Corte Costituzionale
Sentenza 5 novembre 2012, n. 251
La
disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze
attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza, come è stato già rilevato
da questa Corte con riferimento ad altra fattispecie, «una deroga
rispetto a un principio generale che governa la complessa attività
commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di
determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo
un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma,
Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo
dell’applicazione delle circostanze» (sentenza n. 183 del 2011); nel
caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della
recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 73, comma 5, del
d.P.R. n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe
avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore
per il fatto di “lieve entità”.
L’incidenza
della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, cod. pen.
sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal
quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che viene
annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «una pena
palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come
ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012).
Questa
conclusione non può essere confutata dal rilievo dell’Avvocatura dello
Stato secondo cui la previsione di trattamenti sanzionatori più severi
per i recidivi reiterati non potrebbe condurre a un trattamento
sanzionatorio di per sé sproporzionato. Invero, la legittimità, in via
generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per «un
soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo
ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in
chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema
sanzionatorio penale» (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo
scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni, e questo
scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente
sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto
della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato
dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Perciò
deve concludersi che la norma censurata è in contrasto anche con la
finalità rieducativa della pena, che implica «un costante “principio di
proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e
offesa, dall’altra» (sentenza n. 341 del 1994).
Corte Costituzionale
Sentenza 5 novembre 2012, n. 251
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di S.M. con ordinanza del 24 ottobre 2011, iscritta al n. 61 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 19 settembre 2012 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 24 ottobre 2011 (r.o. n. 61 del 2012), il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma, e 27, secondo (recte: terzo) comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
Il giudice rimettente riferisce di procedere, nell’ambito di un giudizio abbreviato successivo all’instaurazione di un giudizio direttissimo, nei confronti di una persona accusata del reato previsto dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, per avere illegalmente detenuto e ceduto 0,40 grammi di cocaina. All’imputato è contestata la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, avendo subìto quattro condanne per fatti commessi dall’ottobre del 2006 al febbraio del 2010, relativi a vari episodi di cessione illecita di sostanze stupefacenti.
Ricostruiti i fatti che avevano condotto all’arresto dell’imputato e ricordato che questi ha ammesso l’addebito, il Tribunale di Torino sostiene che l’episodio per il quale si procede è attenuato a norma del quinto comma del citato art. 73: elementi conferenti in tal senso sono indicati nel quantitativo della sostanza stupefacente di cui all’imputazione, nel prezzo di vendita irrisorio, nelle modalità della vendita stessa, nelle caratteristiche dell’acquirente, persona non «vulnerabile», e in quelle dell’imputato, che si trova in condizioni di vita sicuramente difficili e ha lealmente ammesso l’addebito.
Il rimettente richiama la giurisprudenza costituzionale (in particolare, la sentenza n. 192 del 2007), che ha prospettato un’interpretazione della disciplina della recidiva, così come modificata dalla legge n. 251 del 2005, secondo cui l’art. 99, quarto comma, cod. pen. prevede un’ipotesi di recidiva facoltativa, che il giudice può sia escludere, sia invece riconoscere, qualora il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.
Questa interpretazione è stata condivisa dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sezioni unite, 27 maggio 2010, n. 35738) e, secondo il giudice a quo, «ha aperto la strada a una ridda di decisioni di merito assai diverse su casi sostanzialmente analoghi», registrandosi in alcuni casi «veri e propri “equilibrismi dialettici” per motivare l’esclusione della recidiva – in situazioni che ragionevolmente non l’avrebbero consentito – pur di evitare l’assurdo dell’inflizione di sei anni di reclusione in ipotesi di cessione di una singola dose di sostanza stupefacente» e, in altri casi, invece condanne a tale pena «senza chiedersi se ciò fosse rispettoso dei principi di proporzionalità e personalità della pena».
Nonostante l’orientamento indicato, ad avviso del rimettente il problema resta ancora aperto in quanto «il riconoscere o escludere la recidiva reiterata facoltativa è operazione valutativa radicalmente diversa dal “bilanciare” quella recidiva con concorrenti circostanze attenuanti», esistendo «situazioni in cui, giudicando con onestà intellettuale, la recidiva non può essere esclusa, e tuttavia viene sentito come ingiusto negare la prevalenza di determinate attenuanti».
