martedì 26 agosto 2008

Pubblici Ministeri e Giudici, sì alla separazione di una distinta e diversa carriera

Note, I,aug.,2008


Separazione della carriera dei Pubblici Ministeri dai giudici con dislocazione territoriale e coordinamento centrale per il dibattimento.


Il primo dato di riferimento è che nel disegno della costituzione del 1948 la figura del Pubblico Ministero doveva gestire le funzioni con la cultura della giurisdizione e cioè compiere le attività di indagine ricercando la verità, attraverso sia gli elementi di prova a carico e sia quelli a favore dell’indagato.

Il secondo dato concreto è che oggi, salvo eccezioni, la mentalità dei P.M. esprime essenzialmente la cultura dell’accusa, per cui tende a tralasciare gli elementi di prova a favore dell’indagato in quanto competenza del difensore con la conseguenza che non è infrequente il caso che richieda il rinvio a giudizio anche quando sussistono elementi a discarico di rilevanza tale che potrebbero evitare il processo.

Tale condizione culturale della pubblica accusa è causa di un discredito diffuso ed assai sentito per l’incidenza negativa sui canoni costituzionali della tutela dell’indagato. Condizione culturale di sovra esposizione della pubblica accusa in parte sostenuta dai mass media, per cui è avvertito forte ed imprevedibile il rischio che la semplice apertura dell’indagine, essendo un meccanismo automatico per effetto della obbligatorietà penale, possa esporre l’indagato al linciaggio, appunto, dei mass media.

Il fatto è che tale anomalia è divenuta insopportabile.

A monte, il problema è tutto teorico e cioè se la verità del processo si debba ottenere con un pubblico ministero posto al rango del giudice ovvero dallo scontro dialettico di accusa e difesa di pari grado, innanzi al giudice terzo

Qui, la soluzione è strettamente legata all’impostazione ideologica che prevale nel ordinamento, dacchè l’idea che lo Stato debba sovra intendere anche alle sorti dell’indagato è figlia di un massimalismo giustizialista che va decisamente contrastato e sradicato, dovendosi seguire la via della respressione giudiziaria nel rispetto della tutela effettiva del cittadino.

Se dunque, al di là delle resistenze corporativistiche insite all’interno di alcune frange dei pubblici ministeri per puro interesse di casta, si vuole davvero riequilibrare il rapporto cittadino – stato, nel senso di rendere possibile una azione repressiva efficace pur mantenendo forti le garanzie del cittadino, si deve passare ad un sistema nel quale la carriera del P.M. deve essere nettamente diversa e distinta dalla carriera del giudice giacchè la figura del P.M. deve essere concepita al pari di quella del difensore, in maniera tale che entrambe possano compiere al meglio le azioni di accusa e di difesa, innanzi ad un giudice che deve giudicare sul tema decidendum senza alcun sospetto di poter essere influenzato dalla colleganza.

E qui vi è un problema di modifica costituzionale per evitare ciò che è accaduto al progetto originario del codice Pisapia, il cui originale stampo accusatorio è sostanzialmente mutato di natura per effetto dei ripetuti interventi della corte costituzionale.

L’altro lato della medaglia poggia sulla opportunità che il P.M. quale titolare dell’azione penale e delle indagini di polizia giudiziaria possa svolgere le sue prerogative con efficacia ed incidenza, coordinando le forze di polizia sul territorio e relazionandosi col cittadino latore di istanze di giustizia ed assumendosi le responsabilità del territorio in maniera tale da poter essere sostituito nel caso di inefficacia.

L’argomento dovrebbe essere ovvio, pur tuttavia si assiste ad una organizzazione dell’ufficio del P.M. non confacente a tali esigenze primarie, perché risulta accentrato presso il luogo dell’ufficio giudiziario, senza instaurare alcun legame con i cittadini e con il territorio e senza avere un giusto rapporto con le forze di polizia in campo ma limitandosi a relazionarsi solo con alcuni operatori di p.g. operanti in sezioni istituite ad hoc ed in alcuni casi, addirittura, col divieto di incontrare gli avvocati nel corso della indagine.

Di conseguenza, il cittadino non avverte effettiva la presenza del Procuratore nel territorio e non è raro che le stesse forze di polizia si trovino in difficoltà a coordinarsi tra loro ed a operare all’unisono col titolare dell’azione penale, specialmente per le caserme dell’ultimo paese della provincia e che gli avvocati non riescono evitare le lungaggini di quelle indagini che magari poggiano su un equivoco.

