SCHEMA DI DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA RECANTE MODIFICA DELLE DISPOSIZIONI DEL DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 3 NOVEMBRE 2000, N. 396, IN MATERIA DI STATO CIVILE RELATIVAMENTE ALLA DISCIPLINA DEL TITOLO X, DEI CAMBIAMENTI E DELLE MODIFICAZIONI DEL NOME E DEL COGNOME.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visto l’articolo 87, quinto comma,
della Costituzione;
Visto l’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400;
Visto il decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396;
Ravvisata l’esigenza di apportare modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, per adeguarne la disciplina a criteri di semplificazione e snellimento;
Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del …;
Sentito il parere della Conferenza Stato - città ed autonomie locali ai sensi dell’articolo 9, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, reso nella seduta del …;
Consultato il Garante per la protezione dei dati personali;
Udito il parere del Consiglio di Stato, espresso dalla Sezione consultiva per gli atti normativi nell’adunanza del …;
Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati;
Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del …;
Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, del Ministro per la semplificazione normativa, del Ministro dell’interno e del Ministro della giustizia;
Emana
il seguente regolamento:
ART. 1
(Oggetto)
1. Il presente regolamento introduce modifiche ed abrogazioni al Titolo X del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, recante regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127.
ART. 2
(Cambiamenti del nome o del cognome)
1. All’articolo 89 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, il comma 1 è sostituito dal seguente: “1. Salvo quanto disposto per le rettificazioni, chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome, anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturale o aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l’ufficio dello stato civile dove si trova l’atto di nascita al quale la richiesta si riferisce. Nella domanda l’istante deve esporre le ragioni a fondamento della richiesta.”.
ART. 3
(Eventuale notifica del contenuto della domanda di modificazione del nome o del cognome)
1. All’articolo 90 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, dopo il comma 1 è aggiunto il seguente: “ 1-bis. Il decreto di autorizzazione della pubblicazione può stabilire che il richiedente notifichi a determinate persone il sunto della domanda.”
ART. 4
(Opposizione)
1. L’articolo 91 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, è sostituito dal seguente: "ART. 91 1. Chiunque ne abbia interesse può fare opposizione alla domanda entro il termine di trenta giorni dalla data dell’ultima affissione ovvero dalla data dell’ultima notificazione alle persone interessate, effettuata ai sensi dell’articolo 90. L’opposizione si propone con atto notificato al prefetto.”.
ART. 5
(Decreto di concessione del prefetto)
1. L’articolo 92 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, è sostituito dal seguente: "ART. 92 1. Trascorso il termine di cui all’articolo 91, il richiedente presenta al prefetto un esemplare dell’avviso con la relazione attestante l’eseguita affissione e la sua durata nonché la documentazione comprovante le avvenute notificazioni, ove prescritte. 2. Il prefetto, accertata la regolarità delle affissioni e delle notificazioni e vagliate le eventuali opposizioni, provvede sulla domanda con decreto, che deve essere notificato, a cura del richiedente, agli opponenti. 3. Il decreto di concessione, nei casi in cui vi è stata opposizione, deve essere notificato, a cura del richiedente, agli opponenti.”.
ART. 6
(Norme abrogate)
1. Dall’entrata in vigore del presente regolamento sono abrogati gli articoli 84, 85, 86, 87 e 88 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396.
ART. 7
(Clausola di invarianza della spesa)
1. Dall’attuazione del presente regolamento non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
ART. 8
(Entrata in vigore)
1. Il presente regolamento entra in vigore sessanta giorni dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque di osservarlo e di farlo osservare
Libero Professionista, esercente la professione forense nel Foro di Brindisi, distretto Corte d'Appello di Lecce (Italy)- già Magistrato, abilitato innanzi alle Giurisdizioni Superiori (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale)
venerdì 22 luglio 2011
Avvocato, cliente, compenso, importo parcella, non corrispondenza con l'importo liquidato dal giudice
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE II PENALE
Sentenza 25 maggio - 24 giugno 2011, n. 25344
l’avvocato non può accampare alcun diritto sulla somma liquidata dal giudice, potendo solo richiedere la somma ritenuta congrua a titolo di parcella per l’opera professionale svolta, direttamente nei confronti del suo cliente, somma che può essere, in ipotesi, sia minore che superiore a quella liquidata dal giudice.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 25 maggio - 24 giugno 2011, n. 25344
Svolgimento del processo
p.1. Con sentenza del 8/7/2010, la Corte di Appello di Bari confermava la sentenza pronunciata in data 21/01/2008 con la quale il Tribunale della medesima città aveva assolto G.A. dal reato di cui all'art. 646 c.p., "per essersi appropriato indebitamente della somma di Euro 16.710,00 percepita al solo scopo di corrisponderla al suo legale avv. L.N. ed in realtà mai consegnata". p.2. Avverso la suddetta sentenza, il PROCURATORE GENERALE presso la Corte di Appello di Bari ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione dell'art. 646 c.p..
Sostiene, infatti, il ricorrente che le somme liquidate dal giudice in favore del difensore sono detenute dalla parte vincitrice nomine alieno, con la conseguenza che, mutare ad opera della parte vincitrice in giudizio la destinazione delle somme liquidate dal giudice in sentenza trattenendole per sè, costituisce un comportamento appropriativo che integra gli estremi della condotta descritta nell'art. 646 c.p..
Motivi della decisione
p.3. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
Il fatto che ha dato origine al presente procedimento penale è pacifico:
all'esito di un giudizio civile, al G., assistito dall'avvio L.N., veniva liquidata la somma di Euro 16.710,00 a titolo di competenze legali. Il G., però, non pagava l'avv.to L.. Da qui il processo.
In punto di diritto, è appena il caso di rammentare che i requisiti giuridici perchè possa ritenersi configurabile il reato di cui all'art. 646 c.p., sono i seguenti: a) l'appartenenza dei beni oggetto di appropriazione, ad un terzo in virtù di un titolo giuridico; b) il possesso legittimo dei suddetti beni da parte del terzo; c) la volontà di interversione del possesso, la qual cosa si verifica quando il possessore effettua e rende esplicito al proprietario del bene, l'interversione del possesso ossia la sua volontà di non restituire più il bene del quale ha il possesso; d) l'ingiusto profitto.
Infatti, la ratio dell'art. 646 c.p., "deve essere individuata nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l'autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa": Cass. 11628/1989 riv 182001.
Tanto premesso in diritto, occorre quindi verificare: a) se la somma liquidata dal giudice a favore del G. fosse o meno di proprietà dell'avv.to L.; b) se il G. la possedeva in virtù di un qualche legittimo titolo di possesso e, quindi, se effettuò l'interversione.
La risposta ai suddetti quesiti discende dalla disamina del rapporto che lega il cliente all'avvocato.
In proposito è indiscusso che il suddetto rapporto ha alla base un rapporto di mandato professionale a seguito del quale il professionista ha il diritto di pretendere il pagamento della prestazione.
Il pagamento della suddetta prestazione costituisce, quindi, a carico del cliente, un obbligo che discende dall'interno rapporto di mandato essendo regolamentato dalle pattuizioni che le parti hanno stabilito in ordine al quantum ed alle modalità.
Nell'ipotesi, poi, di una causa civile, le modalità con le quali il professionista può farsi pagare sono due: 1) direttamente dal cliente ed indipendentemente dalla liquidazione che il giudice effettua in sentenza; 2) direttamente dalla parte soccombente: è l'ipotesi espressamente prevista dall'art. 93 c.p.c., che disciplina la fattispecie, appunto, della distrazione delle spese.
Nel caso in esame, è pacifico che la somma in questione venne liquidata a favore non dell'avv. L. ma direttamente a favore del G. in quanto parte vincitrice a titolo di spese.
E' chiaro, pertanto, che quella somma era di sua esclusiva proprietà ed alla stessa il G. era libero di dare la destinazione che più gli aggradava pur essendo tenuto al pagamento della parcella dell'avv.to L..
Costui, quindi, non poteva su di essa accampare alcun diritto potendo solo richiedere la somma ritenuta congrua a titolo di parcella per l'opera professionale svolta, direttamente nei confronti del suo cliente, somma che avrebbe potuto essere, in ipotesi, sia minore che superiore a quella liquidata dal giudice.
Erra, quindi, il P.G. ricorrente quando sostiene che la somma liquidata aveva un vincolo di destinazione a favore dell'avvocato.
In realtà, la somma era di proprietà esclusiva del G. essendo stata liquidata a suo favore, sicchè nessuna appropriazione indebita è ipotizzabile proprio perchè manca il principale presupposto giuridico ossia che la somma fosse di proprietà dell'avvocato e che il G., possedendola per un legittimo titolo, effettuò l'interversione del possesso rifiutandosi di consegnarla all'avvocato.
Nel respingere pertanto il ricorso può enunciarsi il seguente principio di diritto: "non commette il reato di appropriazione indebita la parte vincitrice di una causa civile - a cui favore il giudice abbia liquidato una somma a titolo di spese legali - che si rifiuti di consegnarla al proprio avvocato che reclami come propria la suddetta somma".
P.Q.M.
RIGETTA il ricorso.
Sentenza 25 maggio - 24 giugno 2011, n. 25344
l’avvocato non può accampare alcun diritto sulla somma liquidata dal giudice, potendo solo richiedere la somma ritenuta congrua a titolo di parcella per l’opera professionale svolta, direttamente nei confronti del suo cliente, somma che può essere, in ipotesi, sia minore che superiore a quella liquidata dal giudice.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 25 maggio - 24 giugno 2011, n. 25344
Svolgimento del processo
p.1. Con sentenza del 8/7/2010, la Corte di Appello di Bari confermava la sentenza pronunciata in data 21/01/2008 con la quale il Tribunale della medesima città aveva assolto G.A. dal reato di cui all'art. 646 c.p., "per essersi appropriato indebitamente della somma di Euro 16.710,00 percepita al solo scopo di corrisponderla al suo legale avv. L.N. ed in realtà mai consegnata". p.2. Avverso la suddetta sentenza, il PROCURATORE GENERALE presso la Corte di Appello di Bari ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione dell'art. 646 c.p..
Sostiene, infatti, il ricorrente che le somme liquidate dal giudice in favore del difensore sono detenute dalla parte vincitrice nomine alieno, con la conseguenza che, mutare ad opera della parte vincitrice in giudizio la destinazione delle somme liquidate dal giudice in sentenza trattenendole per sè, costituisce un comportamento appropriativo che integra gli estremi della condotta descritta nell'art. 646 c.p..
Motivi della decisione
p.3. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
Il fatto che ha dato origine al presente procedimento penale è pacifico:
all'esito di un giudizio civile, al G., assistito dall'avvio L.N., veniva liquidata la somma di Euro 16.710,00 a titolo di competenze legali. Il G., però, non pagava l'avv.to L.. Da qui il processo.
In punto di diritto, è appena il caso di rammentare che i requisiti giuridici perchè possa ritenersi configurabile il reato di cui all'art. 646 c.p., sono i seguenti: a) l'appartenenza dei beni oggetto di appropriazione, ad un terzo in virtù di un titolo giuridico; b) il possesso legittimo dei suddetti beni da parte del terzo; c) la volontà di interversione del possesso, la qual cosa si verifica quando il possessore effettua e rende esplicito al proprietario del bene, l'interversione del possesso ossia la sua volontà di non restituire più il bene del quale ha il possesso; d) l'ingiusto profitto.
Infatti, la ratio dell'art. 646 c.p., "deve essere individuata nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l'autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa": Cass. 11628/1989 riv 182001.
Tanto premesso in diritto, occorre quindi verificare: a) se la somma liquidata dal giudice a favore del G. fosse o meno di proprietà dell'avv.to L.; b) se il G. la possedeva in virtù di un qualche legittimo titolo di possesso e, quindi, se effettuò l'interversione.
La risposta ai suddetti quesiti discende dalla disamina del rapporto che lega il cliente all'avvocato.
In proposito è indiscusso che il suddetto rapporto ha alla base un rapporto di mandato professionale a seguito del quale il professionista ha il diritto di pretendere il pagamento della prestazione.
Il pagamento della suddetta prestazione costituisce, quindi, a carico del cliente, un obbligo che discende dall'interno rapporto di mandato essendo regolamentato dalle pattuizioni che le parti hanno stabilito in ordine al quantum ed alle modalità.
Nell'ipotesi, poi, di una causa civile, le modalità con le quali il professionista può farsi pagare sono due: 1) direttamente dal cliente ed indipendentemente dalla liquidazione che il giudice effettua in sentenza; 2) direttamente dalla parte soccombente: è l'ipotesi espressamente prevista dall'art. 93 c.p.c., che disciplina la fattispecie, appunto, della distrazione delle spese.
Nel caso in esame, è pacifico che la somma in questione venne liquidata a favore non dell'avv. L. ma direttamente a favore del G. in quanto parte vincitrice a titolo di spese.
E' chiaro, pertanto, che quella somma era di sua esclusiva proprietà ed alla stessa il G. era libero di dare la destinazione che più gli aggradava pur essendo tenuto al pagamento della parcella dell'avv.to L..
Costui, quindi, non poteva su di essa accampare alcun diritto potendo solo richiedere la somma ritenuta congrua a titolo di parcella per l'opera professionale svolta, direttamente nei confronti del suo cliente, somma che avrebbe potuto essere, in ipotesi, sia minore che superiore a quella liquidata dal giudice.
Erra, quindi, il P.G. ricorrente quando sostiene che la somma liquidata aveva un vincolo di destinazione a favore dell'avvocato.
In realtà, la somma era di proprietà esclusiva del G. essendo stata liquidata a suo favore, sicchè nessuna appropriazione indebita è ipotizzabile proprio perchè manca il principale presupposto giuridico ossia che la somma fosse di proprietà dell'avvocato e che il G., possedendola per un legittimo titolo, effettuò l'interversione del possesso rifiutandosi di consegnarla all'avvocato.
Nel respingere pertanto il ricorso può enunciarsi il seguente principio di diritto: "non commette il reato di appropriazione indebita la parte vincitrice di una causa civile - a cui favore il giudice abbia liquidato una somma a titolo di spese legali - che si rifiuti di consegnarla al proprio avvocato che reclami come propria la suddetta somma".
P.Q.M.
RIGETTA il ricorso.
mercoledì 20 luglio 2011
Avvocato, cliente, compensi non onorati, competenza esclusiva del foro del consumatore
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE
Ordinanza 4 maggio – 9 giugno 2011, n. 12685
"in ipotesi di un contratto d'opera professionale intellettuale tra l'avvocato opposto ed il consumatore opponente, trova applicazione il foro esclusivo di quest'ultimo, a norma dell'art. 33, c. 2, lett. u) del d.lgs. 6.9.2005, n. 206, e non il foro di cui all'art. 637, c. 3, c.p.c. "
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Ordinanza 4 maggio – 9 giugno 2011, n. 12685
(Presidente Preden – Relatore Segreto)
Fatto e diritto
1. L'avv. E.M. ha ottenuto dal Tribunale di Roma un decreto ingiuntivo nei confronti di Ma.Sa. per un credito di Euro. 14.473,88 a titolo di compenso per prestazioni professionali di avvocato in un giudizio promosso davanti al Tar Molise e davanti al Consiglio di Stato, relativo all'orario di insegnamento del Ma. , quale professore di scuola pubblica. Il Ma. proponeva opposizione, eccependo tra l'altro l'incompetenza territoriale del tribunale di Roma ed in via gradata, sollevando l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 637, e. 3, c.p.c.
Il tribunale di Roma, con sentenza depositata il 19.2.2010, dichiarava la propria incompetenza per territorio, essendo competente il tribunale di Larino, quale foro del consumatore, avendo il Ma. la propria residenza in quel circondario.
Avverso tale sentenza, l'attore avv. E.M. proponeva regolamento di competenza adducendo che nel caso di specie non fosse applicabile la previsione sul foro del consumatore, in quanto nel rapporto tra avvocato e cliente non operava la normativa a tutela del consumatore che si riferiva solo alle attività commerciali; che il Ma.Sa. non poteva considerasi un consumatore, in quanto aveva conferito mandato all'avvocato riguardo ad una controversia che rientrava nel quadro della sua professione di insegnante; che in ogni caso avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 637, comma 3, c.p.c. L’avv. M. ha presentato anche memoria. Resiste l'intimato con controricorso.
2. La decisione sulla competenza passa necessariamente attraverso la soluzione di tre questioni.
Il primo problema che si pone nella fattispecie attiene al rapporto tra il foro speciale alternativo di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c. in favore degli avvocati (e dei notai), ed il foro esclusivo del consumatore di cui attualmente all'art. 33, c. 2 lett. n) del d.lgs. 6.9.2005 n. 206.
Il punto è oggetto di soluzioni contrastanti nella giurisprudenza di merito, mentre mancano sentenze di legittimità.
L'art. 63 7 c.p.c. statuisce che "Per l'ingiunzione è competente il giudice di pace o, in composizione monocratica, il tribunale che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria. Per i crediti previsti nel n. 2 dell'articolo 633 è competente anche l'ufficio giudiziario che ha deciso la causa alla quale il credito si riferisce.
Gli avvocati o i notai possono altresì proporre domanda d'ingiunzione contro i propri clienti al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell'ordine al cui albo sono iscritti o il consiglio notarile dal quale dipendono". L'art. 33, c. 2, lett. u), del d.lgs. 6.9.2005, n. 206,statuisce in tema di contratti c.d. del consumatore che si presume vessatoria fino a prova contraria la clausola che ha per oggetto, o per effetto, di "stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore”.
3.Va anzitutto rilevato che l'art. 637, c. 3, c.p.c. ha superato indenne lo scrutinio di costituzionalità, a cui è stato sottoposto dal Giudice delle leggi con sentenza n. 50 del 2010, in relazione agli artt. 3 e 25 Cost.. La Corte costituzionale ha solo rilevato che lo scopo della norma è quello di agevolare il professionista, che sarebbe invece costretto a seguire le cause relative al recupero dei crediti professionali in luogo diverso (o addirittura in luoghi diversi) da quello in cui egli avesse attualmente stabilito l'organizzazione della propria attività professionale, ma che la censura di incostituzionalità non può ritenersi fondata sotto il profilo della disparità di trattamento in relazione ad altre categorie professionali, che non possono avvalersi della stessa norma. Infatti "si deve osservare che ogni professione presenta caratteri peculiari idonei a giustificarne una disciplina giuridica differenziata. Per la professione legale tali caratteri sono stati già posti in luce con la sentenza di questa Corte n. 137 del 1975. Infine, quanto al rapporto tra l'avvocato e il cliente, se è vero che la norma censurata attribuisce al primo una facoltà processuale ai fini del recupero dei suoi crediti per prestazioni professionali, mediante la possibilità di scegliere un foro che può non coincidere con la residenza o il domicilio del debitore convenuto, è anche vero che tale facoltà non contrasta con il principio di eguaglianza, essendo essa, come già si è notato, frutto di una scelta non irragionevole del legislatore”.
4.1. La giurisprudenza ha ritenuto in tema di c.d. contratti del consumatore, che il foro del consumatore è esclusivo e speciale sicché la clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o di domicilio elettivo del consumatore, anche se il foro indicato come competente coincida con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.c., è presuntivamente vessatoria e, pertanto, nulla (Cass. 26/09/2008, n. 24262).
Già sotto la vigenza dell'art. 1469 bis c.p.c. le S.U. di questa Corte hanno ritenuto che la norma contenuta nel comma 3, n. 19 nel presumere la vessatorietà della clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore, ha introdotto un foro esclusivo speciale, derogabile dalle parti solo con trattativa individuale. Ne consegue che è da presumere vessatoria anche la clausola che stabilisca un foro coincidente con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 cod. proc. civ., se è diverso quello del consumatore, perché l'art. 1469-ter, terzo comma, cod. civ. - per il quale non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge - non può essere interpretato vanificando in modo surrettizio la tutela del consumatore, come nel caso in cui il "forum destinatae solutionis" coincida con la residenza del professionista (Cass. Sez. Unite, 01/10/2003, n. 14669; Cass. 20/08/2004, n. 16336).
Pertanto con l'introduzione del foro speciale esclusivo in favore del consumatore (originariamente introdotto dall'art. 1469 bis c.c. e poi trasferito nell'art. 33 del d. lgs. n. 206/2005) risulta ridotto l'ambito di applicabilità dell'originario foro speciale alternativo di cui all'art. 637, c. 3, c.p.c., non regolando anche l'area attualmente coperta dal foro del consumatore, ma esclusivamente quella in cui il cliente ingiunto non rivesta tale qualità.
A rigore non si tratta propriamente di una abrogazione dell'art. 637 e. 3 c.p.c., sia pure parziale, per incompatibilità ai sensi dell'art. 15 delle preleggi, in quanto le due norme in esame convivono (e ciò non solo in relazione alle diverse delimitazioni suddette ma anche perché l'art. 34 d. lgs. n. 206/2005 non esclude in modo assoluto la deroga al foro del consumatore, e quindi anche l'applicabilità della norma codicistica, ma indica le ristrette condizioni alla quali può essere ammessa).
Tuttavia, allorché si versa in una fattispecie in cui, per la presenza sia dell'avvocato che del cliente-consumatore entrambe le norme sarebbero astrattamente applicabili ma necessariamente deve darsi la prevalenza o all'una o all'altra, tale prevalenza va accordata alla norma in tema di foro del consumatore per una duplice ragione.
Anzitutto perché la norma in tema di foro del consumatore individua una competenza esclusiva, che prevale su ogni altra, pur configurata da altra norma (così SU 14669/2003 cit.).
Inoltre detta prevalenza è conseguenza dell'applicazione dei principi che regolano la successione delle leggi nel tempo.
4.2.Né potrebbe sostenersi che tale disciplina prevista dall'art. 637, c. 3, c.p.c., per quanto anteriore rispetto al c.d. codice del consumo non sia stata influenzata dalla successiva disciplina in tema di foro del consumatore, costituendo la norma codicistica una disposizione speciale e, come tale non derogata dalla disposizione successiva generale (perché regolante organicamente l'intera materia della tutela del consumatore) secondo il principio lex specialis derogat legi generali e lex posterior generalis non derogat legi priori speciali.
Infatti l'art. 33, c. 2, lett. u), d. lgs. n. 206/2005 cit., per quanto posizionato in una normativa a carattere generale a tutela del consumatore, rappresenta pur sempre una disposizione speciale in tema di competenza territoriale, non diversamente dalla norma di cui all'art. 637, c. 3 c.p.c., che è posizionata nell'ambito del codice di rito e, quindi, della disciplina generale ed organica del procedimento civile.
4.3. In ogni caso, in merito alla qualità di lex specialis della norma attinente al foro esclusivo del consumatore, va osservato che tale foro era stato originariamente disposto dall'art. 1469 bis e. 3, n. 19 c.c. (introdotto con l'art. 25 della l. n. 52/1996). In quella sede tale l'individuazione del foro costituiva certamente una lex specialis a tutela del consumatore, con la conseguenza che per effetto del coordinamento di tale disposizione speciale sopravvenuta con quella antecedente di cui all'art. 637, c. 3, quest'ultima risultava delimitata ai soli casi in cui il cliente non fosse un consumatore.
La circostanza che la norma speciale in tema di foro esclusivo del consumatore sia poi stata trasferita nella più generale normativa a tutela del consumatore, di cui alla legge n. 206 del 2005, non priva la norma attinente al foro del consumatore del carattere di specialità né "riassorbe" gli effetti delimitativi già prodottisi sull'art. 637, c. 3 c.p.c.
Entrambe le norme (sia quella di cui all'art. 637, e. 3, che quella di cui all'art. 33 d. lgs. n. 205/2006) attengono infatti a categorie specifiche di soggetti.
Ne consegue che il loro concorso va regolato nei termini della prevalenza della norma di cui all'art. 33, c. 2, lett. u, d. lgs. n.2006/2005 su quella di cui all'art. 637, e. 3 c.p.c.
4.4. Di nessun rilievo, ai fini della questione in esame, è la sentenza 20.7.2010 n. 17049 di questa Corte, su cui si dilunga il ricorrente nella memoria. Essa infatti si è limitata a statuire che il Consiglio dell'Ordine in relazione al quale va determinato il giudice competente a norma dell'art. 637, c. 3, c.p.c. è quello relativo al momento della proposizione del ricorso. Nessun elemento da tanto si ricava in relazione alla diversa questione in esame della concorrenza tra il foro dell'avvocato e quello del consumatore.
5.1. La seconda questione che si pone è di esaminare se l'avvocato che conclude un contratto d'opera professionale intellettuale sia da ritenersi un professionista, ai sensi dell'art. 3 del d. lgs. n. 206/2005.
La risposta è affermativa.
Invero, appare innanzitutto infondato l'assunto del ricorrente con il quale, facendosi riferimento al preambolo della direttiva comunitaria 5 aprile 1993 n. 93/13 CEE, da cui ha tratto origine la normativa nazionale sul consumatore, si sostiene che il rapporto tra avvocato e cliente esulerebbe dalla normativa de qua, in quanto l'attività del legale non rientrerebbe tra le "attività commerciali", a cui soltanto la stessa normativa si riferirebbe, sostanziandosi in un'opera intellettuale basata sull'intuitu personae, di modo che l'avvocato non potrebbe essere annoverato tra i professionisti a cui si applica la normativa comunitaria.
5.2. Va, al contrario, rilevato che la direttiva comunitaria del 5.4.19 93, n. 93/13 CEE non limita il suo ambito di applicazione alle "attività commerciali", come comunemente intese. Anzi la predetta direttiva comunitaria, al suo decimo "considerando", afferma espressamente la sua applicabilità "a qualsiasi contratto stipulato tra un professionista e un consumatore", eccezion fatta per alcuni contratti espressamente enucleati.
Il D.lgs. n. 206/2005 all'art. 3 lett. a), come modificato dall'art. 3, D.Lgs. 23 ottobre 2007, n. 221 definisce il consumatore come: "la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta". Lo stesso art. 3 (mod. dal d.lgs. n. 221/2007), alla lett. c) definisce il professionista come: “la persona fisica o giuridica che agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario". Questa definizione di professionista, così come quella di consumatore, fa riferimento all'esercizio dell'attività "imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale" che, nel nostro ordinamento, rispecchia la distinzione tra imprenditore, artigiano e prestatore d'opera professionale.
6.1. È evidente, quindi, che la disciplina del consumatore si applica anche al professionista prestatore d'opera intellettuale (art. 2229 c.c.), qual'è l'avvocato.
A tal fine, peraltro, a nulla rileva che il rapporto tra l'avvocato e il professionista sia caratterizzato dall'intuitu personae e sia, non di contrapposizione, ma di collaborazione (questo, tra l'altro, solo nei rapporti esterni con i terzi, ossia con le controparti del cliente), non rientrando tale circostanza nel paradigma normativo.
Nella fattispecie si versa nell'ipotesi di contratto (d'opera professionale) stipulato tra un professionista (l'avvocato), che tipicamente conclude quel tipo di contratto nella sua attività professionale, ed un cliente, il quale, a seconda delle circostanze, può esser un consumatore o meno (come si vedrà in seguito).
Invero, è evidente che un avvocato utilizza il contratto (di mandato per la rappresentanza e difesa giudiziale o extragiudiziale di un cliente) per agire nell'esercizio della propria attività professionale ed è, pertanto, da considerare un professionista, secondo la definizione data a tale figura dal legislatore nell'art. 3, lett. u) del citato D.lgs. n. 206/2005.
6.2. Ora, il professionista è colui che nell'esercizio della sua attività "utilizza" i contratti previsti dalla disciplina a tutela del consumatore. Il punto era espressamente dichiarato nel previgente art. 1469 bis c.c.; l'inciso non è stato poi riprodotto nel codice del consumo unicamente per il fatto che la definizione viene riferita, in apertura di codice, non solo alla disciplina dei contratti del consumatore ma del consumo in genere. Tuttavia non pare revocabile in dubbio che l'utilizzo del contratto da parte del professionista quale ordinario strumento per l'esercizio della propria attività sia uno dei presupposti sostanziali della normativa in esame.
6.3. Quanto alla prestazione professionale, lo stesso articolo 3 del cod. cons. alla lett. e) individua nel "prodotto" destinato al consumatore anche una "prestazione di servizi".
A questo fine va rilevato che già questa Corte aveva affermato con ordinanza 26/09/2008, n. 24257, l'applicabilità dell'art. 33 lett. u) del citato D.lgs 6.9.2005, n. 206, in tema di foro del consumatore nell'ambito di un giudizio instaurato dall'avvocato nei confronti del proprio cliente per competenze professionali, rilevando la prevalenza di detto foro esclusivo rispetto a quelli facoltativi di cui all'art. 20 c.p.c. (non si faceva questione -invece - del rapporto tra foro esclusivo del consumatore e quello alternativo speciale di cui all'art. 637, c. 3, c.p.c.) 6.4.Più in generale questa Corte ha già ritenuto che il prestatore di opera professionale intellettuale (nella fattispecie il medico) integra la figura del professionista di cui all'art. 1469 bis (abrogato) e. e. e quindi dell'attuale art. 3 cod. cons. (Cass. 20/03/2010, n. 6824; Cass. 27/02/2009, n. 4914, Cass. 2/01/2009, n. 20), con la conseguenza che opera per il cliente - consumatore - il foro esclusivo della propria residenza. In questi predetti arresti si è rilevato che è professionista - ai fini dell'applicazione della disciplina sui contratti del consumatore, - una persona che assume verso l'altra l'impegno di svolgere a suo favore un compito da professionista intellettuale, se l'impegno è assunto nel quadro di un'attività svolta in modo non occasionale.
6.5. Né la disciplina di protezione del consumatore è limitata al caso in cui il contratto sia concluso per iscritto con rinvio a condizioni generali di contratto o mediante moduli o formulari, come pure si evince sia dall'art. 35 del codice del consumo (e già dall'art. 1469 quater cod. civ.), sia dall'art. 34, comma 5 del citato codice e già dall'art. 1479 ter c.c., comma 5, che considerano tali ipotesi come eventuali e le elevano a presupposto della applicazione di ulteriori disposizioni di tutela del consumatore.
Il che è del resto conforme a quanto risulta in modo espresso da uno dei "considerando" che introducono alla direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati dal consumatore, dove è scritto che "il consumatore deve godere della medesima protezione nell'ambito di un contratto orale e di un contratto scritto".
Inoltre la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che sia "professionista" il prestatore d'opera intellettuale anche quando si è discusso e risolto negativamente il quesito se della tutela del consumatore possa egli fruire per contratti conclusi nel quadro della sua attività professionale (Cass. 5 giugno 2 007 n. 13083; 9 novembre 2006 n. 23892, quest'ultima con specifico riferimento alla professione di avvocato).
7.Ne consegue che, per effetto dell'applicabilità dell'art. 33 lett. u) d.lgs. n. 2 05/2 006, il foro alternativo speciale di cui all'art. 637, e. 3 c.p.c. opera solo nell'ipotesi in cui il cliente, tenuto alla prestazione del corrispettivo all'avvocato, sia una persona giuridica oppure - nell'ipotesi in cui il cliente sia una persona fisica - che esso non rivesta la qualità di consumatore e, quindi, che abbia richiesto la prestazione professionale all'avvocato per uno scopo estraneo alla sua attività imprenditoriale,commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta (l'art. 15 del Reg. CE 44/2001 utilizza il sintagma X1scopo estraneo all'attività").
8.1-Si pone a questo punto la terza questione: Se, ai fini dell'individuazione del consumatore, con la locuzione "scopo estraneo all'attività professionale" ci si riferisca necessariamente ad "attività professionale" diversa da quella del lavoratore dipendente.
Secondo il ricorrente, infatti, poiché il Ma. gli aveva richiesto l'attività professionale di avvocato relativamente ad atti in merito all'orario di insegnamento, la prestazione richiesta non era estranea all'attività professionale di insegnante del Ma. , con la conseguenza che questi non era un consumatore, ma a sua volta un professionista, per cui non poteva invocare il foro del consumatore.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale italiano prevalente (Cass. S.U. n. 7444 del 20/03/2008) deve essere considerato consumatore e beneficia della disciplina di cui all'art. 1469 bis c.c. e segg., ed attualmente D.Lgs. n. 2006 del 2005, artt. 3 e 33 e segg., la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività; mentre deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale e professionale, ricomprendendosi in tale nozione anche gli atti posti in essere per uno scopo connesso all'esercizio dell'impresa (cfr. anche Cass. 23/02/2007, n. 4208).
8.2.Non sono mancate critiche a tale orientamento, finalizzate ad un’interpretazione estensiva del concetto di consumatore, fondata sulla distinzione tra atti della professione e atti inerenti alla professione e con la tendenza ad escludere dall'ambito di applicazione della tutela dei consumatori solo quegli atti che presentino una pertinenza specifica con l'attività professionale svolta e non quelli in cui il collegamento sia riconducibile ad un rapporto di pertinenza generica, sul presupposto che in tali situazioni il soggetto vessato, pur agendo per finalità diverse dal puro consumo privato, è sostanzialmente un profano, sfornito di quelle competenze specifiche che possono farlo ritenere in posizione di parità con il contraente forte, con conseguente asimmetria informativa.
8.3. Sennonché non vi sono ragioni per discostarsi dall'orientamento già espresso da queste S.U. e sopra indicato. Va, anzi, osservato che la tesi è corroborata dalla definizione di consumatore fornita nell'ambito del commercio elettronico (art. 2, lett. e), D.lgs. 9.4.2003, n.70): questa normativa prevede che anche la mera riferibilità dell'atto all'attività professionale svolta dalla persona fisica impedisce che quest'ultima possa essere qualificata come consumatore.
8.4. Ne consegue che anche la persona fisica che abbia richiesto all'avvocato la sua prestazione professionale per una questione non estranea alla sua attività imprenditoriale o professionale, sia pure occasionale, non ha la qualità di consumatore e quindi non può beneficiare del foro di cui all'art. 33, c. 2 lett. u) d.lgs. n. 205/2006, mentre rimane soggetto al foro alternativo di cui all'art. 637, c. 3 c.p.c.
9.1. Sotto questo profilo non può essere condiviso l'argomento sotteso alla sentenza impugnata e fatto proprio dal resistente, secondo cui nella fattispecie il contratto di prestazione di opera professionale intervenuto tra l'avvocato ed il cliente non costituiva un atto finalizzato alla sua attività di professore di scuola pubblica statale, svolta dal cliente, per cui questi non era un consumatore.
Poiché nella fattispecie, invece, come emerge dalla sentenza impugnata, il mandato professionale era stato conferito, dall'opponente all'opposto per ottenere l'annullamento dal TAR del provvedimento di smembramento delle ore di insegnamento del Ma. , insegnante di topografia, costruzioni rurali e disegno presso istituti tecnici, tale prestazione difensiva richiesta, non era estranea all'attività del cliente, come rileva il ricorrente.
9.2.Osserva, quindi, questa Corte che se la questione della qualità di professionista (e quindi di non consumatore) dovesse essere impostata solo nei termini di inerenza della prestazione difensiva richiesta con l'attività svolta dall'opponente (cliente), nella fattispecie dovrebbe necessariamente concludersi che la prestazione richiesta all'avvocato non era "estranea" alla stessa, poiché atteneva espressamente a tale attività di insegnante del cliente.
Sennonché tale assunto si fonda su un presupposto errato e cioè che si possa predicare, ai fini che qui interessano, l'equazione tra "attività lavorativa" ed "attività professionale".
Invece nella fattispecie la disciplina dei c.d. contratti del consumatore trova applicazione non perché manchi l'inerenza tra il contratto concluso con l'avvocato e l'attività lavorativa di insegnante del cliente, ma perché tale attività lavorativa, trattandosi di lavoro subordinato, non è qualificabile come "attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale", come richiesto dalla legge e sostenuto dal ricorrente.
Solo se il soggetto persona fisica agisce per uno scopo relativo ad una di queste quattro "attività", è esclusa la qualità di consumatore, subentrando invece la qualità di professionista. 10.1.Ritiene questa Corte che il rapporto di lavoro subordinato (sia privato che pubblico), contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non integri "attività professionale", idonea (ai sensi dell'art. 3 d. lgs. n. 206/2005) a far ritenere sussistente la qualità di professionista e, per converso, escludere quella di consumatore.
Infatti anzitutto la disciplina relativa alla tutela del consumatore individua nel professionista un soggetto che opera direttamente sul mercato per un'attività imprenditoriale artigianale, commerciale o professionale, svolgendo su tale mercato un'attività economica, tendenzialmente nei confronti di tutti i soggetti che possono richiederla.
A fronte di tale attività vi è il consumatore, quale persona fisica, che, se non ha egli stesso in relazione a quel contratto la qualità di professionista, rappresenta la parte debole. Nel rapporto di lavoro subordinato, invece, il lavoratore non svolge sul mercato la propria attività economica, ma effettua la sua prestazione lavorativa esclusivamente con l'inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa del datore di lavoro (Cass. civ., Sez. lavoro, 14/09/2009, n. 19770), e solo l'attività di quest' ultimo è un'attività imprenditoriale, commerciale o artigianale o professionale (e non quella dei soggetti che all'interno svolgono per lui l'attività lavorativa dipendente).
Peraltro sarebbe ben strano che il lavoratore dipendente, all'interno del rapporto di lavoro, sia considerato la parte debole (Cass. 12/02/2004, n. 2734), mentre quando poi "agisce nell'esercizio della propria attività", ai fini del codice del consumo sia considerato un "professionista", parte forte. Ulteriori elementi per escludere che nel concetto di "attività professionale" rientri anche l'attività lavorativa conseguente a rapporto di lavoro emergono dal decimo "considerando" alla direttiva 93/13/CEE, che ai contratti di lavoro ha attribuito una propria autonomia.
10.2.In definitiva con il sintagma "attività professionale", di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 206/2005, come modificato dal D.Lgs. 23 ottobre 20 07, n. 221, ai fini della qualificazione del soggetto - persona fisica - come professionista, deve intendersi solo l'attività consistente nella prestazione autonoma d'opera professionale intellettuale (oltre all'attività imprenditoriale, commerciale ed artigianale, espressamente previste dalla norma), con esclusione quindi dell'attività di lavoro dipendente, sia pubblico che privato.
11. Nella fattispecie, poiché si versa in ipotesi di un contratto d'opera professionale intellettuale tra l'avvocato opposto ed il consumatore opponente, trova applicazione il foro esclusivo di quest'ultimo, a norma dell'art. 33, c. 2, lett. u) del d.lgs. 6.9.2005, n. 206, e non il foro di cui all'art. 637, c. 3, c.p.c. Quindi va affermata la competenza territoriale del tribunale di Larino, come correttamente statuito dalla sentenza impugnata. Stante la novità della questione in questa sede di legittimità ed il contrasto nella giurisprudenza di merito, esistono giusti motivi per compensare le spese di questo regolamento.
P.Q.M.
Dichiara la competenza per territorio del tribunale di Larino. Compensa tra le parti le spese di questo regolamento.
Ordinanza 4 maggio – 9 giugno 2011, n. 12685
"in ipotesi di un contratto d'opera professionale intellettuale tra l'avvocato opposto ed il consumatore opponente, trova applicazione il foro esclusivo di quest'ultimo, a norma dell'art. 33, c. 2, lett. u) del d.lgs. 6.9.2005, n. 206, e non il foro di cui all'art. 637, c. 3, c.p.c. "
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Ordinanza 4 maggio – 9 giugno 2011, n. 12685
(Presidente Preden – Relatore Segreto)
Fatto e diritto
1. L'avv. E.M. ha ottenuto dal Tribunale di Roma un decreto ingiuntivo nei confronti di Ma.Sa. per un credito di Euro. 14.473,88 a titolo di compenso per prestazioni professionali di avvocato in un giudizio promosso davanti al Tar Molise e davanti al Consiglio di Stato, relativo all'orario di insegnamento del Ma. , quale professore di scuola pubblica. Il Ma. proponeva opposizione, eccependo tra l'altro l'incompetenza territoriale del tribunale di Roma ed in via gradata, sollevando l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 637, e. 3, c.p.c.
Il tribunale di Roma, con sentenza depositata il 19.2.2010, dichiarava la propria incompetenza per territorio, essendo competente il tribunale di Larino, quale foro del consumatore, avendo il Ma. la propria residenza in quel circondario.
Avverso tale sentenza, l'attore avv. E.M. proponeva regolamento di competenza adducendo che nel caso di specie non fosse applicabile la previsione sul foro del consumatore, in quanto nel rapporto tra avvocato e cliente non operava la normativa a tutela del consumatore che si riferiva solo alle attività commerciali; che il Ma.Sa. non poteva considerasi un consumatore, in quanto aveva conferito mandato all'avvocato riguardo ad una controversia che rientrava nel quadro della sua professione di insegnante; che in ogni caso avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 637, comma 3, c.p.c. L’avv. M. ha presentato anche memoria. Resiste l'intimato con controricorso.
2. La decisione sulla competenza passa necessariamente attraverso la soluzione di tre questioni.
Il primo problema che si pone nella fattispecie attiene al rapporto tra il foro speciale alternativo di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c. in favore degli avvocati (e dei notai), ed il foro esclusivo del consumatore di cui attualmente all'art. 33, c. 2 lett. n) del d.lgs. 6.9.2005 n. 206.
Il punto è oggetto di soluzioni contrastanti nella giurisprudenza di merito, mentre mancano sentenze di legittimità.
L'art. 63 7 c.p.c. statuisce che "Per l'ingiunzione è competente il giudice di pace o, in composizione monocratica, il tribunale che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria. Per i crediti previsti nel n. 2 dell'articolo 633 è competente anche l'ufficio giudiziario che ha deciso la causa alla quale il credito si riferisce.
Gli avvocati o i notai possono altresì proporre domanda d'ingiunzione contro i propri clienti al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell'ordine al cui albo sono iscritti o il consiglio notarile dal quale dipendono". L'art. 33, c. 2, lett. u), del d.lgs. 6.9.2005, n. 206,statuisce in tema di contratti c.d. del consumatore che si presume vessatoria fino a prova contraria la clausola che ha per oggetto, o per effetto, di "stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore”.
3.Va anzitutto rilevato che l'art. 637, c. 3, c.p.c. ha superato indenne lo scrutinio di costituzionalità, a cui è stato sottoposto dal Giudice delle leggi con sentenza n. 50 del 2010, in relazione agli artt. 3 e 25 Cost.. La Corte costituzionale ha solo rilevato che lo scopo della norma è quello di agevolare il professionista, che sarebbe invece costretto a seguire le cause relative al recupero dei crediti professionali in luogo diverso (o addirittura in luoghi diversi) da quello in cui egli avesse attualmente stabilito l'organizzazione della propria attività professionale, ma che la censura di incostituzionalità non può ritenersi fondata sotto il profilo della disparità di trattamento in relazione ad altre categorie professionali, che non possono avvalersi della stessa norma. Infatti "si deve osservare che ogni professione presenta caratteri peculiari idonei a giustificarne una disciplina giuridica differenziata. Per la professione legale tali caratteri sono stati già posti in luce con la sentenza di questa Corte n. 137 del 1975. Infine, quanto al rapporto tra l'avvocato e il cliente, se è vero che la norma censurata attribuisce al primo una facoltà processuale ai fini del recupero dei suoi crediti per prestazioni professionali, mediante la possibilità di scegliere un foro che può non coincidere con la residenza o il domicilio del debitore convenuto, è anche vero che tale facoltà non contrasta con il principio di eguaglianza, essendo essa, come già si è notato, frutto di una scelta non irragionevole del legislatore”.
4.1. La giurisprudenza ha ritenuto in tema di c.d. contratti del consumatore, che il foro del consumatore è esclusivo e speciale sicché la clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o di domicilio elettivo del consumatore, anche se il foro indicato come competente coincida con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.c., è presuntivamente vessatoria e, pertanto, nulla (Cass. 26/09/2008, n. 24262).
Già sotto la vigenza dell'art. 1469 bis c.p.c. le S.U. di questa Corte hanno ritenuto che la norma contenuta nel comma 3, n. 19 nel presumere la vessatorietà della clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore, ha introdotto un foro esclusivo speciale, derogabile dalle parti solo con trattativa individuale. Ne consegue che è da presumere vessatoria anche la clausola che stabilisca un foro coincidente con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 cod. proc. civ., se è diverso quello del consumatore, perché l'art. 1469-ter, terzo comma, cod. civ. - per il quale non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge - non può essere interpretato vanificando in modo surrettizio la tutela del consumatore, come nel caso in cui il "forum destinatae solutionis" coincida con la residenza del professionista (Cass. Sez. Unite, 01/10/2003, n. 14669; Cass. 20/08/2004, n. 16336).
Pertanto con l'introduzione del foro speciale esclusivo in favore del consumatore (originariamente introdotto dall'art. 1469 bis c.c. e poi trasferito nell'art. 33 del d. lgs. n. 206/2005) risulta ridotto l'ambito di applicabilità dell'originario foro speciale alternativo di cui all'art. 637, c. 3, c.p.c., non regolando anche l'area attualmente coperta dal foro del consumatore, ma esclusivamente quella in cui il cliente ingiunto non rivesta tale qualità.
A rigore non si tratta propriamente di una abrogazione dell'art. 637 e. 3 c.p.c., sia pure parziale, per incompatibilità ai sensi dell'art. 15 delle preleggi, in quanto le due norme in esame convivono (e ciò non solo in relazione alle diverse delimitazioni suddette ma anche perché l'art. 34 d. lgs. n. 206/2005 non esclude in modo assoluto la deroga al foro del consumatore, e quindi anche l'applicabilità della norma codicistica, ma indica le ristrette condizioni alla quali può essere ammessa).
Tuttavia, allorché si versa in una fattispecie in cui, per la presenza sia dell'avvocato che del cliente-consumatore entrambe le norme sarebbero astrattamente applicabili ma necessariamente deve darsi la prevalenza o all'una o all'altra, tale prevalenza va accordata alla norma in tema di foro del consumatore per una duplice ragione.
Anzitutto perché la norma in tema di foro del consumatore individua una competenza esclusiva, che prevale su ogni altra, pur configurata da altra norma (così SU 14669/2003 cit.).
Inoltre detta prevalenza è conseguenza dell'applicazione dei principi che regolano la successione delle leggi nel tempo.
4.2.Né potrebbe sostenersi che tale disciplina prevista dall'art. 637, c. 3, c.p.c., per quanto anteriore rispetto al c.d. codice del consumo non sia stata influenzata dalla successiva disciplina in tema di foro del consumatore, costituendo la norma codicistica una disposizione speciale e, come tale non derogata dalla disposizione successiva generale (perché regolante organicamente l'intera materia della tutela del consumatore) secondo il principio lex specialis derogat legi generali e lex posterior generalis non derogat legi priori speciali.
Infatti l'art. 33, c. 2, lett. u), d. lgs. n. 206/2005 cit., per quanto posizionato in una normativa a carattere generale a tutela del consumatore, rappresenta pur sempre una disposizione speciale in tema di competenza territoriale, non diversamente dalla norma di cui all'art. 637, c. 3 c.p.c., che è posizionata nell'ambito del codice di rito e, quindi, della disciplina generale ed organica del procedimento civile.
4.3. In ogni caso, in merito alla qualità di lex specialis della norma attinente al foro esclusivo del consumatore, va osservato che tale foro era stato originariamente disposto dall'art. 1469 bis e. 3, n. 19 c.c. (introdotto con l'art. 25 della l. n. 52/1996). In quella sede tale l'individuazione del foro costituiva certamente una lex specialis a tutela del consumatore, con la conseguenza che per effetto del coordinamento di tale disposizione speciale sopravvenuta con quella antecedente di cui all'art. 637, c. 3, quest'ultima risultava delimitata ai soli casi in cui il cliente non fosse un consumatore.
La circostanza che la norma speciale in tema di foro esclusivo del consumatore sia poi stata trasferita nella più generale normativa a tutela del consumatore, di cui alla legge n. 206 del 2005, non priva la norma attinente al foro del consumatore del carattere di specialità né "riassorbe" gli effetti delimitativi già prodottisi sull'art. 637, c. 3 c.p.c.
Entrambe le norme (sia quella di cui all'art. 637, e. 3, che quella di cui all'art. 33 d. lgs. n. 205/2006) attengono infatti a categorie specifiche di soggetti.
Ne consegue che il loro concorso va regolato nei termini della prevalenza della norma di cui all'art. 33, c. 2, lett. u, d. lgs. n.2006/2005 su quella di cui all'art. 637, e. 3 c.p.c.
4.4. Di nessun rilievo, ai fini della questione in esame, è la sentenza 20.7.2010 n. 17049 di questa Corte, su cui si dilunga il ricorrente nella memoria. Essa infatti si è limitata a statuire che il Consiglio dell'Ordine in relazione al quale va determinato il giudice competente a norma dell'art. 637, c. 3, c.p.c. è quello relativo al momento della proposizione del ricorso. Nessun elemento da tanto si ricava in relazione alla diversa questione in esame della concorrenza tra il foro dell'avvocato e quello del consumatore.
5.1. La seconda questione che si pone è di esaminare se l'avvocato che conclude un contratto d'opera professionale intellettuale sia da ritenersi un professionista, ai sensi dell'art. 3 del d. lgs. n. 206/2005.
La risposta è affermativa.
Invero, appare innanzitutto infondato l'assunto del ricorrente con il quale, facendosi riferimento al preambolo della direttiva comunitaria 5 aprile 1993 n. 93/13 CEE, da cui ha tratto origine la normativa nazionale sul consumatore, si sostiene che il rapporto tra avvocato e cliente esulerebbe dalla normativa de qua, in quanto l'attività del legale non rientrerebbe tra le "attività commerciali", a cui soltanto la stessa normativa si riferirebbe, sostanziandosi in un'opera intellettuale basata sull'intuitu personae, di modo che l'avvocato non potrebbe essere annoverato tra i professionisti a cui si applica la normativa comunitaria.
5.2. Va, al contrario, rilevato che la direttiva comunitaria del 5.4.19 93, n. 93/13 CEE non limita il suo ambito di applicazione alle "attività commerciali", come comunemente intese. Anzi la predetta direttiva comunitaria, al suo decimo "considerando", afferma espressamente la sua applicabilità "a qualsiasi contratto stipulato tra un professionista e un consumatore", eccezion fatta per alcuni contratti espressamente enucleati.
Il D.lgs. n. 206/2005 all'art. 3 lett. a), come modificato dall'art. 3, D.Lgs. 23 ottobre 2007, n. 221 definisce il consumatore come: "la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta". Lo stesso art. 3 (mod. dal d.lgs. n. 221/2007), alla lett. c) definisce il professionista come: “la persona fisica o giuridica che agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario". Questa definizione di professionista, così come quella di consumatore, fa riferimento all'esercizio dell'attività "imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale" che, nel nostro ordinamento, rispecchia la distinzione tra imprenditore, artigiano e prestatore d'opera professionale.
6.1. È evidente, quindi, che la disciplina del consumatore si applica anche al professionista prestatore d'opera intellettuale (art. 2229 c.c.), qual'è l'avvocato.
A tal fine, peraltro, a nulla rileva che il rapporto tra l'avvocato e il professionista sia caratterizzato dall'intuitu personae e sia, non di contrapposizione, ma di collaborazione (questo, tra l'altro, solo nei rapporti esterni con i terzi, ossia con le controparti del cliente), non rientrando tale circostanza nel paradigma normativo.
