mercoledì 20 giugno 2007

Enti locali, competenti per l'installazioni di antenne


Consiglio di Stato , sez. VI, decisione 03.03.2007 n° 1017



Enti locali – competenza in materia di regolamentazione delle installazioni di antenne – sussistenza [L. 36/2001]

Spetta ai Comuni occuparsi delle zone e beni di particolare pregio paesaggistico/ambientale o storico/artistico ovvero, per ciò che riguarda la minimizzazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici, individuare i siti che per destinazione d’uso e qualità degli utenti possano essere considerati sensibili alle immissioni radioelettriche.


Consiglio di Stato

Sezione VI

Decisione 3 marzo 2007, n. 1017

(Pres. Varrone, Est. Buonvino)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 2183/2006 proposto dalla società AUTOSTRADE PER L’ITALIA s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Grieco presso il quale è elettivamente domiciliata in Roma, via Piemonte 39,

contro

il Comune di AVELLINO, in persona del Sindaco p.t., costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’avv. Alfredo Maggi con il quale è elettivamente domiciliato in Roma, via Pavia 28, presso l’avv. Raffaele Porpora,

e nei confronti

della RIPARTIZIONE AMBIENTE e QUALITÀ, SERVIZIO ENERGIA e TUTELA AMBIENTALE del Comune di AVELLINO, in persona del Dirigente p.t., non costituitosi in giudizio,

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sede di Napoli, Sezione VII, 20 gennaio 2006, n. 756;

visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune appellato;

viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

visti gli atti tutti di causa;

vista l’ordinanza della Sezione 4 aprile 2001, n. 1719;

relatore, alla pubblica udienza del 12 gennaio 2007, il Consigliere Paolo Buonvino;

udito l’avv. Lirosi, per delega dell’avv. Grieco, per l’appellante e l’avv. Maggi per il Comune appellato.

Ritenuto e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue:

FATTO E DIRITTO

1) - Con il ricorso di primo grado è stato chiesto, dall’odierna appellante, l'annullamento della nota prot. n. 17973 del 4 maggio 2004, con cui il Comune di Avellino – Servizio Energia – ha annullato l’autorizzazione rilasciata il 14 gennaio 2004, prot. n. 507595/46836, per la realizzazione di una stazione radio base presso l’area di servizio Irpinia - Autostrada A16 - Km 44+120, carreggiata sud, ordinando la rimozione di tutte le opere realizzate ed il ripristino dell’originario stato dei luoghi; con il ricorso è stato anche chiesto il risarcimento dei danni.

In particolare, l’originaria ricorrente ed odierna appellante, come ricordato dal TAR, aveva predisposto un progetto per la realizzazione di una stazione radio base presso l’area di servizio Irpinia Autostrada A16 Napoli Canosa, al fine di migliorare la qualità dei servizi di sicurezza autostradale, assistenza al traffico e viabilità, soccorso sanitario, assistenza meccanica e informativa all’utenza e che aveva, pertanto, chiesto ed ottenuto, dal Comune qui appellato, l’autorizzazione per la realizzazione della predetta stazione radio base; tuttavia il Comune stesso, successivamente, emetteva l’atto impugnato.

La medesima originaria ricorrente ha impugnato, quindi, tale provvedimento, avendolo ritenuto illegittimo.

Il TAR, respinta l’eccezione, opposta dal Comune, di carenza di legittimazione attiva in capo alla ricorrente, atteso che quest’ultima ha chiesto l’autorizzazione assieme alla TIM e solo per errore materiale del Comune l’autorizzazione in parola è stata rilasciata alla sola TIM, ha ritenuto infondato il primo motivo di ricorso in quanto, nel procedimento in questione, iniziato su richiesta della stessa ricorrente, l’Amministrazione non era obbligata a comunicarne l’avvio ai sensi dell’art. 7 l. n. 241/90.

Ha, poi, ritenuto il provvedimento del Comune correttamente motivato in riferimento alla prescrizione regolamentare (art. 2 del Regolamento comunale per l’installazione dei dispositivi di telecomunicazione fissa, non impugnato dalla ricorrente) in forza della quale non era consentito istallare impianti di telefonia mobile a distanza inferiore a 50 metri rispetto ad un parco giochi per bambini.

I primi giudici hanno, poi, disatteso l’interpretazione proposta dalla ricorrente, secondo cui l’antenna si sarebbe trovata a distanza regolamentare, sia perché il cortile non sarebbe stato una pertinenza dell’asilo nido, sia perché la norma regolamentare prescriveva il rispetto di una distanza minima di 50 metri dal perimetro esterno degli edifici, senza nulla precisare relativamente alle pertinenze; una tale interpretazione, infatti, è apparsa eccessivamente formalistica e tale da vanificare la finalità della norma (garantire una tutela minima per i bambini che frequentano la scuola o l’asilo nido).

Per l’effetto, il TAR ha respinto il ricorso, nonché la connessa domanda risarcitoria.

2) – Per la società appellante la sentenza sarebbe erronea in quanto avrebbe finito per estendere anche alle pertinenze il limite di 50 metri minimi di distanza espressamente fissato, invece, dal citato art. 2 del predetto Regolamento comunale, con riguardo "al perimetro esterno degli edifici" adibiti, tra l’altro, ad asili nido e scuole materne; tale interpretazione della norma sarebbe, invero, del tutto erronea in quanto ne giustificherebbe un’applicazione talmente estensiva da travalicare le intenzioni stesse espresse dalla disciplina regolamentare comunale; se questa avesse voluto comprendere nel predetto limite di distanza anche le pertinenze degli edifici come sopra individuati, lo avrebbe fatto fornendo, in tal senso, una precisa indicazione.

L’interpretazione della norma offerta dal TAR (che aprirebbe la strada ad inevitabili incertezze interpretative sia da parte dell’amministrazione che degli amministrati chiamati ad applicarla) non sarebbe condivisibile, poi, non solo in quanto l’estensione, non prevista dalla norma, alle aree pertinenziali lascerebbe del tutto indeterminata la reale consistenza del limite in parola (le pertinenze potendosi estendere ben oltre il perimetro esterno degli edifici), ma anche in quanto, di fatto, per ciò che specificamente attiene alla presente fattispecie, l’area pertinenziale presa in considerazione farebbe capo al condominio in cui si colloca l’asilo nido e non direttamente a quest’ultimo, donde, comunque, l’erroneità del rilevamento delle distanze operato dal Comune.

Secondo l’appellante il TAR avrebbe, poi, errato anche nel non considerare che la disciplina regolamentare comunale si sarebbe posta in manifesta violazione con i principi comunitari e nazionali disciplinanti la materia, nonché in ordine al riparto di competenze tra Stato, Regioni ed Enti locali, non essendo, in particolare, demandati a questi ultimi compiti inerenti la fissazione dei limiti alle esposizioni elettromagnetiche; e non sarebbe vero, inoltre, che sarebbe mancata, da parte della deducente, l’impugnativa specifica della norma regolamentare di cui si tratta in quanto, contrariamente a quanto rilevato dal TAR, un’impugnativa siffatta sarebbe agevolmente rinvenibile nel ricorso di primo grado.

L’appellante contesta, infine, il rigetto, da parte del TAR, della censura concernente la violazione della disciplina di cui alla legge n. 241/1990; in proposito assume, in particolare, che i primi giudici avrebbero travisato il contenuto stesso della censura in quanto – a parte che non sarebbe vero che si verteva in ordine a procedimento ad iniziativa di parte – essenzialmente sarebbe stata dedotta, in primo grado, una doglianza volta a lamentare il fatto che la brevità dei termini entro i quali la P.A. ha provveduto ad emettere l’ordine di sospensione dei lavori (due soli giorni dopo la comunicazione di avvio del procedimento) avrebbe, di fatto, impedito alla stessa amministrazione di acquisire piena conoscenza dei fatti e degli interessi coinvolti.

3) – Si è costituito in giudizio il Comune di Avellino che insiste per il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza appellata.

Con ordinanza 4 aprile 2001, n. 1719, la Sezione ha respinto l’istanza cautelare di sospensione della sentenza impugnata.

Con memorie conclusionali le parti ribadiscono i rispettivi assunti difensivi.

4) – L’appello (a parte ciò che potrebbe dirsi in merito alla tempestività dell’originario gravame) è infondato nel merito.

Quanto, invero, alla censura volta a contestare la sentenza appellata nella parte in cui ha ritenuto correttamente applicata, nella specie, la predetta disciplina regolamentare, la stessa appare infondata.

La norma regolamentare in questione così recita: "non sono comunque autorizzabili o esercibili gli impianti posti a meno di cinquanta metri, misurati in proiezione orizzontale dal baricentro del sistema di antenne al perimetro esterno di edifici adibiti a: asili nido e scuole materne….".

Ebbene, non solo il riferimento al perimetro esterno anzidetto va rapportato, logicamente, anche a quegli spazi, immediatamente contigui ai detti edifici, in cui viene pure normalmente svolta l’attività propria di detti istituti che, altrimenti, verrebbe svuotata di ogni efficacia di tutela di situazioni particolarmente sensibili propria della norma in esame (della cui legittimità, per i motivi che si diranno, non è qui dato discutere), volta ad escludere che i campi elettromagnetici sprigionati dalle apparecchiature di cui si tratta possano investire in modo costante i giovanissimi che svolgano all’aperto la normale attività ludica, trattandosi di soggetti maggiormente esposti in quanto neppure protetti dalle strutture murarie.

Quanto al fatto che l’area pertinenziale in cui l’attività viene svolta farebbe capo al condominio e non all’istituto educativo in questione, si tratta di circostanza irrilevante, dal momento che ciò che rileva è che l’istituto stesso sia legittimato a svolgere l’attività ludica all’aperto su detta area, ad esso direttamente collegata e da esso direttamente raggiungibile (la stessa perizia tecnica prodotta dall’appellante a supporto dei propri assunti e depositata innanzi al TAR il 21 dicembre 2005 parla, del resto, al riguardo, di "recinzione delimitante la corte a servizio della ludoteca denominata Pianeta Bimbo" confermando pienamente l’esistenza del rapporto pertinenziale diretto anzidetto).

In punto di fatto può anche soggiungersi, infine, stando alla stessa perizia tecnica ora ricordata, che, dallo stralcio aerofotogrammetrico prodotto, in scala 1/4000, è dato desumere non solo che la distanza del contestato manufatto dalla predetta recinzione è (come affermato nella stessa perizia), pari a mt. 24,50, ma anche – tenendo logicamente conto della stessa scala appena indicata - che la distanza del manufatto stesso dall’edificio in cui si colloca la ludoteca di cui si tratta è, comunque, inferiore a mt. 50, dovendosi fare riferimento all’edificio in cui si colloca l’asilo nido o la scuola materna e non alla parte di edificio stesso riservato a tale istituto (parte che, del resto, nella perizia non è neppure puntualmente individuata).

5) – Parimenti infondata è la censura volta a contestare l’affermazione, contenuta nella sentenza appellata, secondo cui non sarebbe stata impugnata la norma regolamentare di cui si discute.

E, invero, nessuna censura è stata svolta, in primo grado, avverso la norma ora citata (solo qui contestata sia con riguardo alla disciplina normativa di settore comunitaria che a quella interna); mentre del tutto irrilevante è il generico richiamo (non seguito, come si ripete, da alcuna puntuale doglianza) fatto, in ricorso, a tutti gli atti e/o provvedimenti presupposti, connessi e consequenziali.

Per completezza può, peraltro, anche rilevarsi, al riguardo, che la potestà assegnata al Comune dall’art. 8, comma sesto, della legge 22 giugno 2001, n. 36, di regolamentare "il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e di minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi radioelettrici" può tradursi, a titolo di esemplificazione, nell’introduzione, sotto il profilo urbanistico, di regole a tutela di zone e beni di particolare pregio paesaggistico/ambientale o storico/artistico ovvero, per ciò che riguarda la minimizzazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici, nell’individuazione – come nella specie - di siti che per destinazione d’uso e qualità degli utenti possano essere considerati sensibili alle immissioni radioelettriche (cfr. tra le altre, la decisione della Sezione 5 giugno 2006, n. 3332).

6) – Da rigettare, infine, è anche l’ultimo motivo d’appello.

È vero che il Comune ha proceduto alla notificazione dell’ordine di sospensione dei lavori solo due giorni dopo la comunicazione di avvio del procedimento; tale determinazione costituisce, però, un provvedimento d’urgenza volto ad impedire la prosecuzione immediata dei lavori e la conseguente eventuale attivazione dell’impianto che – nell’ottica comunale e giusta la locale disciplina regolamentare - si sarebbe posto in contrasto con la citata norma sulle distanze volta a tutelare interessi collettivi particolarmente sensibili; con la conseguenza che correttamente il provvedimento stesso è stato emanato nei predetti tempi brevi; ciò che rileva, peraltro, è che il provvedimento definitivo, con il quale il procedimento – del cui avvio era stata data rituale comunicazione – si è concluso, sia stato emanato nel rispetto della tempistica indicata dalla disciplina sul procedimento invocata dall’interessata; e poiché il provvedimento che ha concluso la procedura in parola (n. 17973/3402 del 4 maggio 2004) è intervenuto oltre un mese e mezzo dopo la comunicazione anzidetta e successivamente all’acquisizione, da parte della P.A., dell’articolato avviso espresso al riguardo dall’interessata medesima, nonché degli accertamenti in loco relativi alle distanze, ne consegue la piena infondatezza della censura in esame.

7) – Per tali motivi l’appello in epigrafe appare infondato e, per l’effetto, deve essere respinto.

Le spese del grado seguono, come di norma, la soccombenza e sono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, Sezione sesta, respinge l’appello in epigrafe.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese del grado che liquida, a favore del Comune di Avellino, nella complessiva somma di € 3.000,00(tremila/00).

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 12 gennaio 2007 con l’intervento dei sigg.ri:

Claudio VARRONE Presidente

Sabino LUCE Consigliere

Paolo BUONVINO Consigliere est.

Domenico CAFINI Consigliere

Aldo SCOLA Consigliere

Presidente

f.to Claudio Varrone

Consigliere

f.to Paolo Buonvino

DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 03/03/2007.

lunedì 18 giugno 2007

Aliud pro alio, veicoli

L’orientamento giurisprudenziale prevalente distingue, infatti, con una certa “manica larga” la consegna di cosa diversa rispetto alla c.d. mancanza di qualità: tra le più recenti pronunce Cass. civ., Sez. II, 31/03/06, n. 7630 (in Obbl. e Contr., 2006, 8-9, 745), secondo la quale “ricorre la ipotesi di cosa radicalmente diversa (aliud pro alio) e non di cosa viziata o mancante delle qualità promesse quando il bene sia totalmente difforme da quello dovuto e tale diversità sia di importanza fondamentale e determinante nella economia del contratto. Tale situazione può verificarsi sia quando la cosa si presenti priva delle caratteristiche funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell'acquirente, sia quando la cosa appartenga ad un genere del tutto diverso”.

Anche Cass. Civ., Sez. II, 16/01/06, n. 686 (in Obbl. e Contr., 2006, 4, 294), ritiene possa parlarsi di aliud pro alio “qualora il bene venduto sia completamente diverso da quello pattuito, in quanto appartenente ad un genere diverso, ed inidoneo a soddisfare l'interesse, non soltanto patrimoniale, dell'acquirente (Fattispecie relativa alla vendita di due affreschi, cui aveva fatto seguito la consegna di due quadri)”.

Una materia in cui si verifica l’applicazione del principio dell’aliud pro alio, è senza dubbio la compravendita di autoveicoli.

Sul punto, Cass. Civ., Sez. II, 30/03/06, n. 7561 (in Resp. civ., 2007, 2, 146 ), rigettando App. Lecce 17.07.2002, ha statuito che costituisce aliud pro alio, la vendita di una autovettura immatricolata con falsa documentazione e recante il numero di telaio contraffatto (in ipotesi al compratore spetta l'azione generale di risoluzione contrattuale per inadempimento, con conseguente rilevanza della colpa ai fini del giudizio di inadempimento).

Ed ancora secondo Cass. Civ., Sez. II, 04/05/05, n. 9227 (in Guida al Diritto, 2005, 24, 82) “in tema di compravendita di autoveicoli, si configura la vendita di aliud pro alio quando i numeri di telaio del veicolo risultino diversi da quelli indicati sulla carta di circolazione”.

Il Tribunale di Nocera Inferiore (sentenza del 27/12/99 In Arch. Giur. Circolaz., 2000, 406) ha ritenuto “sussistente l'ipotesi di vendita di aliud pro alio, e quindi con successo esperibile l'azione generale di risoluzione ex art. 1453 c.c., quando, avuto riguardo allo stato della cosa al momento della conclusione del contratto o della consegna, l'autoveicolo non possa assolvere (nella specie, perchè ormai sprovvisto delle targhe di riconoscimento contenenti i dati di immatricolazione) alla funzione economico-sociale sua propria della circolazione sulle pubbliche vie a causa del difetto di requisiti amministrativi o strutturali di cui per legge debba essere dotato”. Per contro il Tribunale di Roma (sentenza del 30/10/85 In Riv. Giur. Circolaz. e Trasp., 1986, 344) ha ritenuto invece che “poiché, gli autoveicoli si identificano soltanto attraverso il numero del telaio, la cancellazione del numero del motore non impedisce la circolazione del veicolo e, quindi, non incide sulla sua destinazione socio-economica; pertanto, nel caso di compravendita di un'automobile, la consegna all'acquirente del veicolo munito, contrariamente ai patti, di un motore non originale e con il numero di identificazione abraso, si risolve in un'ipotesi di mancanza di qualità promesse e non già, in riferimento della cancellazione di tale numero, della consegna di aliud pro alio”.

Venendo alla sentenza in commento, secondo il Tribunale di Bari (II Sezione Civile, sentenza del 20.03.2007), non costituisce aliud pro alio la consegna di un autoveicolo inidoneo alla circolazione per sola mancanza della prescritta revisione annuale. L’attore aveva convenuto la concessionaria presso la quale aveva acquistato un’auto usata, sostenendo che la stessa era priva della prescritta revisione e chiedeva la declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento.

Secondo il Tribunale di Bari la fattispecie in esame non costituisce aliud pro alio: si verifica, infatti, la consegna di aliud pro alio da parte del venditore, e non semplice consegna di cosa priva delle qualità essenziali, con conseguente diritto del compratore di esperire l'azione generale di adempimento o di risoluzione di cui all'art. 1453 cod. civ., qualora la res tradita si riveli funzionalmente e definitivamente inidonea ad assolvere alla destinazione economico-sociale propria dell'oggetto della compravendita, e, quindi, a soddisfare le esigenze che determinarono il compratore stesso all'acquisto: tale ipotesi va esclusa con riguardo alla consegna di un autoveicolo, inidoneo alla circolazione per sola mancanza della prescritta revisione annuale, ai cui adempimenti amministrativi l'acquirente sia in grado di provvedere.


Compravendita auto, assenza di revisione, aliud pro alio, insussistenza
Tribunale Bari, sez. II civile, sentenza 20.03.2007

Si verifica consegna di aliud pro alio da parte del venditore, e non semplice consegna di cosa priva delle qualità essenziali, con conseguente diritto del compratore di esperire l'azione generale di adempimento o di risoluzione di cui all'art. 1453 cod. civ., qualora la res tradita si riveli funzionalmente e definitivamente inidonea ad assolvere alla destinazione economico-sociale propria dell'oggetto della compravendita, e, quindi, a soddisfare le esigenze che determinarono il compratore stesso all'acquisto: tale ipotesi va esclusa con riguardo alla consegna di un autoveicolo, corrispondente a quello compravenduto, ma inidoneo alla circolazione per sola mancanza della prescritta revisione annuale, ai cui adempimenti amministrativi l'acquirente sia in grado di provvedere.


Tribunale di Bari

Sezione II Civile

Sentenza 20 marzo 2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI BARI

SEZIONE SECONDA CIVILE

La Seconda Sezione Civile del Tribunale di Bari, in persona del dott. Enrico SCODITTI giudice istruttore in funzione di giudice unico,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta sul ruolo generale affari contenziosi sotto il numero d'ordine 10980 dell'anno 2004

TRA

G.A., elettivamente domiciliato in Bari presso lo studio dell'avv. G.R. che lo rappresenta e difende

ATTORE

CONTRO

A. s.r.l., elettivamente domiciliato in Bari presso lo studio dell'avv. V.R. e rappresentato e difeso dall'avv. L.P.

CONVENUTO

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data 21/10/2004 G.A. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Bari A. s.r.l. Esponeva l'attore di avere in data xxx acquistato presso la concessionaria convenuta autoveicolo usato "Volvo V70 SW tg xxx per il prezzo di Euro 11.500,00 e che in data 7/5/2004 l'autoveicolo era stato consegnato privo della prescritta revisione (nonostante l'addetto alle vendite avesse dichiarato la sua esistenza). Aggiungeva che dopo circa dieci giorni dal ritiro del veicolo si presentavano inconvenienti tecnici rappresentati dalla accensione di una spia, indicante cattivo funzionamento del motore, e dalla presenza di gas di scarico nell'abitacolo e che, a seguito della denuncia del vizio, l'officina meccanica della concessionaria aveva provveduto alla sostituzione di una valvola particolare. Adduceva che dopo qualche giorno dal ritiro si erano ripresentati gli stessi inconvenienti, con nuovo intervento della concessionaria, e che, ripresentatosi dopo 3-5 giorni gli stessi problemi tecnici, doveva essere concordato nuovo appuntamento. Deduceva che nell'attesa del detto appuntamento in data 15/6/2004, a seguito di accertamento dei carabinieri, era stata applicata la sanzione amministrativa di Euro 137,55 per l'omessa revisione del veicolo e che in data 16/6/2004 il G. aveva chiesto la risoluzione del contratto con la restituzione del prezzo. Aggiungeva che in data xxx la concessionaria aveva comunicato la propria disponibilità a procedere alla revisione e "a quant'altro occorrente" e che, consegnata l'autovettura, in data xxx la medesima concessionaria aveva comunicato l'avvenuta revisione del mezzo. Chiedeva quindi declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento, con condanna alla restituzione del corrispettivo versato, oltre interessi, ed il risarcimento del danno ai sensi dell'art. 1494 c.c.

Si costituiva la parte convenuta eccependo la non ricorrenza dei presupposti per l'applicazione della disciplina di cui all'art. 1519 bis c.c. sgg. e chiedendo il rigetto della domanda.

Trattato il merito, la causa passava in decisione sulle conclusioni in epigrafe.

Motivi della decisione

La domanda va rigettata.

Preliminarmente deve chiarirsi che la norma di cui all'art. 1519 nonies c.c. (ora art. 135 d.lgs. n. 229/2003), secondo la quale le disposizioni sulla vendita dei beni di consumo, applicabili anche ai beni di consumo usati, non escludono né limitano i diritti che sono attribuiti al consumatore da altre norme dell'ordinamento giuridico, è relativa alla disciplina consumeristica, e non a quella generale sulla vendita, per l'espresso richiamo all'operatività, nonostante l'applicazione della disciplina in discorso, alla disciplina sui diritti del consumatore. La norma costituisce dunque clausola di salvaguardia non della disciplina generale della vendita, ma della normativa, che il legislatore ha di recente concentrato nel d.lgs. n. 229/2003, a tutela del consumatore.

Tant'è che l'art. 135, secondo comma, d.lgs. n. 229/2003 prevede che le disposizioni del codice civile in tema di contratto di vendita trovano applicazione per quanto non previsto dalle disposizioni sulla vendita di consumo (e dunque non in aggiunta ad essa). La disciplina generale sulla vendita ha dunque funzione integrativa della tutela prevista dalla disciplina speciale, e non si cumula ad essa. Il rimedio risolutorio esperito deve quindi essere, qualificato ai sensi della disciplina sulla vendita dei beni di consumo.

I vizi allegati sono la mancanza della prescritta revisione e l'esistenza degli inconvenienti tecnici rappresentati dalla accensione di una spia, indicante cattivo funzionamento del motore, e dalla presenza di gas di scarico nell'abitacolo. Soffermandosi innanzitutto sul profilo della revisione, che appare quello di maggiore rilievo secondo la prospettazione di parte attrice, posto che la richiesta di risoluzione è stata trasmessa alla controparte dopo l'applicazione della sanzione amministrativa, va preliminarmente evidenziato che secondo la giurisprudenza la fattispecie in esame non costituisce aliud pro alio. Si verifica infatti secondo la giurisprudenza consegna di aliud pro alio da parte del venditore, e non semplice consegna di cosa priva delle qualità essenziali, con conseguente diritto del compratore di esperire l'azione generale di adempimento o di risoluzione di cui all'art. 1453 cod. civ., qualora la res tradita si riveli funzionalmente e definitivamente inidonea ad assolvere alla destinazione economico-sociale propria dell'oggetto della compravendita, e, quindi, a soddisfare le esigenze che determinarono il compratore stesso all'acquisto: tale ipotesi va esclusa con riguardo alla consegna di un autoveicolo, corrispondente a quello compravenduto, ma inidoneo alla circolazione per sola mancanza della prescritta revisione annuale, ai cui adempimenti amministrativi l'acquirente sia in grado di provvedere (Cass. 5/2/1980 n. 831). Sotto il profilo della disciplina consumeristica, non ricorrono i presupposti della risoluzione del contratto. La riparazione, nella specie l'adempimento amministrativo della revisione, non è impossibile o eccessivamente onerosa e risulta che allorquando l'acquirente ha denunciato al venditore la circostanza della mancanza della revisione, il venditore ha provveduto all'adempimento amministrativo, non appena l'autovettura gli è stata consegnata.

Risulta in secondo luogo allegata l'esistenza degli inconvenienti tecnici rappresentati dalla accensione di una spia, indicante cattivo funzionamento del motore, e dalla presenza di gas di scarico nell'abitacolo. L'attore non ha allegato, né risulta altrimenti dagli atti, che la riparazione o sostituzione sono impossibili o eccessivamente onerose. Risulta invece allegato che il venditore ha provveduto all'intervento sostitutivo di una valvola, benché il problema sia rimasto. Ma anche a questo proposito l'attore allega che si sarebbe provveduto a nuovo intervento tecnico, al quale poi il medesimo attore si è opposto dopo che era stata irrogata la sanzione amministrativa per l'omessa revisione. Al nuovo intervento riparativo nel corso del rapporto non si è acceduto dunque esclusivamente a causa dell'accertamento della violazione amministrativa, non per oggettiva impossibilità dell'intervento medesimo. Stante l'inidoneità, per quanto sopra osservato, della carenza di revisione nel caso di specie ad integrare il presupposto della risoluzione, non può il compratore chiedere la risoluzione, laddove sia ancora oggettivamente possibile intervenire nuovamente sul veicolo, solo perché nel frattempo è intervenuto l'accertamento di violazione amministrativa (imputabile peraltro allo stesso acquirente, che aveva circolato in assenza di revisione, potendo egli stesso provvedere al relativo adempimento amministrativo). Quanto poi alle conseguenze della riparazione effettuata che non ha sortito esito positivo, l'attore non ha allegato specifiche circostanze da cui desumere l'esistenza di notevoli inconvenienti. Ha infatti allegato infatti un generico disagio (solo in sede di deduzioni istruttorie, e dunque tardivamente, ha allegato circostanze più precise riferite al contesto familiare e lavorativo).

Benché non ricorrano i presupposti di fatto della risoluzione contrattuale, la vicenda presenta aspetti peculiari, in relazione a taluni disagi comunque subiti dall'attore. Ricorrono per tale ragione giusti motivi per la compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale di Bari, seconda sezione civile, disattesa ogni diversa istanza, eccezione o deduzione, definitivamente decidendo sulla domanda proposta da G. A. con atto di citazione notificato in data 21/10/2004 nei confronti di A. s.r.l., così provvede:

1) rigetta la domanda;

2) dispone la compensazione delle spese processuali.

Così deciso in Bari l'11 marzo 2007.

Depositata in Cancelleria il 20 marzo 2007.

martedì 12 giugno 2007

Disoccupato, risarcimento danno patrimoniale


Il danno patrimoniale risarcibile da riduzione della capacita’ di guadagno puo’ essere legittimamente riconosciuto anche a favore di persona che, subita una lesione, si trovi al momento del sinistro senza una occupazione lavorativa e, percio’, senza reddito, in quanto, in tema di risarcimento del danno alla persona, la mancanza di un reddito all’epoca dell’infortunio puo’ escludere il danno da invalidita’ temporanea, ma non anche il danno futuro collegato alla invalidita’ permanente che, proiettandosi per il futuro, verra’ ad incidere sulla capacita’ di guadagno della vittima, al momento in cui questa iniziera’ un’attivita’ remunerata.

Questo danno si ricollega con ragionevole certezza alla riduzione delle capacita’ lavorative specifiche conseguenti alla grave menomazione cagionata dalla lesione patita e va liquidato in aggiunta rispetto a quello del danno biologico riguardante il bene della salute.

Il danno in questione puo’ anche liquidarsi in via equitativa tenuto conto dell’eta’ della vittima stessa, del suo ambiente sociale della sua vita di relazione (cfr. Cass. Civ., sez. III, 15/4/1996, n. 3539, rv. 497042).


Cassazione, sez. lavoro, sentenza 30.11.2005, n. 26081

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LA SEZIONE LAVORO

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato l’8 e il 15/2/1996, D. S. e D. V. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la ... s.p.a., ... e M. M.G. per sentirle condannare al risarcimento dei danni, che assumevano di aver subito a causa dello scontro tra il ciclomotore Aprilia tg. (omissis) (di proprieta’ di D. V. e condotto da D. S.) e l’auto Volkswagen Golf tg. (omissis) (di proprieta’ della conducente M.), verificatosi in Mentana (Roma), via A. Moscatelli, alle ore 19,15 circa del 6/7/1995 in conseguenza del comportamento tenuto dalla stessa M. che, uscendo da un passo carrabile, si era improvvisamente immessa nella via Moscatelli, percorsa dal ciclomotore che proveniva da sinistra.

Gli attori esponevano che a causa del sinistro il conducente del ciclomotore aveva riportato gravi lesioni personali, con postumi permanenti, mentre il ciclomotore era rimasto seriamente danneggiato.

Le convenute si costituivano, chiedendo un’equa liquidazione dei danni subiti dagli attori.

All’esito dell’istruttoria, nel cui corso veniva espletata una consulenza tecnica, il Tribunale, con sentenza depositata in data 1/8/1998, dichiarata la M. esclusiva responsabile del sinistro de quo, la condannava in solido con la soc. ... a pagare a D. S. la somma (ulteriore a quanto dallo stesso gia’ ricevuto nelle more del giudizio) di £ 20.902.000 con gli interessi legali dal disposto della sentenza al saldo, e a D. V. la somma di £ 2.413.000, con gli interessi legali come innanzi liquidati, compensando per 2/3 le spese del giudizio e condannando le convenute in solido a rifondere agli attori dette spese nei limiti di 1/3 del totale.

Avverso tale sentenza proponevano appello entrambi i D., lamentando il mancato riconoscimento di voci di danno specificamente richieste nelle conclusioni,nonche’ l’immotivata riduzione delle spese di lite nonostante l’accoglimento della domanda al 100%, mentre le appellate, oltre a sostenere l’infondatezza dell’appello,proponevano appello incidentale.

La corte di Appello di Roma,con sentenza depositata il 20/12/2001, rigettava entrambi gli appelli, compensando per intero tra le parti le spese del grado.

Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i D., adducendo due motivi, ai quali resiste con controricorso la sola soc. ..., la quale ha anche depositato memoria, mentre l’intimata M. non ha svolto alcuna attivita’ difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

In primo luogo, va dichiarata l’inammissibilita’ del ricorso proposto da D. V.

Ed invero, come risulta chiaramente dalla lettura della sentenza gravata (v., in particolare, quanto esposto a pag. 6), la Corte di merito ha dichiarato la nullita’ dell’appello da quello proposto ai sensi degli artt. 342 primo comma, 163 e 164 c.p.c., rilevando l’indeterminatezza dell’atto di appello che ha comportato l’impossibilita’ di individuare sia il petitum formulato che le ragioni della richiesta, mentre su questo punto della decisione non si riscontra alcuna censura da parte del ricorrente, il cui gravame investe infatti, come si avra’ modo di verificare in prosieguo, tutt’altri punti o capi della sentenza impugnata.

Quanto, invece, al ricorso proposto da D. S., rileva il Collegio che il primo motivo, che denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nonche’ violazione e falsa applicazione degli artt. 32 Cost., 1223, 2043, 2056, 2059in tema di risarcimento danni alla persona , e’ fondato.

Giustamente, infatti, il ricorrente lamenta il mancato accoglimento del motivo di appello riguardante il diniego di qualsiasi suo diritto al risarcimento per il danno patito di natura patrimoniale in conseguenza dei postumi permanenti delle lesioni dal medesimo subite, invalidanti nella misura del 25% secondo le valutazioni del CTU: mancato riconoscimento giustificato dai giudici di appello con la mancata prova, da parte di D. S., dell’avvenuta diminuzione della sua capacita’ lavorativa e, quindi, del suo reddito.

Ed invero, un danno patrimoniale risarcibile da riduzione della capacita’ di guadagno puo’ essere legittimamente riconosciuto anche a favore di persona che, subita una lesione, si trovi al momento del sinistro senza una occupazione lavorativa e, percio’, senza reddito, in quanto, in tema di risarcimento del danno alla persona, la mancanza di un reddito all’epoca dell’infortunio puo’ escludere il danno da invalidita’ temporanea, ma non anche il danno futuro collegato alla invalidita’ permanente che, proiettandosi per il futuro, verra’ ad incidere sulla capacita’ di guadagno della vittima, al momento in cui questa iniziera’ un’attivita’ remunerata.

Questo danno si ricollega con ragionevole certezza alla riduzione delle capacita’ lavorative specifiche conseguenti alla grave menomazione cagionata dalla lesione patita e va liquidato in aggiunta rispetto a quello del danno biologico riguardante il bene della salute.

Il danno in questione puo’ anche liquidarsi in via equitativa tenuto conto dell’eta’ della vittima stessa, del suo ambiente sociale della sua vita di relazione (cfr. Cass. Civ., sez. III, 15/4/1996, n. 3539, rv. 497042).

Nel caso di specie, invece, la Corte di Appello ha omesso di valutare, con adeguata motivazione, in quale misura le accertate menomazioni subite da D. S., con postumi permanenti invalidanti al 25%, abbiano inciso negativamente sull’effettiva capacita’ di svolgimento dell’attivita’ lavorativa specifica del medesimo, conforme cioe’ alle sue aspettative ed attitudini, oltre che alle sue condizioni personali e sociali.

Non solo, ma la stessa Corte di appello, laddove ha ritenuto l’assoluto difetto di prova, da parte del D., relativamente al danno patrimoniale da invalidita’ permanente, ha comunque omesso altresi’ ogni valutazione circa la rilevanza da attribuire in subiecta materia alla prova per presunzioni semplici, tenendo presente il principio che ai fini di tale prova non occorre che tra il fatto da provare (nel caso di specie, la riduzione della capacita’ lavorativa specifica e, quindi, di guadagno, del ricorrente) sia desumibile dal fatto noto (l’invalidita’ permanente al 25%) come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalita’ (cfr. Cass. civ., sez. II, 10/4/1996, n. 3302, rv. 496893).

L’impugnata sentenza va, percio’, cassata in relazione al primo motivo accolto; e la causa va rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Roma, che dovra’ attendersi nella sua decisione ai su enunciati principi (sub n. 3).

Dato l’accoglimento del motivo suddetto ed i conseguenti provvedimenti ex art. 383 c.p.c., deve ritenersi assorbito il secondo motivo di gravame, con cui si erano denunciate la violazione dell’art. 91 c.p.c. e l’insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla disposta compensazione nella misura dei 2/3 delle spese del giudizio di appello.

Concorrono giusti motivi per la compensazione tra tutte le parti delle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto da D. V.; accoglie il primo motivo del ricorso di D. S., assorbito il secondo; cassa e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Roma; dichiara compensate le spese di questo grado del giudizio tra tutte le parti.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2005.

Depositata in Cancelleria il 30 novembre 2005.


Nonni, danno morale per i nipoti

La morte dei nonni causata da un fatto illecito comporta l'obbligo di risarcire il danno ai nipoti. La morte di un congiunto, conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili, perché la perdita di affetti e di solidarietà inerenti alla famiglia come società naturale. Risulta quindi evidente, da siffatta impostazione, che il danno in questione, incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell'atto illecito e i superstiti, non è riconoscibile se non attraverso elementi indiziari e presuntivi, che, opportunamente valutati, con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del giudice.

Corte di Cassazione, III Sez. Civ., sentenza n.15019/2005

Svolgimento del processo

A seguito di incidente stradale, cagionato da L. M., alla guida di una autovettura di proprietà di M. C. ed assicurata presso la soc. (Omissis), decedeva G. A. e i suoi nipoti , discendenti in secondo grado, tali B. S., B. A., B. F., G. A., G. D., P. C., B. A. e P. Nello adivano il Giudice di pace di Lucca per ottenere la condanna del M., della L. e della soc. (Omissis) al risarcimento dei danni da loro rispettivamente subiti per la morte del nonno.

Il Giudice di pace, con sentenza 20 febbraio 1997, accoglieva la domanda, che era, invece, rigettata dal Tribunale di Lucca, con sentenza 4 maggio 2001, pronunciata su appello della soc. (Omissis). Il Tribunale riteneva infatti che non fosse stata data prova di grave turbamento degli appellati in conseguenza dell'evento dannoso.

Avverso tale sentenza B. S. e gli altri nipoti del G. propongono ricorso per cassazione con due mezzi di gravame. Gli intimati non svolgono difese.

Motivi della decisione

Il Tribunale ha osservato che il Giudice di pace ha erroneamente fondato la sua decisione unicamente sulle dichiarazioni rese dalle parti in risposta a libero interrogatorio e, pertanto, non su prove in senso tecnico, ma su elementi che non costituiscono neppure indizi sui quali fondare la prova per presunzioni; che l'unico teste escusso ha riferito di normali rapporti tra nonno e nipoti, cosicché non è dimostrato il grave turbamento degli allora appellati, per difetto di prova, e non potendosi trarre argomento di decisione dal solo rapporto di parentela. Ha ancora rilevato, contro l'accoglimento della domanda, doversi tener conto dell'età della vittima e della mancanza di convivenza tra questa e i nipoti.

Con il primo mezzo di gravame i ricorrenti lamentano il vizio di omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, osservano che il giudice a quo ha omesso di valutare pienamente la deposizione resa dal teste G., dalla quale risultava la vicinanza psicologica e gli stretti rapporti tra nonno e nipoti. Riportano nel ricorso tale deposizione con la quale la G. ebbe a riferire di rapporti improntati a vicendevole affetto, e di scambio di frequenti visite e di regali, precisando altresì che il defunto G. era solito andare a caccia con i nipoti. Censurano altresì l'assunto del Tribunale, secondo cui il giudice di prima istanza avrebbe fondato la sua decisione unicamente sulle risultanze del libero interrogatorio degli attori e non su prove in senso tecnico.

Affermano che tale motivazione è palesemente errata, giacché consolidata giurisprudenza attribuisce valore probatorio alle dichiarazioni così raccolte nel processo, specie quando questo si svolge avanti al giudice di pace. Con il secondo mezzo di gravame, i ricorrenti lamentano violazione di legge per erronea e restrittiva applicazione della normativa in tema di risarcimento del dannoda illecito aquiliano, avendo il giudice a quo tenuto conto soltanto della mancanza del requisito della convivenza.

Le due censura, da esaminare congiuntamente perché strettamente connesse, meritano accoglimento.

Come affermato da Cassazione, terza, 16716/03, la morte di un congiunto, conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili, perché la perdita di affetti e di solidarietà inerenti alla famiglia come società naturale. Risulta quindi evidente, da siffatta impostazione, che il danno in questione, incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell'atto illecito e i superstiti, non è riconoscibile se non attraverso elementi indiziari e presuntivi, che, opportunamente valutati, con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del giudice. Cosicché appare illogica, perché contraria a principi di ordinaria razionalità, la pretesa, avanzata dal giudice a quo, circa la necessità di "una prova in senso tecnico" a dimostrazione del dolore dei superstiti, che, essendo sostanzialmente un sentimento, e, comunque, un danno di portata spirituale, può essere rilevato soltanto in maniera indiretta. L'assunto del Tribunale, secondo cui le dichiarazioni rese dalle parti in risposta al libero interrogatorio non costituiscono neanche indizi su cui fondare la prova per presunzioni, costituisce erronea interpretazione dell'articolo 117 c.p.c. Infatti, secondo Cassazione, terza, 15849/01, "le dichiarazioni rese dalla parte nell'interrogatorio libero di cui all'articolo 117 c.p.c., pur non essendo un mezzo di prova, possono essere fonte, anche unica, del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione, non censurabile in sede di legittimità, se congruamente e ragionevolmente motivata, della loro concludenza e attendibilità (conformi, Cassazione, seconda, 7002/00; Cassazione, prima. 10497/98; Cassazione, seconda, 7644/94). Così il giudice a quo avrebbe dovuto esaminare tali dichiarazioni, sulle quali era fondata in tutto o in parte la decisione di primo grado, e dare conto delle sue valutazioni su di esse, anziché definirle, sbrigativamente ed erroneamente, come irrilevanti. La sentenza impugnata presenta, pertanto, sotto tale profilo, anche il vizio di omessa motivazione. Ma, oltre agli elementi desumibili dall'esito dell'interrogatorio libero, era a disposizione del Tribunale anche la deposizione della Gisuti, riportata nel ricorso, come in precedenza precisato.

Detta deposizione è stata ritenuta in conferente dal giudice del gravame con l'assunto secondo cui il teste "ha riferito di normali rapporti tra nonni e nipoti".

Tale affermazione contrasta con criteri di ragionevolezza e di comune esperienza. Proprio la sussistenza di normali rapporti, specie in assenza di coabitazione, lascia intendere come sia rimasto intatto, e come si sia forse rafforzato nel tempo, il legame affettivo e parentale tra prossimi congiunti. Legame che, in presenza di tali rapporti, è costruito non soltanto sul ricordo del passato, ma anche sulla base affettiva nutrita dalla frequentazione in atto e dalla consapevolezza della presenza in vita di una persona cara, che è anche un punto di riferimento esistenziale. Sostenere il contrario significa pretendere, contro normale ragionevolezza, ed anche in presenza di un vincolo più stretto, come tra genitori e figli, che il dolore per la morte del congiunto debba essere dimostrato dalla presenza di rapporti di natura ed intensità eccezionali e, come tali, difformi dal vissuto comune. Né l'assenza di coabitazione può essere considerata elemento decisivo di valutazione sotto il profilo che interessa la presente causa, quando si consideri che tale assenza sia imputabile a circostanze di vita che non escludono il permanere dei vincoli affettivi e la vicinanza psicologica con il congiunto deceduto. Anche sotto tale profilo la motivazione appare illogica ed insufficiente. E' pertanto necessario un nuovo e completo esame della fattispecie con valutazione che si attenga ai principi dettati dalla interpretazione delle norme ad essa applicabili.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso; cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Pisa.

Depositata in Cancelleria il 15 luglio 2005.

lunedì 11 giugno 2007

Graduatoria concorsuale, giurisdizione ago in materia di scorrimento

Cassazione civile , SS.UU., sentenza 14.05.2007 n° 10940

Le Sezioni Unite riprendono il principio che, in tema di impiego pubblico privatizzato, ai sensi dell’art. 68 del D.Lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 29 del D.Lgs. n. 80 del 1998 (rectius art. 63 del D.Lgs. n. 165 del 2001), sono attribuite alla giurisdizione del G.O. tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, mentre la riserva in via residuale della giurisdizione amministrativa, contenuta ex art. 63, comma 4, concerne esclusivamente le procedure concorsuali, strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A., che si sviluppano fino alla approvazione della graduatoria ma non riguardano il successivo atto di nomina e neppure quello relativo alla delibera di ulteriori assunzioni mediante la procedura di scorrimento della graduatoria .

Riportando le parole della Suprema Corte: "Non ha quindi rilievo che la selezione attenesse al passaggio ad area diversa e superiore rispetto a quella posseduta, giacché non era in questione la regolarità della procedura concorsuale…..".


- giurisdizione del giudice ordinario per tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro;-

- giurisdizione amministrativa esclusivamente per le procedure concorsuali, strumentali alla costituzione del rapporto con la pubblica amministrazione, che si sviluppano fin alla approvazione della graduatoria, ma non riguardano il successivo atto di nomina, e neppure quello relativo alla delibera di ulteriori assunzioni mediante la procedura di scorrimento della graduatoria. (
1)

(1) Sul tema del riparto di giurisdizione in tema di concorsi interni, si veda Cass. SS.UU. 5079/2007.


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 14 maggio 2007, n. 10940

(omissis)

FATTO

Con la sentenza in epigrafe indicata, il Consiglio di Stato, accoglieva l'appello proposto dal dott. C.G. avverso la sentenza del Tar Campania Napoli n. 1328 del 2003, che aveva dichiarato inammissibile - per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo - il ricorso volto all'annullamento della nota n. (omissis) del 13 luglio 2001 del Ministero dell'Economia e Finanze, con cui era stata respinta l'istanza presentata dal medesimo Dr. C. volta ad ottenere dalla Amministrazione - previo scorrimento della graduatoria del concorso di primo dirigente del ruolo amministrativo del Ministero delle Finanze - l'immissione nelle funzioni di primo dirigente, tramite collocazione nella sezione 1/F. Il Consiglio di Stato dichiarava di dovere fare applicazione del principio per cui rientrano nella nozione di concorso, non solo le procedure strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche le prove selettive che consentono il passaggio del pubblico dipendente da un'area all'altra, di talchè la controversia, che atteneva alla procedura di accesso alla qualifica dirigenziale, e cioè ad area diversa e superiore a quella di appartenenza dell'interessato, rientrava nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Avverso detta sentenza il Ministero dell'Economia e Finanze propone ricorso per difetto di giurisdizione.

Il Dr. C. è rimasto intimato.

DIRITTO

Sostiene il Ministero ricorrente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, attenendo l'oggetto della controversia, non già alla procedura concorsuale esperita e conclusa con la pubblicazione della graduatoria, ma all'esercizio di un atto di gestione del rapporto successivo, come lo scorrimento della graduatoria che si era già regolarmente formata.

Il ricorso merita accoglimento, dovendosi dichiarare la giurisdizione del giudice ordinario.

Ed infatti, come è stato più volte affermato, in tema di impiego pubblico privatizzato, ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 68 come sostituito del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 29, (oggi D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63), sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, mentre la riserva in via residuale della giurisdizione amministrativa, contenuta nel citato art. 63, comma 4, concerne esclusivamente le procedure concorsuali, strumentali alla costituzione del rapporto con la pubblica amministrazione, che si sviluppano fin alla approvazione della graduatoria, ma non riguardano il successivo atto di nomina, e neppure quello relativo alla delibera di ulteriori assunzioni mediante la procedura di scorrimento della graduatoria (cfr. tra le tante Cass. n. 20107 del 18 ottobre 2005).

Non ha quindi rilievo che la selezione attenesse al passaggio ad area diversa e superiore rispetto a quella posseduta, giacchè non era in questione la regolarità della procedura concorsuale, che veniva anzi assunta come presupposto per la domanda, che era intesa ad essere inserito tra i chiamati alla posizione superiore, proprio di forza della graduatoria che si era formata, invocando la regola dello "scorrimento" per l'attribuzione della qualifica a partecipanti risultati idonei e non vincitori. In definitiva va affermata la giurisdizione del giudice ordinario ed il ricorso va accolto.

