martedì 31 marzo 2009

2009, reddito inferiore a €. 10.628,16 per il gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio, limite reddituale
Decreto Ministero Giustizia 20.01.2009, G.U. 27.03.2009



MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DECRETO 20 gennaio 2009

Adeguamento dei limiti di reddito per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

(GU n. 72 del 27-3-2009)

IL CAPO DIPARTIMENTO per gli affari di giustizia del Ministero della giustizia

di concerto con

IL RAGIONIERE GENERALE DELLO STATO del Ministero dell'economia e delle finanze

Visto l'art 76 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, che fissa le condizioni reddituali per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato;

Visto l'art. 77 del citato Testo unico che prevede l'adeguamento ogni due anni dei limiti di reddito per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione alla variazione, accertata dall'Istituto nazionale di statistica, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificatesi nel biennio precedente;

Visto il decreto dirigenziale emanato in data 29 dicembre 2005 dal Ministero della giustizia di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, con il quale, con riferimento al periodo 1° luglio 2002-30 giugno 2004, e' stato aggiornato in euro 9.723,84 l'importo originario fissato dall'art. 76, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 115/2002;

Ritenuto di dover adeguare, per i periodi relativi al biennio 1° luglio 2004-30 giugno 2006 ed al biennio 1° luglio 2006-30 giugno 2008, il predetto limite di reddito fissato in euro 9.723,84;

Rilevato che nel periodo relativo ai bienni considerati, dai dati accertati dall'Istituto nazionale di statistica, risulta una variazione in aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati pari al 9,3%;

Decreta:

L'importo di euro 9.723,84, indicato nell'art. 76, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 115/2002, cosi' come adeguato con decreto del 29 dicembre 2005, e' aggiornato in euro 10.628,16.

Il presente decreto verra' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

Roma, 20 gennaio 2009

Il capo del Dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero della giustizia Ormanni



Il Ragioniere generale dello Stato del Ministero dell'economia e delle finanze Canzio

Registrato alla Corte dei conti il 2 marzo 2009 Ministeri istituzionali, registro n. 2 Giustizia, foglio n. 195

SSUU, ammissibilità del deposito degli atti processuali mediante spedizione postale ma con rilevanza della data di ricezione della cancelleria

SUPEMA CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI -
Sentenza 4 marzo 2009, n. 5160


"Questo collegio ritiene condivisibile l’analisi compiuta dall’ordinanza appena richiamata. In particolare la circostanza che l’attività materiale di deposito degli atti in cancelleria, che è priva di un requisito volitivo autonomo, non debba essere compiuta necessariamente dal difensore o dalla parte che sta in giudizio personalmente, ma possa essere realizzata anche da persona da loro incaricata (c.d. nuncius) (cfr. Cass. 7449/2001 e 26737/2006), e che l’ordinamento processuale preveda casi, sia pure speciali, di deposito degli atti in cancelleria mediante invio degli stessi a mezzo posta (art. 134 disp. att. c.p.c. concernente il giudizio di cassazione, e le ipotesi relative al processo tributario, di cui a Corte cost. n. 520 del 2002, e al giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione irrogativi di sanzione amministrativa, di cui a Corte cost. n. 98 del 2004; cfr. anche Cass. n. 11893/2006 per l’estensione dei principi di cui a quest’ultima sentenza all’azione popolare in materia elettorale), non appare compatibile con una valutazione di radicale difformità del deposito realizzato attraverso l’invio dell’atto per mezzo della posta rispetto a quello effettuato mediante consegna diretta al cancelliere, anche se certamente al di fuori delle previsioni normative il deposito potrà prendere efficacia solo dalla data del raggiungimento dello scopo (art. 156, terzo comma, c.p.c.), e cioè dell’(eventuale) concreta e documentata ricezione dell’atto da parte del cancelliere ai fini processuali, e giammai dalla data della spedizione dell’atto, così come invece previsto dalle speciali discipline relative al deposito degli atti processuali a mezzo posta. Tale conclusione è coerente anche con i rilievi svolti da Cass. S.U. n. 4130/1988, che (in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, anteriormente alla già richiamata pronuncia della Corte costituzionale) ha ritenuto inidoneo l’invio a mezzo posta dell’atto, qualora il deposito dello stesso non sia attestato dal cancelliere, che lo rifiuti (nella specie per la mancanza dei versamenti prescritti)."

SUPEMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 4 marzo 2009, n. 5160
Svolgimento del processo
Il Giudice di pace di Bella, accogliendo la domanda proposta da A. C. Ma., condannava il Ministero dell’interno a pagare alla attrice la somma di Euro 1083,45 oltre interessi legali, a titolo di rimborso spese per l’attività dalla stessa espletata in qualità di messo comunale di notifica di certificati elettorali in occasione delle elezioni per il Parlamento europeo del 13.6.1999.

Preliminarmente il giudice di pace riteneva non rituale, in quanto effettuata a mezzo posta, la costituzione in giudizio del Ministero convenuto, che dichiarava contumace.Il Ministero della difesa proponeva appello.

Il Tribunale di Potenza dichiarava l’inammissibilità dell’appello in considerazione del fatto che la sentenza impugnata doveva ritenersi resa secondo equità, in relazione al valore della domanda non superiore a Euro 1.100,00, e quindi non appellabile.A questa conclusione perveniva dopo avere rilevato che doveva ritenersi irrituale e giuridicamente inesistente la costituzione in giudizio del Ministero della difesa, dato che, come era documentato in atti, la comparsa di costituzione era stata trasmessa alla cancelleria a mezzo posta, senza che potesse attribuirsi rilievo all’apposizione da parte del cancelliere dell’attestazione “depositato” invece che dell’attestazione, più fedelmente descrittiva della realtà, “’pervenuto in cancelleria”. Una diversa interpretazione sarebbe in radicale contrasto con l’art. 319 c.p.c. (che utilizza il termine “deposito” e non quello di “consegna”) e con un più generale principio di sistema relativo al deposito degli atti processuali, e una diversa conclusione non è giustificata dalle sentenze della Corte costituzionale 520 del 2002 e 98 del 2004, che hanno introdotto nell’ordinamento la possibilità di una costituzione in giudizio a mezzo posta con riferimento al giudizio tributario e a quello di opposizione a sanzioni amministrative in ragione delle specifiche peculiarità di tali giudizi. La previsione da parte del codice di una specifica forma ai fini della costituzione in giudizio rende inapplicabile il principio di libertà di forma e la circostanza che la forma nella specie adottata fuoriusciva del tutto dallo schema procedimentale di legge rendeva inapplicabili i limiti alla dichiarabilità della nullità posti dagli artt. 156 e 157 c.p.c.

Ne conseguiva che la domanda riconvenzionale contenuta nella comparsa di costituzione doveva essere considerata tamquam non esset e ininfluente ai fini del valore della controversia.Quanto all’appello incidentale, il Tribunale rilevava che la parte in effetti non chiedeva alcuna riforma della sentenza di primo grado, di cui anzi chiedeva la conferma. Peraltro la richiesta declaratoria di contumacia del Ministero, contenuta nell’appello incidentale, era contenuta nella sentenza di primo grado.

Il Ministero dell’interno propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