Nella fattispecie si versa nell'ipotesi di contratto (d'opera professionale) stipulato tra un professionista (l'avvocato), che tipicamente conclude quel tipo di contratto nella sua attività professionale, ed un cliente, il quale, a seconda delle circostanze, può esser un consumatore o meno (come si vedrà in seguito).
Invero, è evidente che un avvocato utilizza il contratto (di mandato per la rappresentanza e difesa giudiziale o extragiudiziale di un cliente) per agire nell'esercizio della propria attività professionale ed è, pertanto, da considerare un professionista, secondo la definizione data a tale figura dal legislatore nell'art. 3, lett. u) del citato D.lgs. n. 206/2005.
6.2. Ora, il professionista è colui che nell'esercizio della sua attività "utilizza" i contratti previsti dalla disciplina a tutela del consumatore. Il punto era espressamente dichiarato nel previgente art. 1469 bis c.c.; l'inciso non è stato poi riprodotto nel codice del consumo unicamente per il fatto che la definizione viene riferita, in apertura di codice, non solo alla disciplina dei contratti del consumatore ma del consumo in genere. Tuttavia non pare revocabile in dubbio che l'utilizzo del contratto da parte del professionista quale ordinario strumento per l'esercizio della propria attività sia uno dei presupposti sostanziali della normativa in esame.
6.3. Quanto alla prestazione professionale, lo stesso articolo 3 del cod. cons. alla lett. e) individua nel "prodotto" destinato al consumatore anche una "prestazione di servizi".
A questo fine va rilevato che già questa Corte aveva affermato con ordinanza 26/09/2008, n. 24257, l'applicabilità dell'art. 33 lett. u) del citato D.lgs 6.9.2005, n. 206, in tema di foro del consumatore nell'ambito di un giudizio instaurato dall'avvocato nei confronti del proprio cliente per competenze professionali, rilevando la prevalenza di detto foro esclusivo rispetto a quelli facoltativi di cui all'art. 20 c.p.c. (non si faceva questione -invece - del rapporto tra foro esclusivo del consumatore e quello alternativo speciale di cui all'art. 637, c. 3, c.p.c.) 6.4.Più in generale questa Corte ha già ritenuto che il prestatore di opera professionale intellettuale (nella fattispecie il medico) integra la figura del professionista di cui all'art. 1469 bis (abrogato) e. e. e quindi dell'attuale art. 3 cod. cons. (Cass. 20/03/2010, n. 6824; Cass. 27/02/2009, n. 4914, Cass. 2/01/2009, n. 20), con la conseguenza che opera per il cliente - consumatore - il foro esclusivo della propria residenza. In questi predetti arresti si è rilevato che è professionista - ai fini dell'applicazione della disciplina sui contratti del consumatore, - una persona che assume verso l'altra l'impegno di svolgere a suo favore un compito da professionista intellettuale, se l'impegno è assunto nel quadro di un'attività svolta in modo non occasionale.
6.5. Né la disciplina di protezione del consumatore è limitata al caso in cui il contratto sia concluso per iscritto con rinvio a condizioni generali di contratto o mediante moduli o formulari, come pure si evince sia dall'art. 35 del codice del consumo (e già dall'art. 1469 quater cod. civ.), sia dall'art. 34, comma 5 del citato codice e già dall'art. 1479 ter c.c., comma 5, che considerano tali ipotesi come eventuali e le elevano a presupposto della applicazione di ulteriori disposizioni di tutela del consumatore.
Il che è del resto conforme a quanto risulta in modo espresso da uno dei "considerando" che introducono alla direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati dal consumatore, dove è scritto che "il consumatore deve godere della medesima protezione nell'ambito di un contratto orale e di un contratto scritto".
Inoltre la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che sia "professionista" il prestatore d'opera intellettuale anche quando si è discusso e risolto negativamente il quesito se della tutela del consumatore possa egli fruire per contratti conclusi nel quadro della sua attività professionale (Cass. 5 giugno 2 007 n. 13083; 9 novembre 2006 n. 23892, quest'ultima con specifico riferimento alla professione di avvocato).
7.Ne consegue che, per effetto dell'applicabilità dell'art. 33 lett. u) d.lgs. n. 2 05/2 006, il foro alternativo speciale di cui all'art. 637, e. 3 c.p.c. opera solo nell'ipotesi in cui il cliente, tenuto alla prestazione del corrispettivo all'avvocato, sia una persona giuridica oppure - nell'ipotesi in cui il cliente sia una persona fisica - che esso non rivesta la qualità di consumatore e, quindi, che abbia richiesto la prestazione professionale all'avvocato per uno scopo estraneo alla sua attività imprenditoriale,commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta (l'art. 15 del Reg. CE 44/2001 utilizza il sintagma X1scopo estraneo all'attività").
8.1-Si pone a questo punto la terza questione: Se, ai fini dell'individuazione del consumatore, con la locuzione "scopo estraneo all'attività professionale" ci si riferisca necessariamente ad "attività professionale" diversa da quella del lavoratore dipendente.
Secondo il ricorrente, infatti, poiché il Ma. gli aveva richiesto l'attività professionale di avvocato relativamente ad atti in merito all'orario di insegnamento, la prestazione richiesta non era estranea all'attività professionale di insegnante del Ma. , con la conseguenza che questi non era un consumatore, ma a sua volta un professionista, per cui non poteva invocare il foro del consumatore.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale italiano prevalente (Cass. S.U. n. 7444 del 20/03/2008) deve essere considerato consumatore e beneficia della disciplina di cui all'art. 1469 bis c.c. e segg., ed attualmente D.Lgs. n. 2006 del 2005, artt. 3 e 33 e segg., la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività; mentre deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale e professionale, ricomprendendosi in tale nozione anche gli atti posti in essere per uno scopo connesso all'esercizio dell'impresa (cfr. anche Cass. 23/02/2007, n. 4208).
8.2.Non sono mancate critiche a tale orientamento, finalizzate ad un’interpretazione estensiva del concetto di consumatore, fondata sulla distinzione tra atti della professione e atti inerenti alla professione e con la tendenza ad escludere dall'ambito di applicazione della tutela dei consumatori solo quegli atti che presentino una pertinenza specifica con l'attività professionale svolta e non quelli in cui il collegamento sia riconducibile ad un rapporto di pertinenza generica, sul presupposto che in tali situazioni il soggetto vessato, pur agendo per finalità diverse dal puro consumo privato, è sostanzialmente un profano, sfornito di quelle competenze specifiche che possono farlo ritenere in posizione di parità con il contraente forte, con conseguente asimmetria informativa.
8.3. Sennonché non vi sono ragioni per discostarsi dall'orientamento già espresso da queste S.U. e sopra indicato. Va, anzi, osservato che la tesi è corroborata dalla definizione di consumatore fornita nell'ambito del commercio elettronico (art. 2, lett. e), D.lgs. 9.4.2003, n.70): questa normativa prevede che anche la mera riferibilità dell'atto all'attività professionale svolta dalla persona fisica impedisce che quest'ultima possa essere qualificata come consumatore.
8.4. Ne consegue che anche la persona fisica che abbia richiesto all'avvocato la sua prestazione professionale per una questione non estranea alla sua attività imprenditoriale o professionale, sia pure occasionale, non ha la qualità di consumatore e quindi non può beneficiare del foro di cui all'art. 33, c. 2 lett. u) d.lgs. n. 205/2006, mentre rimane soggetto al foro alternativo di cui all'art. 637, c. 3 c.p.c.
9.1. Sotto questo profilo non può essere condiviso l'argomento sotteso alla sentenza impugnata e fatto proprio dal resistente, secondo cui nella fattispecie il contratto di prestazione di opera professionale intervenuto tra l'avvocato ed il cliente non costituiva un atto finalizzato alla sua attività di professore di scuola pubblica statale, svolta dal cliente, per cui questi non era un consumatore.
Poiché nella fattispecie, invece, come emerge dalla sentenza impugnata, il mandato professionale era stato conferito, dall'opponente all'opposto per ottenere l'annullamento dal TAR del provvedimento di smembramento delle ore di insegnamento del Ma. , insegnante di topografia, costruzioni rurali e disegno presso istituti tecnici, tale prestazione difensiva richiesta, non era estranea all'attività del cliente, come rileva il ricorrente.
9.2.Osserva, quindi, questa Corte che se la questione della qualità di professionista (e quindi di non consumatore) dovesse essere impostata solo nei termini di inerenza della prestazione difensiva richiesta con l'attività svolta dall'opponente (cliente), nella fattispecie dovrebbe necessariamente concludersi che la prestazione richiesta all'avvocato non era "estranea" alla stessa, poiché atteneva espressamente a tale attività di insegnante del cliente.
Sennonché tale assunto si fonda su un presupposto errato e cioè che si possa predicare, ai fini che qui interessano, l'equazione tra "attività lavorativa" ed "attività professionale".
Invece nella fattispecie la disciplina dei c.d. contratti del consumatore trova applicazione non perché manchi l'inerenza tra il contratto concluso con l'avvocato e l'attività lavorativa di insegnante del cliente, ma perché tale attività lavorativa, trattandosi di lavoro subordinato, non è qualificabile come "attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale", come richiesto dalla legge e sostenuto dal ricorrente.
Solo se il soggetto persona fisica agisce per uno scopo relativo ad una di queste quattro "attività", è esclusa la qualità di consumatore, subentrando invece la qualità di professionista. 10.1.Ritiene questa Corte che il rapporto di lavoro subordinato (sia privato che pubblico), contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non integri "attività professionale", idonea (ai sensi dell'art. 3 d. lgs. n. 206/2005) a far ritenere sussistente la qualità di professionista e, per converso, escludere quella di consumatore.
Infatti anzitutto la disciplina relativa alla tutela del consumatore individua nel professionista un soggetto che opera direttamente sul mercato per un'attività imprenditoriale artigianale, commerciale o professionale, svolgendo su tale mercato un'attività economica, tendenzialmente nei confronti di tutti i soggetti che possono richiederla.
A fronte di tale attività vi è il consumatore, quale persona fisica, che, se non ha egli stesso in relazione a quel contratto la qualità di professionista, rappresenta la parte debole. Nel rapporto di lavoro subordinato, invece, il lavoratore non svolge sul mercato la propria attività economica, ma effettua la sua prestazione lavorativa esclusivamente con l'inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa del datore di lavoro (Cass. civ., Sez. lavoro, 14/09/2009, n. 19770), e solo l'attività di quest' ultimo è un'attività imprenditoriale, commerciale o artigianale o professionale (e non quella dei soggetti che all'interno svolgono per lui l'attività lavorativa dipendente).
Peraltro sarebbe ben strano che il lavoratore dipendente, all'interno del rapporto di lavoro, sia considerato la parte debole (Cass. 12/02/2004, n. 2734), mentre quando poi "agisce nell'esercizio della propria attività", ai fini del codice del consumo sia considerato un "professionista", parte forte. Ulteriori elementi per escludere che nel concetto di "attività professionale" rientri anche l'attività lavorativa conseguente a rapporto di lavoro emergono dal decimo "considerando" alla direttiva 93/13/CEE, che ai contratti di lavoro ha attribuito una propria autonomia.
10.2.In definitiva con il sintagma "attività professionale", di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 206/2005, come modificato dal D.Lgs. 23 ottobre 20 07, n. 221, ai fini della qualificazione del soggetto - persona fisica - come professionista, deve intendersi solo l'attività consistente nella prestazione autonoma d'opera professionale intellettuale (oltre all'attività imprenditoriale, commerciale ed artigianale, espressamente previste dalla norma), con esclusione quindi dell'attività di lavoro dipendente, sia pubblico che privato.
11. Nella fattispecie, poiché si versa in ipotesi di un contratto d'opera professionale intellettuale tra l'avvocato opposto ed il consumatore opponente, trova applicazione il foro esclusivo di quest'ultimo, a norma dell'art. 33, c. 2, lett. u) del d.lgs. 6.9.2005, n. 206, e non il foro di cui all'art. 637, c. 3, c.p.c. Quindi va affermata la competenza territoriale del tribunale di Larino, come correttamente statuito dalla sentenza impugnata. Stante la novità della questione in questa sede di legittimità ed il contrasto nella giurisprudenza di merito, esistono giusti motivi per compensare le spese di questo regolamento.
P.Q.M.
Dichiara la competenza per territorio del tribunale di Larino. Compensa tra le parti le spese di questo regolamento.
venerdì 15 luglio 2011
Separazione dei coniugi, assegnazione, revoca, effetti
Tribunale di Lecco
Lo stesso art. 155 quater c.c., introdotto dalla l. 54/2006, ha stabilito che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare”. E proprio la locazione del bene a terzi, del resto, è stata la causa della revoca dell’assegnazione
Tribunale di Lecco
Sentenza 17 maggio 2011
Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 447 bis c.p.c., depositato il 28.3.2010, TIZIO, assumendo di essere proprietario esclusivo dell’immobile sito in xxxx, via dei xxxx, n. x, esponeva che tale immobile era stato locato ad CAIA e SEMPRONIO dalla ex moglie, MEVIA, alla quale questo stesso Tribunale aveva assegnato tale casa, adibita a residenza coniugale, nella sentenza di divorzio n. xxx/xxxx, e ciò premesso, in seguito alla revoca dell’assegnazione disposta dal medesimo Tribunale con successivo decreto del 3.2.2010, evocava in giudizio CAIA e SEMPRONIO, domandando all’intestato Tribunale di condannarli all’immediata restituzione del predetto immobile e al pagamento di una equa indennità per l’occupazione dell’immobile, oltre alle spese di lite.
Il ricorso ed il pedissequo decreto ex art. 415 c.p.c., con il quale veniva fissata l’udienza del 7.7.2010, venivano notificati il 26.4.2010 ai resistenti, i quali si costituivano, con memoria difensiva il 22.6.2010, domandando in via preliminare di essere autorizzati a chiamare in causa MEVIA e, nel merito, di rigettare le domanda proposta dal ricorrente e, in via riconvenzionale, di accertare la validità ed efficacia del contratto nei confronti di TIZIO, anche ai sensi dell’art. 1606 c.c., o, in caso di rigetto della domanda riconvenzionale, di condannare MEVIA a manlevarli da tutte le domande contro di loro avanzate da TIZIO, compreso il pagamento di qualsiasi somma che gli stessi fossero costretti a pagare al ricorrente e comunque, in via subordinata, di pronunciare la risoluzione del contratto per fatto e colpa della stessa MEVIA. Veniva così autorizzata dal giudice la chiamata in causa di MEVIA, alla quale l’atto di chiamata in causa veniva notificato il 22.7.2010, e l’udienza del 3.10.2010 veniva differita al 3.11.2010.
All’udienza del 3.11.2010 il giudice, constatata la regolarità della notifica, dichiarava la contumacia di MEVIA e, interrogate liberamente le parti, comparse di persona, sollecitava tra le stesse un accordo, il quale prevedeva che i conduttori avrebbero rilasciato l’immobile entro il 3.3.2011, pagando medio tempore l’indennità di occupazione a TIZIO. Il Giudice rinviava la causa, per i medesimi incombenti, all’udienza del 23.3.2011.
All’udienza del 23.3.2011 il resistente CAIA si impegnava a rilasciare definitivamente l’immobile entro e non oltre il 10.5.2011 e pertanto il giudice, sull’accordo delle parti, rinviava la causa all’udienza del 10.5.2011, successivamente differita per legittimo impedimento dello stesso giudice al 17.5.2011, per la discussione, concedendo alle parti i termini previsti dall’art. 429, comma 2, c.p.c., per il deposito di note difensive.
All’udienza del 17.5.2011 il giudice ha invitato le parti costituite a precisare le conclusioni e a discutere la causa e, udita la discussione, ha deciso la causa, come da separato dispositivo e contestuale motivazione, di cui ha dato lettura ai sensi dell’art. 429, comma 1, c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda del ricorrente TIZIO è fondata, per quanto di ragione, nei limiti e per i motivi che qui si vengono ad esporre. Preliminarmente deve darsi atto che i resistenti CAIA e SEMPRONIO hanno rilasciato il 9.5.2011 l’immobile sito in xxxx, via xxxx, n. x, e che, quindi, è venuta a cessare la materia del contendere in ordine all’occupazione di detto immobile, come concordemente riconosciuto dalle parti all’udienza del 17.5.2011. Persiste tuttavia contrasto tra le parti in merito alla validità e all’opponibilità del contratto stipulato da MEVIA con i resistenti nei confronti di TIZIO nonché al versamento dei canoni di locazione (rectius: delle indennità di occupazione) in favore della prima o del secondo. Proprio in ragione della materia della persistente controversia, in via sempre preliminare, deve ritenersi che il presente giudizio sia soggetto al rito locatizio, in quanto suo precipuo oggetto è, appunto, il contratto di locazione stipulato da MEVIA e la sua opponibilità nei confronti di TIZIO.
Deve affrontarsi, ciò premesso, la complessa questione, oggetto, come appena accennato, del presente giudizio, dell’opponibilità del contratto di locazione stipulato da parte del coniuge assegnatario dell’abitazione coniugale, in sede di separazione o di divorzio, nei confronti dell’altro coniuge che voglia rientrarne in possesso in seguito alla revoca del provvedimento di assegnazione. I conduttori hanno domandato infatti, in via riconvenzionale, di accertare che tale contratto è valido, efficace e pienamente opponibile nei confronti del proprietario.
CAIA e SEMPRONIO hanno stipulato il 9.3.2009 con MEVIA un contratto di locazione ad uso abitativo, regolarmente registrato, avente ad oggetto l’immobile sito in xxxx, via xxxx, n. x (doc. 1 fasc. parte resistente). MEVIA era, all’epoca della stipulazione, assegnataria di detto immobile in forza del provvedimento presidenziale emesso nell’ambito del procedimento giudiziale di divorzio, definito da questo Tribunale con sentenza n. xxxx/xx, depositata il xx.xx.20xx, la quale confermava l’assegnazione della casa coniugale alla stessa MEVIA (doc. 2 fasc. parte ricorrente).
Successivamente, con decreto del 3.2.2010, questo stesso Tribunale revocava l’assegnazione della casa coniugale alla MEVIA, sul rilievo, fatto valere in sede di modifica dal TIZIO, che questa avesse locato l’immobile a terzi (doc. 3 fasc. parte ricorrente). Con raccomandata del 10.2.2010 (doc. 8 fasc. parte resistente) TIZIO domandava ai conduttori, quindi, di versare direttamente a lui tutte le somme “concordate per l’affitto”.
Questi sono, in sintesi, i fatti rilevanti di causa.
Costituisce principio pacifico, nella giurisprudenza della Suprema Corte, quello secondo cui il rapporto che nasce dal contratto di locazione e che si instaura tra locatore e conduttore ha natura personale, con la conseguenza che chiunque abbia la disponibilità di fatto del bene, in base ad un titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederlo in locazione. La relativa legittimazione a locare, quindi, è riconoscibile anche al detentore di fatto, a meno che la detenzione non sia stata acquistata illegittimamente (v., da ultimo, Cass., sez. III, 27.5.2010, n. 12976).
Orbene, tanto premesso, anche il coniuge assegnatario dell’abitazione coniugale, in sede di separazione personale o di divorzio, è indubbiamente legittimato a locare tale bene, avendo la disponibilità di fatto di tale immobile in base al provvedimento giurisdizionale che a ciò lo legittima. La circostanza, senza dubbio anomala e contraria alla legge, che il coniuge assegnatario, locando il bene a terzi, abbia disposto del proprio diritto personale di godimento in un modo del tutto illecito e avulso dalla finalità per la quale tale diritto gli è riconosciuto, e cioè la coabitazione, all’interno di esso, insieme con i figli minorenni o maggiorenni ed economicamente non autonomi, non inficia certo la validità del contratto di locazione stipulato da questo con terzi incolpevoli.
Il contratto di locazione stipulato dal coniuge assegnatario dell’immobile rimane valido ed efficace, a tutti gli effetti di legge, per tutto il periodo in cui il coniuge, in forza del titolo giurisdizionale, continua a mantenere la disponibilità del bene, fino alla doverosa revoca dell’assegnazione, sancita dall’art. 155 quater c.c., per aver egli cessato di abitare nella casa coniugale.
Altra e ben differente questione è, invece, l’opponibilità del contratto di locazione al coniuge, non assegnatario dell’abitazione coniugale, che tuttavia ne sia esclusivo proprietario, laddove l’assegnazione dell’immobile sia venuta meno. È infatti evidente che, laddove egli voglia rientrare nella disponibilità del bene, in seguito alla revoca del provvedimento di assegnazione all’altro coniuge, ben potrà richiedere al conduttore l’immediato rilascio dell’immobile, poiché il contratto di locazione stipulato dal coniuge all’epoca assegnatario dell’abitazione coniugale non gli è opponibile.
Soccorre, in questa ipotesi, il disposto dell’art. 1606 c.c. Giova ricordare, però, che la portata del disposto di cui all’art. 1606 c.c. – per il quale, nel caso di estinzione, con effetto retroattivo, del diritto del locatore sulla cosa locata, restano ferme le locazioni da lui concluse purché fatte senza frode e non eccedenti il triennio – è limitata ai soli casi nei quali il locatore si trovava nel godimento dell’immobile in forza di un rapporto diretto con la cosa esplicantesi erga omnes e, cioè, di un diritto reale, estintosi retroattivamente, e non pure qualora sia titolare di un diritto personale di godimento sulla cosa stessa, come nel caso del coniuge assegnatario il quale ha, come ha affermato la Suprema Corte, appunto solo “un diritto personale di godimento (Cass. n. 5455/2003), originato dal provvedimento giudiziale di assegnazione” (v., ex plurimis, Cass., sez. I, 3.3.2006, n. 4719).
Ne consegue che solo nella prima ipotesi può trovare esplicazione l’eccezionale tutela conferita dalla suddetta norma al conduttore nei confronti del proprietario rivendicante che non ha partecipato alla situazione costitutiva del rapporto di locazione, mentre, nel secondo caso, il conduttore non può conseguire un diritto – opponibile anche al terzo estraneo alla locazione – di contenuto sostanziale più ampio di quello del locatore medesimo (Cass., sez. III, 10.3.1982, n. 1546). Ciò significa, in altri termini, che, venuta meno l’assegnazione dell’immobile, anche i conduttori devono cedere di fronte al potiore diritto del proprietario.
Da tanto discende che il contratto di locazione stipulato da MEVIA, coniuge assegnatario dell’immobile, non può essere opposto all’ex marito TIZIO e, pertanto, i conduttori, laddove non avessero spontaneamente lasciato l’immobile, come hanno fatto nel corso del presente giudizio, avrebbero dovuto, all’esito di questo, essere condannati all’immediato rilascio dell’immobile, fatta salva, ovviamente, ogni azione di risoluzione del contratto e di risarcimento per responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1578 c.c., nei confronti della locatrice inadempiente. Né può nemmeno ritenersi, per altro verso, che la locazione stipulata dal coniuge assegnatario, laddove il provvedimento di assegnazione fosse stato trascritto, avrebbe potuto essere opposta al coniuge proprietario, ai sensi dell’art. 155 quater c.c., non solo perché tale ipotesi non è contemplata dalla norma, che ha natura eccezionale, ma anche perché, così ragionando, si estenderebbe la tutela di tale norma, finalizzata a garantire la stabile abitazione del coniuge e dei figli all’interno dell’abitazione coniugale, anche ad ipotesi in cui non ne sussiste la ratio, ma anzi il coniuge assegnatario ha compiuto un abuso del proprio diritto personale di godimento, locando il bene a terzi, anziché risiedere nella casa coniugale insieme con i figli.
Lo stesso art. 155 quater c.c., introdotto dalla l. 54/2006, ha stabilito che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare”. E proprio la locazione del bene a terzi, del resto, è stata la causa della revoca dell’assegnazione a MEVIA, disposta da questo Tribunale con decreto del 3.2.2010 (doc. 3 fasc. parte ricorrente).
Quanto al pagamento dei canoni di locazione, per i principî sopra affermati, deve ritenersi che, finché MEVIA è rimasta assegnataria del bene e, dunque, ha esercitato un potere di fatto sulla cosa e ne ha garantito la disponibilità ai conduttori, legittimamente CAIA e SEMPRONIO abbiano pagato il canone a questa, a tutti gli effetti locatrice dell’immobile, ferma restando, ovviamente, ogni questione relativa all’eventuale danno provocato al marito proprietario dall’uso improprio del diritto di assegnazione riconosciutole dal Tribunale per ben altra finalità.
Dal momento in cui è intervenuta la revoca dell’assegnazione, tuttavia, nei confronti del proprietario, il quale abbia richiesto il rilascio dell’immobile, la situazione dei conduttori si è tramutata in una detenzione senza titolo, non essendo, come detto, il contratto di locazione opponibile a questo. Ne segue che i conduttori devono essere condannati al pagamento della indennità di occupazione dal momento dell’intervenuta revoca, in data 3.2.2010, fino al rilascio dell’immobile, nella misura del canone determinata nel contratto di locazione.
Deve osservarsi, peraltro, che i resistenti, a far data dal novembre del 2000, hanno corrisposto a TIZIO la somma pattuita originariamente a titolo di canone locativo con MEVIA. Palese è, peraltro, il totale inadempimento di quest’ultima che, in mala fede, ha stipulato un contratto di locazione con terzi, avente ad oggetto l’abitazione coniugale a lei assegnata in sede di divorzio, ben conoscendo la temporaneità del titolo giudiziale che a ciò la legittimava ed anzi ben sapendo, peraltro, che proprio la locazione a terzi ne avrebbe determinato, ex lege, la caducazione.