Il rilievo sarebbe tanto più evidente nella disciplina penale del traffico di stupefacenti, dove le disposizioni di cui al primo e al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 «rispecchiano due situazioni enormemente diverse dal punto di vista criminologico», in quanto «al comma 1 è prevista la condotta del grande trafficante, che dispone di significative risorse economiche e muove quantitativi rilevanti di sostanze stupefacenti senza mai esporsi in luoghi pubblici», laddove al comma 5 è contemplata «la condotta del piccolo spacciatore, per lo più straniero e disoccupato, che si procura qualcosa per vivere svolgendo “sulla strada” la più rischiosa attività di vendita al minuto delle sostanze stupefacenti». Sulla base di queste differenze, il legislatore ha sanzionato la seconda condotta «con una pena detentiva che, nel minimo edittale, è pari ad appena un sesto della pena prevista per la prima»; e secondo il Tribunale di Torino l’assetto normativo per il quale «una circostanza attenuante riduce la pena edittale minima da sei a un anno di reclusione, costituisce un unicum nel nostro sistema penale»; perciò la questione di legittimità costituzionale è stata proposta con «specifica limitazione» al rapporto tra l’art. 69, comma quarto, cod. pen. e la disposizione del quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
In alcuni casi (ad esempio nei delitti di lesioni, di furto, di truffa e di rapina) «la legge prevede la pena per le ipotesi meno gravi (e più frequenti nella prassi) e aggiunge una serie di circostanze aggravanti per le ipotesi di maggiore allarme sociale», mentre in altri (come nell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990) «la legge fissa la pena base per le ipotesi più gravi e prevede poi circostanze attenuanti per adeguare la sanzione ai casi più lievi e frequenti». In questi ultimi casi, «il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata produce conseguenze sanzionatorie devastanti, perché finisce con l’equiparare quoad poenam casi oggettivamente lievi a casi di particolare allarme sociale»: così, «mentre l’autore di furti, per quanti furti commetta, subirà, in caso di riconosciute attenuanti equivalenti, una pena edittale minima sempre pari a sei mesi di reclusione, il piccolo spacciatore recidivo reiterato – ove non venga in concreto esclusa la recidiva – vedrà la pena detentiva edittale minima “schizzare” da uno a sei anni di reclusione».
Escludere discrezionalmente la recidiva non sarebbe sempre possibile e in particolare non lo sarebbe nel giudizio a quo, posto che, secondo l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale, confermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza comune, per farlo occorre valutare «la natura e il tempo di commissione dei precedenti». È da considerare, infatti, che nel caso in esame le condanne già riportate dall’imputato attengono a quattro violazioni della disciplina degli stupefacenti, commesse in un arco temporale compreso tra il 2006 e il 2010, sicché natura e tempo di commissione dei reati indicherebbero che il reato sub iudice è «espressione della medesima “devianza” già denotata in occasione dei precedenti reati, ed è perciò sicura manifestazione di maggior colpevolezza e pericolosità dell’imputato». Pertanto non sarebbe possibile escludere la recidiva reiterata, laddove il reato commesso dall’imputato resterebbe una modesta violazione sussumibile nel quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e non sarebbe conforme ai principi costituzionali che «il riconoscimento della recidiva reiterata imponga al giudice di trascurare integralmente questo dato di realtà».
In particolare, la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza perché «conduce, in determinati casi, ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale enormemente diverso». Il recidivo reiterato implicato nel grande traffico di stupefacenti (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990) al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche verrebbe punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di uno «spaccio di strada» di minime quantità al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e quella prevista dal quinto comma dell’art. 73: «l’enorme differenza oggettiva, naturalistica, criminologica delle due condotte viene completamente obliterata in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore».
Sussisterebbe, inoltre, la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., che, con il suo espresso richiamo al «fatto commesso», riconosce rilievo fondamentale all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatologica di pericolosità sociale; la costituzionalizzazione del principio di offensività implicherebbe «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo».
Verrebbe in rilievo, infine, attraverso l’art. 27, secondo (recte: terzo) comma, Cost., il principio di proporzionalità della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa), perché «una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice: essa gli apparirà solo come brutale e irragionevole vendetta dello stato, suscitatrice di ulteriori istinti antisociali». Ad avviso del rimettente, sarebbe un dato autoevidente che l’inflizione di sei anni di reclusione per la cessione di una singola modesta dose di sostanza stupefacente, chiunque ne sia l’autore, non possa essere considerata una risposta sanzionatoria proporzionata. Osserva ancora il giudice a quo che la pena edittale minima per il piccolo spaccio del recidivo reiterato è più grave di quella prevista, ad esempio, per la partecipazione ad associazioni terroristiche o mafiose (artt. 270-bis e 416-bis cod. pen.), per la concussione (art. 317 cod. pen.), per le lesioni dolose con pericolo di vita della vittima (art. 583, primo comma, cod. pen.), per la rapina aggravata e l’estorsione (artt. 628 e 629 cod. pen.), per la violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.) e per l’introduzione illegale di armi da guerra nel territorio dello Stato (art. 1, legge 2 ottobre 1967, n. 895).
Il giudice rimettente chiede, dunque, una declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata. Aggiunge che la questione è incentrata solo sulla circostanza attenuante indicata, «senza carattere di generalità», perché in altre situazioni parzialmente analoghe (ad esempio, le circostanze attenuanti previste dall’art. 648, comma 2, cod. pen. e dall’ultimo comma dell’art. 609-bis cod. pen.), «i risultati sanzionatori che attualmente si producono sono assai meno stridenti con il principio di proporzionalità, ovvero possono trovare giustificazione in altri valori costituzionalmente protetti» (quale la libertà sessuale, nel secondo dei due esempi indicati).
2.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.
Secondo l’Avvocatura il Tribunale di Torino non chiarirebbe perché la doverosa considerazione della natura oggettiva del fatto «non consenta, nei casi di particolare levità, di non applicare (…) la recidiva», lasciando così al giudice la possibilità di riconoscere le circostanze attenuanti. Né potrebbe obiettarsi che la connotazione come lieve del fatto verrebbe in rilievo due volte (al fine di escludere la recidiva e di applicare la circostanza attenuante), in quanto la giurisprudenza relativa all’applicazione dei criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen. ritiene pacificamente che nulla ne impedisca la doppia valutazione. Nel caso di specie, la valutazione ai fini della recidiva reiterata sarebbe palesemente diversa da quella relativa ad una circostanza attenuante, sicché il giudice potrebbe tenere conto della natura del fatto per escludere la prima e, nel momento successivo, riconoscere o meno la seconda. La questione sarebbe, pertanto, insufficientemente motivata in punto di rilevanza.
L’Avvocatura generale dello Stato ritiene comunque la questione non fondata. Con la riforma dell’art. 69 cod. pen. introdotta dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, si sarebbe gravato il giudice di un potere discrezionale estremamente lato, con il pericolo di provocare disparità e incertezze in sede applicativa. La dilatazione del giudizio di bilanciamento conseguente alla riforma del 1974 avrebbe in seguito indotto più volte il legislatore a circoscriverlo o ad escluderlo per talune circostanze e in tale contesto si inserirebbe la modifica dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., la cui ratio è chiaramente volta ad «inasprire il regime sanzionatorio di coloro che versano nella situazione di recidiva reiterata, impedendo che tale importante circostanza sia sottratta alla commisurazione della pena in concreto»: si tratterebbe di una «scelta discrezionale del legislatore immune dalle censure denunciate dal giudice remittente».
La norma censurata non sarebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto tenderebbe ad attuare «una forma di prevenzione generale della recidiva reiterata, inasprendone il regime sanzionatorio». Essa, inoltre, non comporterebbe un’applicazione sproporzionata della pena, perché sanziona coloro che hanno commesso un altro reato essendo già recidivi, così dimostrando un alto e persistente grado di antisocialità. Osserva inoltre l’Avvocatura generale dello Stato che già in relazione ad altre ipotesi, quali la circostanza aggravante di cui all’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 (Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 6 febbraio 1980, n. 15, e l’art. 280, commi 2 e 4, cod. pen., il legislatore ha escluso espressamente il bilanciamento sulla base di una disciplina ritenuta costituzionalmente legittima (sentenze n. 38 e n. 194 del 1985).
Inoltre, non si potrebbe ragionevolmente ritenere che la previsione di trattamenti sanzionatori più rigorosi per i recidivi reiterati possa determinare l’applicazione di una pena di per sé sproporzionata, e ciò sarebbe sufficiente per escludere anche qualsiasi conflitto con la funzione rieducativa della pena. La commisurazione della pena, sottolinea l’Avvocatura generale dello Stato, è «demandata al giudice alla stregua dei principi fissati dal legislatore», che, nel caso di specie, avrebbe inteso sanzionare il fenomeno della recidiva reiterata in sé, a prescindere dalla gravità dei fatti commessi, dai loro tempi e modi e dalle sanzioni irrogate, in quanto «il fatto stesso della persistenza nelle condotte antisociali, quali che esse siano, dimostra che la funzione rieducativa non ha potuto efficacemente esplicarsi nei confronti del soggetto, e quindi è necessario assicurare la possibilità (quantomeno escludendo la prevalenza delle attenuanti) che, attraverso l’applicazione della pena, tale funzione trovi una nuova occasione di svolgimento».
La giurisprudenza costituzionale, osserva ancora l’Avvocatura dello Stato, ha chiarito come, salvo che per i reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., la recidiva conservi il carattere discrezionale o facoltativo, così restando integro il potere del giudice di escludere l’applicazione della circostanza qualora ritenga che la ricaduta nel reato non sia «indice di insensibilità etico/sociale del colpevole». Anche nelle ipotesi di recidiva reiterata, il giudice di merito sarebbe tuttora in grado, motivando adeguatamente la decisione, di commisurare il trattamento sanzionatorio alla effettiva gravità del fatto e alla reale necessità di rieducazione mostrata dal colpevole.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma, e 27, secondo (recte: terzