giovedì 28 dicembre 2006

Contributi nell'interposizione fittizia di manodopera e responsabilità dell'appaltante


Cassazione , SS.UU. civili, sentenza 22.10.2006 n° 22910


Sul contrasto giurisprudenziale sorto sull’interpretazione dell’art. 1 della legge 1369/60, che ha regolato - sino alla sua abrogazione ad opera,dell’articolo 85, comma 1,lettera c) del D.Lgs. 276/03 - il divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, è intervenuta la Cassazione Civile a SS.UU., con la sentenza 22910/06 affermando il seguente principio di diritto: “nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono i primi tre commi dell’articolo 1 legge 1369/60 (divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego della mano d’opera negli appalti di opere e di servizi) la nullità del contratto fra committente ed appaltatore (o intermediario) e la previsione dell’ultimo comma dello stesso articolo - secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni - comportano che solo sull’appaltante(o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell'appaltatore (o interposto) in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi".

La Cassazione, quindi, nega il pregresso orientamento che sosteneva la sussistenza, nel caso di specie, di una responsabilità solidale dell’interponente con l’interposto e pone a carico del solo interponente la responsabilità per le prestazioni contributive e previdenziali, in quanto solo costui, concretamente, beneficia delle prestazioni lavorative, e solo in capo a lui è rinvenibile la costituzione ex lege di un rapporto di lavoro, seppur di fatto, con tutti gli obblighi imposti all’effettivo datore di lavoro.

La tesi della responsabilità solidale tra interposto ed interponente era stata autorevolmente sostenuta (cfr. Cassazione 1355/93) sulla base del principio dell’apparenza del diritto e dell’affidamento dei terzi in buona fede: si sosteneva, infatti, che, pur essendo nullo il contratto di intermediazione lavorativa, la situazione apparentemente generata da quel contratto nullo era corrispondente ad una duplicazione della figura del datore di lavoro (quello formale-apparente e quello sostanziale-effettivo), con il corollario logico giuridico che, a tutela del soggetto più debole ( id est il prestatore di lavoro) la responsabilità dell’interposto e dell’interponente andava considerata solidale. Di fronte ad un dubbio interpretativo, quindi, bisognava optare per la tesi più favorevole al prestatore di lavoro, in quanto soggetto più debole (in coerenza con i principi generali del diritto del lavoro).

Le SS.UU. negano questo orientamento, sulla base di una considerazione di carattere generale, in quanto il principio dell’apparentia iuris non è in grado di operare, laddove esistano disposizioni legislative chiare ed esaurienti sul punto (il riferimento è al disposto dell’art 1 della legge 1369/60 che espressamente pone a carico del datore di lavoro effettivo i carichi retributivi e previdenziali) e allorquando la normativa legale è funzionalizzata alla tutela di interessi di rilievo costituzionale.

In obiter dictum la sentenza in commento effettua alcune considerazioni sulla normativa vigente: infatti, il d.lgs. 276/03 ha abrogato il divieto di interposizione di manodopera sancito dall’art. 1 della legge 1369/60: oggi, dunque, è ammessa la somministrazione di lavoro tramite agenzie di lavoro c.d. interinale, sottoposte ad un regime di autorizzazioni ed accreditamento presso il Ministero del Lavoro.

In tema di responsabilità per il pagamento della retribuzione e dei contributi previdenziali l’art. 23 comma 3 del d.lgs. 276/03 stabilisce espressamente una responsabilità solidale di chi formalmente stipula il contratto ( c.d. somministratore) e di chi sostanzialmente beneficia della prestazione lavorativa (c.d. utilizzatore), sposando, in pratica, gli orientamenti giurisprudenziali volti a rafforzare la tutela del lavoratore dipendente, imponendo la responsabilità dell’interposto cumulata con quella dell’interponente.

L’affermazione di diritto contenuta nella sentenza in commento non assume, quindi, rilievo alla luce della normativa in vigore, se non nel caso di nullità del contratto di somministrazione, poiché realizzato al di là dei limiti imposti dalla legge, come avviene in ipotesi di "somministrazione irregolare" ex articolo 27 d.lgs. 276/03: in tale ipotesi, in applicazione del principio enunciato dalla Cassazione nella sentenza in commento, gli obblighi contributivi graverebbero solo sul datore di lavoro effettivo.

In definitiva, quindi, il d.lgs. 276/2003 rafforza la posizione giuridica del lavoratore dipendente sancendo una tendenziale responsabilità solidale dell’interposto con l’interponente, mentre le SS.UU., nelle ipotesi non previste dalla legge attuale (ad esempio lavoro irregolare, ex art. 27 d.lgs. 276/2003), optano per la ricostruzione giuridica meno favorevole al lavoratore dipendente: il legislatore si è mosso in una certa direzione, diversamente dalla giurisprudenza delle SS.UU., creando davvero non pochi dubbi sul piano dell’esigenza di certezza del diritto.

Arrivare a concludere che nelle ipotesi di dubbi interpretativi, in sostanza, non si deve optare per il favor verso il lavoratore (principio della prevalenza del trattamento più favorevole al lavoratore), ma per una ricostruzione contraria sia al suddetto principio che alla ratio del diritto del lavoro, nonché al trend legislativo, è una scelta davvero significativa, che complica notevolmente il lavoro dell’interprete.

Resta dubbio (la sentenza in questione non ne parla), poi, se il contratto tra interposto e lavoratore possa essere giuridicamente qualificato come contratto a favore di terzi, ex art. 1411 c.c., laddove il soggetto interponente assuma la veste di terzo avvantaggiato.



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 26 ottobre 2006, n. 22910

(Presidente V. Carbone, Relatore G. Vidiri)

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 5 febbraio 1996, G. P. proponeva opposizione davanti al Tribunale di Foggia avverso lo stato passivo del fallimento della Winner’s Sporting Footwear Spa, dal quale era stato escluso il suo credito di lavoro (lire 286.755.831, oltre accessori), insinuato in via privilegiata a titolo di indennità di mancato preavviso, Tfr, ferie non godute, trasferte, patto di non concorrenza, retribuzione per prestazioni in giornate festive, canoni di locazione, e rimborso spese,. Sosteneva a fondamento della sua pretesa che aveva svolto di fatto attività lavorativa in qualità di direttore marketing in favore della Spa Master Sport, facente parte del medesimo gruppo della Winner’s Sporting, pur essa fallita, dalla quale era stato formalmente assunto e che l’aveva periodicamente retribuito, a seguito di accordi intervenuti - tra gli amministratori delle due società sicché, configurandosi come unico il centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, anche la Winner’s doveva rispondere del credito di lavoro di esso istante.

Dopo la costituzione della società convenuta che deduceva tra l’altro l’infondatezza della domanda attrice per avere il P. reso le sue prestazioni solo in favore della Master Sport, cui aveva rassegnato le dimissioni e per non essere la sola apertura di una posizione assicurativa indice della costituzione del rapporto di lavoro con la Winner’s, e dopo che nel corso del giudizio il suddetto P. aveva ridotto la sua pretesa per avere ottenuto, a seguito di transazione, il pagamento di parte del suo credito dal fallimento della Winner’s Sporting -il Tribunale adito rigettava l’opposizione e condannava il P. al pagamento delle spese del giudizio.A seguito di gravame del P., la Corte d’appello di Bari con sentenza del 21 ottobre 2001 rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spese, del grado a favore del fallimento della Winner’s Sporting. Nel pervenire a tale conclusione la Corte territoriale osservava che - contrariamente a quanto sostenuto dal P. - il disposto dell’articolo 1 della legge 1369/60, occupandosi delle prestazioni di lavoro rese in violazione del divieto di intermediazione di manodopera sanciva, con il suo tenore letterale, il principio che in detta fattispecie il lavoratore deve considerarsi "a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato" le sue prestazioni. Nel ritenere privo di qualsiasi rilievo il riferimento che, a sostegno della sua richiesta, il P. aveva fatto all’articolo 3 della suddetta legge 1369/60, la Corte territoriale precisava poi che detta norma ha un ambito applicativo differente da quello proprio dell’articolo 1, in quanto quel che rileva ai fini della operatività delle due disposizioni è la natura delle prestazioni appaltate perché nel caso in cui esse siano riconducibili a mere prestazioni di lavoro si ha "l’inserimento del prestatore nella struttura organizzativa dell’azienda appaltante (ipotesi prevista dall’articolo 1 della citata legge)", nel caso invece in cui le prestazioni appaltate riguardano altri fattori produttivi(capitali, macchine ed attrezzature) permane "l’inserimento del prestatore nella struttura organizzativa dell’azienda appaltatrice" (ipotesi che di norma implica l’obbligo solidale di appaltante ed appaltatore di assicurare i trattamenti minimi retributivi e normativi praticati ai dipendenti del primo ai sensi degli articoli 3 e 5 della legge 1369/60). Nel caso in esame non risultava che la prestazione oggetto di appalto tra le due società fosse andata al di là della sola prestazione lavorativa del P. sicché l’unica società obbligata al pagamento delle spettanze rivendicate dal lavoratore doveva ritenersi la Master Sport.

Avverso la suddetta decisione G. P. propone ricorso per cassazione, affidato ad un unico articolato motivo.

Resiste con controricorso il fallimento della società Winner’s Sporting Footwear.

Ambedue le parti hanno depositato memorie difensive ex articolo 378 Cpc.

A seguito di ordinanza del 5 dicembre 2005 della Sezione lavoro, che ha rilevato come sulla questione posta dal ricorso le decisioni di questa Corte presentino un panorama non omogeneo, la controversia è stata assegnata, alla stregua dell’articolo 142 disp. att. Cpc, alle Sezioni Unite.

Motivi della decisione

1. Con il ricorso la società Winner’s Sporting deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 1 legge 1369/60 in relazione all’articolo 360 comma 1 n. 3 Cpc. Più precisamente la società ricorrente addebita alla impugnata sentenza di avere interpretato la suddetta norma sulla base del solo dato letterale senza tenere cosi conto che essa -nulla dicendo in ordine alla responsabilità dell’appaltatore o interposto - presenta una lacuna colmabile con una corretta opzione ermeneutica che guardando, invece, alla disposizione nel suo complesso deve condurre a ritenere l’interposto non esonerato dagli obblighi conseguenti al rapporto di lavoro. In altri termini la nullità del rapporto di intermediazione o di interposizione nelle prestazioni lavorative non comporta la liberazione dell’appaltatore o dell’interposto dagli obblighi nati dal rapporto di lavoro perché la responsabilità di tali soggetti, che sono pur sempre i titolari del rapporto di lavoro, permane e concorre in via autonoma con quella dell’imprenditore che ha effettivamente utilizzato dette prestazioni.

1.1. Come è stato ricordato la presente controversia è stata rimessa a queste Sezioni Unite per dirimere un contrasto giurisprudenziale sorto sull’interpretazione dell’articolo 1 della legge 1369/60 che ha regolato - sino alla sua abrogazione ad opera,dell’articolo 85, comma 1,lettera c) del D.Lgs. 276/03 - il divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, che originariamente previsto ex articolo 212.7 Cc soltanto per i lavori a cottimo è stato poi esteso dalla norma ora scrutinata ad ogni attività di lavoro subordinato.

2. Ed invero, un primo indirizzo giurisprudenziale ha ritenuto che in capo all’interposto, ed in concorso con l’interponente, permangono gli obblighi derivanti dal rapporto lavorativo o correlati allo stesso.Si è in alcune decisioni affermato che i lavoratori, se pure sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze di chi ne abbia utilizzato le prestazioni, possono comunque richiedere l’adempimento di alcuni obblighi, come il versamento dei contributi previdenziali, al datore di lavoro interposto(cfr. tra le altre: Cassazione 6649/04; 6144/04; 3096/01; 1355/93), evidenziandosi nell’ambito di tale indirizzo: che si configura tra il committente ed il datore di lavoro interposto una obbligazione solidale per il pagamento delle retribuzioni (cfr. in tali sensi 6144/04 cit. secondo cui dal credito retributivo azionato nei confronti del datore di lavoro interposto deve essere detratto comunque quanto percepito dall’interponente datore di lavoro); che in ogni caso il datore di lavoro interposto non può essere sottratto alla responsabilità "retributiva" dei lavoratori da lui formalmente dipendenti sicché questi ultimi, in caso di fallimento del datore di lavoro apparente, ben possono esigere dal fondo di garanzia il pagamento del Tfr secondo modalità e termini di cui all’articolo 2 della legge 297/82 (cfr. Cassazione 3096/01 cit.); che l’essere per legge i lavoratori considerati a tutti gli effetti alle dipendenze di chi ha utilizzato le sue prestazioni non vale a liberare l’appaltatore o l’interposto dagli obblighi(anche in materia di assicurazioni sociali) nati dal rapporto di lavoro, perché essi rimangono sempre titolari di detto rapporto in virtù dell’apparenza del diritto e dell’affidamento dei terzi in buona fede (Cassazione 1355/93 cit., cui adde 3066/87, 659/87, 1041/82, che ribadiscono anche esse come la responsabilità dell’appaltatore o dell’interposto permanga e concorra in via autonoma con quella dell’imprenditore che ha utilizzato le prestazioni del lavoratore).

2.1. Un siffatto iter argomentativo ha trovato conforto, come ha ricordato puntualmente la società ricorrente, anche in ampi settori dottrina. Si è sostenuto, infatti, che dall’esame complessivo della legge 1369/60 emergono indicazioni univoche per addossare anche all’interposto gli obblighi scaturenti dal rapporto di lavoro perché risulterebbe privo di coerenza logica ritenere che il legislatore, mentre in sede penale punisce insieme all’interponente anche l’interposto, lasci poi quest’ultimo indenne in sede civile svincolandolo dalla obbligazioni nei confronti dei lavoratori.Sotto, altro versante si è patrocinata la tesi volta ad applicare analogicamente la responsabilità solidale dell’appaltante e dell’appaltatore di opere e di servizi da eseguire all’interno delle aziende ai sensi dell’articolo 3 della legge 1369/60; e si è, infine, rimarcato come l’interposto risulti obbligato in base, ad un meccanismo di novazione oggettiva legale, che trasforma l’obbligazione originaria del suddetto interposto in una obbligazione di garanzia in ragione dello sfavore con il quale è stata vista l’attività contrattuale volta al perseguimento di un obiettivo dannoso per il lavoratore.

3. Altro indirizzo giurisprudenziale è pervenuto all’opposta conclusione - condivisa nella impugnata sentenza - secondo cui gli obblighi retributivi per le prestazioni rese dal lavoratore fanno carico unicamente sul datore di lavoro che dette prestazioni ha utilizzato, cosi come dettato in maniera chiara dall’articolo dall’ultimo comma dell’articolo 1 della legge 1369/60, sicché deve escludersi una concorrente responsabilità dell’appaltatore o dell’interposto. Nell'ambito di tale indirizzo formatosi prevalentemente con riguardo agli obblighi di natura non retributiva perché scaturenti dalla disciplina delle assicurazioni sociali - sulla premessa della nullità del contratto del committente e appaltatore (per illegittimità dell’oggetto e della causa) e sulla base della instaurazione "ex lege" di un rapporto diretto fra lavoratori ed imprenditori che ne utilizzano le prestazioni si è messo in rilievo che, la titolarità del rapporto lavorativo fa capo all’utilizzatore e che l’esclusività di tale titolarità non subisce limitazione alcuna per effetto dei principi dell’apparenza e dell’affidamento(cfr. in tali sensi: Cassazione 5901/99 nonché 1733/00 che - in applicazione degli stessi principi - in una fattispecie relativa a prestazioni previdenziali ha escluso la necessità di estendere il contraddittorio all’appaltatore o al soggetto interposto). Ed in senso conforme, utilizzando cioè sempre la lettera della legge - e precisamente il disposto dei primi tre commi dell’articolo 1 della legge 1369/60 (comportante la nullità del contratto tra committente ed appaltatore o intermediario), e dell’ultimo comma della stessa norma (secondo cui "I prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni") - si è statuito che esclusivamente sull’appaltante(o interponente), e non anche sull’appaltatore(o interposto), gravano gli obblighi in materia di assicurazioni sociali nati dal. rapporto di lavoro senza che possa configurarsi una concorrente responsabilità di quest’ultimo(cosi: Cassazione 16160/04; 5901/99 cit.; ed ancora 970/04, che ha però precisato come il principio enunciato non operi in relazione all’azione di rivalsa proposta dall’Inail nei confronti dell’appaltatore ex articolo 11 del Dpr 1124/65).

4. Oltre alla lettera della legge numerose ulteriori, ragioni di ordine logico-sistematico, inducono a condividere questo secondo indirizzo.A tale riguardo va in primo luogo rimarcato come tale conclusione sia confortata dal chiaro tenore della più volte ricordata disposizione di cui all’ultimo comma dell’articolo 1 della legge 1369/60, che mostra in maniera chiara come il legislatore abbia nella fattispecie ora scrutinata inteso seguire quella vasta corrente dottrinale e giurisprudenziale volta a svalutare la funzione del contratto individuale di lavoro e la formale conclusione. dello stesso - quale fonte regolatrice del rapporto di lavoro - devolvendo in buona misura la disciplina dello stesso a fonti extranegoziali ed alla legge sino a pervenire alla conseguenza di individuare l’effettivo datore di lavoro attraverso una sostituzione di quello indicato dalle parti mediante la manifestazione della loro volontà contrattuale - con quello che in concreto si giova dell’opera del prestatore. In altri termini, come si è puntualmente evidenziato, al fine di evitare ai danni del lavoratore un trattamento (sia sotto il versante economico che sotto quello normativo) ingiusto perché non corrispondente alle prestazioni rese e non parametrato sulla reale inserzione delle sue prestazioni nell’organizzazione produttiva dell’impresa, il legislatore si è attenuto al principio secondo cui il vero datore di lavoro è quello che effettivamente utilizza le prestazioni lavorative anche se i lavoratori sono stati formalmente assunti da un altro(datore apparente) e prescindendosi da ogni indagine (che tra l’altro risulterebbe particolarmente difficoltosa) sull’esistenza di accordi fraudolenti (tra interponente ed interposto).

4.1. E proprio su tali presupposti ed a seguito di analogo approccio teorico con la problematica in esame la giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha già avuto occasione di statuire, seppure in controversie attinenti a problematiche di natura processuale, che il divieto ex articolo 1 legge 1369/60 - volto ad evitare che la dissociazione fra l’autore dell’assunzione e l’effettivo beneficiario delle prestazioni lavorative si risolva in un ostacolo al diritto del lavoratore di pretendere il più vantaggioso trattamento che gli sarebbe spettato se assunto, direttamente da tale beneficiario - opera oggettivamente prescindendo da un intento fraudolento o simulatorio delle parti e senza che l’incidenza del divieto stesso sia limitata al momento genetico del rapporto, ossia all’ipotesi in cui l’assunzione dei lavoratori da parte del datore di lavoro interposto coincida con l’inizio dell’esecuzione delle prestazioni lavorative a favore dell’effettivo beneficiario delle medesime(cfr. in tali sensi Cassazione, Sezioni Unite, 2517/97, che precisa altresì come il suddetto divieto operi anche in un momento successivo alla costituzione del rapporto ove il lavoratore distaccato presso altra impresa non renda più le proprie prestazioni al datore di lavoro distaccante ma si ponga al servizio esclusivo dell’imprenditore di destinazione, pur continuando ad apparire alle dipendenze del primo, che assume così la figura dell’interposto ex articolo 1 della legge 1369/60 cit.; ed in precedenza negli identici termini: Cassazione 8706/91).Al riguardo va ribadito, dando maggiore compiutezza argomentativa a quanto ora detto, che l’indirizzo volto a reputare il beneficiario delle prestazioni lavorative come l’unico tenuto ai sensi dell’articolo 1 della legge 1369/60 non solo all’adempimento degli obblighi connessi al trattamento economico e normativo spettante al lavoratore ma anche alla corresponsione dei contributi previdenziali, si pone in continuità logico- giuridico, oltre che con la già ricordata decisione, anche con un precedente sentenza con la quale le stesse Sezioni Unite nel negare la configurabilità di un. litisconsorzio necessario nel processo di accertamento dell’interposizione vietata - e di condanna del vero datore di lavoro a soddisfare i crediti del lavoratore - hanno escluso che nella fattispecie di interposizione di manodopera sia ravvisabile quell’unica "situazione giuridica complessa" richiesta ex articolo 102 Cpc. Hanno osservato sul punto i giudici di legittimità che la "struttura del rapporto di lavoro subordinato, quale risulta dalla normativa sostanziale (articolo 2094 Cc) è bilaterale e non plurilaterale" ed hanno poi sottolineato che "il lavoratore che, agendo in giudizio , afferma l’esistenza di un rapporto con un certo datore di lavoro e ne nega uno diverso con altra persona, non deduce in giudizio alcun rapporto plurisoggettivo né alcuna situazione di contitolarità ma tende ad una utilità (il petitum) ottenibile rivolgendosi ad una sola persona, ossia al datore vero" mentre "l’accertamento negativo del rapporto fittizio con il datore di lavoro interposto rapporto che per lo più è frutto di accordo simulatorio con il datore di lavoro interposto - costituisce oggetto di questione pregiudiziale, conosciuta dal giudice in via soltanto incidentale, ovvero senza vincolare il terzo attraverso la ‘cosa giudicata, ovvero, ancora, senza alcuna lesione del suo diritto di difesa (cfr. in questi testuali termini in motivazione Cassazione, Sezioni Unite, 14897).

5. È stato osservato da più parti che, nonostante la già ricordata abrogazione dell’articolo 1 della legge 1369/60, il dibattito sorto intorno alla intermediazione di manodopera - stante la presenza di valori permanenti di stampo costituzionale diretti a collegare al rapporto di lavoro subordinato e solo ad esso una serie di posizioni di vantaggio - è destinato a spostarsi in giurisprudenza anche all’interno del nuovo quadro normativo delineato dal D.Lgs. 276/03, con riferimento in particolare alla "somministrazione irregolare", ipotesi prevista dall’articolo 27, comma 1, di detto decreto (secondo cui il lavoratore può "chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del Cpc, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione"). Tale considerazione oltre a confortare le ragioni già svolte sollecita l’esternazione di ulteriori motivi che spingono - in linea con quanto queste Sezioni Unite hanno già statuito sul versante processuale - a ribadire anche su quello sostanziale come nella interposizione di mano d’opera il beneficiario delle prestazioni lavorative sia l’unico soggetto tenuto all’adempimento di tutte le prestazioni che nel rapporto fanno carico sul datore di lavoro, incluso il versamento dei contributi previdenziali, salvo sempre la possibilità, nel caso che il prestatore subisca un deterioramento della propria posizione, di agire nei riguardi dell’interponente con una autonoma azione, che in presenza di una condotta produttiva di danni per il lavoratore, trova fondamento in una ipotesi di responsabilità extra - contrattuale ex articolo 2043 Cc.

5.1. In particolare devono reputarsi non condivisibili le diverse ragioni addotte per affermare che il disposto dell'articolo 1 cit. contempli una responsabilità solidale - per il pagamento delle retribuzioni del lavoratore - tra il committente ed il datore di lavoro interposto. Ed infatti, non vale parlare al riguardo di novazioneoggettiva legale in obbligazione di garanzia dell’obbligazione assunta dall’interposto nei confronti dei suoi prestatori di lavoro in quanto questa opinione finisce, nell’assoluto silenzio del legislatore, per utilizzare impropriamente un istituto caratterizzantesi non solo per la diversità della nuova obbligazione (aliquid novi) ma anche per la volontà delle parti di estinguere la precedente obbligazione e sostituirla con una nuova (animus novandi) volontà che deve risultare invece "in modo non equivoco" (articolo 1230, 2 comma, Cc) si da non potere essere desunta in base alle regole dell’interpretazione oggettiva, dovendo invece risultare sicura in applicazione dei criteri di interpretazione soggettiva.

5.2. Né sotto altro versante, anche al fine di legittimare un obbligo oltre che dell'interponente anche sull’interposto in materia di corresponsione dei contributi previdenziali, può invocarsi il principio dell’apparenza come pure in alcuni decisioni stato sostenuto (cfr. al riguardo: Cassazione 3096/01; 10556/95, 1355/93; 1080/87). A tal proposito, sul piano generale va ricordato come la teoria dell’apparenza non assurga a principio capace di sovrastare le singole figure legislativamente e esaurientemente disciplinate allorquando la normativa legale è funzionalizzata alla tutela di interessi meritevoli di una efficace tutela in ragione della loro rilevanza a livello costituzionale; ed inoltre, per quanto attiene all’individuazione dell’obbligato al versamento dei contributi, il principio in esame non risulta utilizzabile nell’ambito delle obbligazioni pubbliche, intese alla soddisfazione di interessi anzitutto di rilevanza sociale e nelle quali è parte una pubblica amministrazione, ed anche perché il suddetto principio per tradursi in una tutela dell’affidamento incolpevole non appare invocabile con riferimento agli enti previdenziali in quanto la necessità su di. essi incombente di corrispondere in ogni caso le prestazioni ai lavoratori induce il legislatore ad attribuire ad essi mezzi speciali per la realizzazione dei propri crediti, ivi compreso l’ausilio degli ispettori del lavoro, che vigilano sull’esecuzione delle leggi. in materia, rilevano l’organizzazione del lavoro nelle singole imprese e le rimunerazioni, esercitando poteri di polizia giudiziaria. (così in motivazione: Cassazione 5901/99 cit., secondo cui tutto ciò assicura che i rapporti tra le parti nascano, nei loro elementi oggettivi e soggettivi, secondo le previsioni normative e le corrispondenti realtà di fatto, sulle quali non possono prevalere le parvenze).

6. Per concludere sul punto non è, infine, consentito fondare la responsabilità dell’interposto sulla cessione del contratto (articolo 1406 Cc), sul presupposto di analogie in realtà non ravvisabili tra detto contratto e la fattispecie regolata dall’articolo 1 legge 1369/60 in quanto, a fronte della natura di negozio trilatero della cessione, la intermediazione prescinde dalla partecipazione del lavoratore al contratto tra interposto (o appaltatore) e interponente (o committente) al quale rimane anzi sovente del tutto estraneo sino a subire talvolta notevoli pregiudizi; né tanto meno un ampliamento dei soggetti responsabili è praticabile attraverso un richiamo alla responsabilità solidale prevista nell’articolo 3 della legge 1369/60 stante la netta e radicale differenziazione tra i due istituti messi a confronto in quanto a differenza dell’ipotesi di interposizione di manodopera rientrante nel divieto di cui all’articolo 1 della legge 1369/60, la disciplina posta per i contratti di appalto dall’articolo 3 della legge stessa è applicabile in relazione ad attività che l’appaltatore debba svolgere all’interno dello stabilimento o degli stabilimenti in cui ha sede l’attività produttiva dell’appaltante(cfr. ex plurimis: Cassazione 12546/03, che sul presupposto della differenza dell’ambito applicativo delle disposizioni di cui agli articoli 1 e 3 legge 1369/60, ha escluso che 1 a domanda relativa all’accertamento della violazione del divieto di interposizione di manodopera possa ritenersi compresa in quella di riconoscimento della responsabilità solidale di cui all’articolo 3 suddetto; ed ancora: Cassazione 4046/99; 6347/98).

7. A ben vedere la dissoluzione delle combinazioni negoziali poste in essere, come si è visto, attraverso l’intermediazione vietata e la sostituzione dell’imprenditore beneficiario all'intermediario - non è che concreta espressione nella materia in oggetto della generale regola giuslavoristica secondo la quale in relazione ad identiche anche per quanto attiene ai periodi temporali prestazioni lavorative deve essere esclusa la configurabilità di due diversi datori di lavoro dovendosi considerarsi come parte datoriale solo colui su cui in concreto fa carico il rischio economico dell’impresa nonché l’organizzazione produttiva nella quale è di fatto inserito con carattere di subordinazione il lavoratore, e l’interesse soddisfatto in concreto dalle prestazioni di quest’ultimo, con la conseguenza che chi utilizza dette prestazioni deve adempiere tutte le obbligazioni a qualsiasi titolo nascenti dal rapporto di lavoro.

7.1. Per andare in contrario avviso non può sostenersi neanche che l’indicato principio di carattere generale ha perduto consistenza giuridica a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 267/03. Detta disciplina - in un prospettiva di rinnovata rimodulazione delle relazioni industriali e del mercato del lavoro da perseguirsi anche mediante un accrescimento delle tipologie negoziali ha invero espressamente riconosciuto con la somministrazione del lavoro(articolo 20 D.Lgs. cit.) ed in certa misura anche con il distacco(articolo 30 D.Lgs. cit.) - una dissociazione fra titolare e utilizzatore del rapporto lavorativo con una consequenziale disarticolazione e regolamentazione tra i due degli obblighi correlati alla prestazione lavorativa (cfr. al riguardo tra le altre norme gli articoli 21-26 D.Lgs. 267 cit.). La indicata disciplina, pur presentandosi come una innovazione - seppure rilevante per le implicazioni di carattere teorico sulla sistemazione dogmatica del rapporto lavorativo - si configura anche nell’attuale assetto normativo come una eccezione, non suscettibile né di applicazione analogica né di interpretazione estensiva, sicché allorquando si fuoriesca dai rigidi schemi voluti del legislatore per la suddetta disarticolazione si finisce per rientrare in forme illecite di somministrazione di lavoro come avviene in ipotesi di "somministrazione irregolare" ex articolo 27 cit. o di comando disposto in violazione di tutto quanto prescritto dall’articolo 30 cit.; fattispecie che, giusta quanto sostenuto in dottrina, continuano ad essere assoggettate a quei principi enunciati in giurisprudenza in tema di divieto di intermediazione di manodopera.

8. All’esito dell'esposto procedimento motivazionale può dunque fissarsi il seguente principio di diritto. "Nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono i primi tre commi dell’articolo 1 legge 1369/60 (divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego della mano d’opera negli appalti di opere e di servizi) la nullità del contratto fra committente ed appaltatore (o intermediario) e la previsione dell’ultimo comma dello stesso articolo - secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni - comportano che solo sull’appaltante(o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell'appaltatore (o interposto) in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi".

9. Il ricorso va pertanto rigettato perché la sentenza impugnata, per essere pervenuta ad una soluzione in linea con le statuizioni sopraenunciate e per essere sorretta da una motivazione adeguata e priva di salti logici, non merita le censure che le sono state mosse.

10. Ricorrono giusti motivi - tenuto conto della natura della controversia e delle numerose questioni trattate - per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

lunedì 25 dicembre 2006

Inquinamento acustico e potestà regolamentare del comune

Cassazione sez. I civile, sentenza 01.09.2006 n° 18953

L'ente locale comunale non può disapplicare la legge n. 477/1995 ma può adottare una più specifica regolamentazione dell’emissione e dell’immissione dei rumori nel loro territorio, prendendo in considerazione gli effetti negativi concreti conseguenti all’impiego di determinate sorgenti sonore sulle occupazioni o sul riposo delle persone e, quindi, sulla tranquillità pubblica o privata.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

Sentenza 1 settembre 2006, n. 18953

(omissis)

Svolgimento del processo

Il Signor L. P. proponeva, in proprio e quale legale rappresentante della Srl L’Ancora, opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione emessa il 24 gennaio 2001 dal Comando di Polizia Municipale del Comune di Jesolo, con la quale gli ora stato ingiunto il pagamento della somma di lire 925.000 a titolo di sanzione amministrativa, oltre la spose, per la violazione dell’articolo 51 del Regolamento di Polizia urbana, approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 80 dell’8 maggio 2000, avendo tenuto in funzione, all’entrata dell’esercizio di intrattenimento e svago denominato «Cuba Libro Caffè», sito presso il Parco Acquatico «Aqualandia» e gestito dall’anzidetta società, i diffusori acustici abbinati a due "mega schermi" a volume tale che la musica da essi diffusa risultava udibile ad una distanza di metri settanta, anche in presenza di traffico veicolare, recando cosi disturbo e molestia alle vicine abitazioni.

A sostegno dell’opposizione, il ricorrente assumeva, da un lato, che l’anzidetto Regolamento comunale doveva essere disapplicato, in quanto contrastante la legge quadro sull’inquinamento acustico 447/95; e, dall’altro, che l’accertamento era stato effettuato senza il necessario ausilio di idonei strumenti tecnici di misurazione del rumore. Con sentenza del 7 giugno 2001 l’adito Giudica di Pace di San Dona di Piave rigettava l’opposizione, osservando che la disposizione dell’articolo 51 del Regolamento comunale era posta a tutela della quiete pubblica, e dunque di un bene giuridico diverso da quello protetto dalla legge 447/95, che mirava piuttosto a salvaguardare la saluto dei cittadini, individuando la soglia di tollerabilità delle emissioni ad immissioni sonore.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il P., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della Srl L’Ancora, sulla base di due motivi.

L’intimato Comune di Jesolo non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il P. denuncia violazione e falsa applicazione della legge 447/95 e del Dpcm 1° marzo 1991, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’illegittimità dell’articolo 51 del Regolamento comunale sull’erroneo assunto che tale disposizione tutelerebbe un bene diverso da quello protetto dalla citata legge 447/95.

Contrariamente, infatti, a quanto affermato dal primo Giudice, la legge ora indicata è diretta a stabilire i limiti di rumorosità delle sorgenti sonora, oltre i quali dove ritenersi sussistente l’inquinamento acustico, in funzione di tutela non soltanto della salute del cittadino, ma anche come si evince dalla previsione generale dell’articolo 2, comma 1, lettera a) della quiete pubblica.

Nel disciplinare ex novo la materia, la legge in parola avrebbe d’altro canto sostituito al tradizionale criterio della «molestia» quello della «tollerabilità»: sopravvivendo la distinzione tra l’uno e l’altro solo in campo penale, al fine di stabilire ne sussista il reato di cui all’articolo 659 Cp o la violazione amministrativa di cui all’articolo 10 della legge 447/95.

L’articolo 6 della legge sancisco inoltre espressamente(l’obbligo dei comuni di adeguare i regolamenti locali di igiene e sanità o di polizia municipale, con la previsione di apposite norme contro l’inquinamento acustico; stabilendo, altresì, che nelle more dell’adozione degli atti previsti, trovi applicazione la normativa nazionale dettata dal Dpcm 1° marzo 1991, lamentando in attuazione della legge 439/96.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione alla legge 447/95 e al Dpcm 1° marzo 1991, lamentando che il Giudice di pace abbia ritenuto configurabile la violazione in base alla sole dichiarazioni dei verbalizzanti, frutto di valutazioni meramente soggettiva: laddove, invece, ai fini della verifica della sussistenza dell’illecito, gli accertatori avrebbero dovuto far uso di fonometri o altri idonei strumenti tecnici, confrontando i, dati rilevati con i limiti massimi di esposizione al ‘rumore negli ambienti abitativi esterni fissati dal Dpcm 1° marzo 1991.

Nel ritenere configurabile l’illecito, il primo Giudica aveva omesso d’altro canto di considerare che il Parco «Aqualandia», all’intorno del quale è ubicato il «Cuba Libro Café», risulta circondato da un’ampia zona di rispetto; che le abitazioni più vicine ad esso si trovano a distanza di circa cento metri; che nei prezzi vi è altresì un «Luna Park» e che le strade circostanti sopportano, anche nelle ore notturno, notevoli volumi di traffico.

3. Entrambi i motivi sono infondati.

Colmando un vuoto normativo fortemente avvertito posto che il fenomeno trovava, in precedenza, la sua sola regolamentazione di ordine generale nel Dpcm 1° marzo 1991, che, in attuazione dell’articolo 2, comma 14, della legge 349/86 (istitutiva del ministero dell’Ambiente), aveva stabilito in via provvisoria limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno la legge quadro 447/95 ha fissato, in via sistematica, i principi fondamentali nella materia dell’inquinamento acustico (articolo 1), inteso come evento, conseguente all’introduzione di rumore nell’ambiento abitativo o nell’ambiento esterno, atto a compromettere un complesso di valori, quali il riposo e le attività umane, la salute umana, gli ecosistemi, i beni materiali, i monumenti, gli stessi ambienti abitativi o esterni e la «legittime fruizioni» di questi (articolo 2, comma 1, lettera a).

A tal fine, la legge prendo in considerazione il rumore prodotto da tutte le sorgenti sonoro fisso e mobili (articolo 2, comma 1, lettera c) e d) prevedendo segnatamente, quanto ai relativi parametri di accertamento, l’introduzione di valori limite di emissione (misurati in prossimità della sorgente sonora) e valori limiti di immissione (misurati in prossimità dei ricettori) (articolo 2, comma 1, lettera e) ed f), la cui concreta determinazione viene riservata allo Stato, che vi provveda a mezzo di appositi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (articolo 3, comma 1, lettera a).

La legge prevede, per il resto, una articolata ripartizione di competenze tra lo Stato, la Regioni e gli enti locali (articoli 3 6), stabilendo, in particolare quanto ai comuni che essi adottino regolamenti per l’attuazione della disciplina statale e ragionale per la tutela dall’inquinamento acustico (articolo 3, comma 1, lettera e)), adeguando, a tal fine, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge stessa, i regolamenti locali di igiene e sanità o di polizia municipale, con la previsione di apposite norma, segnatamente quanto al controllo, al contenimento e all’abbattimento delle i sonora derivanti dalla circolazione degli autoveicoli e dall’esercizio di attività che impiegano sorgenti sonore (articolo 3, comma 2).

Sul piano sanzionatorio, l’articolo 10 della legge punisca con sanzione amministrativa pecuniaria tanto il superamento dei valori limito di emissione o di immissione, fissati nei modi stabiliti (comma 2); quanto, i ed in via generale, la violazione della disposizioni dettate in applicazione della legge stessa dallo Stato, dalle regioni, dalle province e dai comuni (comma 3).

Ciò premesso, questa Corte ha già avuto modo di affermare con riguardo a fattispecie concreta concernente l’applicazione di altra disposizione regolamentare di omologa ispirazione dello stesso Comune di Jesolo – che se nessun ente pubblico locale può disapplicare le disposizioni della legge statale dianzi ricordato, introducendo, in specie, fuori dei casi espressamente consentiti (v. l’articolo 6, comma 1, lettera h), in relazione allo svolgimento di attività e manifestazioni temporanee) valori limito di emissione o di immissione dei rumori diversi e comunque inferiori rispetto a quelli risultanti dai decreti emanati a norma dell’articolo 3, comma 1, lettera a), della legge statale (cfr. articoli 3 e 4 del Dpcm 14 novembre 1997), ciò non impedisce tuttavia ai comuni di adottare una più specifica regolamentazione dell’emissione e dell’immissione dei rumori nel loro territorio, la quale, nel rispetto dei vincoli derivanti dalla legge 447/95, prenda in considerazione, non già il dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità considerato, per presunzione iuris et de iure, come generativo di un fenomeno di inquinamento acustico, a prescindere dall’accertamento dell’effettiva lesione del complesso di valori indicati nell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge ma i concreti effetti negativi provocati dall’impiego di determinate sorgenti sonore sulle occupazioni o sul riposo della persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o privata (Cassazione, 15081/03).

Si tratta, invero, di considerazione analoga, mutatis mutandis, a quella che ha condotto la Sezioni penali di questa. Corte ad escludere che la contravvenzione prevista dall’articolo 659, primo comma, Cp possa ritenersi abrogata o depenalizzata dalla legge 447/95, in correlazione alla previsione sanzionatoria di cui all’articolo 10, comma 2, della legge stessa, avendo la due norme obiettivi e struttura diversi: giacché mentre l’una (quella del Cp) mira a colpire gli affétti negativi della rumorosità in funzione della tutela della tranquillità pubblica, postulando che l’uno di strumenti sonori abbia arrecato, alla luce di tutto le circostanze del caso specifico, un effettivo disturbo alle occupazioni e al riposo della persone; l’altra (quella della legge 447/95), essendo diretta unicamente a stabilire i limiti di rumorosità della sorgenti sonore, oltre i quali deva ritenersi sussistente l’inquinamento acustico, prende in considerazione solo il superamento di un certo valore soglia, a prescindere dall’accertamento delle concrete potenzialità lesive del medesimo (Cassazione penale, 443/01; 2316/98).

La disposizione di cui all’articolo 51 del Regolamento di Polizia urbana del Comune di Jesolo rientra per l’appunto nell’ambito della disposizioni dianzi indicate: inserita nel Titolo IV, dedicato alla «quieto e sicurezza nel centro abitato», e non già nel successivo Titolo V, specificamente finalizzato alla «tutela dall’inquinamento acustico», essa è rivolta infatti a salvaguardare la tranquillità degli abitanti del comune in confronto alla offese concretamente recate tramite l’inopportuno impiego, nell’ambito dall’«esercizio di locali da ballo», di «apparecchi per la riproduzione o l’amplificazione del suono o delle voci o delle attrazioni musicali o della esibizioni».

E ciò a prescindere dall’avvenuto obiettivo superamento dei limiti di rumorosità fissati dalla legge 447/95 e dal Dpcm 14 novembre 1997. integrativo dell’autonoma violazione prevista dall’articolo 10 della legge statale, che nella specie non è stata infatti contestata al ricorrente.

Pertanto, non si trattava di stabilire se fossero stati osservati i limiti massimi al riguardo introdotti da detto Dpcm, né di compiere le rilevazioni nelle località e con i criteri individuati dalle norma dianzi indicate, tali da richiedere l’utilizzazione di appositi apparecchi di precisione; bensì di accertare se il rumore generato dalla condotta ascrivibile al ricorrente fosso idoneo a determinare l’evento di disturbo della tranquillità pubblica avuto di mira dalla norma regolamentare.

In tale prospettiva, la sentenza impugnata ha dunque legittimamente fondato la verifica circa la sussistenza dell’illecito sugli accertamenti al riguardo compiuti dalla Polizia municipale, la quale ha evidenziato come le casse acustiche posta nel parcheggio antistante il parco acquatico «Aqualandia», all’entrata dell’esercizio di intrattenimento e svago «Cuba Libro Café» ~ esercizio riconducibile al novero dei locali da ballo agli affetti dell’articolo 51 del regolamento diffondessero musica a volume tale da poter essere udita, anche in presenza di traffico veicolare, fino ad una distanza di settanta metri, ossia fino all’incrocio, munito di semaforo, tra le Vie Buonarroti e Padania (circostanza, questa, peraltro incontestata), cosi da recare disturbo e molestia alle vicine abitazioni residenziali, ubicate ad una distanza inferiore a quella dell’accertamento.

Trattandosi di un apprezzamento di fatto, sorretto da motivazione sintetica, ma comunque congrua ed immune da vizi logico giuridici vizi che il ricorrente non ha peraltro neppure prospettato, limitandosi puramente e semplicemente a sollecitare una rivalutazione delle conclusioni del primo giudice sulla base dell’enunciazione di un complesso di circostanza fattuali, in assunto contrastanti lo stesso si sottrae al sindacato di questa Corte di legittimità.

4. Il ricorso va pertanto rigetto.

Nulla per le spese, non avendo il Comune di Jesolo svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Depositata in Cancelleria, il 1.9.2006.

lunedì 18 dicembre 2006

TV, uso privato e uso a fine di Lucro

TV, uso privato e uso a fine di lucro: non integra il reato di cui all'art. 171-ter, lett. e), l. 633/41 l'uso della TV ad accesso condizionato con un abbonamento ad uso privato in contesto pubblico o commerciale senza che vi sia la prova sul fine di lucro che non può essere presunta

n. 327/2006 r.t.s.
n. 15698/2006 rgnr pm Ba


TRIBUNALE DI BARI
* Sezione del riesame *


riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati:


- dr. Oronzo Putignano (presidente rel.)
- dr. Giovanni Abbattista (giudice)
- dr. Francesca Della Valle (giudice)


decidendo sull'istanza di riesame ex art. 324 cpp presentata l'11.10.2006 dai difensori di XXX, gli avv. Ernesto Cianciola e Avv. Simona De Napoli, avverso il decreto di convalida di sequestro emesso il 28.9.2006 dal Pm presso il Tribunale di Bari;
esaminati gli atti del procedimento, pervenuti in cancelleria il 13.10.2006, udito difensore dell'istante e sciogliendo la riserva di cui al separato verbale d'udienza, il Collegio


Espone ed Osserva


La sera del 26.9.2006 personale della GdF di Bari, durante l'espletamento di un servizio predisposto a tutela del diritto d'autore, accedeva presso il locale "GGGGGGG di XXXX".
I verbalizzanti constatavano la presenza di un televisore collocato all'interno dell'unica sala del locale, che proiettava l'incontro di calcio valido per la "Champions League" Milan-Lille, concesso in visione a pagamento ad utenti titolari di abbonamento al servizio ad accesso condizionato "Mediaset Premium".
Il XXXX, richiesto dai finanziari, non era in grado di esibire la documentazione comprovante il contratto di abbonamento relativamente alla smart card inserita nel decoder. Sul retro di questa era apposta la dicitura: "l'utilizzo della card e limitato ad ambiti personali e/o domestici. E' vietato l'utilizzo in ambiti commerciali e/o in locali aperti al pubblico".
Per tale ragione la Pg, contestando il reato previsto dall'art. 171-ter lett. e) L. n. 633/1941, sottoponeva a sequestro il decoder digitale e la relativa smart card.
Con decreto del 28.9.2006 il Pm presso il Tribunale di Bari – che indicava, quasi certamente per un mero lapsus calami, l’art. 171-ter comma 2 anziché l’art. 171-ter, co. 1 lett. e) L. n. 633/1941 – convalidava il sequestro d'urgenza ritenendo che lo stesso "sia stato legittimamente eseguito in quanto trattasi di sequestro di corpo di reato soggetto a confisca o, comunque, di cose pertinenti ad esso, assolutamente necessario per l'accertamento dei fatti, per la prosecuzione delle indagini e per l'assicurazione della prova di merito".
Avverso tale provvedimento di sequestro giudiziario i difensori del XXXX proponevano istanza di riesame, sostanzialmente deducendo l'inconfigurabilità del reato ipotizzato tenuto conto dell'occasionalità della sua condotta, dell'assenza di lucro e di consapevolezza dell'illiceità del fatto, dell'appartenenza del decoder al padre YYYY (estraneo al procedimento penale). La parte tecnica chiedeva il dissequestro e la conseguente restituzione dei beni ablati.
Invero, l'art. 171-ter, co. 1, lett. e) L n. 633/1941, introdotto dall'art. 14 L. 18.8.2000, n. 248, punisce, se il fatto è commesso per uso non personale, chiunque a fini di lucro, in assenza di accordo con illegittimo distributore, ritrasmette o diffonde con qualsiasi mezzo un servizio criptato ricevuto per mezzo di apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni ad accesso condizionato.
Al riguardo la Corte d'Appello di Catanzaro, con sentenza del 7.1.2004 (in Altalex, 29.6.2004), ha ritenuto che la trasmissione in pubblico di programmi codificati, attraverso l'utilizzazione di abbonamenti ad uso privato (cd. smart card), non configuri il reato di cui all'art. 171-ter, co. 1, lett. e), L. n. 633/1941, posto che tale ipotesi, rientrando nell'ambito delle attività illecite previste dall'art. 4 D.lvo 15.11.2000, n. 373, e sanzionata solo in via amministrativa dal successivo art. 6 del medesimo decreto legislativo. E ciò in aderenza all'orientamento espresso da Cass., sez. 28.11.2001, n. 42561, secondo cui il D.lvo n. 373/2000 ha depenalizzato tutte le condotte aventi ad oggetto l'acquisizione, l'installazione e la detenzione di apparecchiature e strumenti idonei ad eludere i sistemi di protezione delle trasmissioni televisive in forma codificata e quindi l'intero settore televisivo.
Si è invece statuito in senso difforme (Cass., sez. III 17.5-23.9.2002, n. 31579, Martina, rv. 222308) che, in tema di tutela del diritto d'autore, l'uso di una scheda elettronica ("smart card") che consente la ricezione dei programmi televisivi a pagamento in un locale e nell'ambito dell'attività di un circolo privato, cui più persone accedono dietro pagamento di una quota associativa, configura il reato di cui all'art. 171 ter della legge 22 aprile 1941, n. 633, qualora il contratto posto in essere con la società di trasmissione dei programmi preveda l'uso strettamente personale e familiare di tale strumento, con esclusione di finalità commerciali (ma, a dire il vero, tale pronuncia riguarda il servizio di pay tv che era offerto in abbonamento da "Stream", società poi acquisita da "Sky" unitamente a "Telepiù").
Mette conto segnalare che con ordinanza del 7.10.2004 il Gip del Tribunale di Catanzaro sollevava questione di legittimità costituzionale del disposto dell'art. 171 ter, primo comma, lett. e) della legge 22 aprile 1941 n. 633, in relazione all'art. 3 Cost.
Il giudice rimettente rilevava che chi versa in situazione di manifesta e totale pirateria elettronica, in quanto fraudolentemente produce, pone in vendita, importa, promuove, installa, modifica, utilizza per uso pubblico e privato apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato effettuate via etere, via satellite, via cavo, in forma sia analogica che digitale, e punito con sanzione amministrativa pecuniaria. Mentre chi, munito di regolare contratto e lecito detentore di siffatte apparecchiature, viola il contratto operando una diffusione ad utilizzo improprio, si espone a sanzione più grave, sicché, paradossalmente, un comportamento confinato nella sfera privata del soggetto agente o, comunque, non sorretto da fini di arricchimento patrimoniale e concernente servizi erogati senza corrispettivo economico, resta sottoposto a sanzione penale.
Investito dell'incidente di costituzionalità il Giudice delle leggi con ordinanza n. 157 del 5.4.2006 ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione giacché il rimettente, "nel denunciare l’”ingiustificata disparità di trattamento tra chi realizza un fatto di maggior disvalore, punito come illecito amministrativo, e chi realizza un fatto di minor disvalore, autore di un illecito penale e come tale sanzionato", muove da un erroneo presupposto ermeneutico, giacché, pur richiamando l'interpretazione che la Corte di Cassazione ha dato dell'art. 171 ter, comma 1, lettera e), della legge n. 633 del 1941, egli poi se ne discosta, ritenendo che la fattispecie di reato da esso prevista sia integrata anche in presenza di "un comportamento confinato nella sfera privata del soggetto agente o, comunque, non sorretto da fini di arricchimento patrimoniale", laddove la norma denunciata richiede che il fatto sia commesso “per uso non personale” e "a fini di lucro"; che, inoltre, l’ordinanza di rimessione non indica, né lascia chiaramente desumere, la disposizione di legge che configurerebbe come illecito amministrativo la condotta dal giudice a quo ritenuta di maggior disvalore; che, infatti, l'ordinanza di rinvio si limita genericamente a richiedere, come termine di raffronto, la condotta di "chi versa in situazione di manifesta e totale pirateria elettronica, in quanto fraudolentemente produce, pone in vendita, importa, promuove, installa, modifica, utilizza per uso pubblico e privato apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato effettuate via etere, via satellite, via cavo, in forma sia analogica che digitale", senza ancorarla ad una precisa disposizione di legge, assunta a tertium comparationis; che, d'altra parte, occorre considerare, per un verso, che l’art. 171-octies, comma 1, della legge n. 633 del 1941 – dichiarato costituzionalmente illegittimo, con la sentenza n. 426 del 2004, limitatamente ai fatti commessi fino all'entrata in vigore della legge 7 febbraio 2003, n. 22, nella parte in cui puniva con sanzione penale, anziché con la sanzione amministrativa prevista dall'art. 6 del decreto legislativo 15 novembre 2000, n. 373, l’utilizzazione per uso privato di apparecchi o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato effettuate via etere, via satellite, via cavo, in forma sia analogica sia digitale – prevede, per i fatti commessi successivamente all'entrata in vigore della legge n. 22 del 2003, la sanzione penale della reclusione e della multa per "chiunque a fini fraudolenti produce, pone in vendita, importa, promuove, installa, modifica, utilizza per uso pubblico e privato apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato effettuate via etere, via satellite, via cavo, in forma sia analogica sia digitate"; e, per l'altro verso, che le fattispecie già sanzionate in via amministrativa in base al combinato disposto degli artt. 4 e 6 del d.lgs. n. 373 del 2000 (i quali, limitatamente alle condotte tipiche sostanzialmente assimilabili o sovrapponibili alle fattispecie penalmente sanzionate dal citato art. 171-octies, contemplavano quali elementi specializzanti il fine di commercio nonché la fornitura a pagamento del servizio ad accesso condizionato) hanno acquistato rilievo penale a seguito dell'art. 1 della citata Legge n. 22 del 2003 ...".
Orbene, è utile chiarire che per accedere ai servizi di "Mediaset Premium" l'utente – contrariamente a quanto ritenuto dai finanzieri – non deve sottoscrivere alcun contratto di abbonamento. Anzi la "filosofia" su cui si fondano i servizi offerti tramite il cd. digitale terrestre e proprio quella opposta: ciò garantire l'eliminazione di ogni canone fisso per il cliente, tenuto invece a pagare di volta in volta soltanto l'evento mediatico che intende seguire in tv. Per i locali pubblici, circoli ed associazioni "Mediaset Premium Club" prevede una tessera, un welcome kit ed un box interattivo terrestre predisposto per l'utilizzo dell'anzidetta smart card.
Nella vicenda in esame il fatto risulta commesso per uso non esclusivamente personale; difetta il consenso del distributore ai fini della fruibilità del servizio in ambiti extraresidenziali e quindi vi è stata la diffusione in un esercizio commerciale di un servizio criptato ricevuto grazie ad un decodificatore di trasmissione ad accesso condizionato.
Cionondimeno, né nel verbale di sequestro, né nell'impugnato decreto sono stati addotti elementi in qualche modo dimostrativi del fine strumentale di arricchimento patrimoniale perseguito dall'istante attraverso l'utilizzo del decodificatore e della smart card nel proprio esercizio commerciale, non potendosi ritenere che lo scopo lucrativo, prescritto ai fini dell'incriminabilità della condotta, si colga in maniera indiretta e mediata nell'avere il XXXX - assicurando la disponibilità del servizio televisivo offerto da "Mediaset" - eventualmente invogliato gli avventori a fare accesso nel suo locale e ad effettuare l'acquisto di prodotti d'asporto (sul punto, mentre i finanzieri non danno atto in verbale delle persone presenti, il difensore deduce che nella sala assistevano alla partita di calcio soltanto sette amici del prevenuto).
A tale carenza dimostrativa circa l'esistenza, anche astratta, di un presupposto costitutivo del reato ipotizzato, quale il fine di lucro, non può che conseguire l'annullamento del decreto di convalida del sequestro e la conseguente restituzione in favore dell'avente diritto di quanto oggetto dell'attività apprensiva svolta dalla GdF di Bari.


P.Q.M.


Accoglie l'istanza di riesame e, per l'effetto, annulla il decreto di convalida di sequestro emesso il 28.9.2006 dal Pm presso il Tribunale di Bari nei confronti di XXXX, disponendo — a cura della GdF che ha appreso le res — il dissequestro e la conseguente restituzione in favore dell'avente diritto dei beni ablati.
Si dà mandato alla cancelleria per gli adempimenti di rito.
Cosi deciso in Bari, il 18 ottobre 2006



IL PRESIDENTE
dr Oronzo Putignano


Il Cancelliere
Dott.ssa Caterina NATALE

Permesso di costruire


Necessità del permesso di costruire anche nel caso di realizzazione di un piazzale con pavimentazione bituminosa, trattandosi di rilevante modifica del territorio che non può essere soggetta a semplice D.I.A.




REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

PER L'EMILIA-ROMAGNA

BOLOGNA

SEZIONE II

Registro Sentenze: 2032/06

Registro Generale: 1224/2003

nelle persone dei Signori:

LUIGI PAPIANO Presidente

GIORGIO CALDERONI Cons. , relatore

UGO DI BENEDETTO Cons.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso 1224/2003 proposto da:

ZODDA GIUSEPPE

SAVOCA GAETANA

rappresentati e difesi da:

FABBRI AVV. GIAN LUCA

con domicilio eletto in BOLOGNA

STRADA MAGGIORE 13

presso

GIGLIO AVV. PAOLA

contro

COMUNE DI CASTELVETRO, non costituito

per l’annullamento

dell’ordinanza di rimessa in pristino 18.9.2003 n. 79;

Visti gli atti e i documenti depositati con il ricorso;

Visti gli atti tutti della causa;

Udito, alla pubblica udienza del 29 giugno 2006, il relatore Cons. Giorgio Calderoni e uditi, altresì, i difensori presenti come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

I. Con l’atto introduttivo del giudizio, i ricorrenti rivolgono avverso l’epigrafata ordinanza di rimessa in pristino (concernente il cambio di destinazione d’uso di terreno agricolo, per realizzazione di platea di cemento con posizionamento di due prefabbricati) le seguenti censure:

Violazione dell’art. 7 legge n. 241/90, non essendo il sopralluogo 3.5.2003 della Polizia Municipale stato preceduto dal relativo preavviso;

Ulteriore violazione dell’art. 7 legge n. 241/90, in quanto il procedimento risulterebbe - sulla base del numero di protocollo cui si riferisce la relativa comunicazione di avvio in data 9.6.2003 - già pendente alla data del 12.5.2003, anteriore al decreto sindacale 29.5.2003 di conferimento di funzioni dirigenziali al Responsabile del servizio: il tutto senza che i ricorrenti ne fossero informati;

Violazione degli artt. 2 e 3 legge n. 241/90 ed eccesso di potere, per mancata comunicazione del termine finale del procedimento, erroneità nella motivazione (quanto al preteso cambio di destinazione d’uso) ed incompetenza, non essendo l’ordinanza stata emessa dal Responsabile del procedimento, bensì dal Responsabile del Settore;

Illegittimità dell’esecutorietà dell’ordinanza, in pendenza del termine previsto dall’art. 32 del D.L. n. 269 del 2003.

Con Ordinanza 12 novembre 2003, n. 816, questa Sezione sospendeva l’esecuzione del provvedimento impugnato, sino alla scadenza del termine previsto dalla norma da ultimo citata.

Il Comune intimato non si è costituito in giudizio.

Indi, all’odierna pubblica udienza la causa è passata in decisione.

II.1. Ciò premesso, il Collegio deve, innanzitutto, rilevare l’insussistenza delle molteplici violazioni di natura formale/procedimentale, denunciate dai ricorrenti.

II.2. Invero, la giurisprudenza amministrativa di I e II grado è consolidata nel senso che "la ratio della disciplina sulla partecipazione al procedimento … non esclude affatto che l'avvio del procedimento possa essere preceduto o supportato da controlli, accertamenti, ispezioni svolti senza la partecipazione del diretto interessato, che sarà edotto di queste attività con una successiva comunicazione e sarà, pertanto, messo nella condizione di intervenire nella procedura e di verificare e, se del caso, contestare la veridicità o esattezza degli accertamenti compiuti e la stessa idoneità degli strumenti tecnici utilizzati" (cfr., in termini, T.A.R. Puglia, BARI, Sez. I, 26 settembre 2003, n. 3591; Consiglio di Stato, Sez. V, 5 marzo 2003, n. 1224).

Il che è quanto si è verificato nella specie, in cui gli attuali ricorrenti – non previamente informati dello svolgimento del sopralluogo della Polizia Municipale – sono stati successivamente posti nelle condizioni, mediante la comunicazione 9.6.2003 ex art. 7 legge n. 241/90, di interloquire al riguardo, nel pieno rispetto del contraddittorio procedimentale.

Né alla contraria tesi difensiva dei ricorrenti, svolta con il primo motivo di ricorso, giova il richiamo alla decisione TAR Umbria n. 15/2003, in quanto tale pronuncia:

si riferisce esplicitamente ad una ipotesi di espressa autolimitazione dell’Amministrazione (che si era determinata "a convocare formalmente gli interessati affinché intervenissero al sopralluogo");

evidenzia specificamente come "una volta scelto questo modo di procedere, il Comune doveva attenervisi e curare che la convocazione fosse recapitata in tempo utile e non a cose fatte, o, in alternativa, aggiornare le operazioni";

ed individua in tale peculiare omissione la sussistenza di un vizio procedimentale.

Il menzionato precedente giurisprudenziale non è, dunque, conferente al caso di specie, cosicché, per tutte le considerazioni sin qui svolte, la censura di cui al primo mezzo di impugnazione deve essere disattesa.

II.3. La censura di cui al secondo motivo costituisce sostanziale sviluppo di quella testè esaminata, risolvendosi in una sorta di doglianza di "tardività" della comunicazione (9.6.2003) di avvio del procedimento rispetto alla sua (asserita) effettiva pendenza (12.5.2003): doglianza che, per quanto visto sub II.2, la giurisprudenza considera, invece, priva di pregio, poiché ciò che rileva è la salvaguardia (nella specie, come già esposto, assicurata) della garanzia effettiva del contraddittorio.

Non essendo, dunque, ravvisabili vizi nella comunicazione di avvio del procedimento, siccome inviata il 9.6.2003, non si pone più il presunto problema di competenza che gli stessi ricorrenti paiono adombrare con il secondo profilo del motivo all’esame, in quanto detta comunicazione risulta sottoscritta dal Responsabile di servizio, dopo il conferimento di funzioni dirigenziali da parte del Sindaco (29.5.2003).

II.4. La medesima comunicazione si rivela, altresì, immune dal vizio denunciato con il primo profilo del successivo terzo motivo (mancata indicazione del termine finale di conclusione del procedimento): invero, sempre la giurisprudenza ha chiarito come gli artt. 7 e 8 della legge 7 agosto 1990 n. 241 non stabiliscano alcun termine minimo da rispettare, dopo la comunicazione dell'avvio del procedimento, per l'adozione dell'atto conclusivo e si è preoccupata, piuttosto, che la P.A. non stabilisca un termine troppo breve per la conclusione del procedimento, in guisa tale da ridurre la comunicazione ad un mero adempimento formale, privo di ogni utilità pratica per i destinatari (T.A.R. Marche, 1 agosto 2005, n. 949).

All’opposto, nella specie gli interessati si lamentano dell’eccessiva durata (quattro mesi) del procedimento, pur non avendo, evidentemente, alcun interesse a svolgere siffatta doglianza sotto il profilo partecipativo, tanto più che la durata del procedimento è dipesa anche dal "notevole ritardo" con cui gli stessi ammettono di aver risposto alla comunicazione di avvio 9.6.2003 (cfr. si veda l’incipit della loro memoria, pervenuta al Comune il 6.8.2003, cioè quasi due mesi dopo), ritardo nella stessa memoria giustificato con ragioni di salute.

II.5. Infine, neppure sussiste il vizio di incompetenza dedotto con l’ultimo profilo del terzo motivo, in quanto – al contrario di quanto deducono i ricorrenti – già da tempo la giurisprudenza ha messo in evidenza che il responsabile del procedimento non può adottare il provvedimento finale, ma può soltanto curare lo svolgimento e, quindi, il compimento, degli atti che fossero a questo preordinati (T.A.R. Calabria Catanzaro, 26 febbraio 1998, n. 153): correttamente, pertanto, nella specie il provvedimento conclusivo è stato assunto dal Dirigente-responsabile del servizio e non dal Responsabile del procedimento.

III.1. Il tema di fondo della controversia - ovvero se le opere di cui si tratta (platea di cemento di circa 100 mq., con due sovrastanti prefabbricati) integrino o meno il presupposto per l’adozione del controverso provvedimento repressivo - viene affrontato dai ricorrenti con il secondo profilo del terzo motivo, mediante il quale si denuncia l’erroneità della motivazione del provvedimento medesimo.

Quest’ultima, rileva il Collegio, consiste (cfr. quinto capoverso delle premesse) nelle seguenti contestazioni:

che le opere in questione comportino "trasformazione urbanistica del territorio";

che esista un contrasto con l’art. 44 delle N.T.A.

III.2. Circa il primo ordine motivazionale, va osservato che la Sezione staccata di Parma di questo Tribunale si è già espressa (31 luglio 2001, n. 651) in senso adesivo al prevalente orientamento giurisprudenziale in materia, secondo cui lo spianamento di un'area agricola (con semplice pavimentazione bituminosa, seppur di rilevante estensione), al fine di ricavarvi un piazzale è attività che, comportando una modifica sostanziale dell'assetto territoriale del luogo e dell'utilizzazione economica dell'area, necessita di previo rilascio della concessione edilizia (v. T.A.R. Lazio, Latina, 3/6/1992 n. 485; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. 1^, 7/12/1990 n. 955).
Nell’occasione, la medesima Sezione staccata ha ritenuto che anche la realizzazione di un box prefabbricato, di non trascurabili dimensioni (mq. 36), costituisce un distinto manufatto, destinato ad autonomo utilizzo.

Il Collegio ritiene di non discostarsi dal menzionato precedente del TAR Parma, per le seguenti ragioni:

nella fattispecie i box prefabbricati sono due, uno dei quali di dimensioni maggiori (circa mq. 50), rispetto al caso preso in considerazione dalla sentenza de qua, lo spianamento di terra realizzato dagli attuali ricorrenti è, invece, di dimensioni sensibilmente inferiori, ma nella circostanza esaminata dal TAR Parma (mq. 6.000) si era in presenza di una semplice pavimentazione bituminosa, mentre in questa è stata realizzata una platea in cemento (secondo il Comune, calcestruzzo secondo i ricorrenti: cfr. la menzionata memoria procedimentale) di circa 100 mq.: ed in questo caso, è la Cassazione penale (sez. III, 29 maggio 2003, n. 33002 e n. 33003) a ritenere che la realizzazione di una platea (in calcestruzzo) costituisca una trasformazione urbanistica.

III.3. Quanto al secondo ordine motivazionale, l’art. 44 comma 3 delle NTA del PRG di Castelvetro consente nuove costruzioni ad uso servizi agricoli (deposito per attrezzi e macchinari, ecc.) "solo se è adeguatamente dimostrato che sono indispensabili alla conduzione agricola del fondo": e detta adeguata dimostrazione non è stata fornita dai ricorrenti, neppure in questa sede giudiziale, mediante idonei supporti probatori (relazione di tecnico agrario, eventuale piano aziendale, ecc.), tanto più necessari in rapporto all’assai limitata estensione dell’appezzamento agricolo di proprietà dei ricorrenti, così come dagli stessi dichiarata (mq. 6303) nella più volta citata memoria procedimentale.

IV. Infine, in linea con quanto enunciato recentemente in materia da questa Sezione (cfr. 22 giugno 2006, n. 991), l’interesse alla deduzione dell’ultimo motivo di gravame (sospensione ex lege dell’esecutorietà dell’ordinanza di demolizione impugnata, in pendenza del termine per la proposizione della domanda di condono ai sensi del D.L. n. 269/2003) "in origine sussistente in ragione della pendenza del termine per la presentazione della domanda di condono" (tant’è che questa Sezione ha, allo scopo, disposto la sospensione ad tempus dell’ordinanza medesima), "è oramai venuto meno a causa della sopravvenuta scadenza del termine stesso, senza che la domanda sia stata presentata" (circostanza questa neppure rappresentata in causa dalla parte ricorrente).

IV. Conclusivamente, il ricorso in epigrafe deve essere respinto.

Non occorre provvedere sulle spese, in difetto di costituzione del Comune intimato.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo per l’Emilia-Romagna, Sezione II, RESPINGE il ricorso in premessa.

Nulla per le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

BOLOGNA , li 29 giugno 2006.

Presidente L. Papiano

Cons. Rel. est. G. Calderoni

Depositata in Segreteria in data 13/09/2006


giovedì 14 dicembre 2006

Titoli edilizi




titoli edilizi: portata giuridica dell'istituto della legittimazione a richiedere secondo l'art. 11 del D.P.R. n. 380/2001

T.A.R.

Campania - Napoli

Sezione II

Sentenza 22 settembre 2006, n. 8243

(Pres. Onorato, Est. Russo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale

della Campania

Sezione Seconda

composto dai Signori Magistrati:

Dott. Antonio Onorato Presidente

Dott. Pier Luigi Russo Primo Referendario

Dott. Umberto Maiello Primo Ref., est.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso n°4074/2005, proposto dal Condominio via De Gasperi n°223, in persona dell’Amministratore pro – tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Luciano Noce, con il quale elettivamente domicilia in Napoli alla via Privata Imperatore n°13 presso lo studio dell’Avv. Rosario Ranno.

contro

il Comune di Castellammare di Stabia, in persona del Sindaco pro – tempore, rappresentato e difeso dagli Avv. Donatangelo Cancelmo e Sergio Siracusa, domiciliati d’ufficio, in assenza di elezione di domicilio nel Comune di Napoli, presso la Segreteria del Tribunale;

per l’annullamento previa sospensione

della disposizione dirigenziale n°9206 del 2.3.2005, con la quale il Comune di Castellammare ha inibito l’esecuzione delle opere di cui alla d.i.a. n°3890 del 27.1.2005

Visto il ricorso, con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 6.7.2006 il dott. Umberto Maiello;

Uditi altresì gli avvocati come da verbale d’udienza.

Ritenuto in fatto ed in diritto quanto segue:

FATTO

Con il gravame in epigrafe, la parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n°9206 del 2.3.2005, con la quale il Comune di Castellammare ha interdetto le opere di cui alla d.i.a. n°3890 del 27.1.2005, consistenti nella realizzazione di una recinzione esterna lungo il confine di via De Gasperi n°223 con l’arenile demaniale.

A fondamento dell’opposto diniego l’Amministrazione intimata ha addotto la mancanza di legittimazione della parte istante, che non avrebbe la disponibilità giuridica dell’area oggetto di intervento.

Questa, invero, ricadrebbe nel dominio comunale in forza della delibera di G.M. n°96/96, con cui "si prende atto del trasferimento al Comune delle aree esterne dei centri sociali relativi ad interventi edilizi costruiti sul territorio del Comune di Castellammare di Stabia secondo quanto stabilito dalla delibera n°82/104 del 16.4.96 dell’Istituto Autonomo Case Popolari. Tale ultima delibera reca in elenco l’area di C.V.E. n°408 che dovrebbe corrispondere all’attuale area di corso A. De Gasperi, oggetto della richiesta di delimitazione".

Avverso il precitato provvedimento, con il ricorso in epigrafe, la ricorrente ha articolato le seguenti censure:

l’avversata inibitoria sarebbe priva di un’adeguata fase istruttoria e si fonderebbe sull’erronea rappresentazione della situazione dominicale dell’area;

sarebbe, inoltre, insufficiente il corredo motivazionale dell’atto impugnato;

l’area oggetto dei lavori di recinzione, già di proprietà dello IACP di Napoli, sarebbe stata acquisita dai titolari dei singoli appartamenti del condominio di via De Gasperi, in quanto parte comune e pertinenza del suddetto cespite.

Resiste in giudizio il Comune di Castellammare di Stabia.

All’udienza del 30.6.2005, con ordinanza n°2000/2005, questa Sezione ha accolto la domanda cautelare azionata dalla parte ricorrente.

All’udienza del 6.7.2006, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto.

Giusta quanto anticipato nella parte narrativa, il Comune di Castellammare di Stabia ha interdetto l’esecuzione delle opere di recinzione del condominio di via De Gasperi, rivendicando la proprietà dell’area di sedime.

Tanto in ragione di quanto espressamente previsto nella locale delibera di G.M. n°967/96, con cui "si prende atto del trasferimento al Comune delle aree esterne dei centri sociali relativi ad interventi edilizi costruiti sul territorio del Comune di Castellammare di Stabia secondo quanto stabilito dalla delibera n°82/104 del 16.4.96 dell’Istituto Autonomo Case Popolari. Tale ultima delibera reca in elenco l’area di C.V.E. n°408 che dovrebbe corrispondere all’attuale area di corso A. De Gasperi, oggetto della richiesta di delimitazione".

Com’è noto, l’art. 11 del d.p.r. 380/2001 prevede, al comma 1°, che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a "chi abbia titolo" per richiederlo; allo stesso modo, l’art. 23 del richiamato testo normativo abilita alla presentazione della d.i.a. per l’esecuzione di interventi edili minori il proprietario dell'immobile o "chi abbia titolo".

L’ampia formula utilizzata dal legislatore induce a ritenere che la legittimazione ad aedificandum non resti circoscritta al solo proprietario ma si estenda anche ad ogni altro soggetto titolare di un diritto (non importa se reale o personale) che lo legittimi, nei confronti del proprietario dell’area e, di conseguenza, nei confronti dell'autorità, ad eseguire le previste trasformazioni urbanistico-edilizie del suolo.

A tale riguardo, va ricordato che, secondo un costante insegnamento della giurisprudenza, maturato in sede di interpretazione dell'art. 4 della legge n. 10 del 1977, la proprietà del suolo non è condizione indispensabile per il conseguimento o il rilascio della concessione edilizia, essendo sufficiente che il richiedente "abbia titolo per richiederla", risultando a tal uopo valutabili anche gli atti unilaterali con cui il titolare del bene ha espresso la volontà di mettere il fondo a disposizione di persone determinate ( arg. Ex CdS Sez. V n°4864 del 20.9.2005).

Sul piano istruttorio, l'Amministrazione comunale, cui è rimessa la delibazione di conformità urbanistica di ogni progetto edilizio, deve verificare, tra l’altro, che esista il titolo per intervenire, la cui esistenza è elevata nell’ambito della normativa di settore a presupposto di legittimità sia degli interventi che implicano il rilascio del permesso di costruire sia per l’esecuzione di opere soggette a mera d.i.a., anche se la giurisprudenza amministrativa ha da sempre escluso un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l'immobile (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2001 n. 1507; Consiglio di stato, sez. V, 07 luglio 2005 , n. 3730).

Tanto premesso, il provvedimento spedito dal Comune di Castellammare, in quanto espressione di un’istruttoria inadeguata, appare manifestamente disancorato dalle richiamate coordinate di riferimento e, dunque, del tutto inidoneo a reggere l’opposta inibitoria.

Giusta quanto già sopra anticipato, la ragione ostativa su cui si fonda l’avversata determinazione interdittiva è data dall’affermata appartenenza al patrimonio comunale dell’area sulla quale dovrebbe essere eretta la recinzione condominiale.

Nella suddetta prospettiva, il titolo idoneo a radicare le rivendicazioni dominicali dell’Ente resistente sarebbe la sopra richiamata delibera di G.M. n°967 del 1996, con cui il Comune di Castellammare di Stabia avrebbe preso atto del trasferimento, in suo favore, tra l’altro, del cespite in argomento, trasferimento asseritamente disposto dall’IACP, già proprietario dei beni in questione, con delibera n°82/104 del 16.4.1996.

A ben vedere, tale assunto non trova riscontro nelle risultanze istruttorie: anzitutto, da una piana lettura del deliberato da ultimo citato si evince, che il detto trasferimento, pur programmato, è rimasto ad uno stadio meramente optativo, senza giammai tradursi in un atto traslativo idoneo a determinare, per effetto di una volontà negoziale dispositiva manifestata nelle forme di rito, una vicenda di acquisto derivativo idonea a reggere l’affermato subentro del Comune di Castellammare nella titolarità del bene in questione.

Invero, l’IACP, pur avendo valutato la convenienza dell’operazione di dismissione dal proprio patrimonio immobiliare delle aree esterne e dei centri sociali relativi ad interventi edilizi eseguiti nel territorio del Comune di Castellammare, ha programmato di procedere alla relativa cessione in due tempi: dapprima mediante consegna provvisoria dei suoli e poi con atto di trasferimento definitivo, da effettuarsi mediante rogito notarile.

Appare, dunque, di evidenza intuitiva come, in difetto di ulteriori dichiarazioni che nel rispetto della suddetta scansione cronologica rivelassero l’attuale volontà di cessione delle aree in questione, non può dirsi perfezionata una fattispecie negoziale di trasferimento della proprietà dei suddetti beni.

Senza contare che non vi è prova nemmeno dell’acquisizione in possesso, da parte del Comune, delle aree inserite nell’elenco allegato alla delibera IACP 82/04 del 16.4.1996, non essendo stati versati in atti – né in alcun modo provati – i verbali di consegna dei singoli immobili che le parti avrebbero dovuto curare in contraddittorio.

Peraltro, a cagione di ciò, è rimasta segnata da un alone di incertezza la stessa identificazione delle aree antistanti il condominio ricorrente con quelle incluse nell’elenco di cui alla precitata delibera IACP 82/104.

Lo stesso Comune di Castellammare, in maniera evidentemente inappagante, si limita ad affermare che l’area di Corso Vittorio Emanuele n°408 "dovrebbe corrispondere" all’attuale area di corso de Gasperi.

Tale vuoto probatorio appare vieppiù dirimente se rapportato al contenuto dell’ordinanza propulsiva assunta dal Collegio all’udienza camerale del 30.6.2005, in ragione della quale la resistente Amministrazione comunale veniva espressamente onerata a rideterminarsi proprio in ordine alla questione in esame dell’appartenenza giuridica dell’area contesa, che avrebbe dovuto essere adeguatamente documentata in ragione dei titoli giuridici risultanti dai pubblici registri immobiliari.

Sul punto, nell’inerzia dell’Amministrazione, la parte ricorrente ha esibito una certificazione dalla quale risulta che, nell’arco temporale ricompreso tra l’anno 1991 e l’anno 1995 ed in riferimento all’area in questione di via De Gasperi, censita in catasto al fol. 5 p.lla 107, non risultano trascrizioni in favore del Comune di Castellammare.

In disparte quanto finora osservato, già di per sé assorbente ai fini del presente giudizio, mette, altresì, conto evidenziare che la parte ricorrente aveva corredato la propria richiesta edificatoria di documentazione da cui si sarebbe potuto evincere la disponibilità giuridica dell’area e che, invece, è rimasta inspiegabilmente obliterata nella valutazioni svolte dal Comune.

Di contro, le dette risultanze procedimentali, ancorché non assistite dalla certezza dichiarativa propria delle attestazioni rilasciate dalle conservatorie immobiliari, apparivano, in mancanza di documentazione di segno contrario, astrattamente idonee ad accreditare una legittimazione della ricorrente a disporre dell’area in argomento, in linea con le coordinate ermeneutiche tracciate dai sopra richiamati arresti giurisprudenziali.

A tal riguardo, vale osservare che lo stesso Istituto Autonomo delle Case Popolari della Provincia di Napoli, con note prot.llo 1431 del 24.1.1994 e n°13294 del 14.6.2000, ha ripetutamente attestato che l’area libera esterna, a meno delle due traverse colleganti la via De Gasperi con l’arenile, correnti lungo i lati nord e sud dell’edificio, già di proprietà dell’Istituto in virtù dei decreti prefettizi di esproprio n°5862 del 15.2.1993 e n°5885 del 28.3.1939, costituisce, a seguito dell’attuazione del piano assegnazione alloggi, pertinenza dell’edificio ed è comune a tutti gli alloggi da cui è costituito.

In definitiva, l’avversata disposizione dirigenziale non appare assistita dal predicato della coerenza con le divisate emergenze procedimentali, rivelandosi, pertanto, manifestamente illogica ed incongruamente motivata.

Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il ricorso va accolto e, per l’effetto, s’impone l’annullamento dell’atto impugnato.

Sussistono nondimeno giusti motivi per compensare le spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, annulla l’atto impugnato.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del 6.7.2006.

Il Primo Ref. Estensore Il Presidente

Depositata in Segreteria in data 22 settembre 2006.

martedì 5 dicembre 2006

Ricostruzione di un rudere

Ricostruzione di un rudere, non è ristrutturazione edilizia bensì nuova costruzione
Consiglio di Stato , sez. V, sentenza 15.09.2006 n° 5375


Il Consiglio di Stato, Sez V, Giurisdizionale, interviene a confermare l'orientamento secondo il quale il recupero di un rudere che si presenti privo di consistenza volumetrica non può esssere qualificato ristrutturazione. Ne consegue l'inapplicabilità della D.I.A., trattandosi di edificazione ex novo col ricorso al permesso di costruire.


Consiglio di Stato

Sezione V

Sentenza 15 settembre 2006, n. 5375

(Pres. Venturini, Est. Lodi)


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso iscritto al NRG 3226/2005 proposto dal COMUNE DI VIBO VALENTIA, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Michele Accorinti ed elettivamente domiciliato presso lo stesso in Roma, Via della Ferratella in Laterano, n. 33;

contro

B. R. e C. M., rappresentati e difesi dall’avv. Gianfranco Spinelli ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avv. M. Mele in Roma, Via Crescenzio, n. 37;

e nei confronti di

S. T., non costituita in giudizio;

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria – Sezione di Catanzaro, n. 2381 del 12 novembre 2004.

Visto il ricorso in appello;

visto l'atto di costituzione in giudizio e l’appello incidentale proposto dai summenzionati signori B. e C.;

viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

visti gli atti tutti della causa;

data per letta alla pubblica udienza dell’11 luglio 2006 la relazione del consigliere Pier Luigi Lodi; nessuno comparso per le parti;

ritenuto e considerato quanto segue:

FATTO

Con atto notificato il 25 marzo 2005, depositato il successivo 21 aprile, il Comune di Vibo Valentia ha presentato appello avverso la sentenza del T.A.R. Calabria – Sezione di Catanzaro, n. 2381/2004, che aveva accolto in parte il ricorso proposto dai signori R. B. e M. C. per l’annullamento dei provvedimenti comunali in data 28 gennaio e 27 febbraio 2003, di definizione in senso positivo del procedimento di verifica di legittimità della denuncia di inizio di attività inoltrata dalla signora S. per la ristrutturazione di un fabbricato contiguo alla proprietà dei ricorrenti.

In particolare il Comune appellante contesta l’accoglimento, da parte del giudice di primo grado, della censura relativa alla non riconducibilità ad una ipotesi di ristrutturazione della prevista ricostruzione di un vano, ridotto a rudere, posto nel cortile dell’edificio, sostenendo che anche tale intervento poteva rientrare nell’insieme sistematico di opere oggetto della D.I.A. in questione.

Con atto notificato il 18 – 19 maggio 2005, depositato il 1° giugno successivo, i signori B. e C. hanno presentato controricorso, con appello incidentale, contestando in fatto ed in diritto le diverse statuizioni del giudice di primo grado.

Con memorie le parti hanno ulteriormente insistito nelle rispettive tesi.

La causa è passata in decisione all’udienza pubblica dell’11 luglio 2006.

DIRITTO

1. - I ricorrenti in primo grado, proprietari di un immobile sito nel Comune di Vibo Valentia, avevano impugnato i provvedimenti del medesimo Comune concernenti la verifica di legittimità, in senso positivo, della denuncia di inizio di attività, relativa alla ristrutturazione di un fabbricato confinante con quello di loro proprietà.

Con la sentenza appellata il giudice di primo grado ha accolto il ricorso per la sola parte relativa al previsto intervento di ricostruzione di un vano già esistente nel cortile retrostante al fabbricato, trattandosi di attività ritenuta non riconducibile alla nozione di ristrutturazione.

2. - L’appello principale è stato proposto dal menzionato Comune per riaffermare la legittimità anche della ricostruzione del vano in questione, ormai ridotto allo stato di rudere, sostenendosi che per configurare una ipotesi di ristrutturazione sarebbe sufficiente la preesistenza di un fabbricato demolito da ricostruire fedelmente; nel caso in esame, poi, si doveva effettuare una valutazione complessiva dell’intervento previsto, che comprendeva anche il piccolo vano in parola, da considerare come pertinenza del fabbricato principale, la volumetria del quale sarebbe comunque desumibile dalle tracce rimaste.

2.1. - Ritiene la Sezione che tali argomentazioni non siano condivisibili.

Appare anzitutto contraddittorio l’assunto della sostanziale unitarietà dell’intervento, a fronte della obiezione in ordine alla scindibilità dei singoli titoli abilitativi riguardanti i lavori progettati, formulata con memoria dalla difesa comunale in riferimento alla censura dedotta in proposito dai ricorrenti in primo grado, riproposta dai medesimi con appello incidentale.

Non sembra attendibile, d’altronde, la qualificazione come "pertinenza", ossia come " cosa destinata in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa" ai sensi dell’art. 817 c.c., del rudere di cui si tratta, del quale rimangono soltanto pochi residui e tracce, a quanto emerge dalla documentazione fotografica prodotta dalla stessa parte interessata.

In ogni caso, quindi, non potrebbe farsi rientrare in una fattispecie di ristrutturazione edilizia un intervento come quello in discorso, in cui la parte dell’opera muraria ancora esistente non consentirebbe, in realtà, la sicura individuazione dei connotati essenziali del manufatto originario e, quindi, la sua fedele ricostruzione.

Deve condividersi, pertanto, la pronuncia del giudice di primo grado in proposito, in quanto la ricostruzione degli anzidetti ruderi va considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, in quanto non equiparabile alla ristrutturazione edilizia, e per simile attività deve essere richiesto apposito permesso di costruzione, non essendo possibile far ricorso alla denuncia di inizio di attività, ai sensi dell’art. 1, comma 6, della legge 21 dicembre 2001, n. 443 (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10 febbraio 2004, n. 475).

In conclusione l’appello principale si palesa infondato e va respinto.

3. - La Sezione ritiene che pure il ricorso incidentale, proposto dai ricorrenti in primo grado per contestare le altre statuizioni della sentenza appellata, sia ugualmente privo di concreto fondamento.

3.1. - In primo luogo, i predetti ricorrenti insistono sul fatto che, trattandosi di un solo progetto edificatorio, l’annullamento disposto dal giudice di primo grado, con riferimento alla prevista ricostruzione del rudere di cui sopra, doveva estendersi all’intero intervento, producendosi altrimenti una vera e propria modifica progettuale da parte del detto giudice.

L’assunto va disatteso in quanto trattasi, come accennato sopra, di parti chiaramente scindibili del progetto, caratterizzate da una propria autonomia, con conseguente possibilità di eliminazione delle sole attività edificatorie che siano riconosciute illegittime, senza che ciò possa riflettersi, con effetti invalidanti, sulla legittimità della restante parte dell’intervento nel suo complesso.

3.2. - In secondo luogo non appaiono sussistenti le asserite violazioni delle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico vigente, ed in ispecie dell’art. 45 che, per la porzione di zona residenziale di ristrutturazione RR, ricompresa tra i due rami ferroviari – su cui insiste l’immobile in questione – prevede l’applicabilità del precedente art. 35, in base al quale, come sottolineato dai ricorrenti incidentali, sono ammessi interventi di ristrutturazione solo nel caso di "comprovata ed urgente necessità", non dimostrata nel caso di specie.

Al riguardo va condiviso l’assunto del primo giudice, che fa riferimento ad una apposita relazione illustrativa del tecnico comunale, acquisita in via istruttoria, rilevando che la predetta zona residenziale di ristrutturazione RR è specificamente disciplinata dall’art. 36 delle N.T.A., il quale non subordina ad alcuna condizione l’esecuzione degli interventi di ristrutturazione, mentre il richiamato art. 35 si applica solo alle zone degli insediamenti storici RS, che riguardano esclusivamente il centro storico e non interessano il luogo ove si trova l’immobile ora considerato.

3.3. - Infine, i ricorrenti prospettano un aumento di volumetria - con conseguente necessità di previo rilascio di concessione edilizia - per effetto della maggiore elevazione delle tamponature, rispetto a quelle prima esistenti, che sarebbe stata realizzata in una verandina al primo piano, prevista sulla solettina esistente del ripostiglio del piano terra, con relativa pavimentazione e parapetto in muratura.

Osserva in proposito il Collegio che pur tenendosi conto della varia documentazione, anche fotografica, versata in atti, assume determinante rilievo la circostanza che trattasi di una loggia (della limitata superficie di mq 2,80 circa) ricavata dal prolungamento del tetto di copertura ed in aderenza ad un preesistente corpo sporgente, per cui risulta applicabile la disposizione dell’art. 5 delle N.T.A. il quale esclude - ai fini del calcolo della superficie lorda - simili superfici se non superiori (come in questo caso) al 30% della superficie coperta. Se ne desume, quindi, la insussistenza dei presupposti per il calcolo di una ulteriore volumetria.

3.4. - Alla stregua di quanto sopra esposto, anche il ricorso incidentale deve essere respinto.

4. - Stante la soccombenza di entrambe le parti, sussistono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta),

definitivamente pronunciando sul ricorso e sull’appello incidentale meglio specificati in epigrafe:

- respinge l’appello principale e l’appello incidentale e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata;

- dichiara integralmente compensate fra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell’11 luglio 2006, con la partecipazione di:

Lucio Venturini - Presidente

Pier Luigi Lodi Rel. Estensore - Consigliere

Antonino Anastasi - Consigliere

Carlo Deodato - Consigliere

Salvatore Cacace - Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

Pier Luigi Lodi Lucio Venturini

DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 15 settembre 2006.

lunedì 4 dicembre 2006

Fascicolo del fabbricato: legittimità e limiti alla sua istituzione

TAR Lazio, sez. II, sentenza 13.11.2006 n° 12320

T.A.R.

Lazio

Sezione II

Sentenza 13 novembre 2006, n. 12320

(Pres. La Medica – Est. Russo)

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO, SEZ. II

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 5627/2004, proposto dal Confederazione italiana della proprietà edilizia – CONFEDILIZIA, con sede in Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, nonché dal dott. G. R., rappresentati e difesi dal prof. Vittorio ANGIOLINI e dall’avv. Chiara PARMEGGIANI ed elettivamente domiciliati in Roma, alla circonvallazione Clodia n. 29;

CONTRO

il COMUNE DI ROMA, in persona del sig. Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Rodolfo MURRA ed elettivamente domiciliato in Roma, alla via del Tempio di Giove n. 21

E NEI CONFRONTI

- della REGIONE LAZIO, in persona del sig. Presidente pro tempore della Giunta regionale, controinteressata, rappresentata e difesa dall’avv. Luigi ULISSI ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via M. Clementi n. 68 e

- dell’Associazione Liberi amministratori di Condomini – ALAC, con sede in Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, interventrice ad adiuvandum, rappresentata e difesa dall’avv. Pietro RICCI ed elettivamente domiciliata in Roma, alla circonvallazione Clodia n. 29;

PER L’ANNULLAMENTO

della deliberazione n. 27 del 24 febbraio 2004, pubblicata all’Albo pretorio dal 2 al 16 marzo 2004, con cui il Consiglio comunale di Roma ha provveduto all’istituzione del fascicolo del fabbricato, nonché d’ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio delle parti intimate;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore all’udienza pubblica del 14 giugno 2006 il Cons. dott. Silvestro Maria RUSSO e uditi altresì, per le parti, solo gli avvocati PARMEGGIANI e MURRA;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

In virtù dell’art. 1 della l. reg. Lazio 12 settembre 2002 n. 31, i Comuni del Lazio hanno facoltà d’istituire un fascicolo per ogni fabbricato esistente o di nuova costruzione, in relazione alla necessità di conoscere lo stato di conservazione del patrimonio edilizio e d’individuare le eventuali situazioni di rischio per gli edifici pubblici e privati.

Ancorché il successivo art. 3 prevedesse l’emanazione d’un apposito regolamento in materia, la Regione Lazio non v’ha provveduto, ma il Comune di Roma ha ritenuto d’emanare il provvedimento istitutivo di detto fascicolo, stante l’inclusione del territorio comunale tra le aree a rischio sismico, nonché la necessità d’avere contezza dello stato del patrimonio edilizio.

Sicché, con deliberazione n. 27 del 24 febbraio 2004, pubblicata all'Albo pretorio dal 2 al 16 marzo 2004, il Consiglio comunale di Roma ha provveduto all’istituzione del fascicolo del fabbricato, da tenere a disposizione per ogni controllo delle Autorità competenti. Avverso tale statuizione si gravano allora, con il ricorso in epigrafe, la CONFEDILIZIA e consorte innanzi a questo Giudice. I ricorrenti deducono in punto di diritto: A) – la violazione degli artt. 1, 3 e 6 della l.r. 31/2002 e l’eccesso di potere sotto vari profili, essendo mancata la previa e necessaria emanazione del regolamento regionale d’attuazione; B) – l'illegittimità del contenuto del fascicolo di fabbricato secondo la deliberazione impugnata ed il relativo regolamento, che pretende adempimenti ulteriori e più gravosi rispetto a quanto stabilito dalla l.r. 31/2002; C) – l'illegittimità costituzionale della l.r. 31/2002 con riferimento agli artt. 3, 33, 41, 42, 97 e 117 Cost. Con motivi aggiunti depositati il 6 luglio 2005, i ricorrenti impugnano altresì il regolamento di cui alla deliberazione della Giunta regionale del Lazio n. 6 del 14 aprile 2005, recante attuazione dell’art. 3 della l.r. 31/2003, deducendo ulteriori profili di censura.

Resiste in giudizio il Comune intimato, che eccepisce il difetto di legittimazione (per potenziale conflitto di interessi con alcuni suoi associati) in capo alla CONFEDILIZIA, l’inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum dell’ALAC (l’obbligo d’istituzione del fascicolo non gravando sugli amministratori di condomini), il precedente rigetto, da parte della Sezione, di un’analoga domanda anteriormente all’entrata in vigore della l.r. 31/2002 e, nel merito, l’infondatezza della pretesa attorea. Anche la Regione Lazio s’è costituito nel presente giudizio, concludendo per il rigetto della pretesa azionata in questa sede. Interviene ad adiuvandum l’ALAC, una delle associazioni di categoria degli amministratori di condominio con sede in Roma, che deduce in punto di diritto l’eccessiva gravosità degli adempimenti posti a carico degli amministratori stessi.

Alla pubblica udienza del 14 giugno 2006, su conforme richiesta delle parti, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1. – Viene all’odierno esame del Collegio l’impugnazione, da parte di CONFEDILIZIA e del dott. G. R., della deliberazione n. 27 del 24 febbraio 2004, pubblicata all’Albo pretorio dal 2 al 16 marzo 2004, con cui il Consiglio comunale di Roma ha provveduto, giusta la facoltà al riguardo concessa ai Comuni del Lazio dall’art. 1 della l. reg. Lazio 12 settembre 2002 n. 31, all’istituzione del fascicolo del fabbricato per ogni fabbricato esistente o di nuova costruzione, in relazione alla necessità di conoscere lo stato di conservazione del patrimonio edilizio e d’individuare le eventuali situazioni di rischio per gli edifici pubblici e privati.

2. – Va disattesa l’eccezione d’inammissibilità, per conflitto di interessi tra l’associazione di categoria ricorrente ed alcuni suoi associati, sollevata dal Comune di Roma.

A tal riguardo, è jus receptum che la legittimazione delle associazioni di categoria a proporre ricorso giurisdizionale va esclusa quando l'associazione stessa adisca questo Giudice per far valere gli interessi solo d’una parte dei suoi componenti e trascurando quelli, eventualmente, di segno contrario (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 30 maggio 2005 n. 2804; id., 14 giugno 2005 n. 3113). Poiché, quindi, le associazioni di categoria sono legittimate ad agire in giudizio a tutela degli interessi della collettività di cui sono entri di riferimento (così Cons. St., V, 17 luglio 2004 n. 5138), per escluderne la processuale non basta predicare che il provvedimento impugnato sia non lesivi della categoria unitariamente considerata ma solo di alcuni dei soggetti associati. Occorre, piuttosto, che il conflitto di interessi non solo non sia meramente potenziale, ma riguardi una vicenda in cui in concreto la statuizione amministrativa gravata soddisfi una parte facilmente individuabile di associati rispetto agli altri. Nella specie, non solo il preteso conflitto è solo ipotizzato, ma soprattutto non è neppure indicato in che cosa, tra quali soggetti associati e con riguardo a quale vi-zio censurato si sostanzi, mera petizione di principio essendo l’astratta possibilità che forse vi sia qualcuno che s’avvantaggi dell’atto impugnato.

Parimenti da respingere è l’eccezione d’inammissibilità che il Comune intimato solleva, perché l’impugnata istituzione non grava sugli amministratori di condominio, nei confronti dell’intervento ad adiuvandum spiegato dall’ALAC, una delle associazioni di categoria di tali amministratori. Nel processo amministrativo, siffatto intervento può esser svolto anche da soggetti aventi un mero interesse di fatto all'accoglimento dell'impugnativa proposta dal ricorrente, purché la posizione giuridica fatta valere dall'interventore sia dipendente, secondaria oppure accessoria rispetto all'interesse fatto valere in giudizio dal ricorrente stesso (giurisprudenza consolidata: cfr., da ultimo, Cons. St., IV, 30 maggio 2005 n. 2795; id., 1° marzo 2006 n. 1002). Nella specie, se è materialmente vero che l’impugnata deliberazione non addossi agli amministratori di condominio l’obbligo d’ adottare il fascicolo di fabbricato, non per ciò solo essi sono immuni da responsabilità, soprattutto per la custodia dello stesso. Non è allora chi non veda come tale onere, oltre ad aggravare di per sé la posizione degli amministratori, dipenda dall’adozione del fascicolo da parte dei proprietari, sicché sono soddisfatti i presupposti legittimanti l’intervento adesivo e, in particolare, appunto la dipendenza della situazione soggettiva dell’ interventore da quella parte principale.

3. – Nel merito e per una miglior comprensione delle vicende di causa, reputa opportuno il Collegio rammentare che l’istituzione del fascicolo di fabbricato già aveva dato luogo ad un contenzioso in relazione alla deliberazione consiliare n. 166 del 4 novembre 1999, che l’aveva a suo tempo previsto e che poi fu sospesa dal Consiglio di Stato (sez. V) con l'ordinanza n. 2714 del 2 luglio 2002.

Intervenne quindi la l.r. 31/2002, il cui art. 1 attribuì ai Comuni del Lazio la facoltà d’istituire un fascicolo per ogni fabbricato esistente o di nuova costruzione. Tanto in relazione alla necessità di conoscere lo stato conservativo del patrimonio edilizio, di provvedere alla individuazione di situazioni a rischio relative a fabbricati pubblici e privati e di programmare eventuali interventi di ristrutturazione e di manutenzione degli stessi, onde prevenire rischi di eventi calamitosi. Detta facoltà, a sua volta, era conformata dal successivo art. 3, che stabilì la potestà regolamentare regionale per fissare: A) – lo schema del fascicolo del fabbricato; B) – i termini di scadenza per il completamento del fascicolo stesso nelle aree di particolare rischio; C) – le procedure di compilazione del fascicolo ed il relativo aggiornamento; D) – l'anagrafe degli immobili e le caratteri-stiche; E) – le modalità ed i principi delle convenzioni che i Comuni a-vrebbero potuto stipulare con gli Ordini ed i Collegi professionali; F) – le modalità d’individuazione delle zone a rischio, per le quali è necessario ed indispensabile la redazione del fascicolo stesso.

Non avendo la Regione tempestivamente emanato il regolamento ex art. 3, il Comune di Roma, con l’impugnata deliberazione n. 27/2004, v’ha provveduto in via autonoma. Al riguardo, il Comune prescrive pure i dati sulla situazione geologica, geotecnica ed agroforestale dell’area, sulla presenza di servitù e di corsi d’acqua, sulla giacitura del terreno, sul grado di conservazione delle strutture e sulla raccolta e smaltimento fognario – idrico ed adduzione antincendio, oltre che una relazione tecnica di sintesi. È prevista altresì la possibilità che il tecnico incaricato ex art. 4, c. 2 della l.r. 31/2003, in caso di necessità ed in base ad adeguati motivi, proponga un’ulteriore fase d’approfondimento conoscitivo per svolgere specifici controlli specialistici e, se del caso, a seguito dei conseguenti risultati, per eseguire interventi idonei a rimettere in sicurezza il fabbricato.

Nelle more del presente giudizio è intervenuto il regolamento d'attuazione dell’art. 3 della l.r. 31/2002, di cui alla deliberazione della Giunta regionale del Lazio n. 6 del 14 aprile 2005 ed impugnato dai ricorrenti con i motivi aggiunti depositati il 6 luglio 2005. Il regolamento specifica il contenuto del predetto fascicolo per i fabbricati esistenti, per quelli di nuova costruzione e per quelli nelle area di particolare rischiosità, fissandone gli schemi minimi essenziali, da integrare, se del caso, in funzione delle caratteristiche e delle esigenze dei singoli Comuni. In relazione, poi, all’art. 7, c. 1 della l.r. 31/2002, l’art. 5 del DR 6/2005 impone al proprietario, nella redazione del fascicolo, di servirsi a proprie spese d’un tecnico abilitato, il quale, a sua volta, può discrezionalmente avvalersi di tutti quegli specialisti che egli reputa opportuni sia per la formazione del fascicolo stesso, sia per i relativi aggiornamenti, fermo il suo potere d’imporre misure adeguate per qualunque situazione ritenuta anche potenzialmente pericolosa, nonché l’assenza di qualsivoglia contributo a rimborso delle spese affrontate dai proprietari a tal riguardo. Inoltre, l’art. 2 del DGR 6/2005 impone al proprietario di fornire tutte le informazioni riguardanti la situazione progettuale, urbanistica, catastale, strutturale, impiantistica ed autorizzativa del fabbricato. Sono comprese pure le verifiche di natura storica, circa le modificazioni del fabbricato nel corso del tempo, nonché di natura geologica ed ambientale, con riguardo all’interazione tra le strutture portanti ed il suolo ed sottosuolo dalle stes-se interessato, ivi compresa, se del caso, la verifica dei requisiti geomorfologici dell'area di sedime e dell'area ad essa adiacente, nonché dell'incidenza sulla sicurezza statica della presenza di apparati aerei e radicali della vegetazione arbustiva e arborea.

Questo essendo per sommi capi il quadro di riferimento, si può passare all’esame del merito della controversia, esaminandone i motivi d’ impugnazione, per comodità di lettura, secondo la scansione proposta al ri-guardo dai ricorrenti.

4. – Per ciò che attiene al gravame introduttivo, questo non è certo divenuto improcedibile relativamente al primo motivo, con cui i ricorrenti censurarono l’assenza della previa emanazione del regolamento ex art. 3 della l. r. 31/2002.

Anzi, attesi i principi posti dalla legge n. 31 e, soprattutto, degli adempimenti connessi all’emanazione di detto regolamento, non v’erano serie ragioni d’urgenza o d’indifferibilità che costringessero il Comune intimato, secondo gli ordinari canoni di proporzionalità e ragionevolezza dell'agire amministrativo, a provvedere immediatamente, senz’attendere l'emanazione la necessaria intermediazione dell’atto fonte regolamentare.

Prova di ciò è facile riscontrare nell’ampia articolazione del DGR 6/ 2005, rispetto all’estrema semplicità sul punto del regolamento annesso all’impugnata deliberazione consiliare n. 27/2004. Non è chi non veda come la questione non sia meramente quantitativa, posto che il DR 6/2005 ha fornito per la prima volta, tra l’altro, i contenuti minimi dello schema di fascicolo nei vari contesti e ha individuato il modus operandi nelle aree a rischio, oltre a determinare i limiti in capo ai Comuni circa i dati aggiuntivi da immettere nel fascicolo stesso. Parimenti indubbio è che il disposto regolamentare attenga a quegli adempimenti delineati sì con tanta urgenza, ma con un contenuto non del tutto coerente con i profili che poi solo la fonte regolamentare, e non la deliberazione consiliare impugnata, aveva il compito di fissare traendoli dalla l.r. 31/2002. La tempestiva osservanza del provvedimento comunale non implica di per sé sola, se intervenuta prima dell’entrata in vigore del DGR 6/2005, l'effettività dell’adempimento degli obblighi ex l. 31/2002. L’art. 2, c. 7 del DGR 6/2005 si premura di precisare, per i proprietari che adottarono il fascicolo di fabbricato prima dell’ emanazione di tal regolamento, che essi sono in regola con gli adempimenti della legge n. 31 alla duplice condizione che i contenuti del fascicolo e della relativa scheda siano conformi alle indicazioni del regolamento e sia accertata l'assunzione di responsabilità da parte del professionista redigente, in caso contrario occorrendo l’aggiornamento del fascicolo limitatamente alle integrazioni necessarie.

Sicché la doglianza in questione non solo non s’appalesa superata dal jus superveniens, ancorché questo abbia conformato in senso ulteriormente lesivo la posizione dei ricorrenti, tanto da spingerli ai citati motivi aggiunti. Essa, addirittura, coglie nel segno nell’affermare che il Comune di Roma non avesse titolo per evadere dalla gerarchia delle fonti posta, in soggetta materia, dall’art. 3 della legge n. 31. Il provvedimento comunale s’è rivelato essere, nella realtà determinata dalla corretta scansione delle fonti, non già una semplificazione o un’opportuna accelerazione a (pretesa) tutela della sicurezza, bensì un inutile dispendio d’attività amministrativa (ché i dati essenziali del fascicolo sono contenuti nel regolamento regionale) ed un altrettanto vana duplicazioni di adempimenti in capo ai proprietari. Non solo costoro son stati costretti a fornire al Comune atti e notizie sui loro edifici di per sé acquisiti o facilmente conoscibili da parte della P.A. —essendo o di provenienza di questa o emanati da altre Autorità—, ma neppure son sicuri che il loro adempimento si riveli conforme alla l.r. 31/2002, ove se ne riscontri lo scostamento rispetto al DR 6/2005.

5. – Ad una conclusione al quanto più articolata ritiene il Collegio di pervenire in ordine al secondo motivo del ricorso introduttivo, anche per verificare la permanenza dell’attualità dell'interesse qui azionato.

Invero, se per la relazione di sintesi non si riscontra più quella censurata insussistenza della base normativa per la sua previsione all'interno del fascicolo di fabbricato —la relativa doglianza spostandosi, se del caso, sull’art. 2, c. 5 del DR 6/2005—, circa l’elenco dei dati di cui all’art. 2, c. 1 del regolamento comunale l’entrata in vigore del DR 6/2005 ulteriormente ne dimostra l’intempestività sotto il profilo del contenuto. Rettamente i ricorrenti censurano detto art. 2, c. 1, laddove impone la fornitura di dati urbanistico-tecnici non solo in gran parte acquisiti o promananti dal me-desimo Comune, ma addirittura ulteriori rispetto alle previsioni dell’art. 2, c. 1 del DGR 6/2005. Segnatamente per ciò che concerne la situazione geologica-geotecnica-agroforestale, la presenza di servitù e la giacitura del terreno, che l’art. 2 della l.r. 31/2002 espressamente non richiede, l'obbligo così imposto dal Comune s’appalesa, secondo i normali canoni di ragionevolezza che presiedono alla pur lata discrezionalità nella fissazione del contenuto del fascicolo, ultra vires rispetto agli scopi perseguiti dalla legge e privi d’una razionale giustificazione alla luce di esigenze peculiari o significative del territorio romano.

Certo, la doglianza attorea sulla seconda fase dell’approfondimento conoscitivo sullo stato del fabbricato non ha alcun pregio, in parte qua l’ impugnato regolamento comunale essendo meramente ripetitivo di quan-to all’uopo stabilito dall’art. 4, c. 2 della l.r. 31/2002.

Non così si deve dire per le misure agevolative in materia tributaria recate dalla deliberazione consiliare n. 27/2004. L’art. 7, c. 4 della legge prevede che il Comune possa accordare riduzioni in relazione all' imposta comunale sugli immobili (ICI), intendendo per tali quelle ulteriori a quanto già previsto per legge e, soprattutto, con riguardo ai rilevanti oneri di redazione del fascicolo di cui al precedente c. 1. Viceversa, l’art. 7, c. 5 del regolamento comunale impugnato prevede che i soggetti, in regola con gli adempimenti sul fascicolo di fabbricato, possono fruire di "… spe-cifiche detrazioni ICI ovvero in sede di eventuale addizionale comunale IRPEF, nel rispetto degli equilibri di bilancio…".

Ebbene, mentre è ragionevole la previsione di non concedere contributi comunali a chi evada dall’obbligo del fascicolo, la previsione tributaria è frutto d’un evidente equivoco, nella misura in cui la legge l’àncora (o, perlomeno, la riferisce) agli oneri di redazione ed il Comune, invece e senza base normativa, lo sottopone alla condizione dell’avvenuto adempimento. E ciò è stato statuito dal Comune dimenticando che, nell’impugnata deliberazione, quest’ultimo è generale e necessitato, sicché l'agevolazione tributaria o sarà altrettanto generale per tutti i contribuenti, oppure non sarà mai. L’un caso ne dimostra, impossibile essendo un'interpretazione adeguatrice per la rigidezza del dato testuale, la patente illegittimità, perché il Comune dovrà prevedere una tal agevolazione in difetto d’una capacità contributiva veramente differenziata, atta a premiare vicende meritevoli d’un diverso regime tributario. L’altro caso si pone in aperta violazione dell’art. 7, c. 4 della l. 31/2002 che, pur nella latitudine della previsione agevolativa, non consente una tal facoltà nega-tiva.

Anzi il Collegio non può esimersi dal condividere la doglianza di cui al primo motivo aggiunto, strettamente connessa a quanto fin qui esposto, con cui i ricorrenti lamentano l’aggravio finanziario posto in capo ai proprietari in sede di redazione del fascicolo. È vero che l’art. 7, c. 1 della legge pone a loro carico gli oneri di tal redazione, ma in vista degli eventuali benefici tributari che il successivo c. 4 consente ai Comuni d’accordar loro. Viceversa, l’art. 5 del DGR 6/2005 stabilisce a loro carico il pagamento e del tecnico abilitato e di tutti gli specialisti di cui questi intenda avvalersi nella compilazione del fascicolo, mentre il successivo art. 10, pur avendo il regolamento posto termini rigorosi per la redazione nei vari casi contemplati, non fissa alcuna dotazione finanziaria annuale in vista di agevolazioni al riguardo. In ogni caso, ne destina gli eventuali ammontari, la cui specificità è annunciata ma non predeterminata, soltanto agli enti e per gli interventi e controlli, non certo a favore dei proprietari se non nei peculiarissimi casi, che ciascun Comune può vagliare, di cui al c. 5.

6. – Pure da accogliere è la censura attorea in ordine al contenuto del fascicolo come indicato dall’art. 2 del DGR 6/2005.

Non sfugge certo al Collegio che, di per sé, l’indicazione delle modificazioni subite da ciascun fabbricato nel corso del tempo non è un particolare aggravio, ma solo nei limiti degli interventi più recenti. Solo così, la prescrizione può esser considerata una forma utile di collaborazione con l’ente e non una probatio diabolica d’ogni tipo di modifica verificatasi anche in tempi assai lontani o in fabbricati d’antica costruzione. Per ogni altro significato, invece, detto art. 2 si pone in contrasto con l’analoga disposizione dell’art. 4, c. 1, I per. della legge, la cui semplice formulazione testuale ("… le eventuali modificazioni e gli adeguamenti eventualmente intervenuti nel tempo…"), secondo un criterio di razionalità e proporzionalità, devesi appunto intendere nel senso del facile reperimento dei dati storici rilevanti.

Non diversamente deve il Collegio concludere, con ciò condividendo la censura formulata dai ricorrenti, per le verifiche d’indole geologico-ambientali, di cui, per vero, il medesimo art. 4 espressamente non parla e della cui coerenza con le finalità del fascicolo v’è un serio dubbio, essenzialmente perché tali dati non sono nella disponibilità dei proprietari e si risolvono in accertamenti tecnici di straordinaria complessità, i cui risultati sono in varia guisa già in possesso di Regione e Comuni e delle Amministrazioni statali competenti, perlomeno già al momento della redazione degli strumenti urbanistici e dei pian territoriali e di salvaguardia paesistico-ambientale.

7. – Del pari fondata è la censura contro l’art. 2, c. 6 del DR 6/2005, laddove questo consente agli enti d’integrare il contenuto minimo del fascicolo in relazione alle caratteristiche ed alle esigenze di ciascuno di essi.

La norma in questione, nella sua apparente semplicità, offre invece agli enti la facoltà illimitata d’individuare proprie peculiarità e, quindi, d' aggravare gli oneri in capo ai proprietari senza limiti e, quel ch’è peggio, senza un reale contraddittorio con i tecnici chiamati a collaborare con il redattore del fascicolo e tutto ciò in assenza di qualsivoglia base nella fonte primaria.

Ora, la legge non è indifferente alle peculiarità del territorio regionale, tant’è che l’art. 3, c. 1, lett. f) conferisce ai Comuni la potestà d’individuare le aree a rischio, perché ne hanno diretta consapevolezza fin dalla predisposizione degli strumenti urbanistici e degli atti ricognitivi del rischio geologico (artt. 28 e 29 della l.r. 30 luglio 1998 n. 21) e nell’esercizio delle funzioni in difesa del suolo (per il rischio idrogeologi-co) a’sensi dell’art. 10, c. 1 della l.r. 11 dicembre 1998 n. 53. Ma, appunto per questo, la disposizione regolamentare impugnata, evidente frutto d’una non ben meditata confezione che dimentica l’esistenza di queste e altre norme regionali vigenti, erra nell’assegnare una così vasta potestà a Comuni ai quali già dette norme conferiscono ampi poteri d’accertamento e verifica per la salvaguardia ambientale, geologica, idrica, urbanistico-territoriale e forestale, anche nelle aree edificate. Non è chi non veda come, se non la totalità, la gran parte dei dati sull’inserimento territoriale del fabbricato, che gli atti impugnati pongono a carico dei proprietari, da lungo tempo siano conosciuti o facilmente conoscibili dalla Regione e dagli enti locali i quali, nelle materie testé elencate ed i cui riscontri entrano nella redazione del fascicolo, sono collegati in rete da una fittissima congerie di piani variamente gerarchizzati ed intersecantisi tra loro e di organismi di collaborazione per la definizione e la vigilanza dell’assetto del territorio, non solo nelle linee generali, ma anche nelle singole micro-aree rilevanti.

Ciò induce il Collegio, che deve condividere l’assunto dei ricorrenti su tale aspetto, ad una riflessione di fondo sulle finalità della l.r. 31/2002 com’è stata intesa dalle impugnate fonti attuative. Non si tratta, come sarebbe virtuoso leggendo la l. 31/2002 nell’ambito delle norme sulla sicurezza del territorio e dell’edilizia, di pervenire, anche attraverso la collaborazione dei cittadini, a completare quei soli aspetti di peculiare o particolare conoscenza, relativa a singole unità abitative, che la fitta trama pianificatoria talvolta non può acquisire. V’è piuttosto agli occhi dei ricorren-ti, visione, questa, che il Collegio reputa fondata perché forza lo spirito della legge n. 31, l’illegittimo tentativo degli enti intimati di scaricare gli oneri di tal conoscenza, che è per sua natura interdisciplinare, sui soggetti privati che non possiedono la mole dei dati dell'assetto del territorio e devono così acquistarli dal mercato e riversarli ad Amministrazioni già deputate, per missione loro affidata dalla legge, ad acquisire ed elaborare in via autonoma i dati stessi.

Né vale obiettare che, in fondo, tutto ciò serve alla massimizzazione della sicurezza e ad evitare tragedie quali quelle connesse a crolli di interi edifici, in quanto, nei casi di specie, mancò non già il fascicolo di fabbricato, bensì un attento controllo pubblico che sarebbe stato necessario esercitare per tempo e che la P.A. aveva e ha titolo di svolgere indipendentemente dall’esistenza del fascicolo stesso.

7. – Infine, i ricorrenti sollevano numerose questioni di legittimità costituzionale dell’intera legge n. 31, delle quali chiedono a questo Giudice la rimessione alla Corte costituzionale, all’uopo invocando, quale precedente intermini, la sentenza n. 315 del 28 ottobre 2003

Giova al riguardo rammentare che, con la citata sentenza, il Giudice delle leggi ha dichiarato costituzionalmente illegittimi l’art. 4 e l’art. 5, commi 2 e 3 della l. reg. Camp. 22 ottobre 2002 n. 27, il cui art. 1 aveva istituito, a fini di salvaguardia della pubblica e privata incolumità, "… il registro storico-tecnico-urbanistico di ogni fabbricato pubblico e privato, ubicato sul territorio regionale, nel quale è dichiarato lo stato di conser-vazione e di manutenzione del fabbricato stesso e delle aree e manufatti di pertinenza…". Il successivo art. 2 stabiliva poi che, per la tenuta e l'ag-giornamento periodico del registro, ciascun condominio o unico proprietario nominasse un tecnico, denominato tecnico incaricato, mentre l'art. 4 a sua volta individuava in maniera dettagliata i compiti di quest'ultimo e l'art. 5, commi 2 e 3 stabilì le sanzioni per la violazione degli obblighi previsti da detto art. 4. Ebbene, questi due ultimi gruppi di norme sono state ritenute illegittime perché violano sia il generale canone di ragionevolezza, sia il principio di buon andamento della P.A. Invero, i compiti previsti per costui sono tali da richiedere, per la loro ampiezza ed eterogeneità, la nomina non già d’un solo tecnico incaricato, bensì d’una pluralità di professionisti abilitati, secondo i rispettivi ordinamenti professionali, ad effettuare le indagini e a fornire i dati richiesti. Sicché, pure in disparte l'entità degli oneri economici imposti indistintamente a tutti i proprietari dei fabbricati —e, quindi, anche a quelli di più modeste condizioni economiche—, la disciplina legislativa finisce per risultare, nel raccordo dell'art. 2 con l'art. 4 della legge e nelle previsioni sanzionatorie, intimamente contraddittoria e, quindi, irragionevole.

Come si vede, si tratta d’un complesso di regole assai simili, quando non identiche con qualche minima variante semantica, a quelle recate dalla l.r. 31/2002, anche per la quale, ad avviso del Collegio, si possono formulare le osservazioni che il Giudice delle leggi ha svolto nella sentenza n. 315/2003. In particolare, la Corte ha statuito che "… se nessun dubbio può sussistere riguardo alla doverosità della tutela della pubblica e privata incolumità… ed al conseguente obbligo di collaborazione che per la realizzazione di tale finalità può essere imposto ai proprietari degli edifici… la previsione di siffatto obbligo e dei conseguenti oneri economici deve essere compatibile con il principio di ragionevolezza e proporzionalità e che le relative modalità di attuazione debbono essere adeguate allo scopo perseguito dal legislatore…".

Tutti questi sono per il Collegio i parametri di legittimità costituzionale che devono orientare l’interpretazione della l.r. 31/2002 in sede di riemanazione degli atti impugnati e ritenuti illegittimi. E che d'interpretazione il Collegio intende ed è tenuto a parlare e dar contezza, ancor prima d’ogni eventuale valutazione sui presupposti per la rimessione della leg-ge n. 31 alla Corte costituzionale, non par dubbio. Invero quest’ultima, in più occasioni (cfr., p.es., C. cost., ord.za 24 aprile 2002 n. 315; id., 30 set-tembre 2004 n. 305; id., 16 febbraio 2006 n. 64), ha avuto modo di affermare che, di fronte a più possibili interpretazioni, allorché su nessuna di esse s’è formato un diritto vivente, il giudice ha innanzi tutto l'obbligo di scegliere qual interpretazione intenda seguire, non potendo porre alla Corte l'alternativa senza prendere posizione e lasciando così che sia quest'ultima a scegliere. È jus receptum che una norma va dichiarata incostituzionale non perché può esser interpretata in modo da contrastare con precetti costituzionali, ma solo se non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione, donde l’inammissibilità d’una questione di legittimità proposta rispetto alla quale il giudice a quo si sia sottratto all'obbligo di motivare su tale punto (cfr., in terminis, C. cost., ord.za 3 mar-zo 2006 n. 86). In parole più semplici, la tendenza che emerge dalla più recente giurisprudenza costituzionale, da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi nella specie, è nel senso di sollecitare i giudici comuni a far uso dei propri poteri interpretativi per valutare preventivamente se esista la possibilità di superare i dubbi di costituzionalità mercé un'interpretazione c.d. "adeguatrice" della norma esaminata, che renda la stessa conforme ai principi costituzionali.

Ciò s’appalesa ancor più significativo nel caso all’esame del Collegio, non spettando certo a questo Giudice, fuori dalla valutazione testé accennata, quel potere, che ridonderebbe in giudizio di costituzionalità diffuso, che invece la Corte ha a’sensi dell’art. 27 della l. 11 marzo 1953 n. 87. Solo la Corte, ancorché ne abbia fatto un uso alquanto parco, ha potestà d'estendere la dichiarazione d’illegittimità costituzionale pronunciata nei confronti d’una disposizione impugnata ad una precedente disposizione identica a quella annullata e, comunque, soltanto nei confronti di leggi della stessa regione. Si discetta in dottrina dell'applicabilità dell'art. 27 della l. 87/1953 relativamente a disposizioni contenute in leggi di diversa Regione, ma dal contenuto identico a quello scrutinato dalla Corte, ossia d’una vicenda identica a quella per cui è causa, ma, in disparte ogni considerazione sull’assenza di contraddittorio processuale in una simile evenienza, il relativo scrutinio è solo della Corte. I giudici comuni non possono disapplicare una norma, ancorché ictu oculi identica a quella dichiarata incostituzionale in un’altra Regione, senza prima verificare i presupposti per la sua rimessione alla Corte, onde nella specie, soprattutto nella misura in cui non s’è formato un diritto vivente del tutto ostile alla previsione in sé del fascicolo di fabbricato, al Collegio non resta che valutare prioritariamente l’interpretazione adeguatrice della l.r. 31/2005, per verificare poi i requisiti di non manifesta infondatezza e di rilevanza della questione sollevata dai ricorrenti.

Reputa sul punto il Collegio che i principi posti dalla sentenza n. 315/ 2003 siano tuttora i capisaldi per dirigere l’interpretazione della legge n. 31. S’avrà allora che, anzitutto, il fascicolo di fabbricato, già in sede di regolamento d’attuazione ex art. 3, dev’esser esaminato con prudente apprezzamento se ed in qual misura costituisca, secondo i canoni di proporzionalità, razionalità ed adeguatezza, lo strumento più adatto, in ogni occasione e per tutti i tipi di edifici, per massimizzare l’obiettivo della pubblica e privata incolumità, soprattutto in presenza delle complesse regole cui ciascun fabbricato è già da tempo sottoposto per la sicurezza degli impianti elettrici, idrici, di riscaldamento, del gas, ecc. In secondo luogo, il contenuto del fascicolo non può legittimamente essere il duplicato dei dati già acquisiti o esistenti presso la P.A. e che sono richiesti sol perché essa non è in grado di ordinarli e valutarli correttamente, sicché, al più, tale contenuto può integrare e non fornire solo quella quantità di notizie semplici e di facile acquisizione che consentano alla P.A. stessa di più rapidamente elaborare i dati già in suo possesso. Correlativamente, è illegittima l’imposizione di oneri complessi e di peso eccessivo, per tutti i tipi di edifici e senza una minima discriminazione tra loro, onde s’appalesa più razionale, più che un obbligo generalizzato, altre formule connesse fin da subito a provvidenze o ad agevolazioni, atte a sveltire la redazione dei fascicoli per quegli edifici a più alto rischio ed ad incentivare formule collaborative da parte dei tecnici dei Comuni o scelti dagli enti. Infine, la legge non ammette interventi ed opere generalizzate sugli edifici di qualunque genere, età e condizione, sicché gli accertamenti, al fine d’evitare oneri eccessivi e senza riguardo al loro peso sulle condizioni economiche dei proprietari, devono esser suggeriti solo in caso d’evidente, indifferibile ed inevitabile necessità, se del caso con graduazione dei rimedi da realizzare.

8. - Questi essendo i criteri ermeneutici cui questo Giudice e, in sede di riemanazione, le Amministrazioni intimate devono attenersi nell'esecuzione della l.r. 31/2002, il ricorso in epigrafe va accolto nei termini fin qui visti, con assorbimento d’ogni altra domanda, comprese le altre questioni di legittimità costituzionale che, allo stato, s’appalesano manifestamente infondate. La novità e la complessità della questione suggeriscono l'integrale compensazione, tra tutte le parti, delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. 2°, accoglie il ricorso n. 5627/2004 in epigrafe e per l’effetto annulla, per quanto di ragione e nei sensi di cui in motivazione,

Spese compensate.

Ordina all'Autorità amministrativa d’eseguire la presente sentenza.

Così deciso in Roma, nelle Camera di consiglio del 14 giugno e dell’8 novembre 2006, con l’intervento dei sigg. Magistrati:

Domenico LA MEDICA, PRESIDENTE,

Silvestro Maria RUSSO, CONSIGLIERE, ESTENSORE,

Anna BOTTIGLIERI, PRIMO REFERENDARIO.

IL PRESIDENTE

L’ESTENSORE

Depositata in Segreteria il 13 novembre 2006.

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