Gli incolpevoli conduttori, loro malgrado, si sono trovati costretti a rilasciare l’immobile loro locato, esposti, da un lato, alla legittima azione di rivendicazione nonché alla richiesta di indennità da parte del proprietario, TIZIO, e, dall’altro, alle intimazioni di pagamento della stessa MEVIA che, nonostante l’intervenuta revoca dell’assegnazione, minacciava addirittura lo sfratto nei confronti dei conduttori. Ne segue che deve essere accolta la domanda di risoluzione del contratto di locazione, proposta dai resistenti nei confronti della terza chiamata, per fatto e colpa di questa, stante il suo totale e colpevole, anzi doloso, inadempimento rispetto all’obbligazione di garantire, ai sensi dell’art. 1578 c.c., la pacifica disponibilità della cosa.
La terza chiamata dovrà tenere indenne i resistenti da ogni somma che essi saranno tenuti a versare a TIZIO e, in particolare, delle somme dovute dal 3.2.2010, data della revoca, fino all’ottobre 2010, avendo i conduttori versato le indennità dal novembre 2010 in favore del ricorrente.
Sussistono le ragioni di legge, attesi i complessi motivi in diritto della decisione, per dichiarare interamente compensate le spese di lite tra il ricorrente e i resistenti che, peraltro, hanno fin da subito, nel marzo 2010, dichiarato la propria disponibilità a pagare i canoni nei confronti del proprietario, non appena hanno appreso della sopravvenuta revoca dell’assegnazione, nonostante la minaccia di sfratto da parte di MEVIA e l’evidente disagio abitativo e familiare sopportato a causa di una situazione, imprevista ed imprevedibile, della quale essi non avevano alcuna colpa.
La terza chiamata deve, per questi stessi motivi, essere condannata alla integrale rifusione delle spese di lite nei confronti dei resistenti, in quanto è stata causa esclusiva della complessa vicenda esaminata nel presente giudizio. Le spese, liquidate in dispositivo d’ufficio, seguono la soccombenza della terza chiamata, contumace, nei confronti dei resistenti.
P.Q.M.
Il Tribunale di Lecco, in persona del giudice unico, Massimiliano Noccelli, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da TIZIO nei confronti di CAIA e SEMPRONIO con ricorso ex art. 447bis c.p.c., depositato il 29.3.2010 e notificato con il pedissequo decreto il 26.4.2010, nonché sulla domanda proposta da CAIA e SEMPRONIO, nella memoria di costituzione depositata il 22.6.2010, nei confronti della terza chiamata MEVIA, con atto a questa notificato il 22.7.2010, nel contraddittorio tra le parti costituite e nella contumacia della terza chiamata MEVIA, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, così provvede:
DICHIARA cessata la materia del contendere in ordine al rilascio dell’immobile sito in xxxx, via xxxx, n. x, in quanto l’immobile è già stato rilasciato da CAIA e SEMPRONIO.
CONDANNA CAIA e SEMPRONIO a pagare, in favore di TIZIO, la somma di € xxxx, a titolo di indennità ex art. 1591 c.c. per la illegittima detenzione dell’immobile dal febbraio 2010 all’ottobre 2010, oltre interessi legali dalla data della presente sentenza sino all’effettivo soddisfo.
PRONUNCIA la risoluzione del contratto di locazione ad uso abitativo stipulato il 9.3.2009 da MEVIA, da un lato, e CAIA e SEMPRONIO, dall’altro, per fatto e colpa di MEVIA.
CONDANNA MEVIA a tenere indenni i conduttori CAIA e SEMPRONIO di quanto essi saranno tenuti a pagare a TIZIO in forza della presente sentenza.
DICHIARA interamente compensate le spese di lite tra TIZIO e CAIA e SEMPRONIO CONDANNA MEVIA a rifondere, in favore di CAIA e SEMPRONIO, le spese del giudizio, che liquida nell’importo di € xxxx, di cui € xxxx per onorari, € xxxx per diritti, € xxxx per spese, oltre spese generali, IVA, se dovuta, e CPA come per legge.
Così deciso in Lecco il 17 maggio 2011.
Il Giudice
Lo stesso art. 155 quater c.c., introdotto dalla l. 54/2006, ha stabilito che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare”. E proprio la locazione del bene a terzi, del resto, è stata la causa della revoca dell’assegnazione
Tribunale di Lecco
Sentenza 17 maggio 2011
Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 447 bis c.p.c., depositato il 28.3.2010, TIZIO, assumendo di essere proprietario esclusivo dell’immobile sito in xxxx, via dei xxxx, n. x, esponeva che tale immobile era stato locato ad CAIA e SEMPRONIO dalla ex moglie, MEVIA, alla quale questo stesso Tribunale aveva assegnato tale casa, adibita a residenza coniugale, nella sentenza di divorzio n. xxx/xxxx, e ciò premesso, in seguito alla revoca dell’assegnazione disposta dal medesimo Tribunale con successivo decreto del 3.2.2010, evocava in giudizio CAIA e SEMPRONIO, domandando all’intestato Tribunale di condannarli all’immediata restituzione del predetto immobile e al pagamento di una equa indennità per l’occupazione dell’immobile, oltre alle spese di lite.
Il ricorso ed il pedissequo decreto ex art. 415 c.p.c., con il quale veniva fissata l’udienza del 7.7.2010, venivano notificati il 26.4.2010 ai resistenti, i quali si costituivano, con memoria difensiva il 22.6.2010, domandando in via preliminare di essere autorizzati a chiamare in causa MEVIA e, nel merito, di rigettare le domanda proposta dal ricorrente e, in via riconvenzionale, di accertare la validità ed efficacia del contratto nei confronti di TIZIO, anche ai sensi dell’art. 1606 c.c., o, in caso di rigetto della domanda riconvenzionale, di condannare MEVIA a manlevarli da tutte le domande contro di loro avanzate da TIZIO, compreso il pagamento di qualsiasi somma che gli stessi fossero costretti a pagare al ricorrente e comunque, in via subordinata, di pronunciare la risoluzione del contratto per fatto e colpa della stessa MEVIA. Veniva così autorizzata dal giudice la chiamata in causa di MEVIA, alla quale l’atto di chiamata in causa veniva notificato il 22.7.2010, e l’udienza del 3.10.2010 veniva differita al 3.11.2010.
All’udienza del 3.11.2010 il giudice, constatata la regolarità della notifica, dichiarava la contumacia di MEVIA e, interrogate liberamente le parti, comparse di persona, sollecitava tra le stesse un accordo, il quale prevedeva che i conduttori avrebbero rilasciato l’immobile entro il 3.3.2011, pagando medio tempore l’indennità di occupazione a TIZIO. Il Giudice rinviava la causa, per i medesimi incombenti, all’udienza del 23.3.2011.
All’udienza del 23.3.2011 il resistente CAIA si impegnava a rilasciare definitivamente l’immobile entro e non oltre il 10.5.2011 e pertanto il giudice, sull’accordo delle parti, rinviava la causa all’udienza del 10.5.2011, successivamente differita per legittimo impedimento dello stesso giudice al 17.5.2011, per la discussione, concedendo alle parti i termini previsti dall’art. 429, comma 2, c.p.c., per il deposito di note difensive.
All’udienza del 17.5.2011 il giudice ha invitato le parti costituite a precisare le conclusioni e a discutere la causa e, udita la discussione, ha deciso la causa, come da separato dispositivo e contestuale motivazione, di cui ha dato lettura ai sensi dell’art. 429, comma 1, c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda del ricorrente TIZIO è fondata, per quanto di ragione, nei limiti e per i motivi che qui si vengono ad esporre. Preliminarmente deve darsi atto che i resistenti CAIA e SEMPRONIO hanno rilasciato il 9.5.2011 l’immobile sito in xxxx, via xxxx, n. x, e che, quindi, è venuta a cessare la materia del contendere in ordine all’occupazione di detto immobile, come concordemente riconosciuto dalle parti all’udienza del 17.5.2011. Persiste tuttavia contrasto tra le parti in merito alla validità e all’opponibilità del contratto stipulato da MEVIA con i resistenti nei confronti di TIZIO nonché al versamento dei canoni di locazione (rectius: delle indennità di occupazione) in favore della prima o del secondo. Proprio in ragione della materia della persistente controversia, in via sempre preliminare, deve ritenersi che il presente giudizio sia soggetto al rito locatizio, in quanto suo precipuo oggetto è, appunto, il contratto di locazione stipulato da MEVIA e la sua opponibilità nei confronti di TIZIO.
Deve affrontarsi, ciò premesso, la complessa questione, oggetto, come appena accennato, del presente giudizio, dell’opponibilità del contratto di locazione stipulato da parte del coniuge assegnatario dell’abitazione coniugale, in sede di separazione o di divorzio, nei confronti dell’altro coniuge che voglia rientrarne in possesso in seguito alla revoca del provvedimento di assegnazione. I conduttori hanno domandato infatti, in via riconvenzionale, di accertare che tale contratto è valido, efficace e pienamente opponibile nei confronti del proprietario.
CAIA e SEMPRONIO hanno stipulato il 9.3.2009 con MEVIA un contratto di locazione ad uso abitativo, regolarmente registrato, avente ad oggetto l’immobile sito in xxxx, via xxxx, n. x (doc. 1 fasc. parte resistente). MEVIA era, all’epoca della stipulazione, assegnataria di detto immobile in forza del provvedimento presidenziale emesso nell’ambito del procedimento giudiziale di divorzio, definito da questo Tribunale con sentenza n. xxxx/xx, depositata il xx.xx.20xx, la quale confermava l’assegnazione della casa coniugale alla stessa MEVIA (doc. 2 fasc. parte ricorrente).
Successivamente, con decreto del 3.2.2010, questo stesso Tribunale revocava l’assegnazione della casa coniugale alla MEVIA, sul rilievo, fatto valere in sede di modifica dal TIZIO, che questa avesse locato l’immobile a terzi (doc. 3 fasc. parte ricorrente). Con raccomandata del 10.2.2010 (doc. 8 fasc. parte resistente) TIZIO domandava ai conduttori, quindi, di versare direttamente a lui tutte le somme “concordate per l’affitto”.
Questi sono, in sintesi, i fatti rilevanti di causa.
Costituisce principio pacifico, nella giurisprudenza della Suprema Corte, quello secondo cui il rapporto che nasce dal contratto di locazione e che si instaura tra locatore e conduttore ha natura personale, con la conseguenza che chiunque abbia la disponibilità di fatto del bene, in base ad un titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederlo in locazione. La relativa legittimazione a locare, quindi, è riconoscibile anche al detentore di fatto, a meno che la detenzione non sia stata acquistata illegittimamente (v., da ultimo, Cass., sez. III, 27.5.2010, n. 12976).
Orbene, tanto premesso, anche il coniuge assegnatario dell’abitazione coniugale, in sede di separazione personale o di divorzio, è indubbiamente legittimato a locare tale bene, avendo la disponibilità di fatto di tale immobile in base al provvedimento giurisdizionale che a ciò lo legittima. La circostanza, senza dubbio anomala e contraria alla legge, che il coniuge assegnatario, locando il bene a terzi, abbia disposto del proprio diritto personale di godimento in un modo del tutto illecito e avulso dalla finalità per la quale tale diritto gli è riconosciuto, e cioè la coabitazione, all’interno di esso, insieme con i figli minorenni o maggiorenni ed economicamente non autonomi, non inficia certo la validità del contratto di locazione stipulato da questo con terzi incolpevoli.
Il contratto di locazione stipulato dal coniuge assegnatario dell’immobile rimane valido ed efficace, a tutti gli effetti di legge, per tutto il periodo in cui il coniuge, in forza del titolo giurisdizionale, continua a mantenere la disponibilità del bene, fino alla doverosa revoca dell’assegnazione, sancita dall’art. 155 quater c.c., per aver egli cessato di abitare nella casa coniugale.
Altra e ben differente questione è, invece, l’opponibilità del contratto di locazione al coniuge, non assegnatario dell’abitazione coniugale, che tuttavia ne sia esclusivo proprietario, laddove l’assegnazione dell’immobile sia venuta meno. È infatti evidente che, laddove egli voglia rientrare nella disponibilità del bene, in seguito alla revoca del provvedimento di assegnazione all’altro coniuge, ben potrà richiedere al conduttore l’immediato rilascio dell’immobile, poiché il contratto di locazione stipulato dal coniuge all’epoca assegnatario dell’abitazione coniugale non gli è opponibile.
Soccorre, in questa ipotesi, il disposto dell’art. 1606 c.c. Giova ricordare, però, che la portata del disposto di cui all’art. 1606 c.c. – per il quale, nel caso di estinzione, con effetto retroattivo, del diritto del locatore sulla cosa locata, restano ferme le locazioni da lui concluse purché fatte senza frode e non eccedenti il triennio – è limitata ai soli casi nei quali il locatore si trovava nel godimento dell’immobile in forza di un rapporto diretto con la cosa esplicantesi erga omnes e, cioè, di un diritto reale, estintosi retroattivamente, e non pure qualora sia titolare di un diritto personale di godimento sulla cosa stessa, come nel caso del coniuge assegnatario il quale ha, come ha affermato la Suprema Corte, appunto solo “un diritto personale di godimento (Cass. n. 5455/2003), originato dal provvedimento giudiziale di assegnazione” (v., ex plurimis, Cass., sez. I, 3.3.2006, n. 4719).
