SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 13 luglio 2010, n. 16376
"nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell'assicuratore della responsabilità civile da circolazione stradale, le dichiarazioni confessorie rese dal responsabile del danno, proprietario del veicolo assicurato, chiamato in causa quale litisconsorte necessario, non possono dar luogo a un differenziato giudizio di responsabilità, con riferimento al rapporto tra responsabile e danneggiato, da un lato, e a quello tra danneggiato ed assicuratore dall'altro. Esse, liberamente apprezzate dal giudice, devono essere oggetto di una valutazione unitaria nei confronti di tutti e ciascuno dei litisconsorti.""
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 13 luglio 2010, n. 16376
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VARRONE Michele - Presidente
Dott. MASSERA Maurizio - Consigliere
Dott. TALEVI Alberto - Consigliere
Dott. AMENDOLA Adelaide - rel. Consigliere
Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 25695/2006 proposto da:
*****, ***** in proprio ed in qualità di genitrice esercente la potestà sul figlio minore *****, elettivamente domiciliati in ROMA, *****, presso lo studio dell'avvocato *****, rappresentati e difesi dagli avvocati *****,***** giusta delega a margine del ricorso; - ricorrenti -
contro
***** S.P.A. ***** in persona dei legali rappresentanti ***** e *****, elettivamente domiciliata in ROMA, *****, presso lo studio dell'avvocato *****, che la rappresenta e difende giusta delega in calce al controricorso; - controricorrente -
e contro
*****; - intimato -
avverso la sentenza n. 1719/2005 del TRIBUNALE di SANTA MARIA CAPUA VETERE, I SEZIONE CIVILE, emessa il 5/7/2005, depositata il 25/08/2005, R.G.N. 3885/2001;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 11/05/2010 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per li rigetto del ricorso che ha concluso per l'accoglimento p.q.r. del ricorso.
Svolgimento del processo
Con citazione del giugno 1999 ***** e *****, quest'ultima in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà genitoriale sul figlio *****, convenivano in giudizio innanzi al Giudice di Pace di Santa Maria Capua Vetere ***** e *****Ass.ni s.p.a., chiedendo di essere risarciti dei danni fisici subiti in occasione di un incidente verificatosi il *****, allorchè l'autovettura sulla quale viaggiavano era stata violentemente tamponata da una Mecedes Benz di proprietà del ***** e dallo stesso condotta.
Resisteva la sola società assicuratrice che contestava l'avversa pretesa.
Con sentenza del 21 novembre 2000 il giudice adito rigettava la domanda.
Proponevano appello i soccombenti e il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in data 25 agosto 2005, in parziale riforma della impugnata sentenza, dichiarava che la responsabilità del sinistro era da ascrivere, al 50%, a *****, per l'effetto condannandolo al risarcimento dei danni in favore di ***** e di *****, nella misura, quanto al primo, di Euro 3.093,29 (di cui Euro 618,86, a titolo di danno morale), e, quanto alla seconda, di Euro 200,00, oltre svalutazione e interessi dal fatto al soddisfo; rigettava la domanda proposta da *****, quale genitore esercente la potestà genitoriale sul minore *****; compensava integralmente tra le parti le spese di lite.
Avverso detta pronuncia propongono ricorso per cassazione ***** e *****, in proprio e nella qualità, formulando quattro motivi e notificando l'atto a ***** s.p.a. e a *****. Solo la prima ha notificato controricorso, illustrato anche da memoria.
Motivi della decisione
1 - Col primo motivo gli impugnanti denunciano violazioni dell'art. 1917 cod. civ., mancanza e insufficienza della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere il giudice di merito rigettato la domanda proposta nei confronti di ***** sul presupposto della mancanza di elementi di prova ulteriori, rispetto alle dichiarazioni contenute nel modello CAI, senza considerare che la stessa compagnia assicuratrice non aveva mai negato la collisione tra i due veicoli, limitandosi a contestare la responsabilità esclusiva del suo assicurato, e che in ogni caso, ritenuto provato il sinistro stradale tra i soggetti indicati nel modulo, la condanna andava senz'altro estesa all'assicuratore, tenuto a tenere indenne l'assicurato ex art. 1917 cod. civ., di quanto lo stesso sia tenuto a pagare a terzi.
1.2 - Le critiche sono fondate.
L'opinione secondo cui la confessione del danneggiante assicurato farebbe piena prova nel rapporto tra questi e il danneggiato, mentre potrebbe essere liberamente apprezzata dal giudice nel diverso rapporto tra assicurato ed assicuratore (sul presupposto che non in tutti i casi in cui è necessaria la partecipazione al giudizio di una pluralità di parti ex art. 102 cod. proc. civ., sussisterebbe anche la necessità che la sentenza sia unica per tutte), è stata expressis verbis disattesa dalle Sezioni Unite di questa Corte che, affrontando funditus il problema della efficacia probatoria delle dichiarazioni del litisconsorte responsabile del sinistro, hanno segnatamente evidenziato che l'accertamento dei due rapporti in cui questi è coinvolto - quello col danneggiato, sorto dal fatto illecito, e quello, di origine contrattuale, con l'assicuratore - non può che essere "unico e uniforme per tutti e tre i soggetti coinvolti nel processo" (Cass. civ., sez. unite, 5 maggio 2006, n. 10311).
L'approdo esegetico si è giovato del rilievo che nella giurisprudenza di legittimità, sin dagli anni ottanta (Cass. sez. un. nn. 5218 e 5219 del 1983), è costante l'affermazione che la L. n. 990 del 1969, prevedendo l'azione diretta del danneggiato contro l'assicuratore, e limitando le eccezioni che questi gli può opporre (L. n. 990 del 1969, art. 18), ha creato, accanto ai due innanzi indicati, un terzo rapporto che, "sul presupposto del primo e in attuazione del secondo", obbliga ex lege l'assicuratore verso il soggetto leso: di talchè questi, allorchè agisce in giudizio, non chiede che l'assicuratore sia condannato ad adempiere in suo favore l'obbligo contrattualmente assunto nei confronti dell'assicurato, ma fa valere un diritto suo proprio.
In tale contesto, e con particolare riguardo alle dichiarazioni confessorie rese dal presunto responsabile, siano o meno contenute nel cosiddetto CID, le sezioni unite hanno quindi negato che, nel giudizio instaurato ai sensi della L. n. 990 del 1969, art. 18, possa, in base ad esse, pervenirsi a decisioni differenziate, in ordine ai rapporti tra responsabile e danneggiato, da un lato, e danneggiato ed assicuratore dall'altro. In particolare, precisato che dichiarazioni confessorie sono solo quelle in cui siano ammessi fatti che, "valutati alla stregua delle regole in materia", possano portare alla condanna del soggetto che le ha rese (e non quindi le mere assunzioni di responsabilità o di colpa), hanno affermato che l'eventuale confessione, contenuta nel modulo di constatazione amichevole del sinistro sottoscritto dal responsabile del danno proprietario del veicolo assicurato e - come tale - litisconsorte necessario, non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti del confitente, ma deve essere liberamente apprezzata dal giudice, in applicazione della regola racchiusa nell'art. 2733 cod. civ., comma 3, secondo cui, in caso di litisconsorzio necessario, la capacità probatoria della confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è, per l'appunto, affidata alla prudente valutazione del giudice (confr. Cass. civ., sez. unite, 5 maggio 2006, n. 10311; Cass. civ., sez. 3^, 25 gennaio 2008, n. 1680).
Peraltro, posto che litisconsorzio necessario sussiste solo tra proprietario del veicolo, nel quale si identifica il responsabile del danno di cui parla la L. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 23, e assicuratore, mentre non sussiste, a norma dell'art. 2054 cod. civ., comma 3, tra conducente e assicuratore medesimo, ovvero tra conducente e proprietario, le affermazioni confessorie sottoscritte dal primo nel modello di constatazione vanno liberamente apprezzate nei confronti dell'assicuratore e del proprietario del veicolo, mentre fanno piena prova nei confronti del confitente secondo l'art. 2733 c.c., comma 2, artt. 2734 e 2735 cod. civ. (Cass. civ., 7 maggio 2007, n. 10304).
1.3 - Ora, pacifico che nella fattispecie il CID era stato sottoscritto dal responsabile del danno - e cioè dal guidatore proprietario del mezzo, litisconsorte necessario della compagnia assicuratrice - non poteva il giudice di merito valutare in maniera difforme le dichiarazioni dallo stesso rese, così accogliendo la domanda risarcitoria proposta dai danneggiati nei confronti dell'uno e rigettandola invece nei confronti dell'altro.
La violazione dei principi in materia di efficacia probatoria della confessione come innanzi ricostruiti impone la cassazione, sul punto, della sentenza impugnata.
2.1 - Col secondo mezzo i ricorrenti lamentano vizi motivazionali con riferimento alla ritenuta operatività della presunzione di pari responsabilità nella causazione dell'incidente di cui all'art. 2054 cod. civ., comma 2, senza considerare che nel modulo di constatazione amichevole del sinistro risultava marcata la casella 8, relativa al tamponamento e che lo stesso fiduciario della compagnia assicuratrice aveva riferito di un urto da tergo di notevole entità (doc. n. 4 del fascicolo di secondo grado).
2.2 - Anche tali censure sono fondate.
Il Tribunale, affermata la responsabilità di ***** sulla base del rilievo che lo stesso non solo aveva sottoscritto il CID, ma neppure si era presentato a rendere l'interrogatorio formale deferitogli, ha ritenuto di dover fare applicazione della presunzione di concorso di colpa di cui all'art. 2054 cod. civ., in ragione della mancanza della benchè minima descrizione delle modalità del sinistro.
Trattasi tuttavia di rilievo puramente assertivo, per giunta in contrasto con le non contestate risultanze del CID, nel quale la dinamica dell'incidente è chiaramente descritta in termini di tamponamento. La decisione contraddice pertanto il principio di diritto, del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis Cass., n. 3282/2006; Cass., n. 11444/98; Cass., n. 8917/95; Cass., n. 5672/90; Cass., n. 3343/90), e dal quale non v'è ragione di discostarsi, secondo cui, per il disposto dell'art. 149, comma 1, C.d.S. (T.U. del D.L. 30 aprile 1992, n. 285), sostanzialmente riproduttivo dell'art. 107 C.d.S. previgente, il conducente deve essere in grado di garantire in ogni caso l'arresto tempestivo del mezzo, evitando collisioni con il veicolo che precede, per cui l'avvenuta collisione pone a suo carico una presunzione de facto di inosservanza della distanza di sicurezza, con conseguente inapplicabilità della presunzione di pari colpa di cui all'art. 2054 cod. civ., comma 2, e onere del guidatore di dimostrare che il mancato, tempestivo arresto del mezzo e il successivo impatto sono stati determinati da cause in tutto o in parte a lui non imputabili (confr. Cass. civ. 21 settembre 2007, n. 19493).
Ne deriva che la sentenza impugnata deve essere cassata anche in relazione a tale motivo.
3.1 - Si prestano a essere esaminati congiuntamente, per la loro evidente connessione, i successivi due motivi di ricorso.
Col terzo mezzo deducono gli impugnanti vizio motivazionale con riferimento alla disposta liquidazione in via equitativa del danno patito da ***** nella misura di Euro 200,00 soltanto, ivi comprese le spese mediche, dimenticando che la relazione del consulente di parte, Dott. *****, aveva riconosciuto alla stessa un danno biologico nella misura del 2%, una invalidità temporanea totale di giorni 30 e parziale di giorni 15.
Il giudice di merito avrebbe poi ingiustificatamente ignorato il rapporto ospedaliero del minore *****.
3.2 - Con il quarto motivo lamentano violazione dell'art. 2697 cod. civ., per avere il giudice d'appello negato al guidatore del veicolo ***** il danno patrimoniale, sull'assunto che lo stesso dovesse ritenersi non provato, laddove l'infortunato aveva documentalmente dimostrato che, a causa delle lesioni riportate, non aveva potuto eseguire i lavori di ristrutturazione commissionatigli da un cliente e riscuotere le somme assegnate a titolo di contributo.
Aggiunge che la disposta compensazione delle spese di causa è del tutto illogica.
3.3 - Le doglianze non hanno pregio.
Nel determinare l'ammontare del risarcimento spettante agli attori, ha affermato il giudice a quo, per quanto qui interessa: a) relativamente al guidatore dell'autovettura, *****, che non era emerso alcun rapporto di consequenzialità tra il sinistro per cui è causa e il mancato incarico ad effettuare lavori di ristrutturazione;
quanto a P.M., che, tenuto conto del concorso di colpa di cui all'art. 2054 cod. civ., le andava equitativamente riconosciuta la somma di Euro 200,00, di cui Euro 40,00 per spese mediche; c) infine, quanto al minore *****, che nulla poteva essergli attribuito, non essendo stata prodotta certificazione medica di sorta, sulla cui base liquidare il danno.
3.4 - Ciò posto, le contestazioni relative al mancato riconoscimento del pregiudizio subito da ***** per effetto dell'impossibilità di espletare un incarico professionale si risolvono in una sollecitazione alla rilettura del materiale istruttorie preclusa in sede di legittimità.
Quanto poi agli altri rilievi critici, essi, nella parte in cui richiamano le pretese, difformi conclusioni del perito o documentazione ospedaliera asseritamente ignorata dal decidente, difettano, a tacer d'altro, di autosufficienza. Si ricorda in proposito che la parte che, deducendo un vizio di motivazione, si duole di carenze o lacune nella decisione del giudice di merito che abbia basato il proprio convincimento disattendendo le risultanze degli accertamenti tecnici eseguiti, siano essi d'ufficio o di parte, o di documenti prodotti, non può limitarsi a censure apodittiche di erroneità o di inadeguatezza della motivazione o anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione e del carattere di giudizio a critica vincolata di tale mezzo di impugnazione, è tenuta ad indicare, riportandole per esteso, le pertinenti parti della consulenza ritenute erroneamente disattese o i documenti asseritamente non valutati, in modo da consentire al giudice di legittimità (cui non è dato di esaminare direttamente gli atti se non in presenza di errores in procedendo) di effettuare, preliminarmente, al fine di pervenire ad una soluzione della controversia differente da quella adottata dal giudice di merito, il controllo della decisività della risultanza non valutata o pretesamente valutata in modo erroneo o insufficiente (Cass. civ., 3 novembre 2004, n. 21090).
3.5 - Infine, quanto alla compensazione delle spese di causa, le contestazioni dei ricorrenti non tengono conto del fatto che nei giudizi ai quali, ratione temporis, non si applica la legge 28 dicembre 2005, n. 263, che, modificando l'art. 92 cod. proc. civ., ha introdotto l'obbligo del giudice di indicare le ragioni della compensazione delle spese di lite, la decisione di provvedere in tal senso non è censurabile in sede di legittimità, salvo i casi di mancanza assoluta di motivazione - integrando siffatta ipotesi gli estremi della violazione di legge di cui all'art. 92 cod. proc. civ (confr. Cass. civ. 19 novembre 2007, n. 23993) - ovvero di enunciazione di ragioni palesemente e macroscopicamente illogiche, idonee cioè a inficiare, per la loro inconsistenza o evidente erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale (Cass,. civ., 11 febbraio 2008, n. 3218): fattispecie tutte che qui non ricorrono.
4 - In definitiva, il primo e il secondo motivo di ricorso devono essere accolti; il terzo e il quarto rigettati, solo precisandosi, per scrupolo di completezza, che le somme liquidate a ***** e a ***** in proprio potranno subire variazioni in sede di rinvio, a seguito dell'eventuale riformulazione del giudizio di responsabilità sull'eziologia dell'incidente.
La sentenza impugnata deve quindi essere cassata in relazione ai due motivi accolti e rinviata, anche per le spese, al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto: nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell'assicuratore della responsabilità civile da circolazione stradale, le dichiarazioni confessorie rese dal responsabile del danno, proprietario del veicolo assicurato, chiamato in causa quale litisconsorte necessario, non possono dar luogo a un differenziato giudizio di responsabilità, con riferimento al rapporto tra responsabile e danneggiato, da un lato, e a quello tra danneggiato ed assicuratore dall'altro. Esse, liberamente apprezzate dal giudice, devono essere oggetto di una valutazione unitaria nei confronti di tutti e ciascuno dei litisconsorti.
Il giudice di rinvio dovrà inoltre motivare tenendo conto che l'avvenuta collisione di un veicolo con quello che lo precede pone a carico del conducente una presunzione de facto di inosservanza della distanza di sicurezza, con la conseguenza che, non potendosi applicare la presunzione di pari colpa di cui all'art. 2054 cod. civ., comma 2, egli resta gravato dall'onere di dare la prova liberatoria, dimostrando che il mancato tempestivo arresto dell'automezzo e la conseguente collisione sono stati determinati da cause in tutto o in parte a lui non imputabili.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso; rigetta il terzo e il quarto; cassa in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in diversa composizione.
Libero Professionista, esercente la professione forense nel Foro di Brindisi, distretto Corte d'Appello di Lecce (Italy)- già Magistrato, abilitato innanzi alle Giurisdizioni Superiori (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale)
martedì 21 settembre 2010
Notifica civile, coniuge separato, rilevanza della dimora
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE I CIVILE Sentenza 30 luglio 2010, n. 17903
"Ritiene questa Corte che, al fine della possibilità di notifica ai sensi dell'art. 139 c.p.c., ultimo comma, il concetto di "Comune di dimora" - al quale deve farsi riferimento con preferenza e precedenza rispetto al "Comune di domicilio" - vada enucleato in relazione alla "ratio" della norma, che è quella di consentire la notifica, nel caso in cui non sia noto e conoscibile con gli ordinari mezzi cognitivi il Comune di residenza, in luoghi in cui sia riscontrabile una relazione fra il soggetto notificando e il luogo stesso, tale da rendere molto probabile la tempestiva ricezione della notifica da parte del notificando ove effettuata in quel luogo. E appare razionale ritenere che il Comune dove la persona esercita un rapporto di lavoro subordinato o, come nel caso di specie, un rapporto d'impiego pubblico, è un luogo qualificabile come luogo di "dimora" ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 139 c.p.c., comma ultimo.
Conseguentemente, una volta ritenuto che il Comune in cui è situato il luogo di lavoro di un soggetto che ivi eserciti un rapporto di lavoro subordinato o, come nel caso di specie, un rapporto d'impiego pubblico, sia qualificabile nel senso su detto, il luogo di lavoro situato in tale Comune deve a sua volta ritenersi luogo idoneo - nel caso in cui, come nella specie non sia possibile effettuare la notificazione ai sensi dell'art. 139 c.p.c., comma 1, non essendo noto e reperibile il Comune di residenza - per la notifica ai sensi dell'art. 139 c.p.c., ultimo comma."
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 30 luglio 2010, n. 17903
Svolgimento del processo
1. L.R. con ricorso al tribunale di Firenze in data 28 febbraio 2003 chiedeva la modifica delle condizioni della separazione personale omologata il 17 marzo 1993, al fine dell'attribuzione di un assegno di mantenimento, essendo diminuito il proprio reddito e aumentato quello del marito. Il ricorso veniva notificato presso il luogo di lavoro del marito G.F., che risultava ancora residente presso l'abitazione coniugale, in ****, assegnata alla ricorrente. Non essendosi il G. costituito, la ricorrente chiedeva e otteneva autorizzazione a fare ricerche anagrafiche circa il luogo di residenza del G. - che risultava ancora in **** - e termine per procedere a nuova notifica del ricorso e del verbale della prima udienza. Provvedutosi a ciò, la procedura si concludeva in primo grado, nella contumacia del convenuto, con decreto che condannava il G. alla corresponsione di un assegno di mantenimento in favore della moglie di Euro 250,00 mensili. Il G. proponeva gravame dinanzi alla Corte d'appello di Firenze, deducendo la nullità della notifica dell'atto introduttivo del giudizio e chiedendo nel merito il rigetto della domanda perchè infondata. La L. chiedeva il rigetto del reclamo e la riforma del decreto con la quantificazione dell'assegno nella misura di Euro 400,00. La Corte d'appello annullava il decreto con sentenza depositata il 9 gennaio 2006, notificata il giorno 8 febbraio 2006, rilevando la nullità della notifica dell'atto introduttivo per la violazione dell'art. 139 c.p.c.. Avverso la sentenza la L. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato il 10 aprile 2006. Il G. resiste con controricorso notificato il 16 maggio 2006.
Motivi della decisione
1. Nel ricorso si premette che la Corte d'appello ha annullato il decreto del tribunale per violazione dell'art. 139 c.p.c., atteso che il notificante ha facoltà di scegliere se notificare presso l'abitazione o il luogo di lavoro del notificando solo quando siano nello stesso Comune, mentre quando sono in Comuni diversi, come nel caso di specie, il notificante è obbligato a fare la notifica prima presso il Comune di residenza, se esso è ignoto presso quello di dimora e solo se anche questo è ignoto, può farlo nel luogo di lavoro, con conseguente nullità, nella specie, della notifica effettuata in tale luogo. Tale statuizione sarebbe errata in diritto e viziata sul piano motivazionale per omesso esame dei certificati anagrafici in relazione alla fattispecie in questione, poichè la residenza del convenuto, secondo quanto risultava da essi, era rimasta anagraficamente presso la casa coniugale in Sesto Fiorentino, ma ben sapendo la ricorrente che dal momento della separazione - essendo stata ad essa assegnata la casa coniugale ed essendosene il marito allontanato - il convenuto non risiedeva più lì, la notifica in quel luogo sarebbe stata nulla e quindi non poteva essere ivi effettuata. Nè essa era in grado di conoscere la nuova residenza del marito, non avendo egli compiuto la relativa dichiarazione, come risultava dai certificati anagrafici in atti. Ne derivava che, essendo noto alla ricorrente il luogo di lavoro del convenuto, esattamente la notifica gli era stata fatta presso il suo domicilio in tale luogo.
