soggetti esterni all’Amministrazione è materia sulla quale la Corte dei conti ha già ritenuto di potersi pronunciare in sede consultiva, ivi compresa la questione relativa agli incarichi di patrocinio legale, onde verificare, in disparte le considerazioni e la prospettazione dell’Ente istante, quale sia, in concreto, il contesto normativo entro il quale collocare l’incarico in discussione e quali le modalità del conferimento. La questione, inoltre, ha carattere generale, che richiede un esame da un punto di vista astratto della normativa di riferimento.
Deve, invece, essere esclusa ogni richiesta che comporti una valutazione su casi concreti o atti gestionali specifici che determinerebbero un’ingerenza della Corte dei conti nella concreta attività dell’Ente. Non si ritiene, pertanto, ammissibile il quesito concernente l’eventuale istituzione dell’Albo dei Fornitori dei Servizi Legali, trattandosi di modalità afferente ad un atto gestionale e organizzativo concreto che, appunto, determinerebbe una non consentita ingerenza della Corte dei conti nella concreta attività dell’Ente.
Alla luce delle considerazioni che precedono e fermi i limiti indicati dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione n. 5/2006, il parere, ad esclusione del quesito sopra detto, più dirsi ammissibile anche sotto il profilo oggettivo.
2. Nel merito.
2.1 Dal tenore dei quesiti si desume che il caso al quale si riferisce il Comune istante riguarda l’incarico di patrocinio legale che un Ente, sprovvisto di avvocatura interna, si trova a dover necessariamente conferire al professionista esterno nel momento in cui sorge la necessità di agire in giudizio (quale parte attrice) ovvero di resistere ad esso (se parte convenuta o resistente). Si desume, altresì, che il patrocinio non si intende limitato alla rappresentanza in giudizio dell’Ente ma, in generale, comprende anche l’assistenza e la difesa del patrocinato.
Il primo interrogativo posto riguarda le modalità di conferimento di detto incarico.
Il Sindaco del Comune di Teana sostiene trattarsi di “servizio legale”, come tale riconducibile alla disciplina dell’appalto di servizi, regolato dall’art. 20 del D.Lgs. n. 163/2006 (in appresso, per brevità, “Codice dei contratti pubblici” o “Codice”).
Al riguardo si osserva che vi sono, invero, indici rilevanti di un orientamento tendente a qualificare le prestazioni professionali rese da avvocati, tanto in sede giudiziale che stragiudiziale, quali “servizi”, sia pure in una accezione talmente ampia da farvi rientrare non solo il compimento di un servizio inteso quale risultato della prestazione, ma anche la c.d. prestazione di diligenza professionale in sé considerata (o di mezzi), di natura intellettuale, resa da professionisti iscritti in appositi albi. In tal senso, già la legge n. 31 del 9 febbraio 1982, regolante la libera prestazione “di servizi” da parte degli avvocati cittadini comunitari, rubricava come “servizi professionali” quelli di cui qui trattasi. Da ultimo, l’art. 2 del D.L. 223/2006 (c.d. “decreto Bersani”) ricorre anch’esso all’espressione “servizi professionali” con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali, secondo una linea di continuità con la elencazione dei “servizi” contenuta nell’art. 50 del Trattato C.E., che in tale categoria espressamente include anche le “attività delle libere professioni”, fornite normalmente dietro retribuzione, al fine di vietare restrizioni alla loro libera prestazione all’interno della Comunità.
Ritiene, tuttavia, la Sezione che gli argomenti ai quali fare ricorso per dare soluzione al complesso quesito sottoposto alla sua attenzione non possano fondarsi sulla mera coincidenza nominalistica di un dato letterale, sicché non sembra sufficiente l’aver qualificato “servizio” la prestazione libero professionale resa dall’avvocato per ritenerla senz’altro compresa nella categoria dei “servizi legali”, di cui all’allegato II B richiamato dall’art. 20 del Codice dei contratti pubblici.
D’altro canto, occorre costatare che non sempre l’incarico di patrocinio legale, di cui qui si discute, è conferito a un legale solo nel momento in cui sorge il bisogno di difesa giudiziale. Si tratta, in tal caso di un incarico episodico, legato alla necessità contingente. In altri casi – rilevabili dall’esame della giurisprudenza di cui si dirà in seguito - la prestazione in argomento è inserita in un più articolato quadro di attività professionali, organizzate sulla base dei bisogni rappresentati dall’Ente.
Orbene, l’indagine che segue dovrà verificare se la soluzione ritenuta adeguata a dare risposta a un caso valga anche per l’altro, ovvero se le due ipotesi sopra indicate richiedano soluzioni diverse, in tutto o in parte.
Appare, allora, necessario sottoporre ad un più penetrante scrutinio le norme in vigore, senza ignorare il livello e la natura degli interessi protetti sui quali queste norme finiscono per incidere. Non sembra irrilevante, infatti, la considerazione che, a differenza di altre prestazioni professionali, il patrocinio legale si lega a interessi costituzionalmente protetti, che assurgono a veri e propri diritti inviolabili, quale il diritto alla difesa e, pur senza implicare l’esercizio di pubblici poteri (Corte Giust., 21.6.1974, causa 2/74, Reyners c/ Stato belga), partecipa dell’amministrazione della giustizia quale servizio pubblico essenziale volto alla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati (C.Cost., 27.5.1996, n. 171). Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza comunitaria, l’esigenza di tutela del prestatore del servizio, in uno con la tutela del destinatario della prestazione stessa e, più in generale, con l’esigenza di una corretta ed efficiente amministrazione della giustizia, rappresentano “obiettivi che rientrano tra quelli che possono essere ritenuti motivi imperativi di interesse pubblico in grado di giustificare una restrizione della libera prestazione dei servizi (v., in tal senso, sentenze 12 dicembre 1996, causa C 3/95, Reisebüro Broede, Racc. pag. I 6511, punto 31 e giurisprudenza ivi citata, nonché 21 settembre 1999, causa C 124/97, Läärä e a., Racc. pag. I 6067, punto 33)” (così il punto 64 della decisione nelle cause riunite C.giust. C 94/04 e C 202/04).
Si procederà, pertanto, previo inquadramento della disciplina delle prestazioni professionali (rese da avvocati) secondo l’ordinamento interno, all’esame delle norme di derivazione comunitaria alle quali il Comune istante ha inteso fare riferimento ed a quelle, non indicate, che si ritengono rilevanti ai fini della corretta impostazione dei quesiti.
2.2.1 Appare senz’altro preferibile, pur tra le varie opzioni scrutinabili dall’interprete, la tesi che riconduce il contratto di patrocinio legale – tanto circoscritto alla rappresentanza in giudizio, quanto esteso anche alla difesa giudiziale - nell’ambito del contratto d’opera intellettuale regolato dall’art. 2230 c.c. e ss..
Depongono in tal senso: la necessarietà e la non volontarietà (propria del mandato) di una rappresentanza processuale affidata a tecnici dotati di competenze particolari per il compimento di atti non negoziali, che la parte non potrebbe comunque compiere da sé (tranne eccezioni che non rilevano come regola); la circostanza che detti tecnici (avvocati), iscritti in appositi albi, esercitano professionalmente tale attività, alla quale si accompagna di regola anche la difesa, scritta o orale, della parte mediante una complessa attività intellettuale per mezzo della quale l’avvocato assume la difesa e dà sostegno alle ragioni di fatto e di diritto dell’assistito; il fine pubblicistico dell’amministrazione della giustizia con cui questa attività concorre; il richiamo espresso a disposizioni dettate a proposito di tale tipo contrattuale quando si tratta di sindacare la validità dell’accordo stipulato con chi non sia iscritto all’apposito albo (art. 2229 c.c.) o l’inesigibilità della retribuzione (art. 2231 c.c.); la determinazione del compenso secondo tariffe professionali (art. 2233 c.c.; Cass. Civ., II, 19 febbraio 2007, n. 3740), nonché la misura della colpa professionale rilevante ai fini del giudizio di inadempimento (art. 2236 c.c.; Cass. Civ., II, 23 aprile 2002, n. 5928).
Tale sistematico inquadramento non sembra possa subire modifiche a seconda la natura del committente, se esso cioè sia un privato o un Ente pubblico. In disparte il dibattito, tutt’altro che sopito, circa le differenze tra appalto e contratto d’opera in generale, non potrebbe sostenersi che, se il patrocinio è richiesto da (e reso a) un soggetto privato, l’oggetto del contratto sia una prestazione d’opera intellettuale, mentre se a richiederlo è un soggetto pubblico essa diventi, per ciò stesso, oggetto di un contratto di appalto (di servizi). Al riguardo, e in generale per le prestazioni professionali, la giurisprudenza amministrativa è costantemente orientata a escludere la mutevolezza della natura giuridica del contratto d’opera intellettuale nelle due ipotesi (così Cons. Stato, IV, 27 giugno 2001 n. 3483, a proposito del contratto concluso fra una p.a. ed i componenti la commissione di collaudo di un’opera pubblica; Cons. Stato, IV, 28 agosto 2001, n. 4573, a proposito dell’attività professionale di redazione di strumenti urbanistici; TAR Liguria, 22 giugno 2002, n. 705; TAR Campania, II, 11 novembre 2003, n. 13477. Per Cass. Civ., II, 18 aprile 2003, n. 6326, la natura di contratto d’opera intellettuale, “caratterizzato, in quanto tale, dall’autonomia del prestatore”, è esclusa solo nel caso in cui l’avvocato sia un dipendente dell’Ente, prevalendo in tal caso il rapporto di subordinazione con il datore di lavoro).
2.2.2 Ciò posto, ci si deve preliminarmente chiedere se il contratto di patrocinio (qui inteso come quello volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente), in quanto prestazione di lavoro autonomo, rientri o meno nella disciplina delle collaborazioni autonome, come da ultimo disciplinate dall’art. 46 del D.L. n. 112/2008, convertito con modificazioni con legge n. 133/2008. Si tratta di un tema che, non essendo stato sollevato nella richiesta di parere, non può essere trattato dalla Sezione se non nei ristretti limiti in cui è funzionale a dare contezza del complesso intreccio normativo che, per la soluzione del quesito stesso, si presenta all’attenzione dell’interprete.