Ne consegue che solo nella prima ipotesi può trovare esplicazione l’eccezionale tutela conferita dalla suddetta norma al conduttore nei confronti del proprietario rivendicante che non ha partecipato alla situazione costitutiva del rapporto di locazione, mentre, nel secondo caso, il conduttore non può conseguire un diritto – opponibile anche al terzo estraneo alla locazione – di contenuto sostanziale più ampio di quello del locatore medesimo (Cass., sez. III, 10.3.1982, n. 1546). Ciò significa, in altri termini, che, venuta meno l’assegnazione dell’immobile, anche i conduttori devono cedere di fronte al potiore diritto del proprietario.
Da tanto discende che il contratto di locazione stipulato da MEVIA, coniuge assegnatario dell’immobile, non può essere opposto all’ex marito TIZIO e, pertanto, i conduttori, laddove non avessero spontaneamente lasciato l’immobile, come hanno fatto nel corso del presente giudizio, avrebbero dovuto, all’esito di questo, essere condannati all’immediato rilascio dell’immobile, fatta salva, ovviamente, ogni azione di risoluzione del contratto e di risarcimento per responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1578 c.c., nei confronti della locatrice inadempiente. Né può nemmeno ritenersi, per altro verso, che la locazione stipulata dal coniuge assegnatario, laddove il provvedimento di assegnazione fosse stato trascritto, avrebbe potuto essere opposta al coniuge proprietario, ai sensi dell’art. 155 quater c.c., non solo perché tale ipotesi non è contemplata dalla norma, che ha natura eccezionale, ma anche perché, così ragionando, si estenderebbe la tutela di tale norma, finalizzata a garantire la stabile abitazione del coniuge e dei figli all’interno dell’abitazione coniugale, anche ad ipotesi in cui non ne sussiste la ratio, ma anzi il coniuge assegnatario ha compiuto un abuso del proprio diritto personale di godimento, locando il bene a terzi, anziché risiedere nella casa coniugale insieme con i figli.
Lo stesso art. 155 quater c.c., introdotto dalla l. 54/2006, ha stabilito che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare”. E proprio la locazione del bene a terzi, del resto, è stata la causa della revoca dell’assegnazione a MEVIA, disposta da questo Tribunale con decreto del 3.2.2010 (doc. 3 fasc. parte ricorrente).
Quanto al pagamento dei canoni di locazione, per i principî sopra affermati, deve ritenersi che, finché MEVIA è rimasta assegnataria del bene e, dunque, ha esercitato un potere di fatto sulla cosa e ne ha garantito la disponibilità ai conduttori, legittimamente CAIA e SEMPRONIO abbiano pagato il canone a questa, a tutti gli effetti locatrice dell’immobile, ferma restando, ovviamente, ogni questione relativa all’eventuale danno provocato al marito proprietario dall’uso improprio del diritto di assegnazione riconosciutole dal Tribunale per ben altra finalità.
Dal momento in cui è intervenuta la revoca dell’assegnazione, tuttavia, nei confronti del proprietario, il quale abbia richiesto il rilascio dell’immobile, la situazione dei conduttori si è tramutata in una detenzione senza titolo, non essendo, come detto, il contratto di locazione opponibile a questo. Ne segue che i conduttori devono essere condannati al pagamento della indennità di occupazione dal momento dell’intervenuta revoca, in data 3.2.2010, fino al rilascio dell’immobile, nella misura del canone determinata nel contratto di locazione.
Deve osservarsi, peraltro, che i resistenti, a far data dal novembre del 2000, hanno corrisposto a TIZIO la somma pattuita originariamente a titolo di canone locativo con MEVIA. Palese è, peraltro, il totale inadempimento di quest’ultima che, in mala fede, ha stipulato un contratto di locazione con terzi, avente ad oggetto l’abitazione coniugale a lei assegnata in sede di divorzio, ben conoscendo la temporaneità del titolo giudiziale che a ciò la legittimava ed anzi ben sapendo, peraltro, che proprio la locazione a terzi ne avrebbe determinato, ex lege, la caducazione.
Gli incolpevoli conduttori, loro malgrado, si sono trovati costretti a rilasciare l’immobile loro locato, esposti, da un lato, alla legittima azione di rivendicazione nonché alla richiesta di indennità da parte del proprietario, TIZIO, e, dall’altro, alle intimazioni di pagamento della stessa MEVIA che, nonostante l’intervenuta revoca dell’assegnazione, minacciava addirittura lo sfratto nei confronti dei conduttori. Ne segue che deve essere accolta la domanda di risoluzione del contratto di locazione, proposta dai resistenti nei confronti della terza chiamata, per fatto e colpa di questa, stante il suo totale e colpevole, anzi doloso, inadempimento rispetto all’obbligazione di garantire, ai sensi dell’art. 1578 c.c., la pacifica disponibilità della cosa.
La terza chiamata dovrà tenere indenne i resistenti da ogni somma che essi saranno tenuti a versare a TIZIO e, in particolare, delle somme dovute dal 3.2.2010, data della revoca, fino all’ottobre 2010, avendo i conduttori versato le indennità dal novembre 2010 in favore del ricorrente.
Sussistono le ragioni di legge, attesi i complessi motivi in diritto della decisione, per dichiarare interamente compensate le spese di lite tra il ricorrente e i resistenti che, peraltro, hanno fin da subito, nel marzo 2010, dichiarato la propria disponibilità a pagare i canoni nei confronti del proprietario, non appena hanno appreso della sopravvenuta revoca dell’assegnazione, nonostante la minaccia di sfratto da parte di MEVIA e l’evidente disagio abitativo e familiare sopportato a causa di una situazione, imprevista ed imprevedibile, della quale essi non avevano alcuna colpa.
La terza chiamata deve, per questi stessi motivi, essere condannata alla integrale rifusione delle spese di lite nei confronti dei resistenti, in quanto è stata causa esclusiva della complessa vicenda esaminata nel presente giudizio. Le spese, liquidate in dispositivo d’ufficio, seguono la soccombenza della terza chiamata, contumace, nei confronti dei resistenti.
P.Q.M.
Il Tribunale di Lecco, in persona del giudice unico, Massimiliano Noccelli, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da TIZIO nei confronti di CAIA e SEMPRONIO con ricorso ex art. 447bis c.p.c., depositato il 29.3.2010 e notificato con il pedissequo decreto il 26.4.2010, nonché sulla domanda proposta da CAIA e SEMPRONIO, nella memoria di costituzione depositata il 22.6.2010, nei confronti della terza chiamata MEVIA, con atto a questa notificato il 22.7.2010, nel contraddittorio tra le parti costituite e nella contumacia della terza chiamata MEVIA, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, così provvede:
DICHIARA cessata la materia del contendere in ordine al rilascio dell’immobile sito in xxxx, via xxxx, n. x, in quanto l’immobile è già stato rilasciato da CAIA e SEMPRONIO.
CONDANNA CAIA e SEMPRONIO a pagare, in favore di TIZIO, la somma di € xxxx, a titolo di indennità ex art. 1591 c.c. per la illegittima detenzione dell’immobile dal febbraio 2010 all’ottobre 2010, oltre interessi legali dalla data della presente sentenza sino all’effettivo soddisfo.
PRONUNCIA la risoluzione del contratto di locazione ad uso abitativo stipulato il 9.3.2009 da MEVIA, da un lato, e CAIA e SEMPRONIO, dall’altro, per fatto e colpa di MEVIA.
CONDANNA MEVIA a tenere indenni i conduttori CAIA e SEMPRONIO di quanto essi saranno tenuti a pagare a TIZIO in forza della presente sentenza.
DICHIARA interamente compensate le spese di lite tra TIZIO e CAIA e SEMPRONIO CONDANNA MEVIA a rifondere, in favore di CAIA e SEMPRONIO, le spese del giudizio, che liquida nell’importo di € xxxx, di cui € xxxx per onorari, € xxxx per diritti, € xxxx per spese, oltre spese generali, IVA, se dovuta, e CPA come per legge.
Così deciso in Lecco il 17 maggio 2011.
Il Giudice
locazione uso abitativo, principio estensibile alle seconde case in uso non saltuario
Cassazione civile , sez. III, sentenza 20.06.2011 n° 13483
La locazione per abitazione ad uso di seconda casa, caratterizzata dalla protratta permanenza del conduttore per cospicui periodi dell’anno, è finalizzata a soddisfare esigenze abitative complementari , ma di pari rango a quelle della prima casa, in quanto relative al tempo libero e, pertanto, al soddisfacimento di interessi e passioni dell’individuo, funzionali al pieno sviluppo della sua personalità.
E’ questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, sezione III, con la sentenza 20 giugno 2011, n. 13843.
Data tale premessa, è di tutta evidenza che la legge n. 431 del 1988 - Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo - deve essere applicata a tutte quelle locazioni che soddisfano il bisogno primario della disponibilità di un alloggio, indispensabile per la stessa estrinsecazione della persona umana.
Pertanto, secondo i giudici della Suprema Corte, la disciplina della l. n. 431/1998 esaurisce la disciplina di qualsiasi contratto avente ad oggetto la concessione continuativa di un immobile da destinarsi ad abitazione e le sole eccezioni sono quelle da essa stessa previste. In queste ultime non rientra la fattispecie del caso risolto, in cui si fa riferimento ad una generica prospettazione dell'uso turistico e di vacanza.
In particolare, il proprietario di un appartamento di una località di montagna del Piemonte chiedeva al giudice di primo grado che venisse dichiarato risolto o cessato il contratto di locazione ad uso seconda casa, concluso con un conduttore per la durata di un anno, di cui si riteneva raggiunta la scadenza. Il conduttore, deducendo l’uso abitativo dell’immobile, riteneva il contratto sottoposto alla norma generale in materia locatizia, escludendo la qualificazione dello stesso come di locazione transitoria.
Il Tribunale respingeva la domanda, individuando la durata del contratto di locazione in quattro anni. In appello la sentenza trovava conferma, mentre il locatore proponeva ricorso per Cassazione.
Come si è visto, la Cassazione ha confermato la rilevanza della situazione di protratta permanenza del conduttore come elemento qualificante della soddisfazione di esigenze abitative pari a quelle della prima casa. Le sole eccezioni a questa disciplina sono espressamente previste dalla legge n. 431/1998, consistendo in contratti aventi natura transitoria, per esigenze temporanee che vanno dichiarate e documentate. Tale non è la situazione della fattispecie in esame che pertanto si conclude con la conferma da parte della Cassazione del giudizio di merito.
La locazione per abitazione ad uso di seconda casa, caratterizzata dalla protratta permanenza del conduttore per cospicui periodi dell’anno, è finalizzata a soddisfare esigenze abitative complementari , ma di pari rango a quelle della prima casa, in quanto relative al tempo libero e, pertanto, al soddisfacimento di interessi e passioni dell’individuo, funzionali al pieno sviluppo della sua personalità.
E’ questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, sezione III, con la sentenza 20 giugno 2011, n. 13843.
Data tale premessa, è di tutta evidenza che la legge n. 431 del 1988 - Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo - deve essere applicata a tutte quelle locazioni che soddisfano il bisogno primario della disponibilità di un alloggio, indispensabile per la stessa estrinsecazione della persona umana.
Pertanto, secondo i giudici della Suprema Corte, la disciplina della l. n. 431/1998 esaurisce la disciplina di qualsiasi contratto avente ad oggetto la concessione continuativa di un immobile da destinarsi ad abitazione e le sole eccezioni sono quelle da essa stessa previste. In queste ultime non rientra la fattispecie del caso risolto, in cui si fa riferimento ad una generica prospettazione dell'uso turistico e di vacanza.
In particolare, il proprietario di un appartamento di una località di montagna del Piemonte chiedeva al giudice di primo grado che venisse dichiarato risolto o cessato il contratto di locazione ad uso seconda casa, concluso con un conduttore per la durata di un anno, di cui si riteneva raggiunta la scadenza. Il conduttore, deducendo l’uso abitativo dell’immobile, riteneva il contratto sottoposto alla norma generale in materia locatizia, escludendo la qualificazione dello stesso come di locazione transitoria.
Il Tribunale respingeva la domanda, individuando la durata del contratto di locazione in quattro anni. In appello la sentenza trovava conferma, mentre il locatore proponeva ricorso per Cassazione.
Come si è visto, la Cassazione ha confermato la rilevanza della situazione di protratta permanenza del conduttore come elemento qualificante della soddisfazione di esigenze abitative pari a quelle della prima casa. Le sole eccezioni a questa disciplina sono espressamente previste dalla legge n. 431/1998, consistendo in contratti aventi natura transitoria, per esigenze temporanee che vanno dichiarate e documentate. Tale non è la situazione della fattispecie in esame che pertanto si conclude con la conferma da parte della Cassazione del giudizio di merito.
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