Cosa accadeva prima della riforma del vigente codice di procedura penale Pisapia? Il Pretore, istituto ormai soppresso qualche anno addietro dopo una vigenza di circa 2000 anni, gestiva un mandamento (più o meno due tre paesi) e rappresentava efficacemente lo stato-giustizia presso i cittadini, che richiedevano regolarmente udienza informale, puntualmente concessa, in cui reclamavano le loro istanze di giustizia minore, molte volte esaudite in tempi brevissimi mediante opera pratica dei buoni uffici. Nello stesso tempo, le caserme e le stazioni di polizia del mandamento ricevevano immediate direttive dal Pretore e con questi sviluppavano un rapporto di proficua collaborazione proprio per i poteri d’indagine e di accusa di cui era dotato. Non era raro, che il Pretore partecipasse personalmente alle tradizionali manifestazioni sociali, dando ai cittadini la presenza dello stato nella quotidianità e contribuendo ad instaurare un serio legame tra le istituzioni e la gente del paese, apprezzava il valore della legalità.

Per i non addetti ai lavori, occorre ricordare che i legislatori s’impattarano nel tentativo di superare il vecchio codice di procedura penale rocco, messo a punto nel ventennio, con il modello del codice Pisapia, privilegiando l’esigenza costituzionale di sopprimere i poteri accusatori del Pretore che sino ad allora aveva svolto anche compiti diretti di gestione della polizia giudiziaria sino a concludere l’indagine penale sia nel caso di archiviazione sia nel caso di formulazione della imputazione e conseguente giudizio davanti a sé: il problema sacrosanto di rendere il Pretore un giudice terzo rispetto all’accusa che non poteva essere opera dello stesso Pretore, si affrontò separando i poteri di indagine che vennero attribuiti alla Procura Circondariale.

L’anomalia del Pretore giano bifronte venne risolta, ma si lasciò del tutto scoperto il territorio mandamentale dalla presenza dello stato-giustizia, nel senso che le nuove Procure vennero istituite su base circondariale ed al Pretore restarono i soli poteri del giudicante, senza possibilità di mantenere i contatti diretti col cittadino che doveva rivolgere tutte le sue istanze di giustizia alle forze di polizia.

Qui, ritengo sia stato commesso un grave errore di prospettiva sul piano della presenza dello stato-giustizia sul territorio. Detta anomalia deve essere superata e può essere ripristinata se sul territorio viene distribuita la presenza dell’ufficio del Procuratore che potrà conferire direttamente con i cittadini per dare fiducia e dare le immediate direttive alla polizia giudiziaria sul campo, diventando un responsabile visibile della giustizia del territorio, ovviamente operativamente legato ad un ufficio centrale per la gestione del dibattimento.

D’altronde, eccetto l’attività dibattimentale, non è comprensibile per quali ragioni il Procuratore debba mantenere l’ufficio nel luogo del giudice: non è più opportuno allontanarsi dalla sede del giudice e stabilire l’ufficio nel territorio del quale si assuma le responsabilità in ordine alla tutela del cittadino?

In ogni caso, sono convinto che questa è la via da perseguire.

Dott. Santo De Prezzo

Sindaci, nuovi poteri

Decreto Ministero Interno 05.08.2008, G.U. 09.08.2008, GU n. 186 del 9-8-2008

Il sindaco interviene per prevenire e contrastare:

a) le situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono l'insorgere di fenomeni criminosi, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l'accattonaggio con impiego di minori e disabili e i fenomeni di violenza legati anche all'abuso di alcool;

b) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato o che ne impediscono la fruibilita' e determinano lo scadimento della qualita' urbana;

c) l'incuria, il degrado e l'occupazione abusiva di immobili tali da favorire le situazioni indicate ai punti a) e b);

d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilita' o che alterano il decoro urbano, in particolare quelle di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico;

e) i comportamenti che, come la prostituzione su strada o l'accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalita' con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o pericoloso l'accesso ad essi.

IL MINISTRO DELL'INTERNO

Visto il decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica» convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125;

Visto l'art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come sostituito dall'art. 6 del citato decreto-legge, recante attribuzioni del sindaco nelle funzioni di competenza statale, e, in particolare, il comma 1 che disciplina i compiti del sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica e il comma 4 che prevede il potere del sindaco di adottare provvedimenti anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumita' pubblica e la sicurezza urbana;

Visto il comma 4-bis, del medesimo art. 54 per il quale «con decreto del Ministro dell'interno e' disciplinato l'ambito di applicazione delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4 anche con riferimento alle definizioni relative alla incolumita' pubblica e alla sicurezza urbana»;

Tenuto conto che la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, ad esclusione della polizia amministrativa locale - come sancito all'art. 117, comma 2, lettera h), della Costituzione - e' riservata alla competenza esclusiva dello Stato, al fine di assicurare uniformita' su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali fondamentali;

Sentita la Conferenza Stato-citta' e autonomie locali, di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281;

Decreta:

Art. 1.

Incolumita' pubblica e sicurezza urbana

Ai fini di cui all'art. 54, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come sostituito dall'art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, per incolumita' pubblica si intende l'integrita' fisica della popolazione e per sicurezza urbana un bene pubblico da tutelare attraverso attivita' poste a difesa, nell'ambito delle comunita' locali. del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilita' nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale.

Art. 2.

Interventi del sindaco

Ai sensi di quanto disposto dall'art. 1, il sindaco interviene per prevenire e contrastare:

a) le situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono l'insorgere di fenomeni criminosi, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l'accattonaggio con impiego di minori e disabili e i fenomeni di violenza legati anche all'abuso di alcool;

b) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato o che ne impediscono la fruibilita' e determinano lo scadimento della qualita' urbana;

c) l'incuria, il degrado e l'occupazione abusiva di immobili tali da favorire le situazioni indicate ai punti a) e b);

d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilita' o che alterano il decoro urbano, in particolare quelle di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico;

e) i comportamenti che, come la prostituzione su strada o l'accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalita' con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o pericoloso l'accesso ad essi.

Roma, 5 agosto 2008

Il Ministro: Maroni

martedì 12 agosto 2008

Revoca della sospensione della pena, non applicabile nel caso di sostituzione con pena pecuniaria

CASSAZIONE PENALE SEZ. I, 21 maggio 2008 (6 maggio 2008), n. 20289

Non può essere disposta la revoca della sospensione condizionale una sentenza di condanna a pena detentiva che è stata sostituita con pena pecuniaria, in qaunto l'art. 57, L. n. 689/1981, nel disciplinare gli effetti delle pene sostitutive, mentre prevede che "per ogni effetto giuridico la semidetenzione e la libertà controllata si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita" prevede, all'opposto, che "la pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva".

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

S Chieffi - Presidente

E. G. Gironi - Relatore

LA CORTE

Vista l'ordinanza in epigrafe, che ha rigettato la richiesta del P.M. di revoca, ex art. 168, co. 1, n. 1 cod. pen. , del beneficio della sospensione condizionale della pena applicato a X con sentenza 20.7.1999 Trib. Aosta in conseguenza della condanna di cui a sentenza 16.1.2004 del medesimo tribunale, ritenendo che non possa dar luogo a revoca una sentenza di condanna a pena detentiva sostituita con pena pecuniaria;

visto il ricorso con cui il P.M. denuncia violazione dell'art. 168, co. 1, n. 1 cod. pen. sull'opposto assunto della revocabilità del beneficio anche in forza di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di quella detentiva, dovendosi avere esclusivo riguardo alla pena sostituita, come ritenuto da Cass., sez. IV, ud. 12.4.1995, Currò, in Ced Cass., rv. 201.511;

ritenuta l'infondatezza del ricorso, dovendosi disattendere il precedente invocato dal ricorrente in considerazione del disposto dell'art. 57 L. n. 689/1981, il quale, nel disciplinare gli effetti delle pene sostitutive, mentre prevede che “per ogni effetto giuridico la semidetenzione e la libertà controllata si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita” stabilisce, all'opposto, che "la pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva";

rilevato, invero, che la citata sentenza Currò, trascurando del tutto il chiaro dettato del predetto art. 57, si limita a sostenere che l'opinione qui accolta darebbe luogo al cumulo del beneficio della sostituzione della pena detentiva con quello della permanenza della sospensione condizionale, il che non costituisce ragione pertinente ed idonea ad escludere l'applicazione della previsione normativa sopra richiamata, postulando come assiomatico proprio l'assunto da dimostrare;

considerato che altrettanto inappagante deve ritenersi la motivazione addotta dalla sentenza di questa stessa sezione in data 9.10.2000, Rizzato, che si limita a richiamare il precedente della sentenza Currò, giudicando irrilevanti le successive "vicende esecutive" della pena detentiva, laddove la sostituzione di quest'ultima, in quanto disposta dal giudice della cognizione con la sentenza di condanna, non riguarda affatto la fase dell'esecuzione;

ritenuta, pertanto, l'inapplicabilità dell'art. 168, co. 1, n. 1) cod. pen. in difetto del prescritto requisito della condanna a pena detentiva.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso

Roma, 6 maggio 2008

Danno risarcibile della P.A., onere della prova e presunzione nel caso di illegittimità dell'atto amministrativo

Consiglio di Stato, sez. VI, 17.7.2008 n. 3602

"La colpa, infatti, è una conseguenza altamente probabile della riscontrata illegittimità dell'atto. Di regola, quindi, in base ad un apprezzamento di frequenza statistica, il danneggiato ben può limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto amministrativo annullato, in quanto essa indica la violazione dei parametri che, nella generalità delle ipotesi, specificano la colpa dell'amministrazione. In tali eventualità, allora, spetta all'amministrazione l'onere di fornire seri elementi idonei a superare la presunzione. La mancanza di colpa potrebbe essere affermata, concretamente, in diverse ipotesi, quali, per esempio, l'errore scusabile dell'amministrazione, derivante da fattori particolari correlati, esemplificativamente, alla formulazione incerta delle norme applicate, alle oscillazioni interpretative della giurisprudenza, alla rilevante complessità del fatto, oppure ai comportamenti di altri soggetti.

Nel caso in esame non solo questo onere non è stato assolto (avendo la difesa erariale sostenuto la tesi – ascritta a Cass. S.U. n. 500/99 – secondo cui l’onere della prova incombe interamente sul danneggiato), ma, al contrario, emergono positivi elementi di riscontro della presunzione, evincibili dalle ragioni dell’annullamento del decreto ministeriale causativo dei danni, che hanno natura sostanziale e testimoniano un mancato approfondimento sui presupposti di fatto dell’azione amministrativa, che ha automaticamente confermato la riduzione delle quote di produzione stabilita nell’anno passato".


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N. 3602/08

Reg.Dec.

N. 6879 Reg.Ric.

ANNO 2007

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 6879/2007, proposto dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, dal Ministero dello sviluppo economico, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio in via dei Portoghesi n. 12, Roma;

c o n t r o

C.., in persona dei loro rappresentanti legali, rappresentate e difese dal prof. avv. Salvatore Alberto Romano e dall'avv. Francesco Sette, ed elettivamente domiciliate presso lo studio del primo in Roma, viale XXI Aprile n. 11;

appellante incidentale

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sede di Roma Sez. II ter, n. 4258 del 10 maggio 2007.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati

Visto l’atto di costituzione in giudizio di C..;

Visto l’appello incidentale di C.;

Visti gli atti tutti della causa

Relatore all’udienza del 22 aprile 2008 il Consigliere Francesco Bellomo e uditi per le parti l’avv. dello Stato Palatiello e l’avv. Romano;

Ritenuto quanto segue:

F A T T O

1. Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio C. e

S. domandavano il risarcimento dei danni subiti per effetto dell'applicazione del decreto 27.2.1987 del Ministro delle politiche agricole e forestali di concerto con il Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato.

A fondamento del ricorso deducevano che detto provvedimento, annullato in sede giurisdizionale, aveva loro causato ingenti danni patrimoniali.

Si costituivano in giudizio per resistere al ricorso il Ministero delle politiche agricole e forestali, il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, il Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.

Con sentenza n. 4258 del 10 maggio 2007 il TAR accoglieva per quanto di ragione il ricorso, condannando le Amministrazioni al pagamento di 3.389.369 euro.

2. La sentenza è stata appellata dal Ministero delle politiche agricole e forestali, dal Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che contrastano le argomentazioni del giudice di primo grado.

Si sono costituiti per resistere all’appello C. e S., che propongono, altresì, appello incidentale.

La causa è passata in decisione alla pubblica udienza del 22 aprile 2008.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. P. e S., fanno parte del Gruppo S. e operano nel settore della produzione di zuccheri, collegate tra loro per elementi tecnici, economici e strutturali e responsabili in solido degli obblighi derivanti dalla regolamentazione dell'Unione Europea.

Esse avevano impugnato innanzi al giudice amministrativo il decreto 27.2.1987 del Ministro dell'agricoltura e delle foreste di concerto con il Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, con il quale erano state definite per la campagna 1987/1988 le quote di produzione del G.S.V. suscettibili di contributi all'esportazione. Detto decreto è stato annullato, con sentenza passata in giudicato (CdS sezione VI n. 652 del 10 maggio 1996).

La controversia si inquadra nella regolamentazione comunitaria che assegna agli Stati membri due gruppi (A e B) di quote di produzione, da distribuire all'interno tra le imprese del settore, suscettibili di contributi per finanziare l'esportazione della produzione eccedente il consumo nella Comunità. La produzione in esubero rispetto ai due gruppi suddetti rientra in quota C, è esportabile liberamente nei Paesi terzi e non gode del finanziamento europeo. Ogni Stato membro della Comunità può ridurre le quote già assegnate, per singole imprese, in caso di progetti imprenditoriali di ristrutturazione, nella misura necessaria alla loro realizzazione (art. 25.2 del reg. CEE 1785/81).

Tale potere riduttivo è stato esercitato nei confronti delle società del G.S.V., in amministrazione controllata dal dicembre del 1983 a seguito della dichiarazione di crisi del settore saccarifero adottata nel giugno di quell'anno dal Comitato interministeriale per la produzione industriale. Con D.M. 4.11.1983 il Ministero dell'agricoltura e delle foreste riduceva per la campagna 1984/1985 la quota di produzione A di competenza del G.S.V. a 2.974.936 quintali, rispetto ai 4.144.899 quintali già assegnati con D.M. 30.11.1981. Ulteriore riduzione a q. 2.561.899 era disposta per la successiva campagna 1985/1986 (D.M. 9.1.1985).

A seguito del piano di risanamento del settore bieticolo saccarifero e del consequenziale piano d'intervento per le società del G.S.V., approvati dal Comitato interministeriale per la programmazione economica rispettivamente con delibera 7.4.1984 e delibera 13.2.1986, è stata effettuata la cessione degli stabilimenti del Nord Italia alla neocostituita ISI Agroindustriale s.p.a. .

Pertanto il Ministero dell'agricoltura e delle foreste ha operato una ridistribuzione delle quote di produzione, assegnando al G.S.V. 652.200 q. di quota A e 97.800 q. di quota B per la campagna 1986/1987 (D.M. 11.8.1986). La stessa riduzione è stata confermata per le campagne 1987/1988, 1988/1989 e 1989/1990, rispettivamente con D.M. 27.2.1987, D.M. 30.6.1988 e D.M. 28.2.1989.

Il D.M. 27.2.1987 è stato ritenuto illegittimo e annullato – oltre che per tardività della pubblicazione o alla comunicazione individuale – per difetto di motivazione in ordine alla conferma per la campagna 1987/1988 delle quote ridotte come definite per la campagna di produzione saccarifera precedente, e conseguente vizio di proporzionalità nella distribuzione delle quote tra le diverse società del settore.

Su tali basi la sentenza appellata ha riconosciuto la risarcibilità:

a) del danno emergente per la mancata contribuzione per i quantitativi non assegnati in quota A e B;

b) del lucro cessante per minor ricavo da ridotta quota di produzione e maggiore eccedenza riportabile in quota C (non assistita da contribuzione europea e, quindi, caratterizzata da aggravio di costi e minori ricavi nella vendita).

Appellano le Amministrazioni condannate al risarcimento del danno deducendo:

1) difetto di giurisdizione del giudice amministrativo;

2) difetto dell’elemento soggettivo della responsabilità civile dell’amministrazione;

3) carenza di legittimazione passiva del Ministero dell’Economia;

4) mancata prova ed erronea quantificazione del danno.

Hanno proposto appello incidentale le società appellate, domandando il riconoscimento di interessi e rivalutazione monetaria sulle somme spettanti a titolo risarcitorio.

2. Il Collegio procede all’esame delle censure proposto nell’appello principale secondo l’ordine indicato.

2.1 Il difetto di giurisdizione è argomentato sul presupposto che, una volta riconosciuta l’illegittimità del provvedimento di riduzione delle quote di produzione, la posizione delle imprese appellate ha natura di diritto soggettivo, appartenendo la controversia alla fase di erogazione di contributi per cui esiste un diritto di credito perfetto.

La tesi è priva di pregio.

Il risarcimento del danno è stato disposto dal TAR quale forma equivalente di tutela patrimoniale avverso un illecito della pubblica amministrazione posto in essere nell’esercizio di poteri autoritativi, i cui effetti, cioè, sono riconducibili alla sequenza logica norma - potere - effetto.

In ipotesi siffatte l’originaria posizione del destinatario dell’atto è di interesse legittimo, sicché le controversie in materia spettano alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, al quale compete altresì, ai sensi dell’art. 7, comma 3 L. 1034/71 (“Il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”), disporre, ove necessario, la condanna al risarcimento dei danni.

La giurisdizione si radica sulla situazione soggettiva vantata dall’interessato nel momento in cui l’amministrazione agisce, restando irrilevante l’eventuale riqualificazione che detta posizione possa ricevere a seguito dell’intervenuto annullamento giurisdizionale, ovvero la circostanza che l’azione di risarcimento danni abbia natura di diritto soggettivo, come da tempo ha chiarito la giurisprudenza amministrativa, anche sulla scia delle pronunce delle Corte Costituzionale (n. 204/04 e 161/06), e alfine condiviso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 13656/06). I due ordini sono oggi concordi nel ritenere che anche l’azione autonoma di risarcimento del danno spetti al giudice amministrativo.

Nel caso in esame le appellate non hanno agito per l’adempimento di un loro diritto all’erogazione del contributo finanziario, ma per l’annullamento dell’atto amministrativo che disciplinava il contributo. Dunque la controversia non attiene affatto all’esecuzione di un’obbligazione pubblica, sebbene ai presupposti della medesima rimessi dalla legge al potere amministrativo, e l’azione risarcitoria rappresenta qui una tutela complementare all’annullamento.

2.2 Le appellanti lamentano il mancato accertamento della colpa dell’amministrazione. Il Collegio osserva che, in effetti, il TAR non ha svolto espresse argomentazioni sul punto, ma ciò porta semplicemente a correggere l’anzidetta motivazione, atteso che l’imputabilità dell’illecito all’amministrazione sussiste alla luce dei principi tracciati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (da ultimo, diffusamente, v. sezione V n. 1307/07), secondo cui che la accertata illegittimità dell'atto ritenuto lesivo dell'interesse del ricorrente rappresenta, nella normalità dei casi, l'indice (grave, preciso e concordante) della colpa dell'amministrazione.

La colpa, infatti, è una conseguenza altamente probabile della riscontrata illegittimità dell'atto. Di regola, quindi, in base ad un apprezzamento di frequenza statistica, il danneggiato ben può limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto amministrativo annullato, in quanto essa indica la violazione dei parametri che, nella generalità delle ipotesi, specificano la colpa dell'amministrazione. In tali eventualità, allora, spetta all'amministrazione l'onere di fornire seri elementi idonei a superare la presunzione. La mancanza di colpa potrebbe essere affermata, concretamente, in diverse ipotesi, quali, per esempio, l'errore scusabile dell'amministrazione, derivante da fattori particolari correlati, esemplificativamente, alla formulazione incerta delle norme applicate, alle oscillazioni interpretative della giurisprudenza, alla rilevante complessità del fatto, oppure ai comportamenti di altri soggetti.

Nel caso in esame non solo questo onere non è stato assolto (avendo la difesa erariale sostenuto la tesi – ascritta a Cass. S.U. n. 500/99 – secondo cui l’onere della prova incombe interamente sul danneggiato), ma, al contrario, emergono positivi elementi di riscontro della presunzione, evincibili dalle ragioni dell’annullamento del decreto ministeriale causativo dei danni, che hanno natura sostanziale e testimoniano un mancato approfondimento sui presupposti di fatto dell’azione amministrativa, che ha automaticamente confermato la riduzione delle quote di produzione stabilita nell’anno passato.

2.3 Sussiste la lamentata carenza di legittimazione passiva del Ministero delle finanze, che non è parte del rapporto obbligatorio nascente dall’illecito – non essendo né autore del medesimo, né soggetto tenuto al pagamento del risarcimento verso le interessate – e, quindi, andava estromesso dal giudizio.

2.4 L’erroneità della quantificazione dei danni viene argomentata in primo luogo dall’assenza di elementi probatori e, in secondo luogo, dalla circostanza che le appellate, a seguito del provvedimento ministeriale che precludeva le vendite in quota A e B, hanno incrementato le loro vendite in quota C, aumentando le esportazioni verso paesi extracomunitari.