In tale disciplina rientra, da un lato, il conferimento di incarichi individuali, con contratto di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, dal contenuto professionale particolarmente specializzato, per sopperire ad esigenze cui gli enti non possono far fronte con personale in servizio. Per siffatta tipologia di incarichi l’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, commi 6 e 6bis, ha indicato i presupposti del conferimento e ha procedimentalizzato la modalità di scelta del professionista, sia imponendo la previa procedura comparativa (art. 7, comma 6bis), sia imponendo la preventiva determinazione degli elementi del contratto. Si tratta di disposizioni alle quali devono adeguarsi anche i regolamenti degli EE.LL., ex art. 110, comma 6, del T.U.E.L.
Dall’altro lato, vi rientrano gli altri contratti di collaborazione autonoma che, indipendentemente dall’oggetto della prestazione, sono riferiti ad attività istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’art. 42, comma 2, del T.U.E.L.. Per tali contratti è il Regolamento previsto dall’art. 89 del T.U.E.L. che fissa i limiti, i criteri e le modalità per l’affidamento degli incarichi, il tutto in conformità a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, tra cui il citato art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001.
Si richiama quanto argomentato, sul punto, dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti in sede di controllo, con la delibera n. 6/2005. Sebbene l’occasione fosse rappresentata dall’esame della disciplina legislativa allora vigente regolante le modalità per il conferimento di incarichi di studio, ricerca, ovvero di consulenza, le Sezioni Riunite conclusero che, pur trattandosi di incarichi il cui contenuto “coincide (…) con il contratto di prestazione d’opera intellettuale, regolato dagli articoli 2229 – 2238 del codice civile”, dagli stessi restano esclusi (oltre ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, “che rappresentano una posizione intermedia fra il lavoro autonomo, proprio dell’incarico professionale, e il lavoro subordinato”), gli incarichi di “rappresentanza in giudizio ed il patrocinio dell’amministrazione”, in quanto incarichi “conferiti per gli adempimenti obbligatori per legge, mancando, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione”.
Tale conclusione è stata poi confermata anche dalla successiva delibera della Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, n. 6/AUT/2008, che si è espressa con riguardo alle evoluzioni normative di epoca più recente.
Si aggiunge in questa sede, inoltre, con riferimento ai presupposti di legittimità indicati dall’art. 7, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001, che la prestazione di patrocinio legale per la difesa giudiziale dell’Ente non sembra possa essere ricondotta nell’ambito delle competenze istituzionali attribuite all’ente stesso dall’ordinamento, né (soprattutto per le ipotesi di incarichi episodici) possa costituire obiettivo o progetto specifico e determinato, come richiesto dalla norma.
In effetti, la difesa giudiziale rappresenta l’esercizio di un diritto-dovere mediante il quale affermare, di regola, la rispondenza degli atti (negoziali e provvedimentali), attraverso i quali si estrinseca l’attività funzionalizzata dell’ente, ai paradigmi di liceità e legittimità fissati dalla norma, che quel potere attribuisce.
Per lo stesso motivo, pur essendo astrattamente possibile ricondurre la locazione d’opera intellettuale nell’ambito delle attività di cooperazione (Cass. Civ., III, 26 luglio 2005, n. 15607), non appare configurabile il mero patrocinio legale alla stregua del contratto di collaborazione autonoma, al quale fa riferimento il citato art. 46, comma 2, del D.L. n. 112/2008, tale essendo quello riferibile alle attività istituzionali stabilite dalla legge o dall’apposito programma, approvato dal Consiglio dell’Ente ai sensi dell’art. 42, comma 2, del T.U.E.L..
In tale ultimo caso, poi, non si vede come possa essere programmabile, se non in via del tutto generica e ipotetica, un’attività che circostanze non dipendenti dalla volontà del soggetto programmatore rendono necessaria e non diversamente esercitabile se non nella forma dell’incarico a professionista esterno abilitato.
Altra cosa, invece, (con riguardo alla riferibilità alle attività istituzionali dell’Ente e alla programmabilità) è il conferimento di incarico per prestazioni che prevedano, oltre al patrocinio legale delle vertenze che sorgeranno entro un arco di tempo determinato, anche l’attività di consulenza legale a favore dell’Ente (TAR Campania-Napoli, II, 21 maggio 2008, n. 4855. In tale circostanza il Giudice adìto ha ritenuto di annullare l’affidamento fiduciario, senza la preventiva procedura selettiva e comparativa, di un incarico di patrocinio e consulenza legale, di durata annuale, per un compenso mensile fisso, per violazione del comma 6bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, piuttosto che per violazione delle regole sull’appalto di servizi legali, diversamente da quanto ritenuto dal altri TT.AA.RR., come in appresso si dirà).
Riassumendo quanto fin qui detto, se ne ricava che l’incarico professionale di patrocinio, che viene conferito a un legale nel momento stesso in cui sorge il bisogno di difesa giudiziale dell’ente: a) è riconducibile al contratto d’opera intellettuale; b) il suo inquadramento sistematico lo colloca nell’ambito delle prestazioni di lavoro autonomo; c) resta escluso dall’ambito delle collaborazioni autonome, pur essendo queste prestazioni d’opera intellettuale.
Si tratta ora di verificare se le conclusioni fin qui raggiunte sono coerenti con la normativa di fonte comunitaria, ovvero se quest’ultima spinga verso soluzioni diverse quale il ritenere, necessariamente o solo sussistendone le condizioni, il patrocinio legale oggetto di appalto di servizi legali. È all’interno di tale indagine che potranno trovare collocazione sistematica le altre ipotesi, sopra solo accennate, in cui cioè la prestazione di patrocinio legale si lega a scelte organizzative più complesse e articolate.
2.2.3 Contrariamente a quanto ritenuto dall’Ente, va osservato che le disposizioni che riguardano i “servizi legali” non rappresentano affatto una novità introdotta nell’ordinamento interno a seguito della direttiva 2004/18/CE, in quanto già il D.Lgs 17 marzo 1995, n. 157 (“Attuazione della direttiva 92/50/CEE in materia di appalti pubblici di servizi”), indicava, nell’allegato 2, una serie di servizi, tra cui i “servizi legali”, relativamente ai quali non si applicava la disciplina generale nella sua integralità ma solo alcune disposizioni del citato decreto legislativo e, segnatamente: l’eventuale pubblicazione dell’avvenuta aggiudicazione (art. 8, co. 3); l’obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di definire le “specifiche tecniche” del servizio nei capitolati d’oneri o nei documenti contrattuali relativi a ciascun appalto (art. 20), obbligo, quest’ultimo, soggetto peraltro a deroghe (art. 21). Tutta una serie di servizi erano poi esclusi tout court dall’assoggettamento alle norme del decreto.
Veniva precisato, inoltre, nell’ottavo “considerando” delle premesse alla direttiva 1992/50/CE, trasfusa nel citato D.Lgs. n. 157/1995, che “la prestazione di servizi è disciplinata dalla presente direttiva soltanto quando si fondi su contratti d'appalto; [nel caso in cui la prestazione del servizio si fondi] su altra base, quali leggi o regolamenti ovvero contratti di lavoro, [detta prestazione] esula dal campo d'applicazione della presente direttiva”.
I servizi legali sono stati ora riproposti nell’allegato II B al D.Lgs. n. 163/2006 tra quei servizi per il cui affidamento (in virtù del richiamo operato dall’art. 20) trovano applicazione, esclusivamente, gli artt. 68 (specifiche tecniche), 65 (avviso sui risultati della procedura), 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati). Gli appalti di servizi in questione, giova ribadire, non sono disciplinati, dunque, da tutte le disposizioni del D.Lgs. n. 163/2006, ma soggiacciono solo a quel nucleo minimo di specifiche regole sopra indicate (TAR Puglia-Lecce, 30 marzo 2007, n. 1333), oltre al rispetto dei principi generali richiamati dall’art. 27 del Codice (economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità), previo invito ad almeno cinque concorrenti, “se compatibile con l’oggetto del contratto”.
La direttiva 2004/18/CE, trasfusa nel Codice dei contratti pubblici, non riproduce la limitazione contenuta nell’ottavo “considerando” alle premesse della precedente direttiva, sopra riportato, ma raccomanda che “Per quanto riguarda i servizi di cui all'allegato II B [tra cui, appunto, i servizi legali], le disposizioni della presente direttiva dovrebbero far salva l'applicazione di norme comunitarie specifiche per i servizi in questione” (diciottesimo “considerando”).
A parere di questa Sezione il legislatore comunitario ha voluto con ciò intendere che la disciplina introdotta con l’ultima direttiva sugli appalti non va a sovrapporsi a quella risultante dalle direttive specificamente regolanti i singoli servizi le quali, senza ricondurre la prestazione professionale da conferire allo schema dell’appalto, hanno già posto le condizioni per garantire al prestatore di tali servizi l’accesso libero al mercato dei paesi comunitari, in ossequio ai diritti di libertà sanciti dal Trattato CE.
In proposito, deve osservarsi, infatti, che molto incisivamente il legislatore comunitario è intervenuto quando si è trattato di indicare, con espresso riferimento alle prestazioni professionali, le modalità attraverso le quali raggiungere il risultato di dare effettività e concretezza all’obiettivo indicato dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera c) del Trattato CE, eliminando ogni ostacolo alla libera circolazione di persone e servizi tra Stati membri. Tale obiettivo si è inteso raggiungere, innanzitutto, prevedendo l'approvazione di direttive miranti al reciproco riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli abilitativi che consentano l’esercizio della professione in ogni paese comunitario.
È soprattutto con la direttiva 2005/36/CE del 7.9.2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali - che ha superato la precedente direttiva 1998/5/CE, recepita con D.Lgs. n. 96 del 2.2.2001 – che sono state poste le condizioni idonee a garantire la libera circolazione e il libero accesso al mercato delle professioni.
Non è casuale, del resto, che la stessa giurisprudenza comunitaria sia sempre stata investita, con riguardo alla professione forense, di questioni riconducibili al diritto di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi all’interno degli Stati membri, censurando, perché di ostacolo alla concorrenza, la inderogabilità dei minimi tariffari, sulla quale è poi intervenuto il legislatore interno col richiamato “decreto Bersani” (C.giust., 21.6.1974, causa 74/2; Id., 3.12.1974, causa 33/74; Id., 28.4.1997, causa 71/76; Id., 12.7.1984, causa C-107/83; Id., 19.1.1988, causa 292/86; Id., 30.11.1995, causa C- 55/94; Id., 19.2.2002, causa C-303/99; Id., 5.12.2006, cause C 94/04 e C 202/04).
Ora, non pare dubitabile che in siffatto contesto la normativa comunitaria sopra riportata si preoccupi di tutelare la libera circolazione dei servizi e la libertà di stabilimento del prestatore di essi in quanto lavoratore, autonomo o subordinato. “Per i cittadini degli Stati membri, essa (libertà) comporta, tra l'altro, la facoltà di esercitare, come lavoratore autonomo o subordinato, una professione in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito la relativa qualifica professionale” (così il primo “considerando” della direttiva 36 del 2005). Ed ancora: “la presente direttiva si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro che vogliano esercitare, come lavoratori subordinati o autonomi, compresi i liberi professionisti, una professione regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche professionali” (così l’art. 2, comma 1, della citata direttiva).
Sembra, allora, che se il prestatore di servizi professionali è libero di poter esercitare la sua attività quale lavoratore, autonomo o subordinato, all’interno degli Stati membri, il relativo contratto debba ritenersi escluso dall’applicazione del Codice ex art. 19, comma 1, let. e). Di conseguenza, i “servizi legali” di cui all’allegato II B sarebbero oggetto di appalto solo se e quando la prestazione sia riconducibile a tale tipo di contratto. In altre parole, il servizio legale per essere oggetto di appalto richiederebbe un quid pluris, per prestazione o per modalità organizzativa, rispetto alla mera prestazione di patrocinio legale. In tal senso depone la prescrizione che, per l’affidamento di tali servizi, pretende l’indicazione delle specifiche tecniche fissate dal committente (art. 68 del Codice), che rappresentano la condizione per permettere l’apertura dell’appalto alla concorrenza (cfr. il ventinovesimo “considerando” alla direttiva n. 18 del 2004). Ed ancora, una conferma in tal senso può desumersi anche dal quarantasettesimo “considerando”: posto che “negli appalti pubblici di servizi, i criteri di aggiudicazione non devono influire sull'applicazione delle disposizioni nazionali relative alla rimunerazione di taluni servizi, quali ad esempio le prestazioni degli architetti, degli ingegneri o degli avvocati”, il prezzo di tali servizi, così determinato, di per sé solo, non sarebbe idoneo a garantire quella valutazione delle offerte in condizioni di effettiva concorrenza, che ammette soltanto l'applicazione di uno dei due criteri di aggiudicazione, quello del prezzo più basso e quello della offerta economicamente più vantaggiosa.
Da quanto precede non sembra, dunque, che il legislatore comunitario si sia preoccupato di regolare le modalità di affidamento dei contratti del tutto esclusi dall’ambito della disciplina degli appalti pubblici. Tra questi, il contratto di lavoro autonomo avente a oggetto il patrocinio legale, stipulato con un’amministrazione aggiudicatrice.
Si potrebbe, allora, ritenere che la fonte della disciplina interna per l’affidamento di detti contratti sia da rinvenire nelle disposizioni sulla contabilità generale dello Stato, recate dal R.D. n. 2440/1923, in particolare nell’art. 3, comma 2, in quanto compreso tra le “disposizioni vigenti in materia di contratti delle pubbliche amministrazioni” alle quali rinvia l’art. 192, comma 1, let. c) del T.U.E.L. per individuare le modalità di scelta del contraente ammesse per i contratti degli Enti Locali.
D’altro canto, tale lacuna, lasciata dalla normativa comunitaria, potrebbe, invece, essere colmata attingendo alle “procedure previste dalla normativa della Unione europea recepita o comunque vigente nell’ordinamento giuridico italiano” (art. 192, u.c., T.U.E.L.).
In effetti, l’estensione, in tal senso operata dal legislatore nazionale di principi comunitari a fattispecie che, a rigore, sarebbero escluse dall’ambito di applicazione della disciplina sugli appalti pubblici (cfr. art. 121 ss. del Codice a proposito degli appalti sotto soglia), risponde anche a precisi orientamenti tanto della Corte di Giustizia – secondo la quale “sebbene taluni contratti siano esclusi dalla sfera di applicazione delle direttive comunitarie nel settore degli appalti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici che li stipulano sono ciò nondimeno tenute a rispettare i principi fondamentali del Trattato” (C.giust., 3 dicembre 2001, causa C-59/00, par. 20, Bent Mousten Vestergaard) – quanto del Consiglio di Stato – secondo il quale “i principi generali del Trattato [libertà di stabilimento (art. 43); libera prestazione dei servizi (art. 49); parità di trattamento e divieto di discriminazione in base alla nazionalità (artt. 43 e 49); trasparenza e non discriminazione (art. 86)], valgono comunque anche per i contratti e le fattispecie diverse da quelle concretamente contemplate; quali (oltre alla concessione di servizi) gli appalti sottosoglia e i contratti diversi dagli appalti tali da suscitare l'interesse concorrenziale delle imprese e dei professionisti” (Ad. Pl., 1/2008) – e trova positivo riscontro nell’art. 27 del Codice dei contratti pubblici, che ha esteso a tutti i contratti di servizi, sebbene totalmente esclusi dall’ambito proprio della direttiva sugli appalti, l’osservanza dei principi generali di derivazione comunitaria, tra cui il principio di concorrenzialità che impone la valutazione comparativa tra almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto.
Ciò consente, peraltro, di rendere applicabili anche ai contratti di lavoro autonomo di patrocinio legale le indicazioni elaborate dalla Commissione europea con la “Comunicazione interpretativa” relativa al diritto comunitario applicabile alle aggiudicazioni di appalti non o solo parzialmente disciplinate dalle direttive “appalti pubblici” (Comunicazione 2006/C 179/02, in G.U.C.E., 1 agosto 2006 – comunicazioni e informazioni), sulla quale si tornerà in seguito.
2.2.4 L’excursus che precede si è reso necessario per tracciare i temi rilevanti ai fini del richiesto parere.
In primo luogo, la normativa interna relativa al conferimento di “collaborazioni autonome” non si applica alla prestazione professionale di patrocinio legale, giuste le osservazioni delle Sezioni Riunite e della Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, sopra riportate.
In secondo luogo, così come aveva già indicato la direttiva 1992/50/CE, già citata, la disciplina comunitaria relativa agli appalti di servizi legali - con quanto ne consegue in ordine alle modalità di conferimento della prestazione professionale che ne costituisce oggetto, ex art. 20 del Codice - si applica solo se il contratto di appalto rappresenta lo schema negoziale concretamente adottato, rimanendo esclusa quella (prestazione) che trovi fondamento in leggi o regolamenti ovvero in altri rapporti, quali, a titolo esemplificativo, quelli riconducibili ad attività lavorativa, autonoma o subordinata.
In terzo luogo, si chiarisce l’equivoco nel quale, sembra, essere incorso il Comune istante: quello cioè di aver ritenuto sufficiente considerare la prestazione di patrocinio legale un servizio per assoggettarlo alla disciplina comunitaria dell’appalto (di servizi). Vero è, invece, che il contratto di patrocinio legale, quale fonte di un rapporto di lavoro autonomo, ove non inserito in un contesto strutturato e organizzato più ampio, soggiace ai principi del diritto comunitario richiamati dall’art. 27 del Codice, che impone una procedura selettiva “se compatibile con l’oggetto del contratto”, con le ulteriori precisazioni e i suggerimenti operativi indicati nella Comunicazione della Commissione europea.
2.3 Tanto premesso, occorre ora indagare in quali casi ricorre l’appalto di servizi, con conseguente applicazione anche delle disposizioni indicate nell’art. 20 del codice stesso.
Non essendo questa la sede per affrontare il tema, ancora dibattuto, sulla natura (necessariamente o meno) imprenditoriale del prestatore di servizi negli appalti pubblici regolati dal D.Lgs. n. 163/2006, ovvero sulla natura della prestazione, se di risultato o anche solo di mezzi (Cons. Stato, IV, n. 263/2008), può soccorrere allo scopo l’esame dei casi nei quali la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la sussistenza della fattispecie, potendosi ivi trarre motivi di riflessione.
Diversamente da quanto ritenuto nella richiesta di parere, le decisioni segnalate attinenti all’argomento non riguardano l’affidamento del patrocinio legale nei termini di cui si è detto nell’esposizione che precede, ma piuttosto l’affidamento, per un periodo di tempo determinato e dietro un corrispettivo anch’esso determinato, di una più articolata attività legale, che comprende anche l’assistenza e la consulenza oltre l’eventualità del patrocinio legale a favore dell’Ente.
Così nel caso deciso dal TAR Puglia, n. 5053/06, l’affidamento riguardava il servizio di consulenza legale e patrocinio dell’ente, in ambito amministrativo e civile, per un periodo di cinque anni e per un corrispettivo annuo predeterminato.
Parimenti, nel caso deciso dal TAR Calabria, Sezione R.C., n. 330/2007, la fattispecie all’esame del Giudice riguardava l’affidamento diretto, senza alcuna previa procedura selettiva, dell’attività di consulenza professionale e di difesa giudiziale dell’Ente per un compenso predeterminato, attività espressamente qualificata come “servizio legale”.
Si è già detto, sopra, della fattispecie portata alla decisione del TAR Campania-Napoli, (sentenza n. 4855/2008), sebbene nella circostanza il G.A. abbia ritenuto di applicare la disciplina degli incarichi di collaborazione autonoma (secondo l’attuale terminologia) in luogo di quella sull’appalto di servizi.
Sembra, dunque, assumere un sempre più marcato rilievo la possibilità (solo di recente) concessa al professionista di organizzare e strutturare quella che, tradizionalmente, era una prestazione di lavoro autonomo, in un servizio (nella fattispecie, legale), da adeguare alle utilità che spetta solo all’ente conferente dover indicare, per un determinato arco temporale e per un corrispettivo determinato, avvalendosi degli spazi consentiti dall’art. 2 del citato D.L. 4 luglio 2006, n. 223, (c.d. Decreto Bersani). In esso, infatti, si afferma non solo la possibilità di convenire compensi inferiori ai minimi tariffari oppure parametrati al raggiungimento degli obiettivi prefissati (co.1, let. a), o ancora di indicare il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni (co. 1, let. b), ma soprattutto si afferma la possibilità di “fornire all'utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l'oggetto sociale relativo all'attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità” (co 1, let. c).