2. Vanno pregiudizialmente rigettate le eccezioni d'inammissibilità del ricorso formulate dal controricorrente.
Contrariamente a quanto da lui eccepito, infatti, i provvedimenti adottati con il procedimento in camera di consiglio per la modifica delle condizioni di separazione personale sono reclamabili e ricorribili in cassazione, secondo consolidati principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis Cass. 4 febbraio 2005, n. 2348; 30 dicembre 2004, n. 24265); la procura posta a margine del ricorso per Cassazione e riferita, come nella specie, alla "presente procedura" deve intendersi per ciò stesso riferita al ricorso (da ultimo, circa la specialità intrinseca della procura a margine del ricorso Cass. 17 dicembre 2009, n. 26504); l'art. 366 bis c.p.c., non è applicabile al ricorso "ratione temporis", riguardando esso un provvedimento depositato prima del 3 marzo 2006. 3. Il ricorso è fondato nei sensi appresso indicati.
La Corte d'appello ha fatto errata applicazione, nel caso di specie, dell'esatto principio secondo il quale l'art. 139 c.p.c., disponendo che quando non è noto il Comune di residenza la notificazione si fa nel Comune di dimora e, se anche questa è ignota, nel Comune di domicilio, consente la notificazione fuori del Comune di residenza del destinatario solo ove questa sia ignota, ponendo in tale ipotesi un ordine preferenziale obbligatorio.
In proposito va considerato che, nel caso di specie, trattandosi di coniugi separati, risultava dal verbale di separazione prodotto agli atti del giudizio di primo grado che la casa coniugale era stata assegnata alla moglie, con la conseguenza che, permanendo la separazione, il marito convenuto non era più ivi residente e la moglie non avrebbe potuto ivi validamente notificare l'atto introduttivo del giudizio di modifica delle condizioni di separazione, essendo a conoscenza che il marito risiedeva altrove, ancorchè risultasse anagraficamente residente nella casa coniugale, nel Comune di Sesto Fiorentino dove questa era ubicata, secondo quanto emergeva dalle certificazioni anagrafiche, parimenti prodotte in quel grado di giudizio, non avendo egli dichiarato la sua nuova residenza.
Va parimenti considerato che esattamente la convenuta deduce che, in tale situazione, posta in essere dal convenuto, che aveva omesso di compiere le prescritte dichiarazioni anagrafiche, la notificazione non poteva essere compiuta ai sensi dell'art. 143 c.p.c., presupponendo tale norma - la quale da luogo ad una "fictio juris", considerando compiuta la notifica attraverso il mero compimento di determinate formalità e costituisce forma di notifica residuale - che il destinatario dell'atto sia irreperibile, non conoscendo il notificante nè potendo conoscere con l'ordinaria diligenza il suo luogo di residenza, dimora o domicilio (Cass. sez. un. 6 dicembre 1978, n. 5753 e successiva costante giurisprudenza), mentre nel caso di specie, secondo quanto documentato in atti, la ricorrente ben conosceva il suo luogo di lavoro l'Università di Tor Vergata in Roma - dove era solita scrivergli, con la conseguenza che egli non poteva essere considerato irreperibile.
Ne deriva che, nel caso di specie, non conoscendo parte attrice il luogo di residenza del convenuto, nè essendo in grado di conoscerlo con gli ordinari mezzi cognitivi, va verificato se la notifica potesse essere validamente compiuta nel luogo di lavoro del convenuto - come avvenuto e sostanzialmente dedotto con il ricorso - ai sensi dell'art. 139 c.p.c., comma ultimo, a norma del quale "quando non è noto il Comune di residenza la notificazione si fa nel Comune di dimora e, se anche questa è ignota, nel Comune di domicilio, osservate in quanto è possibile le disposizioni precedenti".
Ritiene questa Corte che, al fine della possibilità di notifica ai sensi dell'art. 139 c.p.c., ultimo comma, il concetto di "Comune di dimora" - al quale deve farsi riferimento con preferenza e precedenza rispetto al "Comune di domicilio" - vada enucleato in relazione alla "ratio" della norma, che è quella di consentire la notifica, nel caso in cui non sia noto e conoscibile con gli ordinari mezzi cognitivi il Comune di residenza, in luoghi in cui sia riscontrabile una relazione fra il soggetto notificando e il luogo stesso, tale da rendere molto probabile la tempestiva ricezione della notifica da parte del notificando ove effettuata in quel luogo. E appare razionale ritenere che il Comune dove la persona esercita un rapporto di lavoro subordinato o, come nel caso di specie, un rapporto d'impiego pubblico, è un luogo qualificabile come luogo di "dimora" ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 139 c.p.c., comma ultimo.
Conseguentemente, una volta ritenuto che il Comune in cui è situato il luogo di lavoro di un soggetto che ivi eserciti un rapporto di lavoro subordinato o, come nel caso di specie, un rapporto d'impiego pubblico, sia qualificabile nel senso su detto, il luogo di lavoro situato in tale Comune deve a sua volta ritenersi luogo idoneo - nel caso in cui, come nella specie non sia possibile effettuare la notificazione ai sensi dell'art. 139 c.p.c., comma 1, non essendo noto e reperibile il Comune di residenza - per la notifica ai sensi dell'art. 139 c.p.c., ultimo comma.
Ne consegue che il ricorso deve essere accolto e la sentenza della Corte d'appello cassata, con rinvio alla stessa Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, che statuirà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.
"Ritiene questa Corte che, al fine della possibilità di notifica ai sensi dell'art. 139 c.p.c., ultimo comma, il concetto di "Comune di dimora" - al quale deve farsi riferimento con preferenza e precedenza rispetto al "Comune di domicilio" - vada enucleato in relazione alla "ratio" della norma, che è quella di consentire la notifica, nel caso in cui non sia noto e conoscibile con gli ordinari mezzi cognitivi il Comune di residenza, in luoghi in cui sia riscontrabile una relazione fra il soggetto notificando e il luogo stesso, tale da rendere molto probabile la tempestiva ricezione della notifica da parte del notificando ove effettuata in quel luogo. E appare razionale ritenere che il Comune dove la persona esercita un rapporto di lavoro subordinato o, come nel caso di specie, un rapporto d'impiego pubblico, è un luogo qualificabile come luogo di "dimora" ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 139 c.p.c., comma ultimo.
Conseguentemente, una volta ritenuto che il Comune in cui è situato il luogo di lavoro di un soggetto che ivi eserciti un rapporto di lavoro subordinato o, come nel caso di specie, un rapporto d'impiego pubblico, sia qualificabile nel senso su detto, il luogo di lavoro situato in tale Comune deve a sua volta ritenersi luogo idoneo - nel caso in cui, come nella specie non sia possibile effettuare la notificazione ai sensi dell'art. 139 c.p.c., comma 1, non essendo noto e reperibile il Comune di residenza - per la notifica ai sensi dell'art. 139 c.p.c., ultimo comma."
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 30 luglio 2010, n. 17903
Svolgimento del processo
1. L.R. con ricorso al tribunale di Firenze in data 28 febbraio 2003 chiedeva la modifica delle condizioni della separazione personale omologata il 17 marzo 1993, al fine dell'attribuzione di un assegno di mantenimento, essendo diminuito il proprio reddito e aumentato quello del marito. Il ricorso veniva notificato presso il luogo di lavoro del marito G.F., che risultava ancora residente presso l'abitazione coniugale, in ****, assegnata alla ricorrente. Non essendosi il G. costituito, la ricorrente chiedeva e otteneva autorizzazione a fare ricerche anagrafiche circa il luogo di residenza del G. - che risultava ancora in **** - e termine per procedere a nuova notifica del ricorso e del verbale della prima udienza. Provvedutosi a ciò, la procedura si concludeva in primo grado, nella contumacia del convenuto, con decreto che condannava il G. alla corresponsione di un assegno di mantenimento in favore della moglie di Euro 250,00 mensili. Il G. proponeva gravame dinanzi alla Corte d'appello di Firenze, deducendo la nullità della notifica dell'atto introduttivo del giudizio e chiedendo nel merito il rigetto della domanda perchè infondata. La L. chiedeva il rigetto del reclamo e la riforma del decreto con la quantificazione dell'assegno nella misura di Euro 400,00. La Corte d'appello annullava il decreto con sentenza depositata il 9 gennaio 2006, notificata il giorno 8 febbraio 2006, rilevando la nullità della notifica dell'atto introduttivo per la violazione dell'art. 139 c.p.c.. Avverso la sentenza la L. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato il 10 aprile 2006. Il G. resiste con controricorso notificato il 16 maggio 2006.
Motivi della decisione
1. Nel ricorso si premette che la Corte d'appello ha annullato il decreto del tribunale per violazione dell'art. 139 c.p.c., atteso che il notificante ha facoltà di scegliere se notificare presso l'abitazione o il luogo di lavoro del notificando solo quando siano nello stesso Comune, mentre quando sono in Comuni diversi, come nel caso di specie, il notificante è obbligato a fare la notifica prima presso il Comune di residenza, se esso è ignoto presso quello di dimora e solo se anche questo è ignoto, può farlo nel luogo di lavoro, con conseguente nullità, nella specie, della notifica effettuata in tale luogo. Tale statuizione sarebbe errata in diritto e viziata sul piano motivazionale per omesso esame dei certificati anagrafici in relazione alla fattispecie in questione, poichè la residenza del convenuto, secondo quanto risultava da essi, era rimasta anagraficamente presso la casa coniugale in Sesto Fiorentino, ma ben sapendo la ricorrente che dal momento della separazione - essendo stata ad essa assegnata la casa coniugale ed essendosene il marito allontanato - il convenuto non risiedeva più lì, la notifica in quel luogo sarebbe stata nulla e quindi non poteva essere ivi effettuata. Nè essa era in grado di conoscere la nuova residenza del marito, non avendo egli compiuto la relativa dichiarazione, come risultava dai certificati anagrafici in atti. Ne derivava che, essendo noto alla ricorrente il luogo di lavoro del convenuto, esattamente la notifica gli era stata fatta presso il suo domicilio in tale luogo.
2. Vanno pregiudizialmente rigettate le eccezioni d'inammissibilità del ricorso formulate dal controricorrente.
Contrariamente a quanto da lui eccepito, infatti, i provvedimenti adottati con il procedimento in camera di consiglio per la modifica delle condizioni di separazione personale sono reclamabili e ricorribili in cassazione, secondo consolidati principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis Cass. 4 febbraio 2005, n. 2348; 30 dicembre 2004, n. 24265); la procura posta a margine del ricorso per Cassazione e riferita, come nella specie, alla "presente procedura" deve intendersi per ciò stesso riferita al ricorso (da ultimo, circa la specialità intrinseca della procura a margine del ricorso Cass. 17 dicembre 2009, n. 26504); l'art. 366 bis c.p.c., non è applicabile al ricorso "ratione temporis", riguardando esso un provvedimento depositato prima del 3 marzo 2006. 3. Il ricorso è fondato nei sensi appresso indicati.
La Corte d'appello ha fatto errata applicazione, nel caso di specie, dell'esatto principio secondo il quale l'art. 139 c.p.c., disponendo che quando non è noto il Comune di residenza la notificazione si fa nel Comune di dimora e, se anche questa è ignota, nel Comune di domicilio, consente la notificazione fuori del Comune di residenza del destinatario solo ove questa sia ignota, ponendo in tale ipotesi un ordine preferenziale obbligatorio.
In proposito va considerato che, nel caso di specie, trattandosi di coniugi separati, risultava dal verbale di separazione prodotto agli atti del giudizio di primo grado che la casa coniugale era stata assegnata alla moglie, con la conseguenza che, permanendo la separazione, il marito convenuto non era più ivi residente e la moglie non avrebbe potuto ivi validamente notificare l'atto introduttivo del giudizio di modifica delle condizioni di separazione, essendo a conoscenza che il marito risiedeva altrove, ancorchè risultasse anagraficamente residente nella casa coniugale, nel Comune di Sesto Fiorentino dove questa era ubicata, secondo quanto emergeva dalle certificazioni anagrafiche, parimenti prodotte in quel grado di giudizio, non avendo egli dichiarato la sua nuova residenza.
Va parimenti considerato che esattamente la convenuta deduce che, in tale situazione, posta in essere dal convenuto, che aveva omesso di compiere le prescritte dichiarazioni anagrafiche, la notificazione non poteva essere compiuta ai sensi dell'art. 143 c.p.c., presupponendo tale norma - la quale da luogo ad una "fictio juris", considerando compiuta la notifica attraverso il mero compimento di determinate formalità e costituisce forma di notifica residuale - che il destinatario dell'atto sia irreperibile, non conoscendo il notificante nè potendo conoscere con l'ordinaria diligenza il suo luogo di residenza, dimora o domicilio (Cass. sez. un. 6 dicembre 1978, n. 5753 e successiva costante giurisprudenza), mentre nel caso di specie, secondo quanto documentato in atti, la ricorrente ben conosceva il suo luogo di lavoro l'Università di Tor Vergata in Roma - dove era solita scrivergli, con la conseguenza che egli non poteva essere considerato irreperibile.
Ne deriva che, nel caso di specie, non conoscendo parte attrice il luogo di residenza del convenuto, nè essendo in grado di conoscerlo con gli ordinari mezzi cognitivi, va verificato se la notifica potesse essere validamente compiuta nel luogo di lavoro del convenuto - come avvenuto e sostanzialmente dedotto con il ricorso - ai sensi dell'art. 139 c.p.c., comma ultimo, a norma del quale "quando non è noto il Comune di residenza la notificazione si fa nel Comune di dimora e, se anche questa è ignota, nel Comune di domicilio, osservate in quanto è possibile le disposizioni precedenti".
Ritiene questa Corte che, al fine della possibilità di notifica ai sensi dell'art. 139 c.p.c., ultimo comma, il concetto di "Comune di dimora" - al quale deve farsi riferimento con preferenza e precedenza rispetto al "Comune di domicilio" - vada enucleato in relazione alla "ratio" della norma, che è quella di consentire la notifica, nel caso in cui non sia noto e conoscibile con gli ordinari mezzi cognitivi il Comune di residenza, in luoghi in cui sia riscontrabile una relazione fra il soggetto notificando e il luogo stesso, tale da rendere molto probabile la tempestiva ricezione della notifica da parte del notificando ove effettuata in quel luogo. E appare razionale ritenere che il Comune dove la persona esercita un rapporto di lavoro subordinato o, come nel caso di specie, un rapporto d'impiego pubblico, è un luogo qualificabile come luogo di "dimora" ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 139 c.p.c., comma ultimo.
Conseguentemente, una volta ritenuto che il Comune in cui è situato il luogo di lavoro di un soggetto che ivi eserciti un rapporto di lavoro subordinato o, come nel caso di specie, un rapporto d'impiego pubblico, sia qualificabile nel senso su detto, il luogo di lavoro situato in tale Comune deve a sua volta ritenersi luogo idoneo - nel caso in cui, come nella specie non sia possibile effettuare la notificazione ai sensi dell'art. 139 c.p.c., comma 1, non essendo noto e reperibile il Comune di residenza - per la notifica ai sensi dell'art. 139 c.p.c., ultimo comma.
Ne consegue che il ricorso deve essere accolto e la sentenza della Corte d'appello cassata, con rinvio alla stessa Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, che statuirà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.
mercoledì 8 settembre 2010
IRAP, Professionista, condizioni per l'applicabilità
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE, ORDINANZA 22.6.2010
"in tema di IRAP, l'esercizio dell' attività libero professionale "protetta" è escluso dall'applicazione dell'imposta soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata"
RITENUTO IN FATTO
Nella causa indicata in premessa, ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la relazione per la trattazione in camera di consiglio
L'Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale con la quale è stato riconosciuto il diritto del contribuente avvocato al rimborso dell'IRAP versata per gli anni in contestazione, in quanto il professionista nell'esercizio della libera professione spenderebbe solo la propria opera, essendo del tutto assente la spesa del personale e di modico valore i beni strumentali (quali il computer, il fax, l'autovettura) di cui risulta munito.
Il contribuente non ha svolto attività difensiva.
I1 ricorso, con il quale, nell'unico motivo, si denuncia omessa motivazione in ordine al punto decisivo della ritenuta provata mancanza di autonoma organizzazione nell'esercizio
dell'attività professionale, nonostante la presenza, secondo la parte erariale, di notevoli importi per beni ammortizzabili risultanti dalla dichiarazione dei redditi.
La censura - oltre che essere sprovvista di adeguato momento di sintesi - appare manifestamente infondata, in quanto la sentenza è conforme al principio affermato dalle Sezioni unite di questa Corte secondo cui, in tema di IRAP, l'esercizio dell' attività libero professionale "protetta" è escluso dall'applicazione dell'imposta soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata, e il requisito dell'autonoma organizzazione - il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato - ricorre quando il contribuente:
a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;
b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo
l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza dell'organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (cfr., tra le altre, Cass., Sez. un., n. 12108 del 2009).
La sentenza contiene l'accertamento del difetto di tale requisito, reso con la congrua e corretta motivazione sopra riportata, sicché la censura si rivela manifestamente priva di pregio, dato che si limita a proporre un'inammissibile nuova valutazione del merito, in presenza di apprezzamento congruamente espresso dalla C.T.R. (Cass. n. 5335/00; 13359/99; 5537/97; 900/96; 124/80).
Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio, in quanto manifestamente infondato.
La relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti costituite.
Non sono state depositate conclusioni scritte né memorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che il Collegio, a seguito della discussione in Camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, riaffermato i1 principio di diritto sopra richiamato, il ricorso deve essere rigettato; che non v'é luogo a provvedere in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità, in assenza di svolgimento di attività difensiva da parte dell'intimato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 22 giugno 2010
martedì 7 settembre 2010
Concorso Pubblico, obbligo di esperire preventivamente le procedure di mobilità
Consiglio di Stato, Sezione V, Decisione 18 agosto 2010, n. 5830
A partire dal 15 novembre 2009, data di entrata in vigore del d.lgs. 150/2009.
"il reclutamento dei dipendenti pubblici avviene attraverso un procedimento complesso nell’ambito del quale la procedura concorsuale non è affatto soppressa, ma è subordinata alla previa obbligatoria attivazione della procedura di mobilità, in attuazione dei fondamentali principi di imparzialità e buon andamento, predicati dall’articolo 97 della Costituzione."
Consiglio di Stato
Sezione V
Decisione 18 agosto 2010, n. 5830
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 379 del 2010, proposto da:
UNIONE DEI COMUNI DELLA BASSA ROMAGNA, in persona del legale rappresentante in carica, e COMUNE DI COTIGNOLA, in persona del sindaco in carica, entrambi rappresentati e difesi dagli avv. Claudio Cristoni, Gian Alberto Ferrerio e Gianluigi Pellegrino, con domicilio eletto presso Studio Placidi S.N.C. in Roma, via Cosseria, n. 2;
contro
P. B., rappresentata e difesa dagli avv. Antonio Carullo, Guido Guidarelli e Monica Paradisi, con domicilio eletto presso l’avv. Adriano Giuffrè in Roma, via Camozzi, n.1;
nei confronti di
S. S., non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA – BOLOGNA, Sez. I, n. 2634 del 2 dicembre 2009, resa tra le parti, concernente SELEZIONE PER POSTO DI FUNZIONARIO AMMINISTRATIVO.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della signora B. P.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 febbraio 2010 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti gli avvocati Pellegrino, Ferrerio e Giuffrè, quest'ultimo su delega dell' avv. Carullo, ritualmente informate dell’intenzione della Sezione di decidere la causa direttamente nel merito;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
1. Con la sentenza n. 2634 del 2 dicembre 2009 il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, sez. I, nell’udienza in camera di consiglio fissata per la delibazione della domanda cautelare, accogliendo il ricorso proposto dalla signora B. P., ha annullato: a) il bando di selezione pubblica per esami per la copertura a tempo indeterminato di 1 posto di funzionario amministrativo (cat. D3 posizione economica D/3) presso il Settore Socio – Culturale del Comune di Cotignola, indetto dall’Unione dei Comuni della Bassa Romagna in data 8 settembre 2009; b) il provvedimento in data 28 settembre 2009, con cui l’Unione dei Comuni della Bassa Romagna – Area Personale e Organizzazione – Servizio Sviluppo del Personale – aveva comunicato alla ricorrente che non avrebbe revocato il predetto bando; c) la determinazione del dirigente dell’Area Personale e Organizzazione dell’Unione dei Comuni della Bassa Romagna n . 399 del 16 luglio 2009 di indizione della selezione pubblica e di nomina della commissione giudicatrice; d) la determinazione del responsabile del Servizio Sviluppo del Personale dell’Unione dei Comuni della Bassa Romagna n . 488 dell’8 settembre 2009 di approvazione del bando di selezione pubblica.
Secondo il tribunale, infatti, la corretta interpretazione dell’articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (così come integrato dall’art. 5 del decreto legge 31 gennaio 2005, n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 31 marzo 2005, n. 42) obbligava l’amministrazione ad avviare, prima di espletare la procedura concorsuale, quella di mobilità; d’altra parte la scelta di bandire la selezione pubblica non trovava giustificazione neppure nell’articolo 7 del regolamento di organizzazione del Comune di Cotignola, sia perché l’assunzione era atto di competenza dell’Unione, sia perché la previsione regolamentare era palesemente in contrasto con la fonte legislativa di rango superiore e doveva essere pertanto disapplicata.
