giovedì 21 maggio 2009

Lavoro, sussiste la presunzione dell'onerosità

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE-SEZIONE LAVORO
Sentenza 25 novembre 2008 - 26 gennaio 2009, n. 1833


Nella specie non ricorre l'ipotesi del lavoro svolto all'interno del contesto familiare, per il quale anche la convivenza more uxorio, al pari del vincolo coniugale, vale a identificare la causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato, salvo che non sia fornita la prova del rapporto di lavoro (Cass. 15 marzo 2006, n. 5632).


Si è, invece, in presenza di lavoro svolto con inserimento nell'organizzazione imprenditoriale del convivente. Cosicché, tenuto conto del ridimensionamento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese anche nell'ambito della famiglia legittima a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 230 bis c.c., si può escludere l'esistenza di un rapporto a prestazioni corrispettive solo in presenza della dimostrazione di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto (Cass. 27 dicembre 1999, n. 14579; 13 dicembre 1986, n. 7486; 16 giugno 1978, n. 3012). Entro questi limiti si rende perciò applicabile il principio secondo cui, in via generale, ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità se immune da errori di diritto e da vizi logici (vedi Cass. 20 febbraio 2006, n. 3602).



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 25 novembre 2008 - 26 gennaio 2009, n. 1833
(Presidente Mercurio - Relatore Picone)
Ritenuto in fatto
La sentenza di cui si domanda la cassazione rigetta l'appello di S. P. e conferma la decisione del Tribunale di L'Aquila in data 9.4.2003, con la quale l'appellante era stato condannato a pagare a M. G. la somma di Euro 79.063,90 a titolo di differenze retributive maturate nel corso del rapporto di lavoro intercorso con il P. dal 13.4.1989 al 28.8.2000.
La Corte di l'Aquila esclude che, per effetto di una relazione sentimentale con il datore di lavoro, sussistesse l'ipotesi della prestazione resa affectionis causa; accerta, invece, la sussistenza di rapporto di lavoro subordinato prestato con mansioni corrispondenti alla qualifica di impiegato direttivo di esercizio di grande distribuzione; ritiene non specificamente contestati in appello i conteggi elaborati dalla G. e fatti propri dal giudice di primo grado.
Il ricorso di S. P. si articola in tre motivi, ulteriormente precisati con memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c.; resiste con controricorso M. G..
Considerato in diritto
Il primo motivo di ricorso denuncia vizio di motivazione in relazione all'accertamento della natura subordinata del rapporto, siccome il rapporto di solidarietà, emerso dall'istruttoria, non risultava alterato dalla mancanza di convivenza continuativa.
Il motivo non è fondato.
Nella specie non ricorre l'ipotesi del lavoro svolto all'interno del contesto familiare, per il quale anche la convivenza more uxorio, al pari del vincolo coniugale, vale a identificare la causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato, salvo che non sia fornita la prova del rapporto di lavoro (Cass. 15 marzo 2006, n. 5632).
Si è, invece, in presenza di lavoro svolto con inserimento nell'organizzazione imprenditoriale del convivente. Cosicché, tenuto conto del ridimensionamento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese anche nell'ambito della famiglia legittima a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 230 bis c.c., si può escludere l'esistenza di un rapporto a prestazioni corrispettive solo in presenza della dimostrazione di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto (Cass. 27 dicembre 1999, n. 14579; 13 dicembre 1986, n. 7486; 16 giugno 1978, n. 3012). Entro questi limiti si rende perciò applicabile il principio secondo cui, in via generale, ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità se immune da errori di diritto e da vizi logici (vedi Cass. 20 febbraio 2006, n. 3602).
A queste regole di diritto si è conformata la sentenza impugnata e i relativi accertamenti di fatto sono giustificati con motivazione sufficiente e logica.
I fatti accertati, infatti, hanno condotto il giudice del merito ad escludere, applicando correttamente i principi di diritto e con ragionamento logicamente plausibile, che si fosse instaurata quella comunanza di interessi, anche economici, che attrae il rapporto nell'orbita del vincolo di solidarietà. In tal senso va valutata la verifica che la convivenza non era continuativa ma sovente interrotta, soprattutto il rilievo del difetto di condivisione di un tenore di vita comune in relazione ai redditi dell'attività commerciale, risultando soltanto effettuate talune elargizioni (uso gratuito di un appartamento, pagamento di qualche debito, prelevamento gratuito di merce - abiti - dal negozio).
Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione dell'art. 2094 c.c. e vizio della motivazione in relazione alla natura subordinata del rapporto di lavoro, esclusa dalla volontà delle parti e proprio dal ruolo direttivo che secondo la sentenza impugnata avrebbe svolto (rapporti con i fornitori, scelta della merce, controllo del personale).
Il motivo di ricorso va rigettato perché non tiene conto, e di conseguenza omette di contrastarla efficacemente, della presunzione che la sentenza ha tratto dalla formale qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato avvenuta dopo pochi mesi, con emissione di regolari buste-paga compilate dal consulente dell'azienda sulla base delle ore lavorate.
Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione dell'art. 434 c.c. e vizio di motivazione perché i conteggi allegati al ricorso introduttivo erano stati contestati con la memoria di costituzione in primo grado nei limiti di quelli notificati (quadro B, concernente il calcolo delle differenze), mentre per l'altra parte non erano stati notificati (Quadro A relativo alle retribuzioni ricevute), e la sentenza di primo grado presentava evidenti vizi di motivazione sul punto.
Il motivo è inammissibile perché non coerente con la motivazione della sentenza impugnata.
La Corte di appello, infatti, ha giudicato il motivo di appello relativo ai conteggi privo di specificità, difettando l'individuazione degli errori che venivano imputati al primo giudice in tema di determinazione dei crediti retributivi.
Il motivo di ricorso insiste esclusivamente sul difetto di motivazione della sentenza di primo grado, senza censurare l'unico punto rilevante, cioè la mancata formulazione con l'atto di appello di critiche specifiche alla decisione di primo grado.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al rimborso delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, nella misura determinata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, liquidate le prime in Euro 34,00 oltre spese generali, IVA e CPA, e i secondi in complessivi Euro 3.000,00.

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