Le spese del giudizio vengono compensate tra le parti.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario. Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Così deciso in Roma il 3 aprile 2007.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2007.

sabato 9 giugno 2007

Dipendente, addebito e sanzioni disciplinari

Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 10.05.2007 n° 10668

Lavoro dipendente – sanzioni disciplinari – addebito – necessaria immediatezza – sussistenza

La contestazione degli addebiti disciplinari deve essere tempestiva.



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 10 maggio 2007, n. 10668

(Presidente Ciciretti – Relatore Picone)

Ritenuto in fatto

La Corte di appello di Napoli, con la sentenza sopra specificata, ha confermato, giudicando infondata l'impugnazione di A. P., la decisione del Tribunale di Avellino in data 2.1.2003, di rigetto della domanda proposta con ricorso del 28.11.2000 contro l'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Campania - per l'annullamento del licenziamento intimatogli per motivi disciplinari il 27.7.2000 e l'emanazione delle statuizioni conseguenziali.

La Corte di Napoli, sul tema della tempestività della contestazione disciplinare a dipendente sospeso cautelarmene dal servizio dal 6.12.1993 e riammesso il 2.12.1998 per scadenza dei termine, ha ritenuto applicabili le disposizioni dell'art. 55 d.lgs. n. 165/2001 e dell'art. 24 c.c.n.l. comparto Ministeri del 1995, interpretando la disposizione contrattuale nel senso che il temine di 20 giorni per la contestazione indica un mero parametro di valutazione della tempestività; ha, quindi, affermato che, con riguardo al caso concreto (sentenza di primo grado di condanna per il reato di cui all'art. 319 c.p. e sentenza di appello in data 5.7.1999, pronunciata in sede di richiesta di applicazione della pena ex art. 444 c.p.c., di non doversi procedere per prescrizione, comunicata all'amministrazione il 23.2.2000), l'avvio dei procedimento disciplinare con la contestazione datata 29.5.2000 e notificata il successivo 12 giugno, doveva considerarsi tempestiva; ha, infine affermato che il fatto addebitato risultava provato dalle acquisizioni probatorie del procedimento penale (in particolare, dichiarazioni dello stesso dipendente) e di gravità tale (percezione di somme di danaro per compiere atti contrari ai doveri di ufficio) da giustificare il licenziamento.

La cassazione della sentenza è domandata da A. P. con ricorso sostanzialmente articolato in tre motivi, al quale resiste con controricorso l'amministrazione.

Considerato in diritto

Il ricorso censura la sentenza impugnata, in primo luogo, per violazione e falsa applicazione dell'art. 24, comma secondo, del contratto collettivo nazionale di lavoro comparto Ministeri 16.5.1995 e dell'art. 59 d.lgs. n. 29/1993, nonché per vizio della motivazione, in relazione alla ritenuta tempestività della contestazione. Si sostiene la natura perentoria del termine contrattuale di 20 giorni, previsto al fine di specificare il principio legale della tempestività, e, in ogni caso, il mancato assolvimento, da parte dell'amministrazione, dell'onere di provare i fatti e le attività svolte secondo il parametro della tempestività (possesso degli atti dei procedimento penale; valutazioni necessarie, ecc.).

Le riferite censure alla sentenza impugnata non possono trovare accoglimento perché la decisione è conforme al diritto, ancorché la motivazione debba essere in parte corretta (art. 384, comma secondo, c.p.c.).

Si premette che la giurisprudenza della Corte ha enunciato il principio di diritto secondo il quale, nell'assetto privatistico-contrattualistico del rapporto d’impiego dei dipendenti da pubbliche amministrazioni, la natura dei termini contrattualmente previsti per lo svolgimento del procedimento disciplinare deve essere definita con riguardo allo scopo che essi perseguono nella prospettiva di un'inderogabile garanzia di sollecita conclusione, con la conseguenza che il carattere della perentorietà non è generalmente rinvenibile in tutti i termini volti a cadenzarne l'andamento (quali quello per la segnalazione dell'ufficio, per la contestazione degli addebiti e la relativa comunicazione all'interessato), ma deve essere riconosciuto solo a quello stabilito per l'adozione del provvedimento finale; nondimeno, la non perentorietà del termine di venti giorni tra conoscenza del fatto e contestazione dell'addebito incide pur sempre sulla necessaria immediatezza della contestazione rispetto al momento della conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro, sul quale grava, di

conseguenza, l'onere di dimostrare la tempestività della contestazione e, eventualmente, l'esistenza di uno specifico impedimento a giustificazione del ritardo (Cass. 13 aprile 2005, n. 7601).

Il richiamato principio di diritto, che non consente di condividere la tesi della natura perentoria del termine di 20 giorni, non è, però, pertinente alla fattispecie, in presenza di ragioni giuridiche che conducono ad escludere proprio l'applicabilità della disposizione contrattuale in esame, con assorbimento della tesi subordinata, secondo cui le ragioni del mancato rispetto del termine di 20 giorni avrebbero dovuto essere allegate e provate dall'amministrazione.

Invero, la giurisprudenza della Corte (Cass. 28 settembre 2006, n. 21032) si è già pronunciata con riguardo a fattispecie nella quale - come nel caso in esame - il procedimento penale era già pendente alla data di entrata in vigore del contratto (16 maggio 1995) e la situazione era retta della normativa precedente (art. 117 d.P.R. 311957), secondo la quale, qualora per il fatto addebitato al dipendente sia stata promossa azione penale, il procedimento disciplinare non può essere iniziato fino al termine di quello penale e, se già iniziato, deve essere sospeso. Ha precisato che, avuto riguardo all'epoca di inizio del procedimento penale a carico del dipendente, dove farsi applicazione della regola di cui al richiamato art. 117 d.PR. 311957, che ha certamente natura di norma procedimentale nella parte in cui dispone che il procedimento disciplinare non può essere aperto prima della conclusione dei processo penale e, se aperto, deve essere sospeso. La successiva inapplicabilità della norma speciale, pertanto, non può incidere sulla situazione determinatasi al tempo della sua vigenza, in forza del generale principio per cui i procedimenti sono regolati dalla normativa dell'epoca in cui gli atti sono posti in essere, non esclusa, ovviamente, quella che preclude l'inizio del procedimento stesso. Ne discende che, sopravvenuta la normativa contrattuale, l'amministrazione non aveva l'onere di iniziare o riattivare i procedimenti disciplinari non iniziati o sospesi (situazioni sostanzialmente equivalenti) nella pendenza di procedimento penale.

D'altra parte, la norma che appare più vicina al caso di specie (che si sottrae ratione temporìs alle disposizioni di cui alla legge 27 marzo 2001 n. 97) è quella contenuta nel comma 8 dell'art. 25 c.c.n.l. 16.5.1995 (le cui disposizioni sono conosciute, al pari delle norme giuridiche direttamente dalla Corte ai sensi dell'art. 63, comma 5, d.lgs. 165/2001):

Il procedimento disciplinare sospeso ai sensi dei commi 6 e 7 è riattivato entro 180 giorni da quando l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza definitiva. Si tratta di disposizione che ricalca il precetto già contenuto nell'art. 9, comma 2, della 1. 7 febbraio 1990, n. 19 (poi sostituito con il minore termine di 90 giorni recato dall'art. 5, comma 4, 1. 97/2001), mentre la limitazione letterate alla sospensione trova spiegazione nella cessazione, concomitante con la disapplicazione della normativa speciale attuata dal contratto, del divieto di iniziare il procedimento disciplinare in pendenza di quello penale.

Le parti stipulanti, in realtà, non si sono poste il problema dei procedimenti penali iniziati prima della stipulazione dei contratto e del conseguente regime dei procedimento disciplinare, regolando solo il caso di quelli sospesi. Ma tale difetto di previsione rende applicabile esclusivamente le disposizioni contenute nell'art. 55, comma 5, del d.lgs, n. 165/2001 (che riproduce l'ari 59 dei d.lgs n. 29 del 1993, come sostituito dall'art. 27 del d.lgs n. 546 del 1993 e successivamente modificato dall'art. 2 del decreto legge n. 361 del

1995, convertito con modificazioni dalla legge n. 437 dei 1995, nonché dall'art. 27, comma 2 e dall'art. 45, comma 16 del d.lgs n. 80 dei 1998), secondo cui: Ogni provvedimento disciplinare, ad eccezione del rimprovero verbale, deve essere adottato previa tempestiva contestazione scritta dell'addebito al dipendente...

Occorre, a questo punto, ricordare come, con riguardo al lavoro privato di diritto comune e pur in difetto di specifica previsione normativa, la giurisprudenza della Corte è ferma nel ritenere la necessità che la contestazione degli addebiti disciplinari sia tempestiva, dovendosi altrimenti ritenere che il datore di lavoro non abbia interesse all'esercizio dei potere disciplinare e incontrando comunque tale esercizio il limite della correttezza e della buona fede in considerazione dei diritto all'effettività della difesa spettante al lavoratore (vedi, tra le numerose, Cass. 9955/2005). La stessa giurisprudenza, con riguardo all'ipotesi del rilievo penale dei fatti addebitati, ha però precisato che, qualora sia intervenuta sospensione cautelare del dipendente sottoposto a procedimento penale, ai fini della sussistenza dei requisito della tempestività, la definitiva contestazione ben può essere differita all'esito del procedimento penale (vedi, tra le altre, Cass. 13294/2003).

Ne discende che, in relazione a fattispecie di sentenza penale definitiva comunicata all'amministrazione il 23.2.2000 e di avvio del procedimento disciplinare con la contestazione datata 29.5.2000 e notificata il successivo 12 giugno, avuto riguardo al complessivo quadro normativo sopra tracciato, il requisito della tempestività deve ritenersi sussistente, considerato il parametro costituito dal termine 180 giorni, fissato dalla norma contrattuale per riattivare il procedimento sospeso.

Una diversa soluzione non sarebbe conforme al criterio di ragionevolezza, siccome l'ipotesi della sospensione di procedimento già iniziato presuppone che i fatti siano già stati, in qualche modo, vagliati dall'amministrazione, mentre quella del procedimento disciplinare non avviato postula la considerazione per la prima volta della vicenda, all'esito del giudizio penale. Del resto, l'irragionevolezza e la contrarietà al principio di buon andamento di termini che rendano più difficoltosa ed incerta la applicazione delle sanzioni disciplinari, con una ponderazione tra l'interesse del dipendente pubblico a una sollecita definizione della propria situazione disciplinare e l'esigenza dell'amministrazione di instaurare tale procedimento sbilanciata a vantaggio dei dipendente pubblico, è stata affermata anche dalla giurisprudenza costituzionale (vedi Corte costituzionale, 24 giugno 2004, n. 186).

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell'art. 445, comma 1, c.p.c. e vizio della motivazione, si deduce che gli elementi accertati nel procedimento penale non erano idonei a comprovare la sussistenza dei fatto addebitato.

Con il terzo motivo, denunciando violazione dell'art. 2106 c.c. e vizio della motivazione si censura la sentenza impugnata per violazione del principio di proporzionalità, non avendo scrutinato le circostanze del caso concreto, in particolare i precedenti e la condotta successiva al fatto.

Anche questi ulteriori due motivi, da esaminare congiuntamente per la connessione tra le argomentazioni, non possono trovare accoglimento.

La sentenza impugnata non ha trascurato di accertare in fatto che erano stati acquisiti le copie dei verbali di interrogatorio del P. nel corso delle indagini preliminari e che i fatti addebitati, che avevano portato alla condanna in primo grado, erano stati ampiamente ammessi ed inoltre confermati da quanto emerso in procedimenti penali connessi, oltre che in sede di richiesta di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.c. con l'appello (che non conteneva una ritrattazione); ha, quindi, valutato che l'essersi reso il dipendente responsabile di corruzione, in relazione alle mansioni inerenti al suo ufficio, costituiva inadempimento di gravità tale da pregiudicare in maniera irreparabile il rapporto dì fiduciario con l'amministrazione.

Le critiche dei ricorrente al detto accertamento, che risulta giustificato con motivazione sufficiente e logica, si mantengono, da una parte, sul piano della genericità; per altra parte, denunciano l'omessa considerazione di elementi privi di effettiva rilevanza per il giudizio (assenza di precedenti disciplinari; riammissione in servizio ed esecuzione irreprensibile della prestazione lavorativa), ovvero contrappongono, inammissibilmente in questa sede, una verità diversa da quella ricostruita dalla sentenza (avvenuta ritrattazione delle ammissioni di colpevolezza).

La complessità della questione relativa al primo motivo dei ricorso, con la correzione della motivazione della sentenza impugnata sul punto, giustificano la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

venerdì 8 giugno 2007

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Mappa agg. al 31.05.2007



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coordinato ed aggiornato con le ultime modifiche che sono state introdotte dalla Legge 8 febbraio 2006, n. 54 in materia di affidamento condiviso e dalla Legge 14 febbraio 2006, n. 55 in materia di patto di famiglia.

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CODICE CIVILE

Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 262

(Testo coordinato ed aggiornato con le recenti riforme introdotte con il D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, la Legge 22 giugno 2000, n. 192, il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, la Legge 24 novembre 2000, n. 340, la Legge 28 marzo 2001, n. 149, la Legge 4 aprile 2001, n. 154, il D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, il D.Lgs. 30 maggio 2002, n. 113, il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, la Legge 6 novembre 2003, n. 304, la Legge 9 gennaio 2004, n. 6, la Legge 24 dicembre 2004, n. 313, il D.L. 14 marzo 2005, n. 35, la Legge 8 luglio 2005, n. 137, la Legge 28 dicembre 2005, n. 263, la Legge 8 febbraio 2006, n. 54 e la Legge 14 febbraio 2006, n. 55).

Disposizioni sulla legge in generale

Libro Primo
Delle persone e della famiglia

Titolo I - Delle persone fisiche (Artt. 1-10)
Titolo II - Delle persone giuridiche (Artt. 11-42)
Titolo III - Del domicilio e della residenza (Artt. 43-47)
Titolo IV - Dell'assenza e della dichiarazione di morte presunta (Artt. 48-73)
Titolo V - Della parentela e dell'affinità (Artt. 74-78)
Titolo VI - Del matrimonio (Artt. 79-230)
Titolo VII - Della filiazione (Artt. 231-290)
Titolo VIII - Dell'adozione di persone maggiori di età (Artt. 291-314)
Titolo IX - Della potestà dei genitori (Artt. 315-342)
Titolo IX/bis - Ordini di protezione contro gli abusi familiari (Artt. 342bis-342ter)
Titolo X - Della tutela e dell'emancipazione (Artt. 343-399)
Titolo XI - Dell'affiliazione e dell'affidamento (Artt. 400-413)
Titolo XII - Dell'infermità di mente, dell'interdizione ed dell'inabilitazione (Artt. 414-432)
Titolo XIII - Degli alimenti (Artt. 433-448)
Titolo XIV - Degli atti dello stato civile (Artt. 449-455)

Libro Secondo
Delle successioni

Titolo I - Delle successioni (Artt. 456-564)
Titolo II - Delle successioni legittime (Artt. 565-586)
Titolo III - Delle successioni testamentarie (Artt. 587-712)
Titolo IV - Della divisione (Artt. 713-768)
Titolo V - Delle donazioni (Artt. 769-809)

Libro Terzo
Della proprietà

Titolo I - Dei beni (Artt. 810-831)
Titolo II - Della proprietà (Artt. 832-951)
Titolo III - Della superficie (Artt. 952-956)
Titolo IV - Dell'enfiteusi (Artt. 957-977)
Titolo V - Dell'usufrutto, dell'uso e dell'abitazione (Artt. 978-1026)
Titolo VI - Delle servitù prediali (Artt. 1027-1099)
Titolo VII - Della comunione (Artt. 1100-1139)
Titolo VIII - Del possesso (Artt. 1140-1170)
Titolo IX - Della denunzia di nuova opera e di danno temuto (Artt. 1171-1172)

Libro Quarto
Delle obbligazioni

Titolo I - Delle obbligazioni in generale (Artt. 1173-1320)
Titolo II - Dei contratti in generale (Artt. 1321-1469)
Titolo III - Dei singoli contratti (Artt. 1470-1986)
Titolo IV - Delle promesse unilaterali (Artt. 1987-1991)
Titolo V - Dei titoli di credito (Artt. 1992-2027)
Titolo VI - Della gestione di affari (Artt. 2028-2032)
Titolo VII - Del pagamento dell’indebito (Artt. 2033-2040)
Titolo VIII - Dell'arricchimento senza causa (Artt. 2041-2042)
Titolo IX - Dei fatti illeciti (Artt. 2043-2059)

Libro Quinto
Del lavoro

Titolo I - Della disciplina delle attività professionali (Artt.2060-2081)
Titolo II - Del lavoro nell'impresa (Artt. 2082-2221)
Titolo III - Del lavoro autonomo (Artt. 2222-2238)
Titolo IV - Del lavoro subordinato in particolari rapporti (Artt. 2239-2246)
Titolo V - Delle società (Artt. 2247-2511)
Titolo VI - Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici (Artt. 2511-2548)
Titolo VII - Dell'associazione in partecipazione (Artt. 2549-2554)
Titolo VIII - Dell'azienda (Artt. 2555-2574)
Titolo IX - Dei diritti sulle opere dell'ingegno e sulle invenzioni industriali (Artt. 2575-2594)
Titolo X - Della disciplina della concorrenza e dei consorzi (Artt. 2595-2620)
Titolo XI - Disposizioni penali in materia di società e consorzi (Artt.2621-2642)

Libro Sesto
Della tutela dei diritti

Titolo I - Della trascrizione (Artt.2643-2696)
Titolo II - Delle prove (Artt. 2697-2739)
Titolo III - Della responsabilità patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale (Artt. 2740-2906)
Titolo IV - Della tutela giurisdizionale dei diritti (Artt. 2907-2933)
Titolo V - Della prescrizione e della decadenza (Artt. 2934-2969)

avetrana, l'opportunità di aprire l'entrata al centro storico

Pubblicato a pag. 15 di LIBERAMENTE, Domenica 22 Aprile 2007

Anno XII – Numero 8, Quindicinnale di Informazione, Attualità e Cultura


Prende corpo il dibattito sull'opportunità di creare un'altra entrata nel centro storico: l'intervento, favorevole, di Santo De Prezzo

Ritengo, come tutti, che la civiltà si misura sulle capacità di interpretare il presente e che ogni scelta possa comportare o una crescita oppure una caduta involutiva. D’altronde, su queste basi Karl R. Popper elaborava la “Miseria dello storicismo”. In sostanza, vi sono due ordini di problemi che s’incontrano quando si valutano le scelte più significative. Il primo, sta nello scernere tra gli accadimenti evidenziandoli attraverso una scala di valori. Il secondo, nello spessore culturale dell’analisi.

Ebbene, ascoltando i ragionamenti e leggendo gli scritti degli amici di Avetrana su uno degli ultimi argomenti d’interesse locale, e cioè sull’acquisto da parte del Comune di Avetrana di un modesto fabbricato posto in vendita da privati nel centro storico, non posso fare proprio a meno di spendere qualche parola di commento, tenuto conto che, qualche anno addietro, fui proprio io a lanciare l’idea dell’opportunità di un nuovo ingresso al centro storico, per una serie di coincidenze di cui mi riservo di parlarne in altra occasione. Ne parlai all’allora Sindaco dott. Conte ed agli altri amici, tra cui i fondatori dell’Archeoclub locale.

Senza dubbio, debbo premettere che non ho mai avuto pretese di essere portatore della verità assoluta ma probabilmente m‘accompagno con molti altri nelle banalità, che però meritano anch’esse di essere valutate. In merito all’argomento, ho seguito il dibattito svoltosi in consiglio comunale nella seduta del 6 febbraio 2007; ho letto sull’ultimo numero di Liberamente del 8 aprile l’intervento dell’Archeoclub di Avetrana e dell’Ing. Franco Galati. Sicchè, devo subito dire che ho percepito immediatamente un comune filo conduttore, non già per l’adesione all’orientamento di pensiero contrario all’acquisto, bensì per la metodologia dei ragionamenti, che mi spinge a scrivere. Dunque, in sede istituzionale, i consiglieri dell’opposizione hanno censurato l’acquisto del fabbricato indicando altre priorità, ritenute più impellenti, gli amici dell’Archeoclub hanno anteposto la loro visione di mantenere inalterate le fattezze degli immobili presenti nel centro storico e l’Ing. Franco Galati ha evidenziato profili di stretta natura tecnica ostativi alla modifica sostanziale del fabbricato.Ebbene, tutte le esposte tesi, per quanto possa serenamente su di esse riflettere, non mi convincono perchè trascurano alcuni dati ben precisi.

Il primo è che l’attuale amministrazione comunale ha indicato, nelle sue linee programmatiche dell’azione di governo, l’intendimento di volersi adoperare per realizzare un ulteriore ingresso pedonale nel centro storico, ragion per cui la deliberazione del consiglio comunale del 6 febbraio risulta essere un provvedimento attuativo di una volontà politica del paese, essendo il consiglio comunale il massimo consesso rappresentativo della comunità; la cosa può essere gradita o non gradita, ma il dato politico è molto chiaro. Il secondo dato sta nella fortuna perché, in via del tutto occasionale e coincidente, è giunto dal mercato un fabbricato che si presta allo scopo. Il terzo elemento è che, senza retorica, il nuovo ingresso al centro storico soddisfa un enorme interesse generale della comunità e risponde ad una funzione principalmente sociale che non pare essere stata perseguita con noncuranza di altri interessi generali e con sperpero di denaro dalle casse pubbliche. Pertanto, le motivazioni di contrarietà sostenute dai consiglieri di opposizione nella seduta del 6.2.2007 mi sono apparse prive di pregio e probabile frutto di uno scontro politico ad ogni costo, che a mio parere, non ha alcun senso, quando l’idea tende veramente a soddisfare interessi pubblici, come potrebbe avvenire se poi sarà effettivamente realizzato il nuovo ingresso al centro storico. Ritengo più opportuno sostenere la scelta e collaborare perché si porti a compimento l’opera nell’interesse della comunità.

Quanto agli amici dell’Archeoclub, non posso non esprimere il mio dissenso alle loro ragioni di contrarietà. Che significa rispetto della storia? Qui bisogna veramente intendersi: una cosa è il recupero delle tracce di interesse archeologico, che consentono la ricostruzione di precisi accadimenti avvenuti in tempi remoti per comprendere civiltà antichissime e sepolte dal tempo; altra cosa è esprimere i valori contemporanei e consolidare la storia recente. Avremmo mai avuto la possibilità di apprezzare l’arte e le suggestioni della spiritualità di cui è impregnata l’attuale Basilica di S. Pietro, se nel 1500 Papa Giulio II non avesse dato mano alla ricostruzione ex novo di quella preesistente, costruita nel IV secolo per opera dell’imperatore Costantino nel luogo dove insisteva il Circo di Nerone e, secondo la tradizione, è stato crocifisso e sepolto San Pietro, primo Papa del Cristinianesimo? No, cari amici, manteniamo l’approccio conservativo dell’archeologia all’archeologia e prendiamo atto che la storia è un divenire con il coraggio per il nuovo. E poi a nulla possono valere le valutazioni fatte sul catasto onciario che, mi dispiace dirlo, risultano fuori luogo. Devo pure manifestare il mio disappunto sulle ragioni di resistenza sollevate dall’Ing. Franco Galati che al lettore paiono allinearsi alla contrapposizione politica consumata nel consiglio comunale in cui si adottò la deliberazione dell’acquisto, che non sono affatto condivisibili. Mi è davvero impossibile comprendere uno scenario di sventramento di forzieri della tradizione, sacrificati all’interesse della modernità che confliggono con l’intenso traffico presente su via Manduria. Diciamolo pure, se ci sarà l’apocalisse, come quella dei testimoni di geova, essa avverrà non prima di qualche milione di anni, pari pari con lo spegnersi del sole: no, caro amico Franco Galati, penso che lo scenario che hai raffigurato nel tuo scritto sia del tutto irreale.

Non è il caso di sovvertire l’ordine delle cose, per una semplice decisione di acquistare un fabbricato modesto a prezzo di mercato, che ben si presta all’interesse condiviso dalla gente di fruire di un accesso pedonale al centro storico dove è ubicata la chiesa Madre. In fondo, non ho colto, davvero, lamentele nei cittadini ma solo in un ambito assai ristretto. Ebbene, dobbiamo dircelo, la politica è basata sul consenso della popolazione, non sui nostri ragionamenti. Qui l’argomento, ripeto, ha una valenza sociale e culturale senza spazi per mere strumentalizzazioni. E’ veramente il caso di dire, come quella famosa trasmissione di Gianni Minoli, “La storia siamo noi”, con la speranza di poterci ritrovare per vedere cosa la nostra generazione sarà stata capace di fare o non fare oltre che a subire o parlare.

santo de prezzo

Enel, responsabilità risarcitoria per black-out


Tribunale Napoli, sez. Casoria, sentenza 16.04.2007

Black-out – responsabilità della società fornitrice di luce – sussistenza – liquidazione del danno – ricorso al fatto notorio – legittimità

L’interruzione di energia elettrica è inadempimento.

La liquidazione del danno può essere effettuata ricorrendo al fatto notorio. (1)

(1) In senso contrario Tribunale di Capua Vetere, n. 38/2006.




Tribunale di Napoli

Sezione di Casoria

Sentenza 16 aprile 2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

il Giudice Unico Onorario del Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Casoria, Avv. Maurizio Bianco

ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile n. 433/06/C Ruolo Affari Contenziosi Civili

avente ad oggetto: appello avverso sentenza del Giudice di Pace di Casoria n. 1036/06 del 22.02.06 R.G.333/06

vertente tra

Enel Distribuzione s.p.a., in persona del legale rapp.te p.t., rapp.to e difeso dall’Avv. Antonio de Notaristefani di Vastogirardi con studio in Napoli, Via Vittoria Colonna, 14

APPELLANTE

F. G., rapp.to e difeso dall’ Avv. Letizio Galdi e Avv. Antonio Alfiero con studio in Casoria, Via Matteotti, 96

APPELLATO

CONCLUSIONI

All’udienza del giorno 22.01.2007 le parti concludevano, rispettivamente, per l’accoglimento e per il rigetto dell’appello, con il favore delle spese processuali.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, F. G. conveniva l’ENEL Distribuzione s.p.a. innanzi al Giudice di Pace di Casoria esponendo:

-di aver stipulato contratto di somministrazione di energia elettrica con l’E.N.E.L. Distribuzione s.p.a.;

-che alle ore 03:25 della domenica del 28 settembre 2003 su tutto il territorio nazionale, ed in particolare in Campania, si verificava una interruzione della somministrazione di energia elettrica durata circa 15 - 18 ore;

-che tale evento determinava danni patrimoniali ed uno stravolgimento delle normali attività dell’istante e della sua famiglia, giacché il black-out impediva di attendere a quelle occupazioni cui era solito dedicarsi nel giorno settimanale festivo;

Con il predetto atto, l’istante chiedeva, previa declaratoria di inadempimento dell’Enel Distribuzione S.p.a. condannare la stessa al pagamento del danno patrimoniale e non patrimoniale, stimati in quella somma ritenuta di giustizia, con vittoria di spese diritti ed onorario di causa.

Si costituiva in giudizio la convenuta Enel Distribuzione S.p.A., che impugnava estensivamente la domanda, chiedendone il rigetto, con vittoria delle spese e competenze di lite. In particolare, deduceva che il D.Lgvo n. 79 del 16.3.99 aveva soppresso il monopolio delle attività del settore elettrico, a suo tempo attribuito all’Ente Nazionale per l’energia elettrica (poi divenuto ENEL S.p.A.) dalla legge 1643/62; che le attività di trasmissione e dispacciamento erano riservate allo Stato ed attribuite in concessione al Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale, estranea al gruppo Enel; che l’attività della distribuzione dell’energia elettrica era svolta in regime di concessione rilasciata dal Ministero competente ad un solo concessionario per ciascun ambito comunale; che l’art. 13 del citato D.lgvo aveva stabilito che l’Enel S.p.A. dovesse obbligatoriamente costituire società separate per le svolgimento dell’attività di: 1) produzione di energia elettrica, 2) distribuzione di energia elettrica e vendita ai clienti vincolati, 3) vendita ai clienti idonei, 4) esercizio dei diritti di proprietà della rete di trasmissione, il che veniva realizzato a decorrere dal 1.10.99; che da tale data la Enel Distribuzione S.p.A. operava ed opera solo nel campo della distribuzione di energia elettrica e di vendita ai clienti vincolati, essendole tassativamente precluso di svolgere l’attività di produzione e trasmissione della energia elettrica; che l’attività di produzione di energia elettrica era svolta da una molteplicità di soggetti, la maggior parte dei quali estranea all’Enel, che conferivano detta energia alla Rete di Distribuzione Nazionale gestita dal G.R.T.N., di proprietà esclusiva dello Stato, che a sua volta consegnava promiscuamente l’energia elettrica, da chiunque prodotta, ai numerosi distributori, concessionari di singoli Comuni, per la consegna agli utenti finali. Deduceva quindi che alcuna responsabilità per l’interruzione della somministrazione di energia era ascrivibile all’Enel Distribuzione S.p.A., in quanto la stessa non aveva ricevuto l’energia elettrica da consegnare agli utenti finali presso le cabine primarie di trasformazione, dove l’energia elettrica veniva trasformata da alta o altissima tensione in media tensione, secondo le disposizioni impartite dal Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale; che vi era stata una impossibilità oggettiva della Enel Distribuzione S.p.A. di adempiere derivante da causa ad essa non imputabile, in virtù dell’art. 1218 c.c.; che non era ravvisabile neanche una responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c., mancandone i presupposti; che comunque i danni lamentati non erano stati specificati né provati dall’istante.

In definitiva l’Enel. Distribuzione s.p.a., eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva ed, inoltre, che l’interruzione energetica era dovuta a causa non imputabile alla stessa, ai sensi dell’art. 1218 c.c., in quanto l’energia elettrica non gli era stata fornita, come per legge, dal Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale (G.R.T.N.). Deduceva altresì che l’Enel Distribuzione s.p.a. non avrebbe potuto premunirsi rispetto a tale evento, mediante approntamento di centrali di produzione di riserva e relative reti di trasmissioni, in quanto ciò le era precluso per legge.

Chiedeva, pertanto, il rigetto della domanda con il favore delle spese.

Istruita la causa, per quanto necessario, il Giudice di Pace di Casoria, con la sentenza impugnata condannava l’ENEL Distribuzione al risarcimento dei danni in favore dell’attore, oltre alla rifusione delle spese processuali.

La sentenza veniva impugnata dalla parte soccombente, la quale deduceva la erroneità della decisione del giudice di prime cure ed, in particolare:

erroneità e contraddittorietà della motivazione nell’individuazione del soggetto responsabile, violazione dell’art. 1218 c.c. e 115 c.p.c.;

insussistenza e mancata prova del danno esistenziale, violazione dei principi sull’onere della prova e sul ricorso al notorio, violazione dell’art.1226 c.c.;

Si costituiva l’appellato deducendo la correttezza e la conformità a diritto della decisione impugnata, chiedendone la conferma, con il favore delle spese.

Sulle opposte conclusioni la causa veniva assegnata a sentenza, con termini di cui all’art. 190 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

La risoluzione della controversia passa, necessariamente, attraverso una analisi delle questioni sollevate dalle parti ed, in particolare:

della nullità dell’atto di citazione;

della legittimazione passiva dell’Enel Distribuzione s.p.a.;

della sussistenza della responsabilità, in capo all’Enel Distribuzione s.p.a. in ordine al black out ;

della sussistenza di cause di forza maggiore, anche i relazione al cd. impegno di potenza, contrattualmente assunto;

della prova e della liquidazione del danno;

Della nullità dell’atto di citazione e della legittimazione passiva dell’Enel Distribuzione s.p.a.

Le eccezioni formulate dall’Enel Distribuzione s.p.a. possono essere esaminate congiuntamente.

In ordine alla prima, dall'esame del menzionato atto introduttivo del giudizio di primo grado si ricavano chiaramente i fatti e le ragioni di diritto posti dall’attore a fondamento della loro domanda sottolineandosi, peraltro, che le compiute difese in merito svolte dalla società convenuta costituiscono ulteriore testimonianza dell'infondatezza di detta eccezione.

Quanto, invece, alla seconda va sottolineato che la legitimatio ad causam è espressione del principio, dettato dall'art. 81 cod. proc. civ., secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge.

Ciò comporta -trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza inutiliter data- la verifica, anche d'ufficio in ogni stato e in via preliminare al merito, dell'astratta coincidenza degli attori e dei convenuti, con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta.

La questione relativa alla legittimazione, pertanto, si distingue nettamente dall'accertamento in concreto che i medesimi soggetti siano, dal lato attivo e passivo, effettivamente titolari dei rapporti fatti valere in giudizio, concernendo tale ultima questione il merito della causa (cfr., in tal senso, ex aliis, Cass. 24 marzo 2004, n. 5912).

Nel caso di specie, allora, l’eccezione sul punto sollevata dalla società convenuta, odierna appellante, non pongono una questione di legittimazione ad causam, che nasce se dallo stesso atto introduttivo del giudizio emergono elementi per valutare in astratto la sussistenza o meno della titolarità attiva o passiva dei rapporti dedotti in giudizio, ma, riguardando la concreta esistenza della titolarità passiva dei medesimi rapporti, concernono una questione di merito che potrà soltanto comportare, se non dimostrata, il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti.

Le eccezioni, pertanto, convertite in motivi di gravame, non possono trovare accoglimento

Della sussistenza della responsabilità, in capo all’Enel Distribuzione s.p.a. in ordine al black out .

La mancata esatta esecuzione del contratto di fornitura di energia elettrica obbliga la parte inadempiente al risarcimento dei danni (artt. 1218, così come richiamato dall’art. 1570 c.c.).

Risulta provato, oltre che non contestato, che tra le parti intercorra un rapporto contrattuale avente ad oggetto la fornitura di energia elettrica.

Esso deve inquadrarsi nello schema contrattuale previsto dall’art. 1559 e ss. c.c., contratto di somministrazione, nel quale la prestazione assunta dall’Enel Distribuzione s.p.a. di erogazione di energia all’altro contraente è destinata a soddisfare, ad intervallo di tempo costante, bisogni periodici e continuativi, attraverso la costituzione di un rapporto durevole.

L’essenza di tale modello negoziale risiede nel fatto che il somministrante, a fronte del diritto di ricevere il corrispettivo con regolarità alle scadenze pattuite, assume su di sé l’obbligo di apprestare i mezzi necessari per l’adempimento dell’obbligazione assunta nonché i rischi della fornitura, che costituiscono l’alea normale del contratto scaturente dal proiettarsi delle prestazioni in futuro (Cass. 2359/68).

Nella fattispecie negoziale in esame, inoltre, l’Enel Distribuzione s.p.a. assume l’ulteriore obbligo di mantenere a disposizione dell’utente il cd. impegno di potenza, che si configura come una prestazione accessoria rispetto a quella principale di fornire l'energia elettrica, a fronte di un corrispettivo ulteriore, che matura in relazione al consumo complessivo (Cass. 1259/1988).

In definitiva l’Enel Distribuzione, con il detto contratto, si impegna ad assicurare una regolare e continua erogazione di energia elettrica mentre l’utente si obbliga a pagare il prezzo della fornitura.

Risultando l’utente adempiente alla propria prestazione ed avendo riconosciuto, l’Enel Distribuzione s.p.a. l’interruzione del servizio, quest’ultima sarà da dichiararsi inadempiente agli obblighi assunti e, conseguentemente, responsabile dei danni da tale inadempimento scaturiti.

Della sussistenza di cause di forza maggiore, anche i relazione al cd. impegno di potenza, contrattualmente assunto.

L’Enel Distribuzione s.p.a., pur confermando la circostanza della interruzione della fornitura, nega la propria responsabilità.

Ciò premettendo di essere tenuta soltanto alla distribuzione e non anche alla produzione e trasmissione della energia elettrica, per disposizione di legge, e conseguentemente deducendo l’esistenza di una causa di forza maggiore ad essa non imputabile, consistente nella mancata erogazione di energia da parte di terzi, che le avrebbe impedito di adempiere la propria obbligazione.

L’eccezione non coglie nel segno.

A mente dell’art. 1218 c.c. il debitore può liberarsi delle conseguenze dell’inadempimento se prova che esso è da ricondurre a causa a lui non imputabile.

La giurisprudenza, condivisibilmente, ha chiarito che tale prova deve essere rigorosa, piena e completa e deve comprendere anche la dimostrazione della mancanza di colpa del debitore, sotto qualsiasi profilo, dovendosi, diversamente, presumersi nel medesimo la sussistenza di tale elemento soggettivo (Cass. sent. 7604/96), evidenziando che non una situazione di maggiore difficoltà ad adempiere ma l’assoluta impossibilità della prestazione, libera dalla responsabilità (Cass. 1601/80).

La sussistenza di una causa di impossibilità della prestazione va esclusa per tre ordini di motivi:

1)L’Enel Distribuzione s.p.a. riconosce di esserle preclusa la produzione di energia e di riceverla da enti terzi.

Naturalmente il dato era esistente anche al momento della conclusione del contratto con l’utente ed essa, pertanto, si obbligava a fornire un prodotto già al di fuori della sua disponibilità al momento dell’assunzione dell’obbligazione.

Con il contratto, dunque, l’Enel Distribuzione s.p.a. ha assunto l’obbligo di acquisire l’energia da terzi e fornirla ai clienti.

Se la ricostruzione è corretta, come lo è, l’Enel Distribuzione s.p.a. non ha provato, né chiesto di provare, che tale acquisizione di energia da terzi, da tutti i terzi, sia stata impossibile nell’immediatezza del black out.

L’evento della interruzione dei flussi per la caduta di un albero in Svizzera, riportato dalle cronache del tempo, non ha alcun effetto sul rapporto dedotto in giudizio, inerendo – invece – al diverso rapporto intercorrente tra Enel Distribuzione s.p.a. ed il produttore dell’energia.

Soltanto in quest’ultimo rapporto negoziale, estraneo al presente giudizio in quanto il produttore non risulta essere stato chiamato in causa, potrebbe rilevarsi una causa di forza maggiore e la impossibilità della prestazione ma non in quello oggetto della presente procedura.

In altri termini l’Enel Distribuzione avrebbe dovuto provare l’impossibilità assoluta di rifornirsi di energia, di qualsiasi tipo di energia e da qualsiasi produttore, rimanendo completamente senza effetti la circostanza relativa all’interruzione dei flussi dal produttore contraente della società distributrice alla società distributrice stessa.

Ed infatti, in materia di responsabilità contrattuale, l'art. 1218 c.c. è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell'inadempimento, una presunzione di colpa superabile mediante la prova dello specifico impedimento che abbia reso impossibile la prestazione o, almeno, la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell'impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore. Peraltro, perché l'impossibilità della prestazione costituisca causa di esonero del debitore da responsabilità, non basta eccepire che la prestazione non possa eseguirsi per fatto del terzo ma occorre dimostrare la propria assenza di colpa con l'uso della diligenza spiegata per rimuovere l'ostacolo frapposto da altri all'esatto adempimento. ( ex alios Cass. Civ., sez. III, 5 agosto 2002, n. 11717)

In definitiva l’Enel Distribuzione s.p.a. non ha dimostrato di aver fatto tutto il possibile per adempiere la propria obbligazione.

2)L’utente corrisponde, oltre al prezzo dell’energia utilizzata, una somma aggiuntiva per garantire l’impegno di potenza che costituisce una prestazione continua, accessoria e strumentale a quella principale della fornitura e si sostanzia nell’obbligo del somministrante di predisporre e mantenere l’impianto in modo da tenere a disposizione dell’utente una determinata quantità di energia, a cui corrisponde un corrispettivo fisso, da parte dell’utente, da pagarsi periodicamente e che viene a maturare contemporaneamente ed in proporzione al consumo di energia.

L’interruzione dell’erogazione dell’energia ed il lungo tempo occorso per la riattivazione del servizio dimostrano, con assoluta evidenza, l’inadempimento a detta obbligazione accessoria che, per la sua rilevanza all’interno del sinallagma contrattuale, si riverbera sull’inadempimento anche rispetto alla obbligazione principale;

3)Elemento connaturato al contratto oggetto del presente giudizio è che l’adempimento dell’Enel Distribuzione s.p.a. – che come essa stessa deduce non può produrre energia ma solo distribuirla – evidentemente dipende dall’adempimento del produttore, ma, impegnandosi in proprio per il fatto di un terzo, assume su di sé tutte le conseguenze di ogni eventuale interruzione del flusso.

In altri termini è corretto affermare che l‘essenza di tale contratto consiste nel fatto che il somministrante, nell’impegnarsi a soddisfare i bisogni futuri dell’utente, assume su di sé, oltre che l’obbligo di apprestare i mezzi necessari per l’adempimento, anche i rischi della fornitura, costituendo quest’ultima l’alea normale del contratto.

In caso contrario e cioè se il mancato rifornimento di energia dal produttore all’Enel Distribuzione s.p.a. si potesse configurare come causa di forza maggiore determinante l’impossibilità della prestazione, verrebbe meno la funzione stessa del contratto, rimanendo svuotata di contenuto la prestazione della somministrante.

Anche per tale motivo non può dirsi sussistente alcuna causa di forza maggiore giustificante la dedotta impossibilità della prestazione.

L’Enel Distribuzione, quindi, dichiarata responsabile per l’inadempimento connesso al black out sarà tenuta al risarcimento dei danni, conformemente a quanto statuito dalla sentenza impugnata.

Della prova e della liquidazione del danno.

In via generale, ed in relazione ai motivi di gravame concernenti il ricorso al notorio, occorre evidenziare che secondo un condiviso orientamento giurisprudenziale (Cass. 08.07.99, n. 7181: Cass. 27.02.04, n. 3980) esso, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura in un dato tempo e luogo, costituisce deroga al principio dispositivo ed a quello del contraddittorio che deve riferirsi a fatti acquisiti con tale grado di certezza da trascendere la conoscenza del singolo giudice ed apparire indubitabili ed incontestabili.

Può formare oggetto del notorio sia un fatto principale che uno secondario, da intendere il primo come fatto costitutivo, estintivo o impeditivo del rapporto ed il secondo come fatto dal quale si possa desumere direttamente o indirettamente l'esistenza o inesistenza di un fatto giuridico; con la differenza che, se il notorio attiene a fatto principale, la parte è esonerata dall'onere di provare il fatto, ma non da quello di allegarne l'esistenza, sicché viola il disposto degli artt. 99 e 112 c.p.c. il giudice che lo pone a base della sua decisione ancorché non sia stato allegato, mentre, se attiene a fatto secondario, per motivi di economia processuale ne è consentita l'utilizzazione giudiziale a prescindere dall'allegazione.

Se il giudice non ritiene notorio un fatto prospettato come tale o, al contrario, ritiene notorio un fatto non prospettato come tale, la sua decisione non è censurabile in sede di legittimità per vizi di motivazione, non essendo egli tenuto ad indicare gli elementi sui quali la fonda. (Corte di Cassazione Sezione 3 civile Sentenza 29.04.2005, n. 9001).

Nella fattispecie sono da ritenere fatti pacifici ed incontestabili, che supportano l’istruttoria pur in merito svolta, sia la sussistenza dei danni patrimoniali che di quelli non patrimoniali richiesti.

In merito a quelli patrimoniali non v’è dubbio in ordine alla esistenza, così come è in ogni famiglia media, di alimenti nel frigo che, a causa della interruzione per circa quindici ore della fornitura di energia elettrica, abbiano subito un processo di deterioramento.

Anche alla luce delle temperature mediamente alte che normalmente si riscontrano nella zona in periodi analoghi a quello dell’evento dannoso, non può dubitarsi che gli alimenti conservati, quando non avariati del tutto, abbiano subito un tale pregiudizio delle caratteristiche organolettiche e nutritive da ritenersi inutilizzabili.

A ciò si aggiunga che per ogni frigorifero è previsto un reparto per il congelamento, il freezer, e che gli alimenti ivi contenuti, in conseguenza del lungo tempo di assenza di energia elettrica, siano andati inevitabilmente deteriorati.

La liquidazione del danno, effettuata dal giudice di prime cure secondo equità, condivisibilmente alla luce della obiettiva difficoltà di provarne l’ammontare, appare corretta e commisurata ad una presenza minima di alimenti.

In merito ai danni non patrimoniali c’è da dire che la giurisprudenza della Suprema Corte per anni ha riconosciuto risarcibilità al solo danno c.d. morale soggettivo, previo positivo accertamento della colpa dell'autore dello stesso, in tal modo interpretando in via restrittiva l'art. 2059 c.c. in combinato disposto con l'art. 185 c.p..

Successivamente la Corte Costituzionale, con sentenza n. 233/2003 ha sancito il superamento della tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall'art. 2059 c. c. si identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo e - richiamando anch'essa le sentenze della Suprema Corte nn. 8827/2003 e 8828/2003 - ha rilevato essere stata ricondotta a razionalità e coerenza la questione della tutela risarcitoria del danno alla persona, con la prospettazione di un'interpretazione costituzionalmente orientata dall'art. 2059 c. c., tesa a ricomprendere nell'astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona e, cioè, sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima, sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, sia infine il danno esistenziale derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.

E conclude affermando che l' art. 2059 c. c. debba essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, sia risarcibile anche nell'ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell'autore del fatto risulti da una presunzione di legge.

Recentemente, con riguardo alla riconoscibilità del danno esistenziale, la Suprema Corte ha, poi, con sentenza n.2546 del 06.02.2007, ribadito che il danno esistenziale, da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, non costituisce una componente o voce né del danno biologico né del danno morale, ma un autonomo titolo di danno.

Ciò detto non può essere revocato in dubbio che l’interruzione dell’energia elettrica per un così lungo lasso di tempo abbia provocato nell’utente una forte limitazione delle normali attività – generalmente effettuate nei giorni festivi ma non necessariamente – espressioni del più generale svolgimento della propria personalità.

La assenza di luce artificiale, l’impossibilità di utilizzare tutti gli elettrodomestici, il mancato funzionamento dei condizionatori e dei computers, dell’impianto di riscaldamento dell’acqua e dei citofoni, l’impossibile ricaricamento dei telefoni cellulari ed in generale il senso di angoscia provocato dall’attesa di un ritorno alla normalità, attesa durata circa quindici ore, sono elementi che hanno accomunato la generalità degli utenti, nel periodo del black out , e che hanno provocato un danno, esistenziale, ingiusto e risarcibile.

La misura del risarcimento, liquidata dal giudice di prime cure in via equitativa, appare commisurata al pregiudizio arrecato, in difetto della prova di un maggior danno.

In definitiva, quindi, l’appello va respinto, con conferma della sentenza impugnata.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Giudice Unico del Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Casoria, definitivamente pronunciando sulla domanda, così provvede:

Rigetta l’appello;

Condanna l’Enel Distribuzione s.p.a., in persona del legale rapp.te p.t., al pagamento, in favore dell’appellato, delle spese processuali relative al presente grado di giudizio quantificate nella complessiva somma di euro 1.950,00 di cui euro 70,00 per spese, euro 850,00 per diritti, ed euro 1030,00 per onorari oltre spese generali, IVA e CPA come per legge se idoneamente documentate con fattura, con attribuzione ai procuratori antistatari Avv. Galdi e Avv. Alfiero.

Così deciso in Casoria, li 16.04.2007

Il G.O.T.
Avv. Maurizio Bianco

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