2. Con atto di appello notificato il 13 gennaio 2010 l’Unione dei Comuni della Bassa Romagna ed il Comune di Cotignola hanno chiesto la riforma della predetta sentenza, alla stregua di un unico articolato motivo di gravame, rubricato “Violazione ed errata interpretazione dell’art. 30 del D. Lvo. n. 165/2001 e dell’art. 88 del D. Lvo. n. 267/2000”, contestando innanzitutto che l’articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, obbligasse i Comuni a subordinare la selezione pubblica alla procedura di mobilità per la copertura dei posti vacanti, trattandosi di una scelta rimessa esclusivamente all’amministrazione, anche in ragione dell’autonomia costituzionale degli enti locali; inoltre nel caso di specie non solo le mansioni svolte dalla ricorrente presso l’A.U.S.L. di Ravenna erano difformi da quelle inerenti la qualifica del posto messo a concorso, per quanto la scelta del Comune di Cotignola (cui spettava la gestione della pianta organica) di indire la procedura concorsuale era stata rigorosamente motivata in funzione della specifica disposizione regolamentare (art. 7) che non poteva essere disapplicata.
3. Ha resistito al gravame la signora B. P., che ne chiesto il rigetto.
All’udienza in camera di consiglio del 9 febbraio 2010, fissata per la delibazione dell’istanza di sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata, informate le parti dell’intenzione della Sezione di decidere la causa direttamente nel merito, la stessa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
4. L’appello è infondato e deve essere respinto, alla stregua delle osservazioni che seguono.
4.1. In punto di fatto occorre rilevare che, come emerge dalla documentazione in atti, la signora B. P., in servizio a tempo indeterminato presso l’A.U.S.L. di Ravenna con la qualifica di collaboratore amministrativo professionale esperto, con istanza del 22/24 gennaio 2009 ha chiesto il transito al Comune di Cotignola in virtù della mobilità intercompartimentale, ai sensi del D. Lgs. 29/93 e successive modificazioni e integrazioni.
L’Unione dei Comuni della bassa Romagna con nota prot. 654 del 4 febbraio 2009 ha informato l’interessata dell’inesistenza nel piano di fabbisogno dei Comuni di Bagnocavallo, Cotignola e Lugo di un posto di collaboratore amministrativo professionale esperto, cat. D, da coprire con ricorso alla mobilità esterna volontaria.
Il Comune di Cotignola con delibera della Giunta Comunale n. 46 del 14 maggio 2009 ha approvato il piano del fabbisogno del personale 2009 – 2011 (1° stralcio), precisando di aver attivato la procedura di cui all’articolo 30, comma 2 bis, del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, disciplinata dall’articolo 7 del proprio regolamento di organizzazione e di aver ritenuto che, stante l’esiguo numero di domande pervenute (solo due) per il profilo di funzionario amministrativo, fosse opportuno procedere all’indizione di apposita selezione pubblica per il reclutamento delle migliori professionalità; l’Unione dei Comuni della bassa Romagna con determinazione dirigenziale n. 399 del 16 luglio 2009 ha effettivamente indetto la selezione pubblica per la copertura con contratto a tempo indeterminato di n. 1 posto di Funzionario Amministrativo Cat. D3 – posizione economica D/3 Settore Socio – Culturale del Comune di Cotignola con contestuale nomina della relativa commissione, dando atto della comunicazione effettuata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’articolo 34 bis del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
L’Unione dei Comuni della bassa Romagna ha comunicato alla ricorrente di non poter aderire alla richiesta di revoca del bando di concorso, che nel frattempo era stato completamente espletato.
4.2. Ciò posto, la Sezione è dell’avviso che la sentenza impugnata non merita le critiche che le sono state appuntate.
4.2.1. Invero l’articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, dopo aver fissato al primo comma il principio della mobilità volontaria a domanda (“1. Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante cessione del contratto di lavoro di dipendenti appartenenti alla stessa qualifica in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento. Le amministrazioni devono in ogni caso rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta. Il trasferimento è disposto previo parere favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale è o sarà assegnato sulla base della professionalità in possesso del dipendente in relazione al posto ricoperto o da ricoprire”), al successivo comma 2 bis, introdotto dall’articolo 5, del decreto legislativo 31 gennaio 2005, n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 31 marzo 2005, n. 43, stabilisce che “Le amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1, provvedendo, in via prioritaria, all'immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in cui prestano servizio. Il trasferimento è disposto, nei limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell'area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza”.
Il tenore letterale di tale previsione, di cui non è dubitabile in alcun modo l’applicazione anche agli enti locali (rientranti, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, nell’ambito delle disposizione del citato decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), è del tutto univoco nell’imporre alle pubbliche amministrazioni che devono coprire eventuali posti vacanti del proprio organico di avviare le procedure di mobilità prima di procedere all’espletamento delle procedure concorsuali.
Tale obbligo ben si coordina con le strategie volte a contemperare il prevalente interesse pubblico alla razionalità dell’organizzazione pubblica e alla funzionalità dei suoi uffici, con le esigenze di riduzione della spesa pubblica e le aspirazioni dei pubblici dipendenti di poter espletare la propria attività in uffici quanto più possibili vicino alle proprie abitazioni.
Né può sostenersi che una simile previsione mortifichi e comprima irragionevolmente l’autonomia delle singole amministrazioni a bandire procedure concorsuali, atteso che non sussiste alcun divieto in tal senso: dando concreta attuazione al principio di buon andamento ed efficienza che deve connotare l’intera organizzazione amministrativa, all’accertamento della sussistenza di una vacanza di organico l’amministrazione è tenuta innanzitutto ad avviare la procedura di mobilità finalizzata ad accertare l’esistenza di pubblici dipendenti già in servizio, dotati della necessaria professionalità, che si trovino nella legittima condizione di poter ricoprire il posto vacante; l’esito infruttuoso di tale procedimento riespande le facoltà dell’amministrazione di indire la procedura concorsuale, ovviamente nel rispetto delle cogenti disposizioni finanziarie di contenimento della spesa pubblica.
In altri termini il reclutamento dei dipendenti pubblici avviene attraverso un procedimento complesso nell’ambito del quale la procedura concorsuale non è affatto soppressa, ma è subordinata alla previa obbligatoria attivazione della procedura di mobilità, in attuazione dei fondamentali principi di imparzialità e buon andamento, predicati dall’articolo 97 della Costituzione.
Non può pertanto neppure condividersi l’assunto delle amministrazioni appellanti, secondo cui la procedura di mobilità riguarderebbe solo l’immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, in quanto, dalla corretta esegesi dalla disposizione in questione, si evince agevolmente che tale categoria di personale deve essere solo sistemata in ruolo con priorità rispetto agli altri dipendenti che hanno partecipato alla procedura di mobilità e non già che la procedura di mobilità sia esclusivamente riservata alla predetta categoria di dipendenti.
4.2.3. Nel caso di specie dalla documentazione versata in atti non risulta affatto che le amministrazioni abbiano attivato la procedura di mobilità prevista dal comma 2 bis dell’articolo 30 del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, non avendo le amministrazioni appellanti proceduto a rendere pubbliche le disponibilità in organico per consentire agli interessati la presentazione di eventuali domande di trasferimento.
Il ricordato comma 2 bis infatti espressamente richiama il precedente comma 1, secondo cui “le amministrazioni devono in ogni caso rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta”.
Né può ritenersi che il precetto contenuto nella disposizione in esame sia stato rispettato con il mero esame delle domande di trasferimento presentate da alcuni dipendenti (tra cui la stessa originaria ricorrente), trattandosi evidentemente di domande autonome e proposte indipendentemente da qualsiasi previa pubblicazione delle disponibilità di organico dell’Unione dei Comuni della bassa Romagna e dei comuni che ne fanno parte.
L’annullamento degli atti impugnati impone all’amministrazione appellante di avviare la procedura di mobilità, secondo le disposizioni vigenti.
5. La novità delle questioni trattate giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dall’Unione dei Comuni della Bassa Romagna avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 2634 del 2 dicembre 2009, lo respinge.
Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 febbraio 2010 con l'intervento dei Signori:
Stefano Baccarini, Presidente
Marco Lipari, Consigliere
Carlo Saltelli, Consigliere, Estensore
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Francesca Quadri, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Il Segretario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 18/08/2010.
A partire dal 15 novembre 2009, data di entrata in vigore del d.lgs. 150/2009.
"il reclutamento dei dipendenti pubblici avviene attraverso un procedimento complesso nell’ambito del quale la procedura concorsuale non è affatto soppressa, ma è subordinata alla previa obbligatoria attivazione della procedura di mobilità, in attuazione dei fondamentali principi di imparzialità e buon andamento, predicati dall’articolo 97 della Costituzione."
Consiglio di Stato
Sezione V
Decisione 18 agosto 2010, n. 5830
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 379 del 2010, proposto da:
UNIONE DEI COMUNI DELLA BASSA ROMAGNA, in persona del legale rappresentante in carica, e COMUNE DI COTIGNOLA, in persona del sindaco in carica, entrambi rappresentati e difesi dagli avv. Claudio Cristoni, Gian Alberto Ferrerio e Gianluigi Pellegrino, con domicilio eletto presso Studio Placidi S.N.C. in Roma, via Cosseria, n. 2;
contro
P. B., rappresentata e difesa dagli avv. Antonio Carullo, Guido Guidarelli e Monica Paradisi, con domicilio eletto presso l’avv. Adriano Giuffrè in Roma, via Camozzi, n.1;
nei confronti di
S. S., non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA – BOLOGNA, Sez. I, n. 2634 del 2 dicembre 2009, resa tra le parti, concernente SELEZIONE PER POSTO DI FUNZIONARIO AMMINISTRATIVO.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della signora B. P.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 febbraio 2010 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti gli avvocati Pellegrino, Ferrerio e Giuffrè, quest'ultimo su delega dell' avv. Carullo, ritualmente informate dell’intenzione della Sezione di decidere la causa direttamente nel merito;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
1. Con la sentenza n. 2634 del 2 dicembre 2009 il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, sez. I, nell’udienza in camera di consiglio fissata per la delibazione della domanda cautelare, accogliendo il ricorso proposto dalla signora B. P., ha annullato: a) il bando di selezione pubblica per esami per la copertura a tempo indeterminato di 1 posto di funzionario amministrativo (cat. D3 posizione economica D/3) presso il Settore Socio – Culturale del Comune di Cotignola, indetto dall’Unione dei Comuni della Bassa Romagna in data 8 settembre 2009; b) il provvedimento in data 28 settembre 2009, con cui l’Unione dei Comuni della Bassa Romagna – Area Personale e Organizzazione – Servizio Sviluppo del Personale – aveva comunicato alla ricorrente che non avrebbe revocato il predetto bando; c) la determinazione del dirigente dell’Area Personale e Organizzazione dell’Unione dei Comuni della Bassa Romagna n . 399 del 16 luglio 2009 di indizione della selezione pubblica e di nomina della commissione giudicatrice; d) la determinazione del responsabile del Servizio Sviluppo del Personale dell’Unione dei Comuni della Bassa Romagna n . 488 dell’8 settembre 2009 di approvazione del bando di selezione pubblica.
Secondo il tribunale, infatti, la corretta interpretazione dell’articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (così come integrato dall’art. 5 del decreto legge 31 gennaio 2005, n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 31 marzo 2005, n. 42) obbligava l’amministrazione ad avviare, prima di espletare la procedura concorsuale, quella di mobilità; d’altra parte la scelta di bandire la selezione pubblica non trovava giustificazione neppure nell’articolo 7 del regolamento di organizzazione del Comune di Cotignola, sia perché l’assunzione era atto di competenza dell’Unione, sia perché la previsione regolamentare era palesemente in contrasto con la fonte legislativa di rango superiore e doveva essere pertanto disapplicata.
2. Con atto di appello notificato il 13 gennaio 2010 l’Unione dei Comuni della Bassa Romagna ed il Comune di Cotignola hanno chiesto la riforma della predetta sentenza, alla stregua di un unico articolato motivo di gravame, rubricato “Violazione ed errata interpretazione dell’art. 30 del D. Lvo. n. 165/2001 e dell’art. 88 del D. Lvo. n. 267/2000”, contestando innanzitutto che l’articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, obbligasse i Comuni a subordinare la selezione pubblica alla procedura di mobilità per la copertura dei posti vacanti, trattandosi di una scelta rimessa esclusivamente all’amministrazione, anche in ragione dell’autonomia costituzionale degli enti locali; inoltre nel caso di specie non solo le mansioni svolte dalla ricorrente presso l’A.U.S.L. di Ravenna erano difformi da quelle inerenti la qualifica del posto messo a concorso, per quanto la scelta del Comune di Cotignola (cui spettava la gestione della pianta organica) di indire la procedura concorsuale era stata rigorosamente motivata in funzione della specifica disposizione regolamentare (art. 7) che non poteva essere disapplicata.
3. Ha resistito al gravame la signora B. P., che ne chiesto il rigetto.
All’udienza in camera di consiglio del 9 febbraio 2010, fissata per la delibazione dell’istanza di sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata, informate le parti dell’intenzione della Sezione di decidere la causa direttamente nel merito, la stessa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
4. L’appello è infondato e deve essere respinto, alla stregua delle osservazioni che seguono.
4.1. In punto di fatto occorre rilevare che, come emerge dalla documentazione in atti, la signora B. P., in servizio a tempo indeterminato presso l’A.U.S.L. di Ravenna con la qualifica di collaboratore amministrativo professionale esperto, con istanza del 22/24 gennaio 2009 ha chiesto il transito al Comune di Cotignola in virtù della mobilità intercompartimentale, ai sensi del D. Lgs. 29/93 e successive modificazioni e integrazioni.
L’Unione dei Comuni della bassa Romagna con nota prot. 654 del 4 febbraio 2009 ha informato l’interessata dell’inesistenza nel piano di fabbisogno dei Comuni di Bagnocavallo, Cotignola e Lugo di un posto di collaboratore amministrativo professionale esperto, cat. D, da coprire con ricorso alla mobilità esterna volontaria.
Il Comune di Cotignola con delibera della Giunta Comunale n. 46 del 14 maggio 2009 ha approvato il piano del fabbisogno del personale 2009 – 2011 (1° stralcio), precisando di aver attivato la procedura di cui all’articolo 30, comma 2 bis, del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, disciplinata dall’articolo 7 del proprio regolamento di organizzazione e di aver ritenuto che, stante l’esiguo numero di domande pervenute (solo due) per il profilo di funzionario amministrativo, fosse opportuno procedere all’indizione di apposita selezione pubblica per il reclutamento delle migliori professionalità; l’Unione dei Comuni della bassa Romagna con determinazione dirigenziale n. 399 del 16 luglio 2009 ha effettivamente indetto la selezione pubblica per la copertura con contratto a tempo indeterminato di n. 1 posto di Funzionario Amministrativo Cat. D3 – posizione economica D/3 Settore Socio – Culturale del Comune di Cotignola con contestuale nomina della relativa commissione, dando atto della comunicazione effettuata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’articolo 34 bis del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
L’Unione dei Comuni della bassa Romagna ha comunicato alla ricorrente di non poter aderire alla richiesta di revoca del bando di concorso, che nel frattempo era stato completamente espletato.
4.2. Ciò posto, la Sezione è dell’avviso che la sentenza impugnata non merita le critiche che le sono state appuntate.
4.2.1. Invero l’articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, dopo aver fissato al primo comma il principio della mobilità volontaria a domanda (“1. Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante cessione del contratto di lavoro di dipendenti appartenenti alla stessa qualifica in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento. Le amministrazioni devono in ogni caso rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta. Il trasferimento è disposto previo parere favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale è o sarà assegnato sulla base della professionalità in possesso del dipendente in relazione al posto ricoperto o da ricoprire”), al successivo comma 2 bis, introdotto dall’articolo 5, del decreto legislativo 31 gennaio 2005, n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 31 marzo 2005, n. 43, stabilisce che “Le amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1, provvedendo, in via prioritaria, all'immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in cui prestano servizio. Il trasferimento è disposto, nei limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell'area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza”.
Il tenore letterale di tale previsione, di cui non è dubitabile in alcun modo l’applicazione anche agli enti locali (rientranti, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, nell’ambito delle disposizione del citato decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), è del tutto univoco nell’imporre alle pubbliche amministrazioni che devono coprire eventuali posti vacanti del proprio organico di avviare le procedure di mobilità prima di procedere all’espletamento delle procedure concorsuali.
Tale obbligo ben si coordina con le strategie volte a contemperare il prevalente interesse pubblico alla razionalità dell’organizzazione pubblica e alla funzionalità dei suoi uffici, con le esigenze di riduzione della spesa pubblica e le aspirazioni dei pubblici dipendenti di poter espletare la propria attività in uffici quanto più possibili vicino alle proprie abitazioni.
Né può sostenersi che una simile previsione mortifichi e comprima irragionevolmente l’autonomia delle singole amministrazioni a bandire procedure concorsuali, atteso che non sussiste alcun divieto in tal senso: dando concreta attuazione al principio di buon andamento ed efficienza che deve connotare l’intera organizzazione amministrativa, all’accertamento della sussistenza di una vacanza di organico l’amministrazione è tenuta innanzitutto ad avviare la procedura di mobilità finalizzata ad accertare l’esistenza di pubblici dipendenti già in servizio, dotati della necessaria professionalità, che si trovino nella legittima condizione di poter ricoprire il posto vacante; l’esito infruttuoso di tale procedimento riespande le facoltà dell’amministrazione di indire la procedura concorsuale, ovviamente nel rispetto delle cogenti disposizioni finanziarie di contenimento della spesa pubblica.
In altri termini il reclutamento dei dipendenti pubblici avviene attraverso un procedimento complesso nell’ambito del quale la procedura concorsuale non è affatto soppressa, ma è subordinata alla previa obbligatoria attivazione della procedura di mobilità, in attuazione dei fondamentali principi di imparzialità e buon andamento, predicati dall’articolo 97 della Costituzione.
Non può pertanto neppure condividersi l’assunto delle amministrazioni appellanti, secondo cui la procedura di mobilità riguarderebbe solo l’immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, in quanto, dalla corretta esegesi dalla disposizione in questione, si evince agevolmente che tale categoria di personale deve essere solo sistemata in ruolo con priorità rispetto agli altri dipendenti che hanno partecipato alla procedura di mobilità e non già che la procedura di mobilità sia esclusivamente riservata alla predetta categoria di dipendenti.
4.2.3. Nel caso di specie dalla documentazione versata in atti non risulta affatto che le amministrazioni abbiano attivato la procedura di mobilità prevista dal comma 2 bis dell’articolo 30 del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, non avendo le amministrazioni appellanti proceduto a rendere pubbliche le disponibilità in organico per consentire agli interessati la presentazione di eventuali domande di trasferimento.
Il ricordato comma 2 bis infatti espressamente richiama il precedente comma 1, secondo cui “le amministrazioni devono in ogni caso rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta”.
Né può ritenersi che il precetto contenuto nella disposizione in esame sia stato rispettato con il mero esame delle domande di trasferimento presentate da alcuni dipendenti (tra cui la stessa originaria ricorrente), trattandosi evidentemente di domande autonome e proposte indipendentemente da qualsiasi previa pubblicazione delle disponibilità di organico dell’Unione dei Comuni della bassa Romagna e dei comuni che ne fanno parte.
L’annullamento degli atti impugnati impone all’amministrazione appellante di avviare la procedura di mobilità, secondo le disposizioni vigenti.
5. La novità delle questioni trattate giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dall’Unione dei Comuni della Bassa Romagna avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 2634 del 2 dicembre 2009, lo respinge.
Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 febbraio 2010 con l'intervento dei Signori:
Stefano Baccarini, Presidente
Marco Lipari, Consigliere
Carlo Saltelli, Consigliere, Estensore
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Francesca Quadri, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Il Segretario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 18/08/2010.
mercoledì 1 settembre 2010
Distanze legali, condizioni per l'applicazione in materia di condominio
Cassazione civile , sez. II, sentenza 21.05.2010 n° 12520
Nel rapporto tra norme speciali del condominio in materia di distanze legali, queste prevalgono sulle norme generali a condizione che la situazione di luoghi non consenta l’applicazione di queste ultime. Nel caso, contrario, anche nel condominio vanno applicate le norme generali sulle distanze legali.
Va affermato il “principio secondo cui in materia condominiale le norme relative ai rapporti di vicinato, tra cui quella dell'art. 889 cod. civ., trovano applicazione rispetto alle singole unità immobiliari soltanto in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei singoli proprietari; pertanto, qualora esse siano invocate in un giudizio tra condomini, il giudice di merito è tenuto ad accertare se la loro rigorosa osservanza non sia nel caso irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sè il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali: dunque, la concreta impossibilità di installare altrove la tubazione, conseguente alla peculiarità dell'ubicazione degli appartamenti facenti parte del condominio, costituiva il presupposto necessario per verificare se nella specie potessero trovare o meno applicazione le norme sulle distanze, per cui in mancanza di espressa contestazione della circostanza, affermata dal Tribunale, era da ritenere inammissibile la doglianza che, pur deducendo la prevalenza delle norme sulle cose comuni, non aveva censurato l'argomentazione decisiva per escludere l'inapplicabilità delle distanze prescritte dal citato art. 899 c.c”
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 21 maggio 2010, n. 12520
Svolgimento del processo
R.M. esponeva che: con rogito Notaio Bonanno di Saluzzo in data **** aveva acquistato dai coniugi G.F. e C.M. una porzione di fabbricato sito in ****; con successiva scrittura privata autenticata in data ****, registrata il ****, aveva acquistato dai predetti altri due vani posti, al piano terreno della stessa porzione di fabbricato; che i venditori avevano garantito la libera disponibilità delle unità immobiliari oggetto della vendita ed in particolare che avevano sin dall'**** risolto il contratto di locazione con la sig.ra L., alla quale avevano concesso in locazione un negozio di due vani al piano terreno;
nonostante l'impegno assunto, i locali in questione erano stati consegnati soltanto in data ****, con quattordici mesi di ritardo rispetto a quanto pattuito;
che tale fatto aveva comportato per l'istante danni consistiti nella ritardata ultimazione dei lavori di ristrutturazione e della mancata disponibilità degli immobili;
lamentava fra l'altro, che i predetti avevano collocato al piano terra, lungo il muro che divide le rispettive proprietà, una tubazione per il passaggio del gas metano senza il rispetto delle distanze previste dall'art. 889 cod. civ.. Pertanto, l'istante conveniva in giudizio il G. e la C. dinanzi al Tribunale di Cuneo per sentirli condannare al risarcimento dei danni e all'eliminazione della predetta tubazione.
I convenuti, costituendosi in giudizio, chiedevano il rigetto della domanda, osservando che l'attore era a conoscenza della situazione locativa dell'immobile, per cui la clausola contrattale con cui i venditori avevano garantito la disponibilità del cespite doveva interpretarsi nel senso che i medesimi avevano inteso garantire l'assenza di impedimenti alla compravendita; per quanto riguardava la tubazione, doveva ritenersi costituita una servitù per destinazione del padre di famiglia. Con sentenza del 10 dicembre 1998 il Tribunale accoglieva la domanda. Con sentenza dep. il 11 febbraio 2004 la Corte di appello di Torino rigettava l'impugnazione proposta dai convenuti.
Secondo i giudici di appello la clausola contrattuale inserita nella scrittura privata del (OMISSIS), con cui i venditori avevano garantito la libera disponibilità dell'immobile, non era generica nè di stile avendo con essa le parti inteso specificare la mancanza di liti in corso, mentre nel contratto preliminare era stato precisato che il contratto di locazione intercorso con la L. era stato risolto; d'altra parte, non era stata neppure censurata la l'affermazione contenuta nella decisione di primo grado, secondo cui nessuna conseguenza poteva derivare all'appellato dalla conclusione della conciliazione giudiziale intervenuta con il locatario, trattandosi di atto negoziale e non di provvedimento opponibile ai sensi dell'art. 111 cod. proc. civ..
La determinazione del danno, consistito nel rallentamento dell'esecuzione dei lavori provocata dall'occupazione dell'immobile, era stata correttamente quantificata dal consulente tecnico, tenendo conto del costo delle attrezzature necessarie per il cantiere, mentre le obiezioni sollevate dagli appellanti in ordine alla non necessità del nolo di gru, erano prive di fondamento, posto che il cantiere era stato utilmente smantellato solo ad avvenuta esecuzione dei lavori.
Infine per quel che concerneva la tubazione del gas, i Giudici dichiaravano inammissibile il motivo, non avendo gli appellanti censurato l'affermazione del Tribunale secondo cui i medesimi non avevano provato l'impossibilità di installare la tubazione altrove.
Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione G. F. e C.M. sulla base di due motivi illustrati da memoria.
Resiste con controricorso l'intimato.
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1366 cod. civ. nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), censurano la decisione gravata che, nell'interpretare la volontà delle parti, non aveva preso in alcuna considerazione le specifiche censure sollevate con l'atto di appello;
non aveva considerato che l'attore era a conoscenza che la causa di finita locazione era in corso, il magazzino era occupato e che pertanto i venditori non avrebbero potuto garantire la disponibilità dell'immobile: tali circostanze erano rilevanti al fine di procedere, alla stregua del complessivo comportamento delle parti, all'interpretazione del termine "libera disponibilità" secondo buona fede; mentre i ricorrenti non avevano mai sostenuto che la conciliazione fosse efficace nei confronti dell'attore - e per tale motivo non avevano contestato l'affermazione al riguardo formulata dal tribunale - erano rilevanti le prove articolate dai convenuti per dimostrare che il R. era a conoscenza della situazione di fatto in cui versava l'immobile de quo; la Corte non aveva motivato circa la mancata ammissione dei capi di prova articolati con la memoria del 21-1-1995 con richiesta ribadita nell'atto di appello e nelle conclusioni definitive.
Per quanto riguardava il risarcimento dei danni, la motivazione non aveva risposto alle precise critiche sollevate con l'atto di appello:
il consulente non aveva tenuto conto delle risultanze delle deposizioni testimoniali, da cui era emerso che il rifacimento della soletta superiore non era stato affatto pregiudicato; i testi avevano evidenziato che i lavori erano proseguiti e non avevano subito ritardi; il consulente aveva adottato dei conteggi astratti senza considerare uomini e mezzi in concreto messi a disposizione dall'attore. La Corte non aveva risposto alle censure sollevate a proposito dell'errato conteggio della superficie del locale, non aveva motivato la mancata ammissione dei mezzi istruttori volti a dimostrare l'esistenza di accordi autonomi fra le parti privi di efficacia transattiva: il che avrebbe comportato l'applicazione dell'art. 1227 cod. civ., atteso che era stato l'attore con il suo comportamento ad impedire la liberazione dell'immobile. Il motivo è infondato.
Occorre premettere che per quanto concerne l'interpretazione della clausola contrattuale con cui i convenuti avevano garantito la disponibilità dell'immobile i ricorrenti, pur lamentando violazioni di legge sostanziale e vizi di motivazioni, denunciano in sostanza non soltanto l'inosservanza dei criteri ermeneutici ma anche l'error in procedendo concernente l'omesso esame delle censure sollevate con l'atto di appello.
Orbene, sotto tale profilo la denuncia è inammissibile non solo perchè con il ricorso sarebbe stata necessario dedurre la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. per omesso esame ma anche perchè, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, i ricorrenti avrebbero dovuto trascrivere il testo dei motivi di appello, in modo da consentire alla Corte di verificarne la specificità.
Per quanto concerne la mancata considerazione del comportamento complessivo delle parti nell'interpretazione della richiamata clausola contrattuale con riferimento alla conoscenza da parte dell'attore della situazione locativa dell'immobile venduto, secondo quanto richiesto di provare con i mezzi istruttori articolati, anche qui va sottolineato il difetto di autosufficienza del ricorso, posto che il ricorrente non ha ottemperato all'onere di trascrivere il testo delle circostanze capitolate in modo da consentire alla Cassazione di verificarne la decisività o meno, mentre del tutto irrilevante è il difetto di motivazione in merito al rigetto di tali istanze, posto che in tema di errores in procedendo il giudice di legittimità, che è anche giudice del fatto, deve verificare l'esistenza del vizio denunciato attraverso l'esame diretto degli atti, indipendentemente dalla motivazione adottata dal giudice di merito.
Per quel che concerne la determinazione del danno, che è stata compiuta con riferimento all'accertato rallentamento dei lavori, anche qui il ricorso difetta di autosufficienza, posto che: i ricorrenti, pur facendo riferimento alle critiche che con i motivi di appello avevano formulato alla consulenza tecnica, non hanno specificamente indicato tali censure in modo da consentire alla Corte di verificarne la rituale proposizione; inoltre, avrebbero dovuto trascrivere il testo delle deposizioni testimoniali di cui il consulente non avrebbe tenuto conto - nella sentenza impugnata si fa riferimento soltanto alla deposizione della teste L. e al suo mancato esame che gli appellanti avrebbero dedotto nei motivi- dimostrando gli errori che il consulente avrebbe compiuto previa trascrizione altresì del testo integrale e non per stralci della stessa consulenza; ancora - si ribadisce - non è riportato integralmente il testo dei mezzi istruttori articolati. Con il secondo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione dell'art. 342 cod. proc. civ., censurano la sentenza laddove aveva dichiarato inammissibile il motivo con cui era stata ritenuta illegittima la tubazione del gas collocata sotto il muro comune sul rilievo che non era stata specificamente contestata la circostanza affermata dal Tribunale secondo cui i convenuti non avevano provato l'impossibilità di installarla altrove: il motivo era sufficientemente specifico, posto che si era dedotta l'inapplicabilità al condominio delle distanze prescritte dall'art. 889 cod. civ. per la prevalenza delle norme relative alle cose comuni, non essendo necessario che tutte la argomentazioni contenute nella sentenza impugnata debbano essere censurate, quando non si tratti di autonome rationes decidendi idonee a sorreggere la decisione. Il che non poteva dirsi a proposito della concreta impossibilità di installare altrove la tubazione, circostanza dalla quale non dipendeva la prevalenza della disciplina sul condominio.
Il motivo infondato.
La sentenza ha implicitamente fatto corretta applicazione del principio secondo cui in materia condominiale le norme relative ai rapporti di vicinato, tra cui quella dell'art. 889 cod. civ., trovano applicazione rispetto alle singole unità immobiliari soltanto in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei singoli proprietari; pertanto, qualora esse siano invocate in un giudizio tra condomini, il giudice di merito è tenuto ad accertare se la loro rigorosa osservanza non sia nel caso irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sè il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali: dunque, la concreta impossibilità di installare altrove la tubazione, conseguente alla peculiarità dell'ubicazione degli appartamenti facenti parte del condominio, costituiva il presupposto necessario per verificare se nella specie potessero trovare o meno applicazione le norme sulle distanze, per cui in mancanza di espressa contestazione della circostanza, affermata dal Tribunale, era da ritenere inammissibile la doglianza che, pur deducendo la prevalenza delle norme sulle cose comuni, non aveva censurato l'argomentazione decisiva per escludere l'inapplicabilità delle distanze prescritte dal citato art. 899 c.c.. Il ricorso va rigettato. Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico dei ricorrenti, risultati soccombenti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Nel rapporto tra norme speciali del condominio in materia di distanze legali, queste prevalgono sulle norme generali a condizione che la situazione di luoghi non consenta l’applicazione di queste ultime. Nel caso, contrario, anche nel condominio vanno applicate le norme generali sulle distanze legali.