L’intimata non si è costituta.
Motivi della decisione
1. Il Ministero premette che con la comparsa di costituzione in giudizio, inviata a mezzo posta a causa dell’elevato numero dei procedimenti incardinati, esso aveva tra l’altro proposto domanda riconvenzionale diretta a conseguire un accertamento con efficacia di giudicato in merito alla non spettanza del diritto al rimborso spese per le notificazioni dei certificati elettorali effettuate dalla attrice su richiesta del Ministero dell’interno durante l’intero rapporto di lavoro alle dipendenze del Comune (e aggiunge che il giudice di pace avrebbe dichiarato l’inammissibilità della domanda riconvenzionale per difetto di connessione con quella principale).
2. Il primo motivo denuncia erronea declaratoria di inesistenza della costituzione in giudizio del Ministero in primo grado e della riconvenzionale in tale sede proposta, con violazione dell’art. 24 Cost., degli artt. 156, 157, 161, secondo comma, e 319 c.p.c., censurando la statuizione del Tribunale sulla contumacia del Ministero nel primo grado di giudizio.Si sostiene che contro la lettura dell’art. 319 c.p.c. offerta dal giudice di appello militano argomentazioni letterali e sistematiche. Dal principio di libertà delle forme deriva che tutte le forme degli atti del processo sono previste non per la realizzazione di un fine proprio ed autonomo, ma allo scopo del raggiungimento di un certo risultato, con la conseguenza che l’eventuale inosservanza della prescrizione formale è irrilevante se l’atto viziato raggiunge ugualmente lo scopo cui era destinato. L’art. 319 c.p.c prevede il deposito degli atti in cancelleria ma non ne specifica il quomodo. In particolare non è richiesto il contatto interpersonale tra depositante e cancelliere. D’altra parte il ricorso al mezzo postale non pregiudica le esigenze di controllo e semmai risponde ad esigenze di maggiore certezza, tanto da essere utilizzato per le notificazioni. Inoltre l’esigenza di rispetto dell’art. 24 Cost. ha indotto la Corte costituzionale ad ammettere la costituzione in giudizio a mezzo posta, peraltro prevista anche nel giudizio di cassazione, mentre il giudice a quo l’ha qualificata addirittura come inesistente. La Corte costituzionale ha valorizzato una serie di elementi oggettivi (come la circostanza che lo strumento postale è largamente usato dalla parte pubblica, specie per le comunicazioni e notificazioni), i quali travalicano i confini del processo tributario e si collegano con le esigenze di celerità, semplificazione e certezza dell’attività amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990).
Né deve trascurarsi che è tipica del processo telematico l’impersonalità dell’atto di deposito e che a norma dell’art. 4 della legge n. 422/1999 di ratifica ed esecuzione della convenzione relativa alla notifica degli atti negli stati membri dell’Unione europea la “trasmissione degli atti può essere effettuata con qualsiasi mezzo”. Del resto, poiché il deposito degli atti è privo di qualsiasi contenuto volitivo, in mancanza di specifiche esigenze dovrebbe essere irrilevante il soggetto che materialmente proceda alla consegna, come ritenuto dalla Corte costituzionale, e non può negarsi che, come osservato dalla giurisprudenza, nei processi davanti ai giudici di pace vige la massima libertà di forme per la costituzione in giudizio (diversamente che nel rito del lavoro).Deve poi darsi rilievo all’intervenuto raggiungimento dello scopo, avendo il cancelliere ricevuto il fascicolo e avendo valutato regolare il suo contenuto e il suo deposito.
3. Il secondo motivo deduce erronea dichiarazione di inammissibilità dell’appello con violazione degli artt. 10, 36, 40, sesto comma, 113, secondo comma, e 339, terzo comma, c.p.c.Si sostiene che la proposizione di una domanda riconvenzionale, connessa con quella principale, di valore indeterminato, oltre a determinare l’incompetenza per valore del giudice di pace, avrebbe comunque comportato una decisione secondo diritto, con la conseguente ammissibilità dell’appello, sussistente, come riconosciuto dalla giurisprudenza, anche nel caso in cui il giudice di pace abbia ritenuto inammissibile la domanda riconvenzionale (si osserva inoltre che il Ministero non poteva prospettarsi un diverso regime dell’impugnazione, poiché la sua contumacia sarebbe stata statuita solo in appello).
4. Il terzo motivo denuncia difetto di giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di controversia in materia di pubblico impiego relativa a questioni attinenti al periodo anteriore il 10 luglio 1998.
5. Il quarto motivo denuncia in rubrica omessa pronuncia sul difetto di legittimazione del Ministero dell’interno, in conseguenza dell’erronea dichiarazione di contumacia del medesimo, ma il motivo nella sua concreta illustrazione e nel conclusivo quesito di diritto denuncia direttamente il difetto di legittimazione del Ministero, sotto il profilo che l’invocato art. 4 della legge n. 165/1982 riguarda i soli messi notificatori speciali autorizzati dagli uffici dipendenti dal Ministero delle finanze per la notifica di atti della medesima amministrazione, mentre la notifica dei certificati elettorali, che sono atti propri dei comuni, è espletata da messi comunali nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato con tali enti locali ed è retribuibile dai medesimi salvo diritto al rimborso nei confronti dello Stato.
6. I primi due motivi sono connessi, in quanto la contestazione della statuizione sulla inesistenza della costituzione in giudizio in primo grado del Ministero ora ricorrente è strumentale all’annullamento della dichiarazione di inammissibilità dell’appello.
7. Circa gli effetti di una costituzione in giudizio effettuata mediante l’invio in cancelleria dell’atto difensivo a mezzo del servizio postale sono di recente intervenute due diverse pronunce di questa Corte che, seppure relative a fattispecie che presentavano alcune differenze, risultano ispirate a criteri ermeneutici in contrasto.
Precisamente, la sentenza Cass., sez. lav., n. 21447/2007 ha ritenuto che nelle controversie di lavoro la spedizione dell’atto introduttivo del giudizio a mezzo del servizio postale, pur se l’atto perviene nella cancelleria del giudice nei termini di legge (nella specie veniva proposta opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto contributi dovuti all’Inps), integra una modalità non prevista in via generale ed è carente del requisito formale, indispensabile anche ai fini del raggiungimento dello scopo, del deposito in cancelleria ex art. 415 c.p.c. e che quindi ne consegue una nullità insanabile e rilevabile d’ufficio, ancorché il cancelliere abbia erroneamente proceduto all’iscrizione della causa a ruolo.Sembra intanto potersi affermare che per tale ultimo profilo (non rilevanza del raggiungimento dello scopo) la decisione non era vincolata dal fatto che la Corte costituzionale con la ordinanza n. 24 del 2007 aveva dichiarato la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità degli artt. 415 e 645 c.p.c. sollevata, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nel corso del medesimo giudizio di cassazione (cfr. Cass. ord. n. 22811/2004, con cui si era rilevato che il ricorso alla spedizione postale è ammesso nel caso in cui il credito contributivo sia fatto valere dall’istituto previdenziale con ordinanza ingiunzione), e, in particolare, aveva rilevato che non poteva invocarsi il precedente costituito dalla sentenza della medesima Corte costituzionale n. 98 del 2004, poiché, mentre il procedimento di opposizione all’ordinanza ingiunzione si caratterizza per una semplicità di forme del tutto particolare, intesa a rendere il più possibile agevole l’accesso alla tutela giurisdizionale nella specifica materia, il rito del lavoro non rientrava in un medesimo quadro di semplificata struttura processuale.
L’ordinanza Cass., sez. III, n. 12342/2008 (pronunciata nell’ambito di un procedimento in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. a seguito di relazione ex art. 380 bis), avente ad oggetto un ricorso proposto dal Ministero dell’interno contro sentenza del Tribunale di Potenza emessa in una controversia analoga alla presente, in cui similmente il giudice di appello aveva ritenuto inesistente la costituzione in giudizio del Ministero in primo grado, concorda con la richiamata sentenza della sezione lavoro nel ritenere che l’attività di deposito di atti in cancelleria implichi che chi l’effettua si rechi in cancelleria e presenti gli atti al cancelliere, e che quindi sussista una violazione della regola formale nel comportamento del cancelliere che apponga il visto di deposito ad un atto pervenuto a mezzo posta, anche perché il plico postale di norma non viene ricevuto dal cancelliere stesso, ma perviene all’apposito ufficio preposto alla ricezione della posta, che poi lo rimette al cancelliere. Esclude però che si sia in presenza di una difformità dallo schema formale tale da far ritenere l’atto inesistente e del tutto improduttivo di effetti giuridici, se alla fine del procedimento, pur difforme dallo schema di legge, il plico perviene al cancelliere, che ben può compiere tutte le attività necessarie ai fini del controllo della ritualità della documentazione. Al riguardo si osserva anche che il deposito in cancelleria può essere effettuato anche da parte di un nuncius del procuratore della parte, e che lo strumento del deposito a mezzo posta non è sconosciuto al processo civile. Approfondendo la qualificazione della fattispecie, la ordinanza in esame osserva che la deviazione dallo schema legale nella fattispecie è valutabile come una mera irregolarità, in quanto non è prevista dalla legge una nullità in correlazione a tale tipo di vizio e l’attestazione da parte del cancelliere del ricevimento degli atti e il loro inserimento nel fascicolo processuale integrano il raggiungimento dello scopo della presa di contatto tra la parte e l’ufficio giudiziario.
8. Questo collegio ritiene condivisibile l’analisi compiuta dall’ordinanza appena richiamata. In particolare la circostanza che l’attività materiale di deposito degli atti in cancelleria, che è priva di un requisito volitivo autonomo, non debba essere compiuta necessariamente dal difensore o dalla parte che sta in giudizio personalmente, ma possa essere realizzata anche da persona da loro incaricata (c.d. nuncius) (cfr. Cass. 7449/2001 e 26737/2006), e che l’ordinamento processuale preveda casi, sia pure speciali, di deposito degli atti in cancelleria mediante invio degli stessi a mezzo posta (art. 134 disp. att. c.p.c. concernente il giudizio di cassazione, e le ipotesi relative al processo tributario, di cui a Corte cost. n. 520 del 2002, e al giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione irrogativi di sanzione amministrativa, di cui a Corte cost. n. 98 del 2004; cfr. anche Cass. n. 11893/2006 per l’estensione dei principi di cui a quest’ultima sentenza all’azione popolare in materia elettorale), non appare compatibile con una valutazione di radicale difformità del deposito realizzato attraverso l’invio dell’atto per mezzo della posta rispetto a quello effettuato mediante consegna diretta al cancelliere, anche se certamente al di fuori delle previsioni normative il deposito potrà prendere efficacia solo dalla data del raggiungimento dello scopo (art. 156, terzo comma, c.p.c.), e cioè dell’(eventuale) concreta e documentata ricezione dell’atto da parte del cancelliere ai fini processuali, e giammai dalla data della spedizione dell’atto, così come invece previsto dalle speciali discipline relative al deposito degli atti processuali a mezzo posta. Tale conclusione è coerente anche con i rilievi svolti da Cass. S.U. n. 4130/1988, che (in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, anteriormente alla già richiamata pronuncia della Corte costituzionale) ha ritenuto inidoneo l’invio a mezzo posta dell’atto, qualora il deposito dello stesso non sia attestato dal cancelliere, che lo rifiuti (nella specie per la mancanza dei versamenti prescritti).
9. Ne consegue la fondatezza del primo motivo, visto che nella specie è stato conseguito lo scopo del deposito della memoria di costituzione in giudizio del Ministero convenuto, mediante apposizione da parte del cancelliere del visto di deposito e l’acquisizione agli atti del fascicolo di parte.
Ne deriva anche la fondatezza del secondo motivo, visto che la proposizione di domanda riconvenzionale di valore indeterminabile, avente oggetto strettamente connesso, e anzi in rapporto di continenza, con quello della domanda principale, comportava una decisione secondo diritto su tutta la causa e quindi l’appellabilità della sentenza (cfr. Cass. n. 55/2004, 16945/2006, 2999/2008).
10. Il terzo motivo, con cui è eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, deve ritenersi inammissibile per la formazione del giudicato implicito, per effetto della mancata impugnazione sul punto in appello della sentenza di primo grado, che aveva provveduto sul merito (cfr. l’orientamento di queste Sezioni unite in materia di giudicato implicito sulla giurisdizione, a partire dalla sentenza n. 24883/2008).
11. Devono dunque accogliersi il primo e il secondo motivo, con assorbimento del quarto, cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa per nuovo esame ad altro giudice (lo stesso Tribunale di Potenza in diversa composizione), cui si demanda anche la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il terzo motivo, accoglie i primi due motivi, assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese, al Tribunale di Potenza in diversa composizione.