Si può così affermare che l’obbligo del committente di indicare, adeguandole alla natura del servizio, le specifiche tecniche che consentono di definire l’oggetto dell’appalto e le modalità della prestazione, affinché il servizio sia reso in modo da corrispondere alle esigenze del committente stesso – obbligo, non derogabile, posto dall’art. 68 ed espressamente richiamato dall’art. 20 del Codice - assume concreta valenza selettiva delle offerte presentate proprio nell’ambito di un servizio organizzato e strutturato.
Sembra allora alla Sezione che l’appalto di servizi legali sia configurabile allorquando l’oggetto del servizio non si esaurisca nel patrocinio legale a favore dell’Ente, ma si configuri quale modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisce. Ciò comporta che, in quanto modalità organizzativa, essa sia strutturata e organizzata dal professionista, con mezzi propri, per far fronte alle utilità indicate dall’ente conferente in un determinato arco temporale e per un corrispettivo determinato.
Così inteso, il servizio legale non può, evidentemente, essere affidato se non con le più specifiche modalità indicate dall’art. 20 del Codice, come interpretate dalla più volte citata Comunicazione della Commissione europea, alle quali si aggiungono quelle residuali dell’art. 27, che espressamente prevedono l’invito ad almeno cinque concorrenti (TAR Sardegna, I, 26 giugno 2007, n. 1355).
Seppure la procedura di affidamento non ricalchi, in questi casi, i rigidi canoni previsti dal Codice dei contratti pubblici - (l’art. 25, co.1, let. b, della legge di delega n. 62/2005, espressamente prevedeva la “semplificazione delle procedure di affidamento che non costituiscono diretta applicazione delle normative comunitarie, finalizzata a favorire il contenimento dei tempi e la massima flessibilità degli strumenti giuridici”) - occorre comunque considerare che l’invito deve essere adeguatamente pubblicizzato (ove non ricorrano situazioni di estrema urgenza, risultanti da eventi imprevedibili) e formulato in modo da rendere espliciti gli elementi minimi affinché sia salvaguardato il risultato utile voluto dal legislatore in ordine al rispetto dei principi sopra indicati (economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità) (TAR Lazio, III quater, 8 luglio 2008, n. 6443).
Va, altresì, detto che l’Ente non potrebbe, espletata la procedura comparativa in esame, disattenderne l’esito, conferendo l’incarico ad altro professionista, ovvero a colui, tra quelli invitati, che, sulla base dei criteri predeterminati dall’Ente stesso, non appaia il concorrente più idoneo (Cons. Stato, IV, n. 263/2008).
Per ulteriori elementi di conoscenza, utili al rispetto della procedura di affidamento, si rinvia ala più volte citata “Comunicazione interpretativa della Commissione” del 1 agosto 2006.
2.4 Quanto all’organo deputato a esprimersi in ordine all’opportunità di iniziare o resistere alla lite, come anche al soggetto dotato di legittimazione, che sottoscriverà la procura alla lite, in generale occorre fare riferimento a quanto indicato nello Statuto (art. 6 T.U.E.L.), dal momento che esso potrebbe attribuire la legittimazione attiva anche a dirigenti dell’ente (Cass. Civ., V, 4 febbraio 2008, n. 2585).
Quanto, poi, al soggetto legittimato a stipulare il contratto di patrocinio o di appalto di servizio con il professionista, questi non può che essere il Dirigente, ai sensi dell’art. 107 del T.U.E.L., e non già la Giunta (Cons. Stato, IV, n. 263/2008, cit.; TAR Calabria, R.C., n. 330/2007; TAR Calabria, CZ, n. 453/2006; TAR Campania, n. 3081/2004).
In ogni caso, si segnala che per il contratto d’opera professionale, quando ne sia parte committente una p.a., è richiesta la forma scritta a pena di nullità, ai sensi degli artt. 16 e 17 R.D. n. 2440/1923 (Cass., 8.6.2007, n. 13508).
2.5. Relativamente al compenso spettante al professionista, occorre distinguere. Se nell’invito per la selezione era stato richiesta anche l’indicazione di detto compenso, ovvero il modo di determinarlo in riferimento alla tariffa vigente, l’affidamento al professionista porta già con sé la determinazione di detto onere.
Se, invece, la scelta è avvenuta senza la preventiva determinazione della componente economica, occorre che sia indicato l’importo del compenso o il criterio della sua determinazione, dovendosi richiamare l’Ente all’osservanza, comunque, di misure di natura prudenziale, quali ad esempio quelle indicate dalla Sezione regione di controllo per l’Abruzzo con la delibera n. 360/2008, del 14.7.2008.
Giova ribadire, sul punto, che proprio le possibilità di determinazione del compenso professionale, anche al di sotto dei minimi tariffari, impone all’Ente – al fine della tutela del pubblico erario - di convenire sempre e preventivamente gli onorari dovuti, vigilando e controllando che le altre voci di spesa siano congrue rispetto all’attività effettivamente svolta.
P.Q.M.
Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte dei Conti – Sezione regionale di controllo per la Basilicata in relazione alla richiesta formulata dal Sindaco del Comune di Teana (PZ) con lettera prot. n. 2496 del 5 dicembre 2008.
DISPONE
Che copia della presente deliberazione sia trasmessa, a cura della segreteria della Sezione, all’Amministrazione richiedente ed al presidente del coordinamento delle Sezioni regionali di controllo della Sezione delle Autonomie della Corte dei conti.
Così deciso in Potenza, nella Camera di consiglio del 3 aprile 2009.
IL PRESIDENTE DELLA SEZIONE
F.to dott.ssa Laura DI CARO
I Componenti
F.to Dott. Antonio NENNA
F.to Dott. Rocco LOTITO
F.to Dott. Giuseppe TETI – relatore)
Depositata in Segreteria il 03 aprile 2009
Sezione regionale di controllo per la Basilicata
Potenza Deliberazione n. 19/2009/PAR Parere n. 8/2009
1. se per l’affidamento di incarichi ad avvocati esterni all’Ente per la difesa giudiziale occorre seguire il procedimento di evidenza pubblica di cui agli artt. 20 e 27 del D.Lgs. n. 163/2006;
2. se è necessario che la Giunta deliberi circa l’opportunità o meno di promuovere o resistere in giudizio oppure se è sufficiente la determinazione ed il parere del Responsabile del Servizio interessato indirizzato al Sindaco;
3. se, nel caso di risposta affermativa al primo quesito, occorre istituire l’Albo dei Fornitori dei Servizi Legali e se competente per il procedimento di scelta è il Dirigente del servizio coinvolto nella controversia o l’Ufficio addetto agli affari contenziosi se esiste;
4. se occorre stipulare con il Professionista affidatario dell’incarico apposita convenzione stabilendo il compenso.
Quanto all’organo deputato a esprimersi in ordine all’opportunità di iniziare o resistere alla lite, come anche al soggetto dotato di legittimazione, che sottoscriverà la procura alla lite, in generale occorre fare riferimento a quanto indicato nello Statuto (art. 6 T.U.E.L.), dal momento che esso potrebbe attribuire la legittimazione attiva anche a dirigenti dell’ente (Cass. Civ., V, 4 febbraio 2008, n. 2585).
Quanto, poi, al soggetto legittimato a stipulare il contratto di patrocinio o di appalto di servizio con il professionista, questi non può che essere il Dirigente, ai sensi dell’art. 107 del T.U.E.L., e non già la Giunta (Cons. Stato, IV, n. 263/2008, cit.; TAR Calabria, R.C., n. 330/2007; TAR Calabria, CZ, n. 453/2006; TAR Campania, n. 3081/2004).
In ogni caso, si segnala che per il contratto d’opera professionale, quando ne sia parte committente una p.a., è richiesta la forma scritta a pena di nullità, ai sensi degli artt. 16 e 17 R.D. n. 2440/1923 (Cass., 8.6.2007, n. 13508).
2.5. Relativamente al compenso spettante al professionista, occorre distinguere. Se nell’invito per la selezione era stato richiesta anche l’indicazione di detto compenso, ovvero il modo di determinarlo in riferimento alla tariffa vigente, l’affidamento al professionista porta già con sé la determinazione di detto onere.
Se, invece, la scelta è avvenuta senza la preventiva determinazione della componente economica, occorre che sia indicato l’importo del compenso o il criterio della sua determinazione, dovendosi richiamare l’Ente all’osservanza, comunque, di misure di natura prudenziale, quali ad esempio quelle indicate dalla Sezione regione di controllo per l’Abruzzo con la delibera n. 360/2008, del 14.7.2008.
Giova ribadire, sul punto, che proprio le possibilità di determinazione del compenso professionale, anche al di sotto dei minimi tariffari, impone all’Ente – al fine della tutela del pubblico erario - di convenire sempre e preventivamente gli onorari dovuti, vigilando e controllando che le altre voci di spesa siano congrue rispetto all’attività effettivamente svolta.
Deliberazione n. 19/2009/PAR
Parere n. 8/2009
La Sezione regionale di controllo per la Basilicata così composta:
Presidente di Sezione: dr.ssa Laura Di Caro Presidente
Consigliere: dr. Antonio Nenna Componente
Primo Referendario dr. Rocco Lotito Componente
Referendario dr. Giuseppe Teti Componente-relatore
nella Camera di consiglio del 3 aprile 2009
Visto l’art.100 della Costituzione;
Visto il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con R.D. 12 luglio 1934, n.1214 e successive modificazioni ed integrazioni;
Vista la legge 14 gennaio 1994, n.20 e successive modificazioni;
Visto l’art. 7, comma 8, della legge 5 giugno 2003, n. 131;
Vista la deliberazione n.14/2000 in data 16 giugno 2000 delle Sezioni Riunite della Corte dei conti, con la quale è stato deliberato il regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, e successive modificazioni ed integrazioni;
Visti gli indirizzi e criteri generali per l’esercizio dell’attività consultiva approvati dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti nell’adunanza del 27 aprile 2004;
Vista la richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003 formulata dal Sindaco del comune di Teana (PZ), con nota prot. n. 2496 del 5 dicembre 2008;
Vista l’ordinanza del Presidente di questa Sezione regionale di controllo n. 8/2009 del 3 aprile 2009, con la quale è stata deferita la questione all’esame collegiale della Sezione per l’odierna seduta e con la quale è stato nominato relatore il referendario dr. Giuseppe Teti;
Udito nella camera di consiglio il relatore;
Premesso in fatto
Con la succitata nota il Sindaco del comune di Teana ha chiesto a questa Sezione un parere avente ad oggetto il conferimento di incarichi di patrocinio legale ad avvocati esterni all’ente.
Al riguardo, prima della formulazione degli specifici quesiti, si sostiene che l’attività di difesa giudiziale tende a conseguire un risultato ed è resa da soggetti con organizzazione strutturata e prodotta anche senza caratterizzazione personale. Il Trattato CE ricomprende, tra le prestazioni di servizi, quelle rese nell’ambito dell’attività delle libere professioni e, del resto, il D.Lgs. n. 163 del 2006 (“Codice dei contratti pubblici di lavori servizi e forniture”), adeguandosi alla Direttiva CE n. 18/2004, ha inserito nell’allegato II B anche i servizi legali tra quelli aggiudicabili mediante appalto, la cui disciplina, tuttavia, richiamata dall’art. 20 di detto Codice, è ristretta all’osservanza dei soli artt. 68, 65 e 225 del predetto Codice.
Ciò posto, dopo aver richiamato precedenti di giurisprudenza comunitaria, amministrativa e della stessa Corte dei conti, avendo rilevato che “da quanto innanzi pare che gli Enti Pubblici non possono più conferire gli incarichi di patrocinio legale ad avvocati esterni in modo diretto e personale nel rispetto del principio di concorrenza”, l’Ente istante chiede che questa Sezione si pronunci sui seguenti quesiti, appresso riportati nel loro letterale tenore:
1. se per l’affidamento di incarichi ad avvocati esterni all’Ente per la difesa giudiziale occorre seguire il procedimento di evidenza pubblica di cui agli artt. 20 e 27 del D.Lgs. n. 163/2006;
2. se è necessario che la Giunta deliberi circa l’opportunità o meno di promuovere o resistere in giudizio oppure se è sufficiente la determinazione ed il parere del Responsabile del Servizio interessato indirizzato al Sindaco;
3. se, nel caso di risposta affermativa al primo quesito, occorre istituire l’Albo dei Fornitori dei Servizi Legali e se competente per il procedimento di scelta è il Dirigente del servizio coinvolto nella controversia o l’Ufficio addetto agli affari contenziosi se esiste;
4. se occorre stipulare con il Professionista affidatario dell’incarico apposita convenzione stabilendo il compenso.
Considerato in diritto
1. Sull’ammissibilità della richiesta
1.1 La richiesta di parere è senz’altro ammissibile sotto il profilo soggettivo.
L’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003 ha abilitato sia le Regioni, direttamente, che i Comuni, le Provincie e le Città Metropolitane, di norma tramite il consiglio delle autonomie locali, se istituito, a richiedere alle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti pareri in materia di contabilità pubblica.
Peraltro, la mancata istituzione del consiglio delle autonomie locali, previsto dall’art. 123 della Costituzione, non può considerarsi motivo ostativo alla richiesta di parere. Condizione di ammissibilità è, infatti, che la richiesta stessa sia formulata - come in questo caso è formulata - soltanto dai massimi organi rappresentativi degli enti locali (presidente della giunta regionale, presidente della provincia, sindaco o, nel caso di atti di normazione, presidente del consiglio regionale, provinciale, comunale), come puntualizzato – tra l’altro – dagli indirizzi e criteri generali approvati nell’adunanza della Sezione delle Autonomie del 27 aprile 2004.
1.2 Quanto all’ambito oggettivo che delimita le questioni che possono essere portate all’esame della Corte dei conti, va detto che, in generale, il conferimento di incarichi di natura professionale a soggetti esterni all’Amministrazione è materia sulla quale la Corte dei conti ha già ritenuto di potersi pronunciare in sede consultiva, ivi compresa la questione relativa agli incarichi di patrocinio legale, onde verificare, in disparte le considerazioni e la prospettazione dell’Ente istante, quale sia, in concreto, il contesto normativo entro il quale collocare l’incarico in discussione e quali le modalità del conferimento. La questione, inoltre, ha carattere generale, che richiede un esame da un punto di vista astratto della normativa di riferimento.
Deve, invece, essere esclusa ogni richiesta che comporti una valutazione su casi concreti o atti gestionali specifici che determinerebbero un’ingerenza della Corte dei conti nella concreta attività dell’Ente. Non si ritiene, pertanto, ammissibile il quesito concernente l’eventuale istituzione dell’Albo dei Fornitori dei Servizi Legali, trattandosi di modalità afferente ad un atto gestionale e organizzativo concreto che, appunto, determinerebbe una non consentita ingerenza della Corte dei conti nella concreta attività dell’Ente.
Alla luce delle considerazioni che precedono e fermi i limiti indicati dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione n. 5/2006, il parere, ad esclusione del quesito sopra detto, più dirsi ammissibile anche sotto il profilo oggettivo.
2. Nel merito.
2.1 Dal tenore dei quesiti si desume che il caso al quale si riferisce il Comune istante riguarda l’incarico di patrocinio legale che un Ente, sprovvisto di avvocatura interna, si trova a dover necessariamente conferire al professionista esterno nel momento in cui sorge la necessità di agire in giudizio (quale parte attrice) ovvero di resistere ad esso (se parte convenuta o resistente). Si desume, altresì, che il patrocinio non si intende limitato alla rappresentanza in giudizio dell’Ente ma, in generale, comprende anche l’assistenza e la difesa del patrocinato.
Il primo interrogativo posto riguarda le modalità di conferimento di detto incarico.
Il Sindaco del Comune di Teana sostiene trattarsi di “servizio legale”, come tale riconducibile alla disciplina dell’appalto di servizi, regolato dall’art. 20 del D.Lgs. n. 163/2006 (in appresso, per brevità, “Codice dei contratti pubblici” o “Codice”).
Al riguardo si osserva che vi sono, invero, indici rilevanti di un orientamento tendente a qualificare le prestazioni professionali rese da avvocati, tanto in sede giudiziale che stragiudiziale, quali “servizi”, sia pure in una accezione talmente ampia da farvi rientrare non solo il compimento di un servizio inteso quale risultato della prestazione, ma anche la c.d. prestazione di diligenza professionale in sé considerata (o di mezzi), di natura intellettuale, resa da professionisti iscritti in appositi albi. In tal senso, già la legge n. 31 del 9 febbraio 1982, regolante la libera prestazione “di servizi” da parte degli avvocati cittadini comunitari, rubricava come “servizi professionali” quelli di cui qui trattasi. Da ultimo, l’art. 2 del D.L. 223/2006 (c.d. “decreto Bersani”) ricorre anch’esso all’espressione “servizi professionali” con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali, secondo una linea di continuità con la elencazione dei “servizi” contenuta nell’art. 50 del Trattato C.E., che in tale categoria espressamente include anche le “attività delle libere professioni”, fornite normalmente dietro retribuzione, al fine di vietare restrizioni alla loro libera prestazione all’interno della Comunità.
Ritiene, tuttavia, la Sezione che gli argomenti ai quali fare ricorso per dare soluzione al complesso quesito sottoposto alla sua attenzione non possano fondarsi sulla mera coincidenza nominalistica di un dato letterale, sicché non sembra sufficiente l’aver qualificato “servizio” la prestazione libero professionale resa dall’avvocato per ritenerla senz’altro compresa nella categoria dei “servizi legali”, di cui all’allegato II B richiamato dall’art. 20 del Codice dei contratti pubblici.
D’altro canto, occorre costatare che non sempre l’incarico di patrocinio legale, di cui qui si discute, è conferito a un legale solo nel momento in cui sorge il bisogno di difesa giudiziale. Si tratta, in tal caso di un incarico episodico, legato alla necessità contingente. In altri casi – rilevabili dall’esame della giurisprudenza di cui si dirà in seguito - la prestazione in argomento è inserita in un più articolato quadro di attività professionali, organizzate sulla base dei bisogni rappresentati dall’Ente.
Orbene, l’indagine che segue dovrà verificare se la soluzione ritenuta adeguata a dare risposta a un caso valga anche per l’altro, ovvero se le due ipotesi sopra indicate richiedano soluzioni diverse, in tutto o in parte.
Appare, allora, necessario sottoporre ad un più penetrante scrutinio le norme in vigore, senza ignorare il livello e la natura degli interessi protetti sui quali queste norme finiscono per incidere. Non sembra irrilevante, infatti, la considerazione che, a differenza di altre prestazioni professionali, il patrocinio legale si lega a interessi costituzionalmente protetti, che assurgono a veri e propri diritti inviolabili, quale il diritto alla difesa e, pur senza implicare l’esercizio di pubblici poteri (Corte Giust., 21.6.1974, causa 2/74, Reyners c/ Stato belga), partecipa dell’amministrazione della giustizia quale servizio pubblico essenziale volto alla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati (C.Cost., 27.5.1996, n. 171). Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza comunitaria, l’esigenza di tutela del prestatore del servizio, in uno con la tutela del destinatario della prestazione stessa e, più in generale, con l’esigenza di una corretta ed efficiente amministrazione della giustizia, rappresentano “obiettivi che rientrano tra quelli che possono essere ritenuti motivi imperativi di interesse pubblico in grado di giustificare una restrizione della libera prestazione dei servizi (v., in tal senso, sentenze 12 dicembre 1996, causa C 3/95, Reisebüro Broede, Racc. pag. I 6511, punto 31 e giurisprudenza ivi citata, nonché 21 settembre 1999, causa C 124/97, Läärä e a., Racc. pag. I 6067, punto 33)” (così il punto 64 della decisione nelle cause riunite C.giust. C 94/04 e C 202/04).
Si procederà, pertanto, previo inquadramento della disciplina delle prestazioni professionali (rese da avvocati) secondo l’ordinamento interno, all’esame delle norme di derivazione comunitaria alle quali il Comune istante ha inteso fare riferimento ed a quelle, non indicate, che si ritengono rilevanti ai fini della corretta impostazione dei quesiti.
2.2.1 Appare senz’altro preferibile, pur tra le varie opzioni scrutinabili dall’interprete, la tesi che riconduce il contratto di patrocinio legale – tanto circoscritto alla rappresentanza in giudizio, quanto esteso anche alla difesa giudiziale - nell’ambito del contratto d’opera intellettuale regolato dall’art. 2230 c.c. e ss..
Depongono in tal senso: la necessarietà e la non volontarietà (propria del mandato) di una rappresentanza processuale affidata a tecnici dotati di competenze particolari per il compimento di atti non negoziali, che la parte non potrebbe comunque compiere da sé (tranne eccezioni che non rilevano come regola); la circostanza che detti tecnici (avvocati), iscritti in appositi albi, esercitano professionalmente tale attività, alla quale si accompagna di regola anche la difesa, scritta o orale, della parte mediante una complessa attività intellettuale per mezzo della quale l’avvocato assume la difesa e dà sostegno alle ragioni di fatto e di diritto dell’assistito; il fine pubblicistico dell’amministrazione della giustizia con cui questa attività concorre; il richiamo espresso a disposizioni dettate a proposito di tale tipo contrattuale quando si tratta di sindacare la validità dell’accordo stipulato con chi non sia iscritto all’apposito albo (art. 2229 c.c.) o l’inesigibilità della retribuzione (art. 2231 c.c.); la determinazione del compenso secondo tariffe professionali (art. 2233 c.c.; Cass. Civ., II, 19 febbraio 2007, n. 3740), nonché la misura della colpa professionale rilevante ai fini del giudizio di inadempimento (art. 2236 c.c.; Cass. Civ., II, 23 aprile 2002, n. 5928).
Tale sistematico inquadramento non sembra possa subire modifiche a seconda la natura del committente, se esso cioè sia un privato o un Ente pubblico. In disparte il dibattito, tutt’altro che sopito, circa le differenze tra appalto e contratto d’opera in generale, non potrebbe sostenersi che, se il patrocinio è richiesto da (e reso a) un soggetto privato, l’oggetto del contratto sia una prestazione d’opera intellettuale, mentre se a richiederlo è un soggetto pubblico essa diventi, per ciò stesso, oggetto di un contratto di appalto (di servizi). Al riguardo, e in generale per le prestazioni professionali, la giurisprudenza amministrativa è costantemente orientata a escludere la mutevolezza della natura giuridica del contratto d’opera intellettuale nelle due ipotesi (così Cons. Stato, IV, 27 giugno 2001 n. 3483, a proposito del contratto concluso fra una p.a. ed i componenti la commissione di collaudo di un’opera pubblica; Cons. Stato, IV, 28 agosto 2001, n. 4573, a proposito dell’attività professionale di redazione di strumenti urbanistici; TAR Liguria, 22 giugno 2002, n. 705; TAR Campania, II, 11 novembre 2003, n. 13477. Per Cass. Civ., II, 18 aprile 2003, n. 6326, la natura di contratto d’opera intellettuale, “caratterizzato, in quanto tale, dall’autonomia del prestatore”, è esclusa solo nel caso in cui l’avvocato sia un dipendente dell’Ente, prevalendo in tal caso il rapporto di subordinazione con il datore di lavoro).
2.2.2 Ciò posto, ci si deve preliminarmente chiedere se il contratto di patrocinio (qui inteso come quello volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente), in quanto prestazione di lavoro autonomo, rientri o meno nella disciplina delle collaborazioni autonome, come da ultimo disciplinate dall’art. 46 del D.L. n. 112/2008, convertito con modificazioni con legge n. 133/2008. Si tratta di un tema che, non essendo stato sollevato nella richiesta di parere, non può essere trattato dalla Sezione se non nei ristretti limiti in cui è funzionale a dare contezza del complesso intreccio normativo che, per la soluzione del quesito stesso, si presenta all’attenzione dell’interprete.
In tale disciplina rientra, da un lato, il conferimento di incarichi individuali, con contratto di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, dal contenuto professionale particolarmente specializzato, per sopperire ad esigenze cui gli enti non possono far fronte con personale in servizio. Per siffatta tipologia di incarichi l’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, commi 6 e 6bis, ha indicato i presupposti del conferimento e ha procedimentalizzato la modalità di scelta del professionista, sia imponendo la previa procedura comparativa (art. 7, comma 6bis), sia imponendo la preventiva determinazione degli elementi del contratto. Si tratta di disposizioni alle quali devono adeguarsi anche i regolamenti degli EE.LL., ex art. 110, comma 6, del T.U.E.L.
Dall’altro lato, vi rientrano gli altri contratti di collaborazione autonoma che, indipendentemente dall’oggetto della prestazione, sono riferiti ad attività istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’art. 42, comma 2, del T.U.E.L.. Per tali contratti è il Regolamento previsto dall’art. 89 del T.U.E.L. che fissa i limiti, i criteri e le modalità per l’affidamento degli incarichi, il tutto in conformità a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, tra cui il citato art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001.
Si richiama quanto argomentato, sul punto, dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti in sede di controllo, con la delibera n. 6/2005. Sebbene l’occasione fosse rappresentata dall’esame della disciplina legislativa allora vigente regolante le modalità per il conferimento di incarichi di studio, ricerca, ovvero di consulenza, le Sezioni Riunite conclusero che, pur trattandosi di incarichi il cui contenuto “coincide (…) con il contratto di prestazione d’opera intellettuale, regolato dagli articoli 2229 – 2238 del codice civile”, dagli stessi restano esclusi (oltre ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, “che rappresentano una posizione intermedia fra il lavoro autonomo, proprio dell’incarico professionale, e il lavoro subordinato”), gli incarichi di “rappresentanza in giudizio ed il patrocinio dell’amministrazione”, in quanto incarichi “conferiti per gli adempimenti obbligatori per legge, mancando, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione”.
Tale conclusione è stata poi confermata anche dalla successiva delibera della Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, n. 6/AUT/2008, che si è espressa con riguardo alle evoluzioni normative di epoca più recente.
Si aggiunge in questa sede, inoltre, con riferimento ai presupposti di legittimità indicati dall’art. 7, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001, che la prestazione di patrocinio legale per la difesa giudiziale dell’Ente non sembra possa essere ricondotta nell’ambito delle competenze istituzionali attribuite all’ente stesso dall’ordinamento, né (soprattutto per le ipotesi di incarichi episodici) possa costituire obiettivo o progetto specifico e determinato, come richiesto dalla norma.
In effetti, la difesa giudiziale rappresenta l’esercizio di un diritto-dovere mediante il quale affermare, di regola, la rispondenza degli atti (negoziali e provvedimentali), attraverso i quali si estrinseca l’attività funzionalizzata dell’ente, ai paradigmi di liceità e legittimità fissati dalla norma, che quel potere attribuisce.
Per lo stesso motivo, pur essendo astrattamente possibile ricondurre la locazione d’opera intellettuale nell’ambito delle attività di cooperazione (Cass. Civ., III, 26 luglio 2005, n. 15607), non appare configurabile il mero patrocinio legale alla stregua del contratto di collaborazione autonoma, al quale fa riferimento il citato art. 46, comma 2, del D.L. n. 112/2008, tale essendo quello riferibile alle attività istituzionali stabilite dalla legge o dall’apposito programma, approvato dal Consiglio dell’Ente ai sensi dell’art. 42, comma 2, del T.U.E.L..
In tale ultimo caso, poi, non si vede come possa essere programmabile, se non in via del tutto generica e ipotetica, un’attività che circostanze non dipendenti dalla volontà del soggetto programmatore rendono necessaria e non diversamente esercitabile se non nella forma dell’incarico a professionista esterno abilitato.
Altra cosa, invece, (con riguardo alla riferibilità alle attività istituzionali dell’Ente e alla programmabilità) è il conferimento di incarico per prestazioni che prevedano, oltre al patrocinio legale delle vertenze che sorgeranno entro un arco di tempo determinato, anche l’attività di consulenza legale a favore dell’Ente (TAR Campania-Napoli, II, 21 maggio 2008, n. 4855. In tale circostanza il Giudice adìto ha ritenuto di annullare l’affidamento fiduciario, senza la preventiva procedura selettiva e comparativa, di un incarico di patrocinio e consulenza legale, di durata annuale, per un compenso mensile fisso, per violazione del comma 6bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, piuttosto che per violazione delle regole sull’appalto di servizi legali, diversamente da quanto ritenuto dal altri TT.AA.RR., come in appresso si dirà).
Riassumendo quanto fin qui detto, se ne ricava che l’incarico professionale di patrocinio, che viene conferito a un legale nel momento stesso in cui sorge il bisogno di difesa giudiziale dell’ente: a) è riconducibile al contratto d’opera intellettuale; b) il suo inquadramento sistematico lo colloca nell’ambito delle prestazioni di lavoro autonomo; c) resta escluso dall’ambito delle collaborazioni autonome, pur essendo queste prestazioni d’opera intellettuale.
Si tratta ora di verificare se le conclusioni fin qui raggiunte sono coerenti con la normativa di fonte comunitaria, ovvero se quest’ultima spinga verso soluzioni diverse quale il ritenere, necessariamente o solo sussistendone le condizioni, il patrocinio legale oggetto di appalto di servizi legali. È all’interno di tale indagine che potranno trovare collocazione sistematica le altre ipotesi, sopra solo accennate, in cui cioè la prestazione di patrocinio legale si lega a scelte organizzative più complesse e articolate.
2.2.3 Contrariamente a quanto ritenuto dall’Ente, va osservato che le disposizioni che riguardano i “servizi legali” non rappresentano affatto una novità introdotta nell’ordinamento interno a seguito della direttiva 2004/18/CE, in quanto già il D.Lgs 17 marzo 1995, n. 157 (“Attuazione della direttiva 92/50/CEE in materia di appalti pubblici di servizi”), indicava, nell’allegato 2, una serie di servizi, tra cui i “servizi legali”, relativamente ai quali non si applicava la disciplina generale nella sua integralità ma solo alcune disposizioni del citato decreto legislativo e, segnatamente: l’eventuale pubblicazione dell’avvenuta aggiudicazione (art. 8, co. 3); l’obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di definire le “specifiche tecniche” del servizio nei capitolati d’oneri o nei documenti contrattuali relativi a ciascun appalto (art. 20), obbligo, quest’ultimo, soggetto peraltro a deroghe (art. 21). Tutta una serie di servizi erano poi esclusi tout court dall’assoggettamento alle norme del decreto.
Veniva precisato, inoltre, nell’ottavo “considerando” delle premesse alla direttiva 1992/50/CE, trasfusa nel citato D.Lgs. n. 157/1995, che “la prestazione di servizi è disciplinata dalla presente direttiva soltanto quando si fondi su contratti d'appalto; [nel caso in cui la prestazione del servizio si fondi] su altra base, quali leggi o regolamenti ovvero contratti di lavoro, [detta prestazione] esula dal campo d'applicazione della presente direttiva”.
I servizi legali sono stati ora riproposti nell’allegato II B al D.Lgs. n. 163/2006 tra quei servizi per il cui affidamento (in virtù del richiamo operato dall’art. 20) trovano applicazione, esclusivamente, gli artt. 68 (specifiche tecniche), 65 (avviso sui risultati della procedura), 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati). Gli appalti di servizi in questione, giova ribadire, non sono disciplinati, dunque, da tutte le disposizioni del D.Lgs. n. 163/2006, ma soggiacciono solo a quel nucleo minimo di specifiche regole sopra indicate (TAR Puglia-Lecce, 30 marzo 2007, n. 1333), oltre al rispetto dei principi generali richiamati dall’art. 27 del Codice (economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità), previo invito ad almeno cinque concorrenti, “se compatibile con l’oggetto del contratto”.
La direttiva 2004/18/CE, trasfusa nel Codice dei contratti pubblici, non riproduce la limitazione contenuta nell’ottavo “considerando” alle premesse della precedente direttiva, sopra riportato, ma raccomanda che “Per quanto riguarda i servizi di cui all'allegato II B [tra cui, appunto, i servizi legali], le disposizioni della presente direttiva dovrebbero far salva l'applicazione di norme comunitarie specifiche per i servizi in questione” (diciottesimo “considerando”).
A parere di questa Sezione il legislatore comunitario ha voluto con ciò intendere che la disciplina introdotta con l’ultima direttiva sugli appalti non va a sovrapporsi a quella risultante dalle direttive specificamente regolanti i singoli servizi le quali, senza ricondurre la prestazione professionale da conferire allo schema dell’appalto, hanno già posto le condizioni per garantire al prestatore di tali servizi l’accesso libero al mercato dei paesi comunitari, in ossequio ai diritti di libertà sanciti dal Trattato CE.
In proposito, deve osservarsi, infatti, che molto incisivamente il legislatore comunitario è intervenuto quando si è trattato di indicare, con espresso riferimento alle prestazioni professionali, le modalità attraverso le quali raggiungere il risultato di dare effettività e concretezza all’obiettivo indicato dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera c) del Trattato CE, eliminando ogni ostacolo alla libera circolazione di persone e servizi tra Stati membri. Tale obiettivo si è inteso raggiungere, innanzitutto, prevedendo l'approvazione di direttive miranti al reciproco riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli abilitativi che consentano l’esercizio della professione in ogni paese comunitario.
È soprattutto con la direttiva 2005/36/CE del 7.9.2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali - che ha superato la precedente direttiva 1998/5/CE, recepita con D.Lgs. n. 96 del 2.2.2001 – che sono state poste le condizioni idonee a garantire la libera circolazione e il libero accesso al mercato delle professioni.
Non è casuale, del resto, che la stessa giurisprudenza comunitaria sia sempre stata investita, con riguardo alla professione forense, di questioni riconducibili al diritto di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi all’interno degli Stati membri, censurando, perché di ostacolo alla concorrenza, la inderogabilità dei minimi tariffari, sulla quale è poi intervenuto il legislatore interno col richiamato “decreto Bersani” (C.giust., 21.6.1974, causa 74/2; Id., 3.12.1974, causa 33/74; Id., 28.4.1997, causa 71/76; Id., 12.7.1984, causa C-107/83; Id., 19.1.1988, causa 292/86; Id., 30.11.1995, causa C- 55/94; Id., 19.2.2002, causa C-303/99; Id., 5.12.2006, cause C 94/04 e C 202/04).
Ora, non pare dubitabile che in siffatto contesto la normativa comunitaria sopra riportata si preoccupi di tutelare la libera circolazione dei servizi e la libertà di stabilimento del prestatore di essi in quanto lavoratore, autonomo o subordinato. “Per i cittadini degli Stati membri, essa (libertà) comporta, tra l'altro, la facoltà di esercitare, come lavoratore autonomo o subordinato, una professione in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito la relativa qualifica professionale” (così il primo “considerando” della direttiva 36 del 2005). Ed ancora: “la presente direttiva si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro che vogliano esercitare, come lavoratori subordinati o autonomi, compresi i liberi professionisti, una professione regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche professionali” (così l’art. 2, comma 1, della citata direttiva).
Sembra, allora, che se il prestatore di servizi professionali è libero di poter esercitare la sua attività quale lavoratore, autonomo o subordinato, all’interno degli Stati membri, il relativo contratto debba ritenersi escluso dall’applicazione del Codice ex art. 19, comma 1, let. e). Di conseguenza, i “servizi legali” di cui all’allegato II B sarebbero oggetto di appalto solo se e quando la prestazione sia riconducibile a tale tipo di contratto. In altre parole, il servizio legale per essere oggetto di appalto richiederebbe un quid pluris, per prestazione o per modalità organizzativa, rispetto alla mera prestazione di patrocinio legale. In tal senso depone la prescrizione che, per l’affidamento di tali servizi, pretende l’indicazione delle specifiche tecniche fissate dal committente (art. 68 del Codice), che rappresentano la condizione per permettere l’apertura dell’appalto alla concorrenza (cfr. il ventinovesimo “considerando” alla direttiva n. 18 del 2004). Ed ancora, una conferma in tal senso può desumersi anche dal quarantasettesimo “considerando”: posto che “negli appalti pubblici di servizi, i criteri di aggiudicazione non devono influire sull'applicazione delle disposizioni nazionali relative alla rimunerazione di taluni servizi, quali ad esempio le prestazioni degli architetti, degli ingegneri o degli avvocati”, il prezzo di tali servizi, così determinato, di per sé solo, non sarebbe idoneo a garantire quella valutazione delle offerte in condizioni di effettiva concorrenza, che ammette soltanto l'applicazione di uno dei due criteri di aggiudicazione, quello del prezzo più basso e quello della offerta economicamente più vantaggiosa.
Da quanto precede non sembra, dunque, che il legislatore comunitario si sia preoccupato di regolare le modalità di affidamento dei contratti del tutto esclusi dall’ambito della disciplina degli appalti pubblici. Tra questi, il contratto di lavoro autonomo avente a oggetto il patrocinio legale, stipulato con un’amministrazione aggiudicatrice.
Si potrebbe, allora, ritenere che la fonte della disciplina interna per l’affidamento di detti contratti sia da rinvenire nelle disposizioni sulla contabilità generale dello Stato, recate dal R.D. n. 2440/1923, in particolare nell’art. 3, comma 2, in quanto compreso tra le “disposizioni vigenti in materia di contratti delle pubbliche amministrazioni” alle quali rinvia l’art. 192, comma 1, let. c) del T.U.E.L. per individuare le modalità di scelta del contraente ammesse per i contratti degli Enti Locali.
D’altro canto, tale lacuna, lasciata dalla normativa comunitaria, potrebbe, invece, essere colmata attingendo alle “procedure previste dalla normativa della Unione europea recepita o comunque vigente nell’ordinamento giuridico italiano” (art. 192, u.c., T.U.E.L.).
In effetti, l’estensione, in tal senso operata dal legislatore nazionale di principi comunitari a fattispecie che, a rigore, sarebbero escluse dall’ambito di applicazione della disciplina sugli appalti pubblici (cfr. art. 121 ss. del Codice a proposito degli appalti sotto soglia), risponde anche a precisi orientamenti tanto della Corte di Giustizia – secondo la quale “sebbene taluni contratti siano esclusi dalla sfera di applicazione delle direttive comunitarie nel settore degli appalti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici che li stipulano sono ciò nondimeno tenute a rispettare i principi fondamentali del Trattato” (C.giust., 3 dicembre 2001, causa C-59/00, par. 20, Bent Mousten Vestergaard) – quanto del Consiglio di Stato – secondo il quale “i principi generali del Trattato [libertà di stabilimento (art. 43); libera prestazione dei servizi (art. 49); parità di trattamento e divieto di discriminazione in base alla nazionalità (artt. 43 e 49); trasparenza e non discriminazione (art. 86)], valgono comunque anche per i contratti e le fattispecie diverse da quelle concretamente contemplate; quali (oltre alla concessione di servizi) gli appalti sottosoglia e i contratti diversi dagli appalti tali da suscitare l'interesse concorrenziale delle imprese e dei professionisti” (Ad. Pl., 1/2008) – e trova positivo riscontro nell’art. 27 del Codice dei contratti pubblici, che ha esteso a tutti i contratti di servizi, sebbene totalmente esclusi dall’ambito proprio della direttiva sugli appalti, l’osservanza dei principi generali di derivazione comunitaria, tra cui il principio di concorrenzialità che impone la valutazione comparativa tra almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto.
Ciò consente, peraltro, di rendere applicabili anche ai contratti di lavoro autonomo di patrocinio legale le indicazioni elaborate dalla Commissione europea con la “Comunicazione interpretativa” relativa al diritto comunitario applicabile alle aggiudicazioni di appalti non o solo parzialmente disciplinate dalle direttive “appalti pubblici” (Comunicazione 2006/C 179/02, in G.U.C.E., 1 agosto 2006 – comunicazioni e informazioni), sulla quale si tornerà in seguito.
2.2.4 L’excursus che precede si è reso necessario per tracciare i temi rilevanti ai fini del richiesto parere.
In primo luogo, la normativa interna relativa al conferimento di “collaborazioni autonome” non si applica alla prestazione professionale di patrocinio legale, giuste le osservazioni delle Sezioni Riunite e della Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, sopra riportate.
In secondo luogo, così come aveva già indicato la direttiva 1992/50/CE, già citata, la disciplina comunitaria relativa agli appalti di servizi legali - con quanto ne consegue in ordine alle modalità di conferimento della prestazione professionale che ne costituisce oggetto, ex art. 20 del Codice - si applica solo se il contratto di appalto rappresenta lo schema negoziale concretamente adottato, rimanendo esclusa quella (prestazione) che trovi fondamento in leggi o regolamenti ovvero in altri rapporti, quali, a titolo esemplificativo, quelli riconducibili ad attività lavorativa, autonoma o subordinata.
In terzo luogo, si chiarisce l’equivoco nel quale, sembra, essere incorso il Comune istante: quello cioè di aver ritenuto sufficiente considerare la prestazione di patrocinio legale un servizio per assoggettarlo alla disciplina comunitaria dell’appalto (di servizi). Vero è, invece, che il contratto di patrocinio legale, quale fonte di un rapporto di lavoro autonomo, ove non inserito in un contesto strutturato e organizzato più ampio, soggiace ai principi del diritto comunitario richiamati dall’art. 27 del Codice, che impone una procedura selettiva “se compatibile con l’oggetto del contratto”, con le ulteriori precisazioni e i suggerimenti operativi indicati nella Comunicazione della Commissione europea.
2.3 Tanto premesso, occorre ora indagare in quali casi ricorre l’appalto di servizi, con conseguente applicazione anche delle disposizioni indicate nell’art. 20 del codice stesso.
Non essendo questa la sede per affrontare il tema, ancora dibattuto, sulla natura (necessariamente o meno) imprenditoriale del prestatore di servizi negli appalti pubblici regolati dal D.Lgs. n. 163/2006, ovvero sulla natura della prestazione, se di risultato o anche solo di mezzi (Cons. Stato, IV, n. 263/2008), può soccorrere allo scopo l’esame dei casi nei quali la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la sussistenza della fattispecie, potendosi ivi trarre motivi di riflessione.
Diversamente da quanto ritenuto nella richiesta di parere, le decisioni segnalate attinenti all’argomento non riguardano l’affidamento del patrocinio legale nei termini di cui si è detto nell’esposizione che precede, ma piuttosto l’affidamento, per un periodo di tempo determinato e dietro un corrispettivo anch’esso determinato, di una più articolata attività legale, che comprende anche l’assistenza e la consulenza oltre l’eventualità del patrocinio legale a favore dell’Ente.
Così nel caso deciso dal TAR Puglia, n. 5053/06, l’affidamento riguardava il servizio di consulenza legale e patrocinio dell’ente, in ambito amministrativo e civile, per un periodo di cinque anni e per un corrispettivo annuo predeterminato.
Parimenti, nel caso deciso dal TAR Calabria, Sezione R.C., n. 330/2007, la fattispecie all’esame del Giudice riguardava l’affidamento diretto, senza alcuna previa procedura selettiva, dell’attività di consulenza professionale e di difesa giudiziale dell’Ente per un compenso predeterminato, attività espressamente qualificata come “servizio legale”.
Si è già detto, sopra, della fattispecie portata alla decisione del TAR Campania-Napoli, (sentenza n. 4855/2008), sebbene nella circostanza il G.A. abbia ritenuto di applicare la disciplina degli incarichi di collaborazione autonoma (secondo l’attuale terminologia) in luogo di quella sull’appalto di servizi.
Sembra, dunque, assumere un sempre più marcato rilievo la possibilità (solo di recente) concessa al professionista di organizzare e strutturare quella che, tradizionalmente, era una prestazione di lavoro autonomo, in un servizio (nella fattispecie, legale), da adeguare alle utilità che spetta solo all’ente conferente dover indicare, per un determinato arco temporale e per un corrispettivo determinato, avvalendosi degli spazi consentiti dall’art. 2 del citato D.L. 4 luglio 2006, n. 223, (c.d. Decreto Bersani). In esso, infatti, si afferma non solo la possibilità di convenire compensi inferiori ai minimi tariffari oppure parametrati al raggiungimento degli obiettivi prefissati (co.1, let. a), o ancora di indicare il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni (co. 1, let. b), ma soprattutto si afferma la possibilità di “fornire all'utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l'oggetto sociale relativo all'attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità” (co 1, let. c).
Si può così affermare che l’obbligo del committente di indicare, adeguandole alla natura del servizio, le specifiche tecniche che consentono di definire l’oggetto dell’appalto e le modalità della prestazione, affinché il servizio sia reso in modo da corrispondere alle esigenze del committente stesso – obbligo, non derogabile, posto dall’art. 68 ed espressamente richiamato dall’art. 20 del Codice - assume concreta valenza selettiva delle offerte presentate proprio nell’ambito di un servizio organizzato e strutturato.
Sembra allora alla Sezione che l’appalto di servizi legali sia configurabile allorquando l’oggetto del servizio non si esaurisca nel patrocinio legale a favore dell’Ente, ma si configuri quale modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisce. Ciò comporta che, in quanto modalità organizzativa, essa sia strutturata e organizzata dal professionista, con mezzi propri, per far fronte alle utilità indicate dall’ente conferente in un determinato arco temporale e per un corrispettivo determinato.
Così inteso, il servizio legale non può, evidentemente, essere affidato se non con le più specifiche modalità indicate dall’art. 20 del Codice, come interpretate dalla più volte citata Comunicazione della Commissione europea, alle quali si aggiungono quelle residuali dell’art. 27, che espressamente prevedono l’invito ad almeno cinque concorrenti (TAR Sardegna, I, 26 giugno 2007, n. 1355).
Seppure la procedura di affidamento non ricalchi, in questi casi, i rigidi canoni previsti dal Codice dei contratti pubblici - (l’art. 25, co.1, let. b, della legge di delega n. 62/2005, espressamente prevedeva la “semplificazione delle procedure di affidamento che non costituiscono diretta applicazione delle normative comunitarie, finalizzata a favorire il contenimento dei tempi e la massima flessibilità degli strumenti giuridici”) - occorre comunque considerare che l’invito deve essere adeguatamente pubblicizzato (ove non ricorrano situazioni di estrema urgenza, risultanti da eventi imprevedibili) e formulato in modo da rendere espliciti gli elementi minimi affinché sia salvaguardato il risultato utile voluto dal legislatore in ordine al rispetto dei principi sopra indicati (economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità) (TAR Lazio, III quater, 8 luglio 2008, n. 6443).
Va, altresì, detto che l’Ente non potrebbe, espletata la procedura comparativa in esame, disattenderne l’esito, conferendo l’incarico ad altro professionista, ovvero a colui, tra quelli invitati, che, sulla base dei criteri predeterminati dall’Ente stesso, non appaia il concorrente più idoneo (Cons. Stato, IV, n. 263/2008).
Per ulteriori elementi di conoscenza, utili al rispetto della procedura di affidamento, si rinvia ala più volte citata “Comunicazione interpretativa della Commissione” del 1 agosto 2006.
2.4 Quanto all’organo deputato a esprimersi in ordine all’opportunità di iniziare o resistere alla lite, come anche al soggetto dotato di legittimazione, che sottoscriverà la procura alla lite, in generale occorre fare riferimento a quanto indicato nello Statuto (art. 6 T.U.E.L.), dal momento che esso potrebbe attribuire la legittimazione attiva anche a dirigenti dell’ente (Cass. Civ., V, 4 febbraio 2008, n. 2585).
Quanto, poi, al soggetto legittimato a stipulare il contratto di patrocinio o di appalto di servizio con il professionista, questi non può che essere il Dirigente, ai sensi dell’art. 107 del T.U.E.L., e non già la Giunta (Cons. Stato, IV, n. 263/2008, cit.; TAR Calabria, R.C., n. 330/2007; TAR Calabria, CZ, n. 453/2006; TAR Campania, n. 3081/2004).
In ogni caso, si segnala che per il contratto d’opera professionale, quando ne sia parte committente una p.a., è richiesta la forma scritta a pena di nullità, ai sensi degli artt. 16 e 17 R.D. n. 2440/1923 (Cass., 8.6.2007, n. 13508).
2.5. Relativamente al compenso spettante al professionista, occorre distinguere. Se nell’invito per la selezione era stato richiesta anche l’indicazione di detto compenso, ovvero il modo di determinarlo in riferimento alla tariffa vigente, l’affidamento al professionista porta già con sé la determinazione di detto onere.
Se, invece, la scelta è avvenuta senza la preventiva determinazione della componente economica, occorre che sia indicato l’importo del compenso o il criterio della sua determinazione, dovendosi richiamare l’Ente all’osservanza, comunque, di misure di natura prudenziale, quali ad esempio quelle indicate dalla Sezione regione di controllo per l’Abruzzo con la delibera n. 360/2008, del 14.7.2008.
Giova ribadire, sul punto, che proprio le possibilità di determinazione del compenso professionale, anche al di sotto dei minimi tariffari, impone all’Ente – al fine della tutela del pubblico erario - di convenire sempre e preventivamente gli onorari dovuti, vigilando e controllando che le altre voci di spesa siano congrue rispetto all’attività effettivamente svolta.
P.Q.M.
Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte dei Conti – Sezione regionale di controllo per la Basilicata in relazione alla richiesta formulata dal Sindaco del Comune di Teana (PZ) con lettera prot. n. 2496 del 5 dicembre 2008.
DISPONE
Che copia della presente deliberazione sia trasmessa, a cura della segreteria della Sezione, all’Amministrazione richiedente ed al presidente del coordinamento delle Sezioni regionali di controllo della Sezione delle Autonomie della Corte dei conti.
Così deciso in Potenza, nella Camera di consiglio del 3 aprile 2009.
IL PRESIDENTE DELLA SEZIONE
F.to dott.ssa Laura DI CARO
I Componenti
F.to Dott. Antonio NENNA
F.to Dott. Rocco LOTITO
F.to Dott. Giuseppe TETI – relatore)
Depositata in Segreteria il 03 aprile 2009
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