Va affermato il “principio secondo cui in materia condominiale le norme relative ai rapporti di vicinato, tra cui quella dell'art. 889 cod. civ., trovano applicazione rispetto alle singole unità immobiliari soltanto in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei singoli proprietari; pertanto, qualora esse siano invocate in un giudizio tra condomini, il giudice di merito è tenuto ad accertare se la loro rigorosa osservanza non sia nel caso irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sè il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali: dunque, la concreta impossibilità di installare altrove la tubazione, conseguente alla peculiarità dell'ubicazione degli appartamenti facenti parte del condominio, costituiva il presupposto necessario per verificare se nella specie potessero trovare o meno applicazione le norme sulle distanze, per cui in mancanza di espressa contestazione della circostanza, affermata dal Tribunale, era da ritenere inammissibile la doglianza che, pur deducendo la prevalenza delle norme sulle cose comuni, non aveva censurato l'argomentazione decisiva per escludere l'inapplicabilità delle distanze prescritte dal citato art. 899 c.c”
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 21 maggio 2010, n. 12520
Svolgimento del processo
R.M. esponeva che: con rogito Notaio Bonanno di Saluzzo in data **** aveva acquistato dai coniugi G.F. e C.M. una porzione di fabbricato sito in ****; con successiva scrittura privata autenticata in data ****, registrata il ****, aveva acquistato dai predetti altri due vani posti, al piano terreno della stessa porzione di fabbricato; che i venditori avevano garantito la libera disponibilità delle unità immobiliari oggetto della vendita ed in particolare che avevano sin dall'**** risolto il contratto di locazione con la sig.ra L., alla quale avevano concesso in locazione un negozio di due vani al piano terreno;
nonostante l'impegno assunto, i locali in questione erano stati consegnati soltanto in data ****, con quattordici mesi di ritardo rispetto a quanto pattuito;
che tale fatto aveva comportato per l'istante danni consistiti nella ritardata ultimazione dei lavori di ristrutturazione e della mancata disponibilità degli immobili;
lamentava fra l'altro, che i predetti avevano collocato al piano terra, lungo il muro che divide le rispettive proprietà, una tubazione per il passaggio del gas metano senza il rispetto delle distanze previste dall'art. 889 cod. civ.. Pertanto, l'istante conveniva in giudizio il G. e la C. dinanzi al Tribunale di Cuneo per sentirli condannare al risarcimento dei danni e all'eliminazione della predetta tubazione.
I convenuti, costituendosi in giudizio, chiedevano il rigetto della domanda, osservando che l'attore era a conoscenza della situazione locativa dell'immobile, per cui la clausola contrattale con cui i venditori avevano garantito la disponibilità del cespite doveva interpretarsi nel senso che i medesimi avevano inteso garantire l'assenza di impedimenti alla compravendita; per quanto riguardava la tubazione, doveva ritenersi costituita una servitù per destinazione del padre di famiglia. Con sentenza del 10 dicembre 1998 il Tribunale accoglieva la domanda. Con sentenza dep. il 11 febbraio 2004 la Corte di appello di Torino rigettava l'impugnazione proposta dai convenuti.
Secondo i giudici di appello la clausola contrattuale inserita nella scrittura privata del (OMISSIS), con cui i venditori avevano garantito la libera disponibilità dell'immobile, non era generica nè di stile avendo con essa le parti inteso specificare la mancanza di liti in corso, mentre nel contratto preliminare era stato precisato che il contratto di locazione intercorso con la L. era stato risolto; d'altra parte, non era stata neppure censurata la l'affermazione contenuta nella decisione di primo grado, secondo cui nessuna conseguenza poteva derivare all'appellato dalla conclusione della conciliazione giudiziale intervenuta con il locatario, trattandosi di atto negoziale e non di provvedimento opponibile ai sensi dell'art. 111 cod. proc. civ..
La determinazione del danno, consistito nel rallentamento dell'esecuzione dei lavori provocata dall'occupazione dell'immobile, era stata correttamente quantificata dal consulente tecnico, tenendo conto del costo delle attrezzature necessarie per il cantiere, mentre le obiezioni sollevate dagli appellanti in ordine alla non necessità del nolo di gru, erano prive di fondamento, posto che il cantiere era stato utilmente smantellato solo ad avvenuta esecuzione dei lavori.
Infine per quel che concerneva la tubazione del gas, i Giudici dichiaravano inammissibile il motivo, non avendo gli appellanti censurato l'affermazione del Tribunale secondo cui i medesimi non avevano provato l'impossibilità di installare la tubazione altrove.
Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione G. F. e C.M. sulla base di due motivi illustrati da memoria.
Resiste con controricorso l'intimato.
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1366 cod. civ. nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), censurano la decisione gravata che, nell'interpretare la volontà delle parti, non aveva preso in alcuna considerazione le specifiche censure sollevate con l'atto di appello;
non aveva considerato che l'attore era a conoscenza che la causa di finita locazione era in corso, il magazzino era occupato e che pertanto i venditori non avrebbero potuto garantire la disponibilità dell'immobile: tali circostanze erano rilevanti al fine di procedere, alla stregua del complessivo comportamento delle parti, all'interpretazione del termine "libera disponibilità" secondo buona fede; mentre i ricorrenti non avevano mai sostenuto che la conciliazione fosse efficace nei confronti dell'attore - e per tale motivo non avevano contestato l'affermazione al riguardo formulata dal tribunale - erano rilevanti le prove articolate dai convenuti per dimostrare che il R. era a conoscenza della situazione di fatto in cui versava l'immobile de quo; la Corte non aveva motivato circa la mancata ammissione dei capi di prova articolati con la memoria del 21-1-1995 con richiesta ribadita nell'atto di appello e nelle conclusioni definitive.
Per quanto riguardava il risarcimento dei danni, la motivazione non aveva risposto alle precise critiche sollevate con l'atto di appello:
il consulente non aveva tenuto conto delle risultanze delle deposizioni testimoniali, da cui era emerso che il rifacimento della soletta superiore non era stato affatto pregiudicato; i testi avevano evidenziato che i lavori erano proseguiti e non avevano subito ritardi; il consulente aveva adottato dei conteggi astratti senza considerare uomini e mezzi in concreto messi a disposizione dall'attore. La Corte non aveva risposto alle censure sollevate a proposito dell'errato conteggio della superficie del locale, non aveva motivato la mancata ammissione dei mezzi istruttori volti a dimostrare l'esistenza di accordi autonomi fra le parti privi di efficacia transattiva: il che avrebbe comportato l'applicazione dell'art. 1227 cod. civ., atteso che era stato l'attore con il suo comportamento ad impedire la liberazione dell'immobile. Il motivo è infondato.
Occorre premettere che per quanto concerne l'interpretazione della clausola contrattuale con cui i convenuti avevano garantito la disponibilità dell'immobile i ricorrenti, pur lamentando violazioni di legge sostanziale e vizi di motivazioni, denunciano in sostanza non soltanto l'inosservanza dei criteri ermeneutici ma anche l'error in procedendo concernente l'omesso esame delle censure sollevate con l'atto di appello.
Orbene, sotto tale profilo la denuncia è inammissibile non solo perchè con il ricorso sarebbe stata necessario dedurre la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. per omesso esame ma anche perchè, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, i ricorrenti avrebbero dovuto trascrivere il testo dei motivi di appello, in modo da consentire alla Corte di verificarne la specificità.
Per quanto concerne la mancata considerazione del comportamento complessivo delle parti nell'interpretazione della richiamata clausola contrattuale con riferimento alla conoscenza da parte dell'attore della situazione locativa dell'immobile venduto, secondo quanto richiesto di provare con i mezzi istruttori articolati, anche qui va sottolineato il difetto di autosufficienza del ricorso, posto che il ricorrente non ha ottemperato all'onere di trascrivere il testo delle circostanze capitolate in modo da consentire alla Cassazione di verificarne la decisività o meno, mentre del tutto irrilevante è il difetto di motivazione in merito al rigetto di tali istanze, posto che in tema di errores in procedendo il giudice di legittimità, che è anche giudice del fatto, deve verificare l'esistenza del vizio denunciato attraverso l'esame diretto degli atti, indipendentemente dalla motivazione adottata dal giudice di merito.
Per quel che concerne la determinazione del danno, che è stata compiuta con riferimento all'accertato rallentamento dei lavori, anche qui il ricorso difetta di autosufficienza, posto che: i ricorrenti, pur facendo riferimento alle critiche che con i motivi di appello avevano formulato alla consulenza tecnica, non hanno specificamente indicato tali censure in modo da consentire alla Corte di verificarne la rituale proposizione; inoltre, avrebbero dovuto trascrivere il testo delle deposizioni testimoniali di cui il consulente non avrebbe tenuto conto - nella sentenza impugnata si fa riferimento soltanto alla deposizione della teste L. e al suo mancato esame che gli appellanti avrebbero dedotto nei motivi- dimostrando gli errori che il consulente avrebbe compiuto previa trascrizione altresì del testo integrale e non per stralci della stessa consulenza; ancora - si ribadisce - non è riportato integralmente il testo dei mezzi istruttori articolati. Con il secondo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione dell'art. 342 cod. proc. civ., censurano la sentenza laddove aveva dichiarato inammissibile il motivo con cui era stata ritenuta illegittima la tubazione del gas collocata sotto il muro comune sul rilievo che non era stata specificamente contestata la circostanza affermata dal Tribunale secondo cui i convenuti non avevano provato l'impossibilità di installarla altrove: il motivo era sufficientemente specifico, posto che si era dedotta l'inapplicabilità al condominio delle distanze prescritte dall'art. 889 cod. civ. per la prevalenza delle norme relative alle cose comuni, non essendo necessario che tutte la argomentazioni contenute nella sentenza impugnata debbano essere censurate, quando non si tratti di autonome rationes decidendi idonee a sorreggere la decisione. Il che non poteva dirsi a proposito della concreta impossibilità di installare altrove la tubazione, circostanza dalla quale non dipendeva la prevalenza della disciplina sul condominio.
Il motivo infondato.
La sentenza ha implicitamente fatto corretta applicazione del principio secondo cui in materia condominiale le norme relative ai rapporti di vicinato, tra cui quella dell'art. 889 cod. civ., trovano applicazione rispetto alle singole unità immobiliari soltanto in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei singoli proprietari; pertanto, qualora esse siano invocate in un giudizio tra condomini, il giudice di merito è tenuto ad accertare se la loro rigorosa osservanza non sia nel caso irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sè il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali: dunque, la concreta impossibilità di installare altrove la tubazione, conseguente alla peculiarità dell'ubicazione degli appartamenti facenti parte del condominio, costituiva il presupposto necessario per verificare se nella specie potessero trovare o meno applicazione le norme sulle distanze, per cui in mancanza di espressa contestazione della circostanza, affermata dal Tribunale, era da ritenere inammissibile la doglianza che, pur deducendo la prevalenza delle norme sulle cose comuni, non aveva censurato l'argomentazione decisiva per escludere l'inapplicabilità delle distanze prescritte dal citato art. 899 c.c.. Il ricorso va rigettato. Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico dei ricorrenti, risultati soccombenti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Iscriviti a:
Post (Atom)
Address
Studio Legale avv. Santo De Prezzo
Erchie (Brindisi - Italy) via Principe di Napoli, 113
DPR SNT 58E29 L280J - P.I. 00746050749 - phone +39 0831 767493 - mob. +39 347 7619748