martedì 24 marzo 2009

Protesto, cancellazione

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Anche la L. n. 235 del 2000, dispone che la prova del pagamento della cambiale (o del vaglia cambiario) deve essere allegata ("A tal fine l'interessato presenta...) nell'istanza rivolta al Presidente della Camera di Commercio e che la medesima prova deve essere offerta al giudice di pace nell'ipotesi in cui, malgrado la presentazione, il Presidente suddetto abbia respinto l'istanza del debitore, ovvero abbia omesso di decidere su di essa; ed a maggior ragione, quindi, ove il provvedimento di rigetto sia causato dal fatto che la prova documentale del deposito del titolo quietanzato prima della scadenza del termine di 12 mesi indicato dalla norma, unitamente al protesto, non siano stati allegati all'istanza di cancellazione rivolta alla Camera di Commercio: proprio per l'autonoma natura cognitoria del giudizio davanti al giudice di pace che non può arrestarsi al mero controllo dei documenti già prodotti nella fase amministrativa.
Ma ciò non significa che detto giudice possa ammettere e ritenere sufficiente una prova diversa da quella espressamente prevista dalla legge anche perchè la scelta dell'ammissibilità e dei limiti dei singoli mezzi di prova è rimessa esclusivamente alla discrezionalità del legislatore (Cass. 27140/2007; 5895/2007; 18190/2006): come del resto dimostra lo stesso codice civile che già prevede l'obbligo di provare per iscritto e con data certa determinati fatti o rapporti (artt. 1659, 1846, 1888 e 1919, ecc.).
Pertanto, nel caso, la prova dell'avvenuto pagamento doveva essere fornita dalla D.L. con il deposito davanti al giudice di pace del titolo quietanzato entro il termine di 12 mesi dalla levata del protesto,nonchè dell' atto di protesto; e la rigida formulazione della norma non ammetteva equipollenti esigendo, al fine di evitare accordi fraudolenti tra i soggetti privati dell'obbligazione cartolare, la certezza non solo dell'avvenuto pagamento, ma anche della data dello stesso che viene garantita con l'autenticazione della quietanza nonchè con il deposito del titolo di credito (comprovante altresì la sua definitiva sottrazione alla libera circolazione sul mercato). E quindi escludendo l'ammissione di una prova testimoniale, del genere di quella assunta dal giudice di pace, inidonea, per espressa disposizione di legge, a fornire la dimostrazione di una circostanza, quale appunto l'avvenuto pagamento e la sua data, suscettibile, invece, di essere offerta soltanto attraverso la quietanza anzidetta: sul presupposto, ricavato dalla norma, della necessaria corrispondenza tra la data del pagamento e la data della quietanza.
Cassata, pertanto la sentenza impugnata che ha ordinato la cancellazione del nominativo della debitrice in base all'esito dell'inammissibile prova testimoniale offerta dalla debitrice, e non essendo necessari ulteriori accertamenti, il Collegio deve decidere nel merito e respingere le originarie domande della D.L.: avendo la stessa riconosciuto di non aver fornito la prova del pagamento della cambiale con le modalità e nel termine previsti dalla menzionata L. n. 235 del 2000.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 25 febbraio 2009, n. 4464
Svolgimento del processo
Il giudice di pace di Lecce, con sentenza del 2 febbraio 2004, in accoglimento del ricorso proposto da D.L.L. contro il provvedimento del 23 novembre 2002 del Presidente della Camera di Commercio di ****, dispose la cancellazione, dal registro informatico dei protesti, del nominativo di costei per intervenuto pagamento delle somme portate da effetti protestati.
L'impugnazione della Camera di Commercio è stata respinta dal Tribunale di Lecce, con sentenza del 19 ottobre 2004, che ha rilevato: a) che è proprio la L. n. 235 del 2000, a prevedere la cancellazione del debitore che ha pagato dal registro protesti sulla base dell'accertamento della sola regolarità dell'adempimento; b) che il ricorso al giudice di pace previsto da detta legge non costituisce un giudizio di impugnazione del provvedimento amministrativo di reiezione dell'istanza di cancellazione, bensì introduce un procedimento giurisdizionale diretto ad accertare ed - ove ricorra il menzionato presupposto - ad attuare il diritto dell'istante di ottenere la cancellazione del protesto nei casi di mancato riconoscimento di esso da parte del dirigente dell'ufficio protesti.
Per la cassazione della sentenza la Camera di Commercio ha proposto ricorso per due motivi; cui resiste la D.L. con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo del ricorso, la Camera di commercio, deducendo violazione dell'art. 102 Cost.; Legge abol. cont. del 1865, art. 4, L. n. 235 del 2000, art. 2, censura la sentenza impugnata per aver confermato il provvedimento del giudice di pace che aveva annullato e/o modificato il proprio provvedimento di rigetto dell'istanza di cancellazione del nominativo della D.L. dal registro dei protesti,senza considerare il divieto posto dalla menzionata legge del 1865 al giudice ordinario di ingerenza nell'attività dell'amministrazione, perciò da esso non modificabile. E, d'altra parte una tale facoltà non gli è concessa neppure dalla L. n. 235 del 2000, che altrimenti si "incorrerebbe nella violazione del principio di separazione dei poteri sancito dalla Carta costituzionale.
Il motivo è infondato.
Le Sezioni Unite devono ribadire, anzitutto, che il ricorso per Cassazione ha ad oggetto esclusivamente vizi della sentenza di appello,e non quelli della decisione di primo grado, che rimane assorbita in quella di appello; per cui devono ritenersi inammissibili tutte le considerazioni svolte dalla Camera di Commercio contro la sentenza del giudice di pace che avrebbe annullato o modificato il provvedimento della ricorrente, incorrendo in una palese violazione del divieto di cui alla L. n. 2248 del 1865, art. 4, All. E; e deve essere esaminata soltanto la censura diretta contro la sentenza di appello laddove ha confermato quella di primo grado, riferendo che si era limitata a disporre la cancellazione del nominativo della controparte dal registro informatico dei protesti.
Detta statuizione resiste all'addebito dell'ente ricorrente di aver violato il principio di riparto delle giurisdizioni sancito dall'art. 102 Cost., invadendo la giurisdizione del giudice amministrativo, cui soltanto era consentito di annullare il provvedimento di diniego di cancellazione del nominativo della controparte dal bollettino dei protesti: posto che costituisce ius receptum che la giurisdizione si determina sulla base della domanda (art. 386 c.p.c.); e che, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva l'intrinseca consistenza della posizione soggettiva addotta in giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo alla sostanziale protezione accordata a quest'ultima dal diritto positivo (Cass. sez. un. 6421/2005; 16218/2001; 192/2001).
Ora nel caso concreto la situazione soggettiva è espressamente individuata dalla L. n. 77 del 1955, art. 4, come sostituito dalla L. n. 235 del 2000, art. 2, per il quale (comma 1) "Il debitore che, entro il termine di dodici mesi dalla levata del protesto, esegua il pagamento della cambiale o del vaglia cambiario protestati, unitamente agli interessi maturati come dovuti ed alle spese per il protesto, per il precetto e per il processo esecutivo eventualmente promosso, ha diritto di ottenere la cancellazione del proprio nome dal registro informatico di cui al D.L. 18 settembre 1995, n. 381, art. 3 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 novembre 1995, n. 480".
Proprio per aver attribuito consistenza di diritto soggettivo perfetto alla posizione del richiedente la cancellazione, che ha eseguito il pagamento suddetto, il successivo comma 4 ne devolve del pari esplicitamente la giurisdizione "in caso di reiezione dell'istanza o di mancata decisione sulla stessa, da parte del responsabile dirigente dell'ufficio protesti, entro il termine di cui al comma 3, ....all'autorità giudiziaria ordinaria"; indicando nel "giudice di pace del luogo in cui risiede il debitore protestato" il giudice competente a conoscere del ricorso dell'interessato.
Per cui, siccome la D.L. aveva richiesto alla Camera di Commercio la cancellazione del suo nominativo dal bollettino informatico dei protesti, assumendo di aver eseguito il pagamento previsto dalla L. n. 235 del 2000, art. 2, e la Camera di Commercio con provvedimento **** aveva respinto la domanda, la giurisdizione a conoscere del ricorso dell'interessata contro questo provvedimento, apparteneva, in base al ricordato comma 4 di detta norma proprio al Giudice di pace di Bari; che dunque correttamente il Tribunale ha confermato a fronte dell'inequivoco tenore della disposizione suddetta.
Il divieto, poi, di pronunciare sentenze costitutive o di condanna nei confronti della pubblica amministrazione, ai sensi e nei casi previsti dalla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 4, all. E, configura una limitazione meramente interna ai poteri giurisdizionali del giudice suddetto: riferendosi a ciò che è possibile chiedergli (petitum) allorchè parte in causa sia la P.A., ed introducendo una questione riguardante non la giurisdizione in senso stretto, ma l'applicazione di norme che regolano le modalità del suo esercizio.
Sicchè la norma stabilisce,in definitiva quali azioni, in presenza (di una situazione di diritto soggettivo e) della giurisdizione dell'A.G.O., nonchè di provvedimenti amministrativi,siano proponibili nei confronti della P.A., ma non può valere ad escluderne la giurisdizione per il fatto che sia stato richiesto anche l'annullamento dell'atto amministrativo; ed, in tale ipotesi, il divieto per quel giudice di annullare detto provvedimento si traduce di regola nell'obbligo di astenersi dall'emettere una siffatta pronuncia, nonchè di provvedere alla sola disapplicazione dell'atto amministrativo nel caso concreto, in quanto lesivo del diritto soggettivo accertato.
Sennonchè la Corte Costituzionale fin dalle lontane sentenze 32/1970 e 161/1971, ha reinterpretato il divieto in questione al lume di fondamentali precetti della Costituzione (artt. 24, 97, 103 e 113 Cost.), negando che la intangibilità dell'atto amministrativo tragga origine dal principio costituzionalizzato della divisione dei poteri;
ed affermando che l'art. 113 Cost., demanda, invece,al legislatore ordinario di determinare quali organi possano annullarlo. E proprio negli stessi anni il legislatore ha mostrato il chiaro intento di voler includere tra di essi, in determinate materie anche il giudice ordinario (cfr. L. n. 300 del 1970, artt. 18, 28 e 37; D.P.R. n. 1035 del 1972, artt. 11, 16 e 17), attribuendogli il potere di emettere pronunce ripristinatorie o inibitorie e/o di provvedere direttamente ad annullare in tutto o in parte ovvero a modificare il provvedimento amministrativo:come dimostra esemplificativamente proprio la L. n. 689 del 1981, art. 23, ricordato dalla Camera di commercio.
Per cui, seppure è rimasto fermo, in linea generale, il divieto per il giudice ordinario di usurpare l'esercizio di una potestà pubblica, nonchè di sostituirsi all'amministrazione nell'emanare un atto amministrativo ovvero nell'eliminarlo, non è possibile escludere che la legge in determinati settori, o con riferimento a specifiche attività gli attribuisca il compito di attuare la tutela giurisdizionale piena e completa del diritto soggettivo leso dal provvedimento amministrativo,attraverso non soltanto la disapplicazione, ma anche la sua diretta caducazione, di regola riservata al giudice amministrativo.
E proprio nell'ambito di queste fattispecie rientra la normativa della L. n. 235 del 2000, art. 2, la quale ha attribuito, da un lato, al soggetto che ha provveduto al pagamento della cambiale o del vaglia cambiario protestati il diritto soggettivo pieno ed incondizionato ad ottenere la cancellazione del proprio nome dal registro informatico dei protesti. E, dall'altro per conseguire siffatto risultato ("la cancellazione del proprio nome") ha previsto dapprima un procedimento amministrativo di competenza del responsabile dirigente dell'ufficio protesti, senza riservargli alcuna potestà amministrativa nè la volontà di modificare unilateralmente, a seguito dell'apprezzamento dell'interesse pubblico attribuito all'ente, la situazione giuridica soggettiva dell'interessato.
Come rilevato, infatti, da queste Sezioni Unite nella fattispecie similare di sospensione o divieto della pubblicazione del protesto, l'attività della Camera di Commercio consiste in una mera operazione materiale di verifica della "regolarità dell'adempimento o della sussistenza della illegittimità o dell'errore del protesto"; che, senza alcun potere discrezionale, ha come risultato nel caso, la cancellazione del nominativo, risolvendosi, quindi, in comportamenti che rientrano nella categoria degli atti materiali posti in essere all'infuori di una potestà amministrativa (Cass. sez. un. 1970/1995; 8983/1990; 1612/1989).
Pertanto, nell'ipotesi "di reiezione dell'istanza o di mancata decisione sulla stessa", il compito di realizzare il medesimo effetto disposto direttamente dalla legge è stato devoluto al giudice ordinario,che per conseguirlo non può limitarsi a disapplicare il provvedimento di reiezione della Camera di Commercio, ma deve esercitare il potere-dovere di garantire al richiedente la tutela piena predisposta dal legislatore, consistente proprio nella diretta cancellazione del nominativo dal menzionato registro, ormai divenuta priva di causa: senza perciò incorrere nel divieto di cui alla Legge abol. cont., art. 4.
Con il secondo motivo, la Camera di Commercio, deducendo violazione dell'art. 132 cod. proc. civ. e art. 118 disp. att. cod. proc. civ., nonchè difetto e contraddittorietà di motivazione,censura la sentenza impugnata per avere dapprima giustificato il mancato accoglimento dell'istanza della D.L., da parte di esso ente, per poi provvedere alla cancellazione del nominativo di costei senza considerare che la L. n. 235 del 2000, richiede per eseguirla l'esibizione del titolo quietanzato e dell'atto di protesto o della dichiarazione di rifiuto del pagamento; che detti titoli non erano stati esibiti dalla controparte al responsabile dirigente dell'ufficio, cui pertanto era inibita la cancellazione richiesta da quest'ultima; e che al giudice era consentito soltanto di verificare la correttezza dell'operato della Camera di commercio, ma non anche di raccogliere prove tardive che avrebbero dovuto, invece, essere offerte al momento di presentazione dell'istanza in via amministrativa.
Questa doglianza è fondata.
E' vero, infatti, che il ricorso al giudice di pace non è configurato dalla norma come un giudizio di impugnazione dell'atto amministrativo di reiezione dell'istanza dell'interessato da parte del dirigente suddetto (ovvero del suo rifiuto a provvedere su di essa), contro i quali costui è obbligato a muovere le necessarie contestazioni, ed a far valere i vizi del provvedimento; e che deve escludersi che la cognizione del giudice suddetto sia limitata al controllo delle dedotte ragioni di illegittimità del provvedimento medesimo: come è peculiare,invece, della giurisdizione generale di legittimità devoluta al giudice amministrativo.
Ed è del pari esatto che il ricorso in questione introduce un ordinario giudizio di cognizione, pienamente autonomo rispetto alla pregressa fase amministrativa, nel quale il giudice di merito deve procedere al concreto accertamento "del diritto di ottenere la cancellazione" fatto valere dall'interessato, applicando ed osservando esclusivamente "le norme di cui agli artt. da 414 a 438 c.p.c." espressamente richiamate dal comma 4 dell'art. 4 della legge: e quindi avvalendosi dei poteri istruttori concessi dagli artt. 420 e 421 cod. proc. civ..
Ma in questo giudizio il giudice di pace è tenuto all'accertamento proprio del presupposto, cui la norma ha subordinato il diritto alla cancellazione, costituito, come già evidenziato dal Tribunale, dall'eseguito pagamento della cambiale o del vaglia cambiario nel termine indicato dalla norma; ed il legislatore ha prestabilito al riguardo quale sia la prova che il debitore è obbligato a fornire per dimostrare tale avvenuto adempimento nel termine prescritto e così ottenere la cancellazione, indicandola nella produzione "del titolo quietanzato e dell'atto di protesto o della dichiarazione di rifiuto del pagamento,nonchè della quietanza relativa al versamento del diritto di cui al comma 5". Così come peraltro avviene in tema di emissione di assegno bancario senza provvista, in cui la norma della L. 15 dicembre 1990, n. 386, art. 8, comma 3, come sostituito dal D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, art. 33, dispone che la prova del pagamento entro sessanta giorni dalla data di scadenza del termine di presentazione dell'assegno deve essere fornita al pubblico ufficiale tenuto alla presentazione del titolo mediante quietanza a firma autenticata del portatore ovvero mediante attestazione dell'istituto di credito presso il quale è stato effettuato il deposito vincolato dell'importo dovuto: senza ammettere equipollenti.
Anche la L. n. 235 del 2000, dispone che la prova del pagamento della cambiale (o del vaglia cambiario) deve essere allegata ("A tal fine l'interessato presenta...) nell'istanza rivolta al Presidente della Camera di Commercio e che la medesima prova deve essere offerta al giudice di pace nell'ipotesi in cui, malgrado la presentazione, il Presidente suddetto abbia respinto l'istanza del debitore, ovvero abbia omesso di decidere su di essa; ed a maggior ragione, quindi, ove il provvedimento di rigetto sia causato dal fatto che la prova documentale del deposito del titolo quietanzato prima della scadenza del termine di 12 mesi indicato dalla norma, unitamente al protesto, non siano stati allegati all'istanza di cancellazione rivolta alla Camera di Commercio: proprio per l'autonoma natura cognitoria del giudizio davanti al giudice di pace che non può arrestarsi al mero controllo dei documenti già prodotti nella fase amministrativa.
Ma ciò non significa che detto giudice possa ammettere e ritenere sufficiente una prova diversa da quella espressamente prevista dalla legge anche perchè la scelta dell'ammissibilità e dei limiti dei singoli mezzi di prova è rimessa esclusivamente alla discrezionalità del legislatore (Cass. 27140/2007; 5895/2007; 18190/2006): come del resto dimostra lo stesso codice civile che già prevede l'obbligo di provare per iscritto e con data certa determinati fatti o rapporti (artt. 1659, 1846, 1888 e 1919, ecc.).
Pertanto, nel caso, la prova dell'avvenuto pagamento doveva essere fornita dalla D.L. con il deposito davanti al giudice di pace del titolo quietanzato entro il termine di 12 mesi dalla levata del protesto,nonchè dell' atto di protesto; e la rigida formulazione della norma non ammetteva equipollenti esigendo, al fine di evitare accordi fraudolenti tra i soggetti privati dell'obbligazione cartolare, la certezza non solo dell'avvenuto pagamento, ma anche della data dello stesso che viene garantita con l'autenticazione della quietanza nonchè con il deposito del titolo di credito (comprovante altresì la sua definitiva sottrazione alla libera circolazione sul mercato). E quindi escludendo l'ammissione di una prova testimoniale, del genere di quella assunta dal giudice di pace, inidonea, per espressa disposizione di legge, a fornire la dimostrazione di una circostanza, quale appunto l'avvenuto pagamento e la sua data, suscettibile, invece, di essere offerta soltanto attraverso la quietanza anzidetta: sul presupposto, ricavato dalla norma, della necessaria corrispondenza tra la data del pagamento e la data della quietanza.
Cassata, pertanto la sentenza impugnata che ha ordinato la cancellazione del nominativo della debitrice in base all'esito dell'inammissibile prova testimoniale offerta dalla debitrice, e non essendo necessari ulteriori accertamenti, il Collegio deve decidere nel merito e respingere le originarie domande della D.L.: avendo la stessa riconosciuto di non aver fornito la prova del pagamento della cambiale con le modalità e nel termine previsti dalla menzionata L. n. 235 del 2000.
La novità delle questioni trattate induce il Collegio a dichiarare compensate tra le parti le spese dell'intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del giudizio. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2009.

giovedì 19 marzo 2009

Rivista telematica, prodotto editoriale e area di discussione

Cassazione penale , sez. V, sentenza 10.03.2009 n° 10535

Il semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum, non fa sì che il forum stesso, che è assimilabile ad un gruppo di discussione, possa essere qualificato come un prodotto editoriale, o come un giornale online, o come una testata giornalistica informatica. Si tratta quindi di una semplice area di discussione, dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui è soggetta la stampa (quale quello di indicazione di un direttore responsabile o di registrazione) o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che l’art. 21, comma 3, Cost. riserva soltanto alla stampa, sia pure latamente intesa, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero. D’altra parte, nel caso in esame, neppure si tratta di un forum strutturalmente inserito in una testata giornalistica diffusa per via telematica, di cui costituisca un elemento e su cui il direttore responsabile abbia la possibilità di esercitare il controllo (così come su ogni altra rubrica della testata).

Acutamente il difensore del ricorrente sostiene che la norma costituzionale dovrebbe essere interpretata in senso evolutivo per adeguarla alle nuove tecnologie sopravvenute ed ai nuovi mezzi di espressione del libero pensiero. Ma da questo assunto, non può farsi derivare che i nuovi mezzi di comunicazione del proprio pensiero (newsletter, blog, forum, newsgroup, mailing list, chat, messaggi istantanei, e così via) possano, tutti in blocco, solo perché tali, essere inclusi nel concetto di stampa ai sensi dell’art. 21, comma 3, Cost., prescindendo dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi.

In realtà i messaggi lasciati su un forum di discussione (che, a seconda dei casi, può essere aperto a tutti indistintamente, o a chiunque si registri con qualsiasi pseudonimo, o a chi si registri previa identificazione) sono equiparabili ai messaggi che potevano e possono essere lasciati in una bacheca (sita in un luogo pubblico, o aperto al pubblico, o privato) e, così come quest’ultimi, anche i primi sono mezzi di comunicazione del proprio pensiero o anche mezzi di comunicazione di informazioni, ma non entrano (solo in quanto tali) nel concetto di stampa, sia pure in senso ampio, e quindi ad essi non si applicano le limitazioni in tema di sequestro previste dalla norma costituzionale.



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

Sentenza 11 dicembre 2008 - 10 marzo 2009, n. 10535

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE

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ha pronunciato la seguente

SENTENZA

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Svolgimento del processo

Con ordinanza 25 ottobre 2007 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Catania respinse la richiesta dell’Aduc di revoca del sequestro preventivo di alcune pagine web di sua proprietà disposto il 20.11.2007 in relazione al reato di cui all’art. 403 cod. pen. Il tribunale del riesame di Catania, con l’ordinanza in epigrafe, in parziale accoglimento dell’appello dell’Aduc, revoca il sequestro previa rimozione sul sito internet dell’Aduc delle espressioni e dei messaggi oggetto dei reati contestati, inibendone l’ulteriore diffusione.

L’Aduc propone ricorso per cassazione deducendo:

1) inosservanza dell’art. 21, comma 6, Cost. e illegittimità del sequestro preventivo poiché non attiene a reati contro il buon costume. Osserva che l’art. 21, comma 6, Cost. consente la limitazione dell’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nei soli casi di manifestazioni contrarie al buon costume.

2) inosservanza dell’art. 21, comma 6, Cost. e illegittimità del sequestro preventivo perché l’offesa ad una confessione religiosa non è contraria al buon costume.

3) erronea applicazione dell’art. 403 cod. pen. per erronea individuazione del bene giuridico protetto dalla norma. Osserva che, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, non c’è offesa se non vengono individuati i singoli individui, soggetti passivi della norma e portatori del bene giuridico da essa tutelato.

4) erronea applicazione dell’art. 21, comma 3, Cost. ed erronea individuazione dell’ambito applicativo del divieto di sequestro ivi previsto. Erronea interpretazione restrittiva del concetto di stampa che esclude l’informazione non ufficiale.

Motivi della decisione

Il primo motivo è inammissibile perchè consiste in una censura nuova non dedotta con l’appello, e che non può quindi essere proposta per la prima volta in questa sede di legittimità. Il motivo è comunque manifestamente infondato perchè l’art. 21, comma 6, Cost. vieta direttamente “le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”, disponendo altresì che “la legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”, ma non ha inteso dire che un comportamento, costituente manifestazione del pensiero, possa essere dalla legge vietato e previsto come reato esclusivamente quando sia contrario al buon costume, e non anche quando sia lesivo di altri beni ritenuti meritevoli di tutela, sebbene non lesivo del buon costume. Se così non fosse, del resto, dovrebbe ritenersi che i reati di ingiuria e diffamazione non sarebbero legittimi quando colpiscano comportamenti lesivi solo dell’onore e della reputazione delle persone, e non anche del buon costume.

Per le stesse ragioni è inammissibile, sia perché nuovo sia perché manifestamente infondato, anche il secondo motivo. Con l’atto di appello, invero, non era stato dedotto che il sequestro in questione era illegittimo perché le frasi contestate non erano suscettibili di offendere il buon costume inteso come pudore sessuale della collettività. Né tale doglianza può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità solo perché l’ordinanza impugnata ha osservato che alcune delle frasi incriminate, oltre ad avere offeso la religione cattolica mediante il vilipendio dei suoi fedeli e dei suoi ministri, avevano travalicato i limiti del buon costume alludendo espressamente a pratiche pedofile dei sacerdoti per diffondere il “sacro seme del cattolicesimo”. In ogni caso il motivo è manifestamente infondato perché l’art. 21, comma 6, Cost. non limita la possibilità della legge di prevedere, in caso di reato, il sequestro di cose che rappresentino manifestazioni del pensiero soltanto quando queste siano lesive del pudore sessuale.

Il terzo motivo è infondato perché esattamente il tribunale del riesame ha ritenuto che per la configurabilità del reato di cui all’art. 403 cod. pen. non occorre che le espressioni di vilipendio debbano essere rivolte a fedeli ben determinati, ben potendo invece, come nella specie, essere genericamente riferite alla indistinta generalità dei fedeli. La norma invero protegge il sentimento religioso di per sè, sanzionando le pubbliche offese verso lo stesso attuate mediante vilipendio dei fedeli di una confessione religiosa, o dei suoi ministri.

Opportunamente, invero, l’ordinanza impugnata ha ricordato la sent. n. 188 del 1975 della Corte costituzionale, la quale affermò che “il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell’art. 3 e dall’art. 20. Perciò il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21: sempre che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta entro i giusti confini, segnati, per un verso, dallo stesso significato etimologico della parola (che vuol dire “tenere a vile”, e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per altro verso, dalla esigenza di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa”, e che “il vilipendio, dunque, non si confonde nè con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come a livello divulgativo, nè con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; nè con l’espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie immanentistiche o positivistiche od altre che siano.

Sono, invece, vilipendio, e pertanto esclusi dalla garanzia dell’art. 21 (e dell’art. 19), la contumelia, lo scherno, l’offesa, per dir così, fine a sè stessa, che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso, oggettivamente riguardato”.

D’altra parte, anche la recente sent. n. 168 del 2005 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 403 cod. pen. nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anzichè la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice) ha fatto espresso riferimento alle “esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose”, ribadendo che tutte le norme contemplate dal capo dei delitti contro il sentimento religioso “si riferiscono al medesimo bene giuridico del sentimento religioso, che l’art. 403 cod. pen. tutela in caso di offese recate alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto”.

Del resto, anche qualora potesse accogliersi la tesi del ricorrente secondo cui il bene tutelato dalla norma non è il sentimento religioso ma la persona (fisica o giuridica) offesa in quanto appartenente ad una determinata confessione religiosa, non si vedrebbe perché questa tesi dovrebbe comportare che, per aversi reato, il vilipendio dovrebbe rivolgersi verso determinate persone e non verso il gruppo indistinto dei fedeli di quella confessione religiosa nei cui confronti viene pubblicamente portata l’offesa.

E’ infine infondato anche il quarto motivo. Va preliminarmente osservato che il tribunale del riesame ha revocato il sequestro del forum esistente nell’ambito del sito appartenente alla associazione ricorrente, lasciandolo esclusivamente sui singoli messaggi inviati da alcuni partecipanti al forum in questione, contenenti le frasi oggetto dei reati contestati. Ciò posto, il Collegio ritiene che esattamente il tribunale del riesame ha dichiarato che nel caso di specie non trova applicazione l’art. 21, comma 3, Cost., secondo cui “Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili”, dato che la concreta fattispecie in esame non rientra nella più specifica disciplina della libertà di stampa, ma solo in quella più generale di libertà di manifestazione del proprio pensiero di cui all’art. 21, comma 1, Cost.

Gli interventi dei partecipanti al forum in questione, invero, non possono essere fatti rientrare nell’ambito della nozione di stampa, neppure nel significato più esteso ricavabile dall’art. 1 della legge 7 marzo 2001, n. 62, che ha esteso l’applicabilità delle disposizioni di cui all’ articolo 2 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (legge sulla stampa) al “prodotto editoriale”, stabilendo che per tale, ai fini della legge stessa, deve intendersi anche il “prodotto realizzato … su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico”.

Il semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum, non fa sì che il forum stesso, che è assimilabile ad un gruppo di discussione, possa essere qualificato come un prodotto editoriale, o come un giornale online, o come una testata giornalistica informatica. Si tratta quindi di una semplice area di discussione, dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui è soggetta la stampa (quale quello di indicazione di un direttore responsabile o di registrazione) o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che l’art. 21, comma 3, Cost. riserva soltanto alla stampa, sia pure latamente intesa, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero. D’altra parte, nel caso in esame, neppure si tratta di un forum strutturalmente inserito in una testata giornalistica diffusa per via telematica, di cui costituisca un elemento e su cui il direttore responsabile abbia la possibilità di esercitare il controllo (così come su ogni altra rubrica della testata).

Acutamente il difensore del ricorrente sostiene che la norma costituzionale dovrebbe essere interpretata in senso evolutivo per adeguarla alle nuove tecnologie sopravvenute ed ai nuovi mezzi di espressione del libero pensiero. Ma da questo assunto, non può farsi derivare che i nuovi mezzi di comunicazione del proprio pensiero (newsletter, blog, forum, newsgroup, mailing list, chat, messaggi istantanei, e così via) possano, tutti in blocco, solo perché tali, essere inclusi nel concetto di stampa ai sensi dell’art. 21, comma 3, Cost., prescindendo dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi.

In realtà i messaggi lasciati su un forum di discussione (che, a seconda dei casi, può essere aperto a tutti indistintamente, o a chiunque si registri con qualsiasi pseudonimo, o a chi si registri previa identificazione) sono equiparabili ai messaggi che potevano e possono essere lasciati in una bacheca (sita in un luogo pubblico, o aperto al pubblico, o privato) e, così come quest’ultimi, anche i primi sono mezzi di comunicazione del proprio pensiero o anche mezzi di comunicazione di informazioni, ma non entrano (solo in quanto tali) nel concetto di stampa, sia pure in senso ampio, e quindi ad essi non si applicano le limitazioni in tema di sequestro previste dalla norma costituzionale.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

venerdì 6 marzo 2009

Recinzione, ostruzione strada pubblica, potere sindacale di ripristino

Consiglio di Stato , sez. V, decisione 08.01.2009 n° 25

E' legittimo l’esercizio del potere sindacale contemplato dall’art. 378 della legge 20.3.1865 n. 2248 all. F, il quale configura, non già un provvedimento repressivo in materia edilizia riservato ai dirigenti del comune, bensì una ipotesi di autotutela possessoria iuris publici in tema di strade sottoposte all’uso pubblico (Cons. Stato, sez. IV, 7.9.2006 n. 5209), che, in quanto tale, trova il suo unico presupposto nella necessità di ripristinare l’uso pubblico della strada.

Anche in subiecta materia in quanto autotutela sussiste l'obbligo della comunicazione dell’avvio del procedimento. Quanto ai termini preventivi della comunicazione, non esiste un termine minimo purchè sia congruo in relazione al contesto.



Consiglio di Stato

Sezione V

Decisione 20 maggio 2008 - 8 gennaio 2009, n. 25

(Presidente Iannotta - Relatore Monticelli)

Sul ricorso in appello n. 6443/2007, proposto dal sig. P. G., rappresentato e difeso dall’avv. Rodolfo Ludovici, con domicilio eletto in Roma, via Dardanelli n. 25 presso la società Omuake s.r.l.,

contro

il Comune di Barete, in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Carlo Benedetti ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Alessandra Scarnati in Roma, corso Rinascimento n. 24,

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Abruzzo, sede dell’Aquila 18 dicembre 2006 n. 983.

Visto il ricorso con i relativi allegati.

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Barete.

Visti gli atti tutti della causa.

Nominato relatore il Consigliere Caro Lucrezio Monticelli.

Uditi!Fine dell'espressione imprevista, alla pubblica udienza del 20 maggio 2008 , l’Avv. Ludovici e l’Avv. Scarnati, quest’ultimo per delega di Benedetti!Fine dell'espressione imprevista;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

Fatto

Nella sentenza n. 983/2006 il Tar Abruzzo-L’Aquila, pronunciandosi su ricorso n. 494/2003 proposto dal sig. P. G., ha così esposto i fatti di causa:

“Con ricorso notificato in data 24.09.2003 l’istante assume di essere proprietario di un fondo al quale si perveniva tramite sentiero pedonale denominato Fonte di Mette.

Precisa, poi, che il suo dante causa, Sig. Loreto G., oltre cinquanta anni orsono recintò la sua proprietà chiudendo anche il sentiero in parola.

Negli anni 1955/56 venne poi realizzata nella zona la strada intercomunale Pizzoli - S. Giovanni in Paganica che rese del tutto inutilizzabile l’antico sentiero.

La situazione dei luoghi, secondo il ricorrente, rimaneva immutata fino ai giorni nostri ed anzi dal Tribunale Penale di L’Aquila venne accertato, con sentenza n. 198 del 7.3.2000 (passata in giudicato in data 7.6.2000) che: 1) il ricorrente non aveva posto in essere alcuna recinzione, entrando nel possesso dei beni senza apporvi modifiche; 2) la recinzione era stata apposta in epoca remota e, sicuramente oltre cinquanta anni orsono; 3) il sentiero Fonte di Mette da tempo non più visibile ed inutilizzato conduce ad una scarpata posta in essere con lavori di costruzione di una strada.

Veniva dunque emanata la epigrafata ordinanza sindacale della quale l’istante si duole per i motivi di cui appresso.

1) Violazione di legge (art. 7 della L. 241/90).

Nel caso di specie il Comune ha informato il ricorrente in ordine alla chiusura della strada solamente cinque giorni prima dell’emissione del provvedimento.

2) Eccesso di potere per travisamento ed errore nella valutazione dei fatti, per errore e carenza di istruttoria per carenza o errata motivazione.

L’atto impugnato è stato emanato sul falso presupposto che il ricorrente abbia recintato dei terreni, chiudendo un tratto di strada.

Il che non risponde al vero in quanto (come accertato dalla dianzi richiamata sentenza) trattasi di un antico sentiero “le cui tracce si sono man mano cancellate fino a sparire quasi del tutto”; sentiero interrotto fin dal 1955/56 dalla strada intercomunale di Pizzoli, S. Giovanni di Paganica, non iscritto negli elenchi delle strade pubbliche (ex art. 17, L. 2248/1865).

Non è dunque ravvisabile alcuna motivazione di ordine pubblico o di pubblico interesse alla riapertura.

3) Violazione di legge (art. 378 L. 2248/1865, art. 1168 e 1170 c.c.). Carenza di legittimazione.

L’istante non ha operato alcuna modifica dei luoghi di interesse i quali, dal 1950, sono stati mantenuti nella identica situazione nella quale li aveva lasciati il Sig. Loreto Gino G..

Peraltro l’ordinanza non poteva essere emessa dopo un lungo lasso di tempo.

4) Eccesso di potere per errore nell’istruttoria. Violazione di legge. Incompetenza. Travisamento.

L’ordinanza è stata emessa da organo incompetente in quanto alla emissione della stessa doveva provvedere un organo dirigenziale dell’Ente.

Né sussiste alcun interesse pubblico alla riapertura della vecchia mulattiera, diventata intransitabile.

5) Violazione di legge. Eccesso di potere per errore nei presupposti. Sviamento.

Non esiste alcuna servitù di pubblico passaggio ed i terreni sono di proprietà del ricorrente.

Chiede quindi l’istante l’annullamento dell’impugnato provvedimento con il favore delle spese.

Con memoria depositata in data 9.06.2004 parte ricorrente ribadisce il proprio assunto precisando che della strada di che trattasi si è persa ogni traccia e che essa viene ricordata solo nelle planimetrie catastali.

Insiste quindi per l’accoglimento del ricorso con vittoria di spese.

Con ulteriore memoria il ricorrente ribadisce, in particolare, che la recinzione oggetto dell’ordinanza impugnata è stata realizzata alcuni decenni orsono dai precedenti proprietari, e che egli si è limitato ad effettuare solamente lavori di ordinaria manutenzione.

Si riporta quindi alle già formulate richieste con il favore delle spese.

Con memoria di costituzione depositata in data 14.10.2003 il Comune di Barete ha puntualmente contestato le deduzioni di parte ricorrente concludendo per la reiezione del ricorso con il favore delle spese.

Con successiva memoria depositata in data 11.03.2006 il Comune di Barete ha riepilogato i termini della vicenda e, pur censurando alcune inesattezze del funzionario verificatore, ha concluso per la reiezione del ricorso con il favore delle spese.

Alla pubblica udienza del 22 Marzo 2006 la causa è passata in decisione.”.

Ciò premesso, il Tar ha respinto il ricorso, ritenendo infondate le censure dedotte.

Avverso la suddetta sentenza ha proposto appello (ric. n. 6443/2003) il sig. G., contestando le argomentazioni svolte dal Tar a sostegno della sua decisione.

Si è costituito in giudizio il Comune di Barete che ha concluso per l’infondatezza dell’appello.

Diritto

1. In ordine logico va esaminato preliminarmente il motivo d’appello con cui viene riproposta la censura di primo grado, con la quale si era lamentato che non era stata consentitita all’interessato un’idonea partecipazione al procedimento, in quanto si era data comunicazione dell’avvio del procedimento solo cinque giorni prima della adozione dell’ordinanza in contestazione (con il quale era stato ordinato di riaprire la strada che si asseriva essere stata abusivamente chiusa con una recinzione) e si era fatto comunque presente che la decisione era stata già presa.

La doglianza è priva di pregio.

Va in primo luogo condiviso l’assunto del Tar secondo cui il termine assegnato doveva ritenersi congruo, considerato che la vicenda, svoltasi peraltro in una realtà territoriale molto circoscritta, era ben nota all’interessato (vedasi, tra l’altro, la richiesta di dismissione di parte della strada comunale che verrà citata più avanti).

Si deve poi rilevare che la circostanza che fosse stato preannunciato il provvedimento che sarebbe stato adottato non comportava l’inutilità delle eventuali osservazioni presentate, perché l’amministrazione sarebbe stata in ogni caso tenuta a dimostrare di averle tenute in debita considerazione.

2. L’appellante assume poi che, come risulterebbe da una sentenza del Tribunale Penale dell’Aquila e da una consulenza tecnica disposta in primo grado, non vi sarebbero stati i presupposti per l’emissione dell’ordinanza impugnata, in quanto:

1) la recinzione era stata realizzata da alcuni decenni e che egli si sarebbe limitato ad effettuare lavori di manutenzione;

2) non esisteva agli atti del comune alcuna delibera o scrittura nella quale sono elencate le strade pubbliche comunali;

3) in un verbale d’accordo, sottoscritto in data 22.10.1977, dall’allora Sindaco e da altri amministratori, nonché da alcuni proprietari dei terreni in località Fonte di Mette si afferma “pertanto la strada esistente di accesso al fabbricato... resterà sempre di proprietà Gregari”;

4) alcuni testi avrebbero asserito che per l’utilizzo della strada in questione occorreva l’autorizzazione dei proprietari.

Al riguardo va innanzi tutto rilevato che la sentenza del giudice penale non assume un valore decisivo nel presente giudizio, perché il Comune di Barete non aveva partecipato al relativo giudizio (vedasi in proposito l’art. 654 c.p.p.).

Altrettanto è a dirsi per quanto riguarda le valutazioni espresse nella consulente tecnica, essendo le stesse soggette alla verifica dell’organo giudicante, sulla base della documentazione acquisita al giudizio.

Ciò posto, va evidenziato che sulla base di detta documentazione deve giungersi alla conclusione che la strada in questione era di natura pubblica.

Ciò, come rettamente sottolineato dal comune appellato, emerge in primo luogo dalle mappe catastali.

Né una tale realtà è smentita, come vorrebbe l’appellante dal sopracitato verbale d’accordo.

Infatti il predetto comune ha ben rilevato che detto verbale fa riferimento ad altra strada di accesso alla proprietà dell’appellante, come emerge dalle particelle catastali menzionate nel verbale stesso.

Risulta anzi che il Sig. P. G. aveva presentato in data 12.11.96 al Comune di Barete una richiesta di dismissione di una porzione della strada comunale di “Fonte di Mette”, riconoscendo così la natura pubblica della strada in questione.

Come emerge poi dalla nota n. 32 in data 25.1.1995 del Comando Stazione Pizzoli del Corpo forestale dello Stato e dalla relazione n. 1790 in data 10.9.2003 dell’ufficio tecnico del Comune di Barete, l’uso della strada da parte della popolazione locale era stato impedito da una recinzione realizzata sulla strada stessa.

Si legittimava petanto l’esercizio del potere sindacale contemplato dall’art. 378 della legge 20.3.1865 n. 2248 all. F, il quale configura, non già un provvedimento repressivo in materia edilizia (riservato, come sottolineato dall’appellante, ai dirigenti del comune), bensì una ipotesi di autotutela possessoria iuris publici in tema di strade sottoposte all’uso pubblico (Cons. Stato, sez. IV, 7.9.2006 n. 5209), che, in quanto tale, trova il suo unico presupposto nella necessità di ripristinare l’uso pubblico della strada senza necessità di ulteriori motivazioni (come vorrebbe invece l’appellante).

Potere che, contrariamente a quanto asserito dall’interessato, non poteva che essere esercitato nei confronti del medesimo, che aveva il godimento e la disponibilità del bene e che provvedeva altresì alla sua manutenzione.

3. L’appello va dunque respinto.

Sussistono ragioni, in considerazione della particolarità della fattispecie, per compensare integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), respinge l’appello in epigrafe.

Spese del grado di giudizio compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

martedì 3 marzo 2009

Autotutela, principio generale dell'obbligo della comunicazione nel procedimento amministrativo

TAR Lazio-Roma, sez. I, sentenza 27.11.2008 n° 10810

Il Collegio rileva che la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 L. 241/1990, costituisce un principio generale dell’azione amministrativa soprattutto quando l’amministrazione esercita il potere di autotutela, espressione della propria discrezionalità, in cui occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell’atto o alla cessazione dei suoi effetti.

T.A.R.

Lazio - Roma

Sezione I

Sentenza 5 novembre - 27 novembre 2008, n. 10810

(Presidente Giovannini - Relatore Caponigro)

Fatto e diritto

1. Il Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con nota del 3 novembre 1998, ha comunicato alla Banca Nazionale del Lavoro ed alla Nuova Eri S.p.a. che il Comitato di cui all’art. 32 L. 416/1981, nella riunione del 19 giugno 1998, in riferimento al finanziamento ammesso per L. 3.717.853.000 per anni 10, ha deliberato di procedere all’erogazione delle rate di contributo fino al 1° agosto 1995.

Di talché, la Rai Trade S.p.a., già Nuova Eri, ha proposto il presente ricorso, articolato nei seguenti motivi:

- Violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 8 L. 241/1990.

L’amministrazione avrebbe dovuto comunicare l’avvio del procedimento di revoca parziale del contributo.

- Violazione L. 416/1981 e successive modificazioni ed integrazioni e di ogni norma e principio in tema di agevolazione finanziaria in favore dell’editoria. Violazione dell’art. 3 L. 241/1990. Eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione. Contraddittorietà. Difetto di istruttoria. Carenza ed errore nei presupposti. Violazione di ogni norma e principio in tema di trasparenza dell’azione amministrativa.

L’amministrazione non avrebbe indicato le ragioni giuridiche e di interesse pubblico che hanno determinato l’assunzione della decisione.

La delibera di concessione del contributo sino al 1° agosto 1995 sarebbe contraddittoria con il precedente DPCM 23.12.1991 e carente di istruttoria nonché dei presupposti per la restrizione del beneficio.


A seguito del deposito in giudizio di documentazione da parte dell’amministrazione, la ricorrente ha proposto i seguenti motivi aggiunti:

- Incompetenza: violazione dell’art. 32 L. 416/1981; violazione di ogni norma e principio in tema di revoca d’ufficio.

Il provvedimento di revoca parziale del contributo sarebbe dovuto essere adottato dallo stesso organo competente per la concessione, vale a dire dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Sottosegretario delegato.

- Violazione della L. 416/1981. Eccesso di potere per difetto di motivazione. Carenza ed errore nei presupposti. Difetto di istruttoria. Contraddittorietà ed illogicità. Violazione di ogni norma e principio in materia di cessione d’azienda. Violazione dell’art. 7 L. 241/1990.

La restrizione del beneficio potrebbe avvenire solo per mancata o incompleta realizzazione ovvero variazione non autorizzata del programma di investimento, mentre sarebbe irrilevante la mancata richiesta di subentro nel contratto di mutuo da parte del cessionario del ramo di azienda, per cui non ricorrerebbero i presupposti per la revoca o limitazione del contributo statale.


L’Avvocatura dello Stato ha contestato la fondatezza delle censure dedotte.

L’istanza cautelare è stata accolta con ordinanza n. 2305 pronunciata da questa Sezione nella camera di consiglio del 14 luglio 1999.

La ricorrente ha depositato altra memoria a sostegno delle proprie ragioni.

All’udienza pubblica del 5 novembre 2008, la causa è stata trattenuta per la decisione.


2. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, con decreto del 23 dicembre 1991, ha concesso alla Nuova Eri - Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana un contributo pari a L. 269.544.000 per anni 10 sul finanziamento accordato a detta Società per l’importo di L. 3.717.853.000 per anni 10.

Con l’impugnato atto del 3 novembre 1998, è stato comunicato che il Comitato di cui all’art. 32 L. 416/1981, nella riunione del 19 giugno 1998, ha deliberato di procedere all’erogazione delle rate del detto contributo fino al 1° agosto 1995.

L’amministrazione, pertanto, ha proceduto a revocare parzialmente il contributo a suo tempo concesso.

Il Collegio rileva che la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 L. 241/1990, costituisce un principio generale dell’azione amministrativa soprattutto quando l’amministrazione esercita il potere di autotutela, espressione della propria discrezionalità, in cui occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell’atto o alla cessazione dei suoi effetti.

Ne consegue la fondatezza della dedotta censura di violazione dell’art. 7 L. 241/1990 per omessa comunicazione di avvio del procedimento, atteso che, nel caso di specie, la revoca parziale del beneficio non risulta preceduta dal relativo avviso di avvio del procedimento, che avrebbe consentito al suo destinatario di partecipare allo stesso esponendo in tale sede le proprie ragioni, e non sono state indicate, né risultano sussistenti, ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità.

L’art. 21 octies, co. 2, L. 241/1990, inoltre, non può trovare applicazione in quanto l’amministrazione non ha dimostrato in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Parimenti fondata è la censura, proposta con motivi aggiunti, con cui la ricorrente ha dedotto l’incompetenza del Comitato di cui all’art. 32 L. 416/1981 a disporre la restrizione del beneficio e la violazione del principio del contrarius actus.

Nella fattispecie in esame, a fronte di un atto di concessione del contributo adottato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, la parziale revoca del beneficio è stata disposta dal suddetto Comitato, atteso che la Presidenza del Consiglio dei Ministri si è limitata a comunicare la delibera del Comitato senza esprimere una propria volontà provvedimentale.

Diversamente, l’atto di autotutela sarebbe dovuto essere adottato - su conforme delibera del Comitato di cui all’art. 32 L. 416/1981 - dallo stesso organo che ha adottato il provvedimento in prime cure.

La fondatezza delle richiamate censure, assorbiti gli altri motivi d’impugnativa, determina la fondatezza del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento degli atti impugnati, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione.

3. Sussistono giuste ragioni per disporre la compensazione delle spese del giudizio tra le parti.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Prima Sezione di Roma, accoglie il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati.

Spese compensate.

Dibattimento penale, requisito per utilizzabilità delle dichiarazioni rese nel corso della indagine

Tribunale Lamezia Terme, sentenza 26.01.2009 n° 26

Alla luce della suaccennata circostanza, il Collegio a richiesta del P.M., ha disposto la acquisizione del verbale de quo ai sensi dell’art. 512 c.p.p. che consente la lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai difensori delle parti private e dal giudice nel corso della udienza preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione.
1.1. Tale norma prevede una forma di irripetibilità sopravvenuta ed estrinseca di atti assunti in sede di indagini preliminari e, quindi, la possibilità di "ripescaggio" di tale materiale probatorio, di cui imprevedibilmente ne sia divenuta impossibile la ripetizione.

Due, quindi, sono le condizioni necessarie per l'operatività della norma in questione, che costituisce un'eccezione al principio dell'oralità del processo: a) sopravvenienza di una situazione imprevedibile nel momento in cui l'atto è stato assunto; b) non reiterabilità dell'atto per effetto di una situazione non ordinariamente superabile.

Quanto alla non reiterabilità dell’atto, essa emerge ictu oculi dalla irreperibilità del dichiarante che è il solo che potrebbe rendere le dichiarazioni che costituiscono l’oggetto del verbale “ripescato”.

Altro va detto in ordine al presupposto operativo della l’imprevedibilità della circostanza che impedisce la ripetizione dell’atto. Ed, invero, qualora, al contrario, l’evento impeditivo fosse prevedibile – come correttamente osserva la difesa – sarebbe, allora, possibile attingere dallo strumento di conservazione della prova di cui all’art. 400 c.p.p. (incidente probatorio). Ma nel caso di specie la sopravvenuta irreperibilità del BK non era affatto prevedibile. Le forze di polizia disponevano di un indirizzo certo che identificava, chiaramente, la residenza in Bergamo della parte offesa. Non emergevano, inoltre, condizioni soggettive o circostanze che suggerissero propositi (imminenti) di dispersione o affini tenuto conto, anche, dell’id quod plerumque accidit applicato al contesto specifico di riferimento. Altrimenti detto: era improbabile che la prova si sarebbe dispersa. Si perviene a siffatte conclusioni adottando lo schema di ragionamento della cd. prognosi postuma ovvero guardando ai fatti collocando l’osservatore nel tempo e nello spazio esistente al momento preso di mira dal Giudice. Ebbene: il BK non aveva neanche sporto querela. Non aveva, cioè, neanche inteso avviare un proposito risarcitorio nei confronti degli imputati né, peraltro, era a conoscenza del seguito delle indagini o del loro avvio. Insomma: ascoltato per iniziativa della P.G., non aveva posto nessun tassello significativo che avrebbe potuto indurlo, ad es., a lasciare il territorio. Ma vi è di più: la irreperibilità nel caso di specie non dipende, allo stato degli atti, da volontaria sottrazione alle Autorità posto che il BK non ha neanche conoscenza delle ricerche a suo carico. Si tratta, piuttosto, di un caso di migrazione in località sconosciuta per motivi affatto prevedibili quali possono essere quelli personali o le sopravvenienze di vita.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) è stata ratificata dallo Stato italiano con la Legge 4 agosto 1955, n. 848. Ai sensi dell’art. 6, comma III, lett. d) l’imputato ha diritto “ad interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni dei testimoni a carico”.

La norma deve orientare l’interpretazione dei Giudici e costituisce, al contempo, parametro di costituzionalità. Ed, infatti, la Corte costituzionale, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l'altro, che, con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi (cfr. Corte costituzionale, sentenza 39/2008). Va, però, escluso il potere di disapplicazione: le norme CEDU, infatti, vanno distinte dalle norme comunitarie perché, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l'asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi (Corte costituzionale, sentenze 22 ottobre 2007 nn. 348 e 349).



Tribunale di Lamezia Terme

Sentenza 26 gennaio 2009, n. 26

(Pres. ed est. Giuseppe Spadaro)

...omissis...

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto del 4 marzo 2008, il Giudice disponeva il rinvio a giudizio degli imputati per il reato loro ascritto in rubrica.

Aperto in dibattimento, in data 9 maggio 2008, il Collegio dichiarava la contumacia degli imputati che, regolarmente citati in giudizio, non erano comparsi.

Su richiesta del P.M., ritualmente ammessa, veniva escusso il teste C, maresciallo ordinario in servizio presso la Stazione dei Carabinieri di R. L’Ufficio di Procura richiedeva, altresì, l’escussione della parte offesa, BK, la quale, però, non compariva all’udienza fissata dal Tribunale. Il pubblico ministero riferiva, al riguardo, che vane erano state le ricerche del BK il quale, residente in Bergamo, aveva avuto domicilio in S per breve tempo. All’udienza del 13 ottobre 2008, il Collegio disponeva l’espletamento di ulteriori atti di indagine deputati ad accertare l’esatto recapito della parte offesa: l’esito delle investigazioni era infruttuoso posto che risultava come il BK fosse “trasmigrato in altra località allo stato sconosciuta” (cfr. verbale di vane ricerche dei C.C. in atti).

Preso atto dell’esito vano delle ricerche, il P.M. all’udienza del 23 gennaio 2009, chiedeva l’acquisizione del verbale di S.I.T. reso dalla parte offesa in data 12 aprile 2005. L’Avv. M si opponeva all’istanza, ritenendo l’acquisizione in contrasto con l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (art. 6 CEDU).

Il Tribunale, con ordinanza interlocutoria resa in pari data, accoglieva la richiesta del P.M. e dispone conformemente.

I difensori degli imputati depositavano scritti difensivi.

Esaurita l’istruzione dibattimentale, il processo veniva definito con sentenza letta in udienza nel dispositivo che dichiarava gli imputati colpevoli del reato loro ascritto in rubrica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Gli atti versati nel fascicolo del procedimento consentono di poter ritenere raggiunta la prova in ordine alla responsabilità penale degli imputati. Depone verso la piena sussistenza del fatto costituente reato non solo la testimonianza acquisita al demanio probatorio (del mar.llo C) ma anche il contenuto del verbale di sommarie informazioni rese dalla persona offesa ai carabinieri di N in data 12 aprile 2005 (omissi).

E’ opportuno, allora, preliminarmente soffermarsi sulla utilizzabilità del suaccennato verbale.


1. Il verbale acquisito agli atti, del 12.4.2005, contiene le dichiarazioni rese, in tale data, dalla parte offesa BK ai C.C. di N, nell’imminenza dei fatti per cui è stata esercitata l’azione penale. Evocata in giudizio per introitare in dibattimento siffatte dichiarazioni nel contraddittorio delle parti, la parte offesa è risultata irreperibile. Nonostante il supplemento di ricerche, il suddetto BK è risultato trasferito in altra località tuttora sconosciuta. Ed, invero, le ricerche sono state accorte e si sono snodate, anche, attraverso la visura delle carceri onde verificare se il BK non si trovasse, al momento, in regime di detenzione. Ma anche questo esame ha dato esito negativo.

Alla luce della suaccennata circostanza, il Collegio a richiesta del P.M., ha disposto la acquisizione del verbale de quo ai sensi dell’art. 512 c.p.p. che consente la lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai difensori delle parti private e dal giudice nel corso della udienza preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione.


1.1. Tale norma prevede una forma di irripetibilità sopravvenuta ed estrinseca di atti assunti in sede di indagini preliminari e, quindi, la possibilità di "ripescaggio" di tale materiale probatorio, di cui imprevedibilmente ne sia divenuta impossibile la ripetizione.

Due, quindi, sono le condizioni necessarie per l'operatività della norma in questione, che costituisce un'eccezione al principio dell'oralità del processo: a) sopravvenienza di una situazione imprevedibile nel momento in cui l'atto è stato assunto; b) non reiterabilità dell'atto per effetto di una situazione non ordinariamente superabile.

Quanto alla non reiterabilità dell’atto, essa emerge ictu oculi dalla irreperibilità del dichiarante che è il solo che potrebbe rendere le dichiarazioni che costituiscono l’oggetto del verbale “ripescato”.

Altro va detto in ordine al presupposto operativo della l’imprevedibilità della circostanza che impedisce la ripetizione dell’atto. Ed, invero, qualora, al contrario, l’evento impeditivo fosse prevedibile – come correttamente osserva la difesa – sarebbe, allora, possibile attingere dallo strumento di conservazione della prova di cui all’art. 400 c.p.p. (incidente probatorio). Ma nel caso di specie la sopravvenuta irreperibilità del BK non era affatto prevedibile. Le forze di polizia disponevano di un indirizzo certo che identificava, chiaramente, la residenza in Bergamo della parte offesa. Non emergevano, inoltre, condizioni soggettive o circostanze che suggerissero propositi (imminenti) di dispersione o affini tenuto conto, anche, dell’id quod plerumque accidit applicato al contesto specifico di riferimento. Altrimenti detto: era improbabile che la prova si sarebbe dispersa. Si perviene a siffatte conclusioni adottando lo schema di ragionamento della cd. prognosi postuma ovvero guardando ai fatti collocando l’osservatore nel tempo e nello spazio esistente al momento preso di mira dal Giudice. Ebbene: il BK non aveva neanche sporto querela. Non aveva, cioè, neanche inteso avviare un proposito risarcitorio nei confronti degli imputati né, peraltro, era a conoscenza del seguito delle indagini o del loro avvio. Insomma: ascoltato per iniziativa della P.G., non aveva posto nessun tassello significativo che avrebbe potuto indurlo, ad es., a lasciare il territorio. Ma vi è di più: la irreperibilità nel caso di specie non dipende, allo stato degli atti, da volontaria sottrazione alle Autorità posto che il BK non ha neanche conoscenza delle ricerche a suo carico. Si tratta, piuttosto, di un caso di migrazione in località sconosciuta per motivi affatto prevedibili quali possono essere quelli personali o le sopravvenienze di vita.

Le considerazioni avversarie – introdotte dalla difesa – non sono idonee a sconfessare il suddetto giudizio: secondo l’insegnamento della Suprema Corte, infatti, (ex multis, Cassazione penale, sez. IV, 13 aprile 2007, n. 24863) la valutazione dell’”imprevedibilità dell'evento", che rende impossibile la ripetizione dell'atto precedentemente assunto e ne legittima la lettura, è demandata in via esclusiva al giudice di merito, il quale – come ha fatto questo Collegio - deve formulare in proposito una "prognosi postuma" (con riguardo al tempo in cui l'atto è stato assunto e tenuto conto della concreta situazione esistente in tale momento), che deve essere sorretta da motivazione adeguata e conforme alle regole della logica (ciò che nella specie, secondo questo Tribunale, appare vidimato dal giudizio assunto allorché, tra l’altro, si evidenzi che all'epoca dell'escussione da parte della polizia giudiziaria il dichiarante aveva il permesso di soggiorno e viveva stabilmente nella località si San Mango).

A nulla varrebbero, poi, le eventuali sopravvenienze successive al rinvio a giudizio degli imputati posto che l'imprevedibilità va valutata con riferimento alle conoscenze di cui la parte processuale poteva disporre fino alla scadenza del termine entro il quale avrebbe potuto chiedere l'incidente probatorio (Cassazione penale , sez. III, 13 febbraio 2007 , n. 25110).

La specifica qualitas della parte offesa, infine, è pienamente compatibile con il giudizio di imprevedibilità. La condizione di cittadino extracomunitario, infatti, non è in sé assolutamente idonea a far propendere per un giudizio di prevedibilità del suo allontanamento (Cassazione penale , sez. III, 22 aprile 2004 , n. 23282), anche nel caso in cui, peraltro, si tratti di soggetto privo di permesso di soggiorno (v. Cassazione penale, sez. I, 23 marzo 2006 , n. 16210: il fatto che il cittadino extracomunitario sia privo di titolo per il soggiorno in Italia non è sufficiente, di per sé, a rendere prevedibile il suo allontanamento dal territorio nazionale e la sua assenza nel dibattimento; di conseguenza nei casi di impossibilità sopravvenuta di ripetizione è possibile dare lettura in dibattimento delle dichiarazioni dallo stesso rese in sede di indagini preliminari).

Corrobora il principio di diritto sposato da questo Collegio, la recente decisione Cassazione penale, sez. I, 17 marzo 2008 , n. 17212: “sono utilizzabili le dichiarazioni rese, nella fase delle indagini preliminari, da persona divenuta irreperibile, quando l'irreperibilità, pur se volontaria, sia del tutto imprevedibile e non risulti indotta dalla scelta di sottrarsi al dibattimento” (nella specie, è stata ritenuta corretta l'utilizzazione di dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria e al P.M. da cittadina extracomunitaria).

Non va sottaciuto, peraltro, che, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite (Cassazione penale, sez. un., 28 maggio 2003 , n. 36747), ai fini della legittimità della lettura di atti assunti dalla polizia giudiziaria, a norma dell'art. 512 c.p.p., l'irreperibilità sopravvenuta del soggetto che abbia reso dichiarazioni predibattimentali integra un'ipotesi di oggettiva impossibilità di formazione della prova in contraddittorio e di conseguente irripetibilità dell'atto dovuta a fatti o circostanze imprevedibili.

Per le ragioni sin qui illustrate, conclusivamente, il Collegio afferma che l’allontanamento e l’irreperibilità del BK erano assolutamente imprevedibili, circostanza che legittima il ricorso all’art. 512 c.p.p. come è avvenuto nel caso di specie per l’atto di verbale acquisito al fascicolo d’ufficio mediante lettura.


1.2. Nella scelta adottata da questo Collegio, non vi è alcuno strappo al tessuto connettivo dell’art. 111 Cost. e, per esso, dell’art. 526 c.p.p.

Secondo i canoni del Giusto Processo (art. 111, comma III, cost.), la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore (recepito nell’art. 526, comma 1-bis c.p.p.).

Il punto di partenza è il rilievo che caratterizza il divieto sopra trascritto: il dichiarante deve essersi volontariamente sottratto all’interrogatorio. Così non è nel caso di specie. La volontà intenzionale di non farsi interrogare, infatti, non può presumersi o ritenersi implicita nella irreperibilità. L’automatismo in parola è stato escluso (e bocciato) dall’importante arresto nomofilattico Cass. pen., Sez. Un., 28 maggio 2003 , n. 36747: alla irreperibilità sopravvenuta del soggetto che abbia reso dichiarazioni predibattimentali “non può attribuirsi presuntivamente il significato della volontaria scelta di sottrarsi all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore”. La situazione di accertata "irreperibilità" – dunque - non può essere "tout court" equiparata alla volontaria sottrazione all'esame di cui all'art. 526/1bis c.p.p., che presuppone, comunque, la potenziale attuabilità dell'audizione.

Ed, invero, nel caso di specie, la volontà specifica di sottrazione è senz’altro da escludere, se non altro alla luce degli elementi di fatto di cui è si è già dato atto.

Orbene, il problema è, allora, di coordinamento: come si conciliano, cioè, l’exceptio di cui all’art. 512 c.p.p. e la regula juris di cui all’art. 526 c.p.p. La soluzione, invero, è agevole. In un ragionevole equilibrio tra tutela del principio del contraddittorio nella formazione della prova ed esigenza accertativa del processo, è possibile affermare che la regola della partecipazione del difensore dell'indagato/imputato all'assunzione della prova, con la conseguente sanzione di inutilizzabilità soggettiva della prova formatasi senza la partecipazione del difensore del soggetto ad essa interessato, non trova applicazione nei casi di sopravvenuta impossibilità della prova, sempre che tale evento si sia verificato nei crismi della legalità disegnata dall’art. 512 cit.

Ed, allora, la regola contenuta nell'art. 526 c.p.p., comma 1 bis, (introdotto dalla L. 1 marzo 2001, n. 63), subisce un'eccezione nel caso in cui l'utilizzazione delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari trovi il suo fondamento nella legittima applicazione degli artt. 512 e 513 c.p.p., e, specificamente, nell'acclarata irreperibilità sopravvenuta del dichiarante, rigorosamente accertata mediante l'espletamento di accurate ricerche, il giudizio di prognosi postuma della imprevedibilità della irripetibibilità, l'assenza di una volontaria e libera scelta del dichiarante di sottrarsi all'esame in contraddittorio. Tale situazione configura, infatti, un'ipotesi di oggettiva impossibilità di formazione della prova in contraddittorio prevista dall'art. 111 Cost., comma 5 (Cass, Sez. 4^, 10 dicembre 2004, n. 5821, rv. 231303; Cass., Sez. 2^, 18 ottobre 2007, n. 43331, rv. 238198-99; Cass., Sez. 3^, 20 ottobre 2007, n. 41063, rv. 237641).

L’indirizzo è, oggi, jus receptum. Le stesse Sezioni Unite già menzionate, hanno affermato che anche dopo la modifica dell'articolo 111 Cost. con l'introduzione dei principi del c.d. "giusto processo", possono essere lette ed acquisite al fascicolo del dibattimento, ex art. 512 c.p.p., le dichiarazioni rese da un teste nella fase delle indagini, qualora lo stesso, per cause imprevedibili al momento del suo esame, risulti irreperibile, atteso che tale situazione configura una delle ipotesi di oggettiva e concreta impossibilità di formazione della prova in contraddittorio previste dal precetto costituzionale (art. 111/5° Cost.:"la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio... per accertata impossibilità di natura oggettiva ...").

In sostanza, il sistema, pur muovendosi, in coerenza col dettato costituzionale, nella prospettiva di privilegiare la forza confutatrice del confronto tra accusato e accusatore, non trascura di considerare il caso in cui tale confronto diventi oggettivamente impossibile, onde recuperare, in linea con la deroga pure prevista dalla Costituzione (art. 111/5°), il precedente narrativo.


1.3. Va, infine, esaminata l’eccezione di violazione dell’art. 6 della CEDU.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) è stata ratificata dallo Stato italiano con la Legge 4 agosto 1955, n. 848. Ai sensi dell’art. 6, comma III, lett. d) l’imputato ha diritto “ad interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni dei testimoni a carico”.

La norma deve orientare l’interpretazione dei Giudici e costituisce, al contempo, parametro di costituzionalità. Ed, infatti, la Corte costituzionale, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l'altro, che, con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi (cfr. Corte costituzionale, sentenza 39/2008). Va, però, escluso il potere di disapplicazione: le norme CEDU, infatti, vanno distinte dalle norme comunitarie perché, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l'asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi (Corte costituzionale, sentenze 22 ottobre 2007 nn. 348 e 349).

Ed, allora, nell’odierna fattispecie, esclusa la possibilità di disapplicare l’art. 512 c.p.p. deve verificarsi, stando alle censure della difesa, se esso sia o non in contrasto con l’art. 6 della CEDU, verifica che, se affermativa, legittimerebbe il sospetto di incostituzionalità della norma. La verifica richiama, necessariamente, l’interpretazione della norma di riferimento, come data dalla Corte di Strasburgo.

La decisione citata dalla difesa appare, invero, risalente e, comunque, superata dal recentissimo arresto “Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo del 4 novembre 2008”, resa nel caso Demski c/ Polonia. Nell’arresto in esame, il ricorrente (Demski) lamentava la violazione dell’art. 6 della Cedu, in relazione alla condanna emessa nei suo confronti dalle autorità giudiziarie polacche per violenza sessuale ai danni di una minorenne, in quanto il giudizio di colpevolezza era stato fondato sulla prova decisiva costituita dalla testimonianza della parte offesa, acquisita nel corso delle indagini e di cui era stata lettura in dibattimento, perché non reperita. La Corte, nella fattispecie in commento, ha, in effetti, ravvisato la violazione della citata norma ma ha, al contempo, ricordato i principi che devono regolare l’acquisizione della prova dichiarativa “decisiva”: se non è preclusa l’utilizzazione, come prova, di dichiarazioni rese nella fase “pre-trial”, è necessario che i diritti della difesa siano comunque rispettati, fornendo all’imputato “un'occasione sufficiente ed adeguata” per confrontarsi con il testimone che depone contro di lui (v. CEDU: Saïdi v. France, judgment of 20 September 1993, Series A no. 261-C, p. 56, § 43; Kostovski v. the Netherlands, judgment of 20 November 1989, Series A no. 166, p. 20, § 41; and Unterpertinger v. Austria, judgment of 24 November 1986, Series A no. 110, p. 14, § 31). La Corte ha ritenuto che nel caso di specie le autorità giudiziarie, dopo un primo tentativo infruttuoso di notificare la citazione in Polonia, pur sapendo del trasferimento all’estero della testimone, non avessero compiuto alcuno “ragionevole sforzo” per ottenerne la presenza.

Il presupposto violativo della norma è, allora, che l’Autorità Giudiziaria abbia adempiuto a quello sforzo ragionevole che le viene richiesto, sforzo che non può (e non deve) tramutarsi in un obbligo inesigibile, quale, ad es., il superamento dell’impossibilità oggettiva. Si vuol dire, cioè, che l’art. 6 CEDU legittima la lettura delle dichiarazioni rese nella fase pre-processuale (pre-trial) ogni qual volta il giudice abbia fatto tutto quanto in suo potere per reperire il dichiarante e, ciò nonostante, non vi sia riuscito per circostanza a lui non imputabili ed oggettivamente insuperabili.

Nel caso Demski, infatti, le autorità “sapevano” che la dichiarante (poi non comparsa in udienza dibattimentale) si era trasferita all’estero e, dunque, pur potendola reperire, non si erano mobilitate. Esattamente l’opposto di quanto accaduto nell’odierno procedimento.

Ma vi è di più: secondo la Corte la violazione dell’art. 6 cit. presuppone che la condanna si fondi in misura pressoché esclusiva sulle dichiarazioni dl testimone assente (cfr. Corte europea dir. uomo , sez. III, 13 ottobre 2005 , n. 36822); violazione che, dunque, non sussiste quando altre fonti concorrano al giudizio di responsabilità. Orbene, nel caso in esame, fonte primaria e privilegiata è la testimonianza del maresciallo Coppola che viene ad essere convalidata e confortata dalle dichiarazioni della parte offesa.

Non ignora questo Collegio che il caso specifico del teste irreperibile, coadiuvato da dichiarazioni dibattimentali dell’agente verbalizzante, rappresenta, allo stato, un punto di dibattito e discussione tra Corti interne e Corte europea, se non altro all’indomani dell’arreso CEDU del 19 ottobre 2006, n. 62094 con cui si è affermato che la condanna dell'imputato non può essere fondata, esclusivamente o in modo determinante, sulle dichiarazioni rese, durante le indagini preliminari, da soggetti successivamente divenuti irreperibili, e quindi acquisite ai sensi dell'art. 512 c.p.p., anche se ad esse si aggiungono le dichiarazioni "de relato" di un agente di polizia esaminato nel dibattimento.

E, però, si tratta di un obiter dictum da contestualizzare nell’interezza dell’ordito motivazionale e da rileggere attraverso le specificazioni della sentenza CEDU del 4 novembre 2008 così da reperire il giusto bilanciamento che, a parere di questo Collegio, è proprio nello sforzo profuso dall’Autorità Giudiziaria nella ricerca del teste irreperibile. Diverse conclusioni, peraltro, esporrebbero al rischio di un processo sempre assolutorio quante volte la parte offesa sia divenuta, per motivi estranei alla sua presunta volontà di sottrarsi al processo, irreperibile, con vulnus al dovere costituzionale della repressione dei crimini che pure costituisce un baluardo irrinunciabile della Grundnorm italiana.

Conclusivamente, ai sensi dell’art. 512 c.p.p., il verbale di cui si discute va acquisito agli atti come in effetti è avvenuto.


2.Nel merito può essere affermata la responsabilità degli imputati.

Primaria fonte di prova è la testimonianza resa dal maresciallo C all’udienza del 23 gennaio 2009. Il teste ha riferito di avere ricevuto, in data 12 aprile 2005, una informazione confidenziale che rappresentava che un cittadino marocchino (la parte offesa) era stato vittima di atti violenti e vessazioni al fine di estorcere somme di denaro. Da qui la SIT di cui al verbale acquisito ai sensi dell’art. 512 c.p.p.

Il teste è, peraltro, abbastanza puntuale nei riferimenti fattuali: dichiara, su domanda del P.M., che al BK era stato intimato di dare una somma di denaro per una presunta cessione in suo favore di sostanza stupefacente. Riferisce di atti violenti e minacce verbali. In particolare i prevenuti lo avrebbero raggiunto presso il suo domicilio sfondando la porta di ingresso. I rapporti trovano conferma nei tabulati telefonici acquisiti che, effettivamente, registrano uno scambio di telefonate tra la parte offesa ed il M. La stessa polizia ha effettuato riscontri specifici diretti ad accertare la credibilità delle dichiarazioni allora consegnate alla P.A. dal BK. Questo, secondo la deposizione dell’agente, aveva riferito di aver ricevuto una chiamata dal M in data 11 aprile 2005: sul tabulato, la telefonata in parola, risultava puntualmente.

Le dichiarazioni della parte offesa sono, comunque, significative. Va precisato che esse appaiono assolutamente genuine posto che il BK non aveva alcuna intenzione di denunciare il fatto e tenuto conto, altresì, che questo aveva “paura di ritorsioni”, circostanza che lo aveva indotto a non sporgere querela.

Il BK riferisce che gli imputati, insieme, si erano recati presso il suo domicilio (oratorio di S), irrompendo nell’abitazione sfondando una porta. Con tono minaccioso avevano, dunque, dichiarato: “devi darmi i soldi perchè i giorno scorsi ti ho dato un pezzo di fumo; forse non hai capito, devi darmi i soldi, che sono anche di FB; ti do tre o quattro giorni di tempo, poi devo avere i soldi altrimenti ti succede qualcosa di brutto”; “quando chiamano gli amici, devi rispondere. Ti ha pagato G? Vedi che devi avere i soldi”.

La ricostruzione dei fatti è, allora, facilmente ricostruibile.

Gli odierni imputati avevano consegnato al BK, presumibilmente, del “fumo” (sostanza stupefacente). Quale corrispettivo avevano preteso, probabilmente, somme particolarmente esose, sfruttando l’occasione della cessione quale momento per lucrare ai danni del cittadino extracomunitario. Le resistenze di questi, dinnanzi alle richieste, avevano indotto i prevenuti a minacciarlo di un male ingiusto qualora non avesse inteso pagare.

Il BK, tuttavia, non cedeva alle minacce.

Può dirsi integrato, nei fatti, il delitto di estorsione, in forma tentata. Il reato ex art. 629 c.p. punisce chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad ammettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Si tratta di una violenza privata caratterizzata dall'ulteriore evento del conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno, caratterizzata dalla privazione della libertà di autodeterminazione nelle disposizioni patrimoniali del soggetto passivo (Cass. pen., Sez. II, 18/11/2005, n.44319). Il tentativo richiede l'idoneità degli atti che va valutata con giudizio ex ante e tenendo conto di tutte le modalità e circostanze effettive e concrete relative alla fattispecie (Cass. pen., Sez. II, 15/06/2004, n.43209): orbene, nel caso di specie, è indubbio, alla luce delle circostanze, che gli atti furono diretti in modo non equivoco a realizzare l’evento stante la intensa componente offensiva degli elementi oggettivi fattuali costituenti la minaccia intesa ad ottenere il bene oggetto di estorsione (il denaro). Gli imputati si recano dalla parte offesa, prima insieme, irrompendo nella sua abitazione; poi torna il M, tentando, di nuovo, una effrazione stavolta non riuscendovi. L’elemento soggettivo è, peraltro, evidente laddove si valorizzi la esatta componente finalistica delle dichiarazioni oggetto dell’imputazione.

Ricorre l’aggravante di cui all’art. 628, comma III, n. 1 – come richiamata dall’art. 629, comma II, c.p. – poiché i soggetti hanno realizzato la condotta tentata in forma plurisoggettiva partecipando al medesimo disegno criminoso. Il numero di “due” è, all’uopo, sufficiente. Va osservato, infatti, che in tema di estorsione, la ratio dell'aggravante del numero delle persone di cui all'art. 629, 2° comma, c. p., si lega alla obiettiva pericolosità del fatto e alla maggiore efficacia intimidatrice della presenza di più persone, ancorché la violenza o minaccia sia stata posta in essere da una sola persona; ne consegue che - all'infuori di un concorso circoscritto alla fase di preparazione o ideazione del delitto, in cui sarà applicabile, ricorrendone gli estremi, la norma dell'art. 112, n. 1, c. p. (cinque o più persone) - sussiste l'aggravante di cui al 2° comma, art. 629 c. p., anche nel caso di due o più compartecipi (cfr. Cass. pen., 05/06/1987; Cass. pen., 11/02/1983).

Ricorre, altresì, per il M la recidiva contestata.


3. Quanto alla commisurazione della pena, occorre fare applicazione delle regole di cui all’art. 133 c.p. Secondo il prudente apprezzamento del Collegio, vanno riconosciute le circostanze attenuanti generiche considerate equivalenti alla contestata aggravante e, quanto al M, anche alla recidiva.

La pena va determinata nel minimo e ridotta ai sensi dell’art. 56 c.p.

Ne consegue la condanna degli imputati alla pena di anni 2 (due) di reclusione ed euro 300,00 (trecento) di multa ciascuno, oltre al pagamento in solido delle spese processuali.

Il fatto è stato commesso in data anteriore al 2 maggio 2006. Quanto, tuttavia, alla ricorrenza delle condizioni per condonare la pena (art. 1 ed art. 2, lettera a, numero 20 legge 31 luglio 2006 n. 241) si aderisce al prevalente indirizzo giurisprudenziale che rimette la questione al giudice dell’esecuzione.

P.Q.M.

Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p. ,

dichiara M e B colpevoli del reato loro ascritto in rubrica e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche considerate equivalenti alla contestata aggravante e, quanto al M, anche alla recidiva, li condanna alla pena di anni 2 (due) di reclusione ed euro 300,00 (trecento) di multa ciascuno, oltre al pagamento in solido delle spese processuali;

visto l’art. 544 c.p.p.,

indica in giorni 30 il termine per il deposito della motivazione


Lamezia Terme lì 26 gennaio 2009

Il Presidente ed estensore

Dott. GIUSEPPE SPADARO

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