Le doglianze sono fondate nei sensi di seguito precisati.

Il TAR ha proceduto alla liquidazione del danno emergente e del lucro cessante sulla base degli elementi indicati dalle appellanti. In particolare il lucro cessante è stato individuato in un danno per minori ricavi da ridotta quota stimato in £. 4.155.680.746 e un danno per maggior riporto in quota C in £. 1.621.762.887 (considerando che per la campagna successiva con le ridotte assegnazioni di quote A e B le società hanno riportato in quota C 152.407 quintali di zucchero in eccedenza rispetto al riporto calcolabile sull'assegnazione intera, con un minore ricavo di £. 10.641 al quintale).

Tale operazione appare sorretta da una acritica adesione alle prospettazioni dell’interessata – fondate su un ragionamento altamente presuntivo – , senza procedere ad un opportuno vaglio delle condizioni del mercato e delle scelte di politica aziendale che l’illecito ha determinato.

In particolare la circostanza che le imprese abbiano aumentato la loro esportazione nei paesi extracomunitari, pur non essendo direttamente imputabile all’illecito (il che esclude l’applicazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno), ha diminuito il danno obiettivamente patito, e di ciò si deve tener conto anche alla luce dell’art. 1227, comma 2 c.c. (che, nell’escludere dal risarcimento i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, impone di non liquidare i danni che il creditore ha comunque evitato con un comportamento accorto, rientrante nella diligenza media professionale).

La minor somma da liquidare in forza delle indicate ragioni si stima equitativamente in euro 800.000, da cui discende la riduzione del risarcimento a 2.589.369 euro.

3. Può passarsi all’esame dell’appello incidentale, che risulta tardivo. Trattasi, infatti, di appello incidentale improprio (tale è quello rivolto avverso capi della sentenza autonomi da quelli impugnati con l’appello principale ovvero volto a far valere un autonomo interesse), cui si applica il termine previsto per l’appello principale (cfr. sez. IV n. 5474/05; sez. VI n. 1736/07 sez. IV n. 2299/08), di sessanta giorni dalla notifica della sentenza o un anno dalla sua pubblicazione.

Nel caso in esame la sentenza è stata notificata dalle parti appellate il 4 giugno 2007, mentre l’appello incidentale è stato notificato il 9 ottobre 2007, cioè ben oltre il termine di 60 giorni, pur tenendo conto del periodo di sospensione feriale.

Va ricordato che la notifica della sentenza effettuata dalla parte parzialmente soccombente (qui sul capo relativo agli accessori monetari, non liquidati dal TAR) è idonea a far decorrere il predetto termine, atteso che la notificazione della sentenza fa decorrere il termine breve per l’impugnazione non solo per la parte che la riceve, ma anche per quella che la effettua, in applicazione dell’art. 326 Cpc (giurisprudenza consolidata, v. da ultimo CdS sez. V 3671/05).

3. In conclusione l’appello principale deve essere in parte accolto e, in riforma della sentenza appellata, il Ministero dell’economia e delle finanze va estromesso dal giudizio, il Ministero delle politiche agricole e forestali e il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, sono condannati al pagamento di 2.589.369 euro a titolo di risarcimento danni. L’appello incidentale è irricevibile. L’esito complessivo del giudizio suggerisce la compensazione per metà delle spese del doppio grado, e per metà a carico delle soccombenti, da liquidarsi come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie in parte l’appello principale e, in riforma della sentenza appellata, condanna solidalmente il Ministero delle politiche agricole e forestali e il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato al pagamento di 2.589.369 euro a titolo di risarcimento danni nei confronti C. P. I. e S... Dichiara irricevibile l’appello incidentale.

Spese del doppio grado di giudizio per metà compensate e per metà a carico delle Amministrazioni, per l’importo di euro 5000.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio del 22 aprile 2008, con l'intervento dei sigg.ri:

Giuseppe Barbagallo Presidente

Luciano Barra Caracciolo Consigliere

Aldo Scola Consigliere

Francesco Bellomo Consigliere Est.

Manfredo Atzeni Consigliere

Presidente

GIUSEPPE BARBAGALLO

Consigliere Segretario

FRANCESCO BELLOMO VITTORIO ZOFFOLI

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 17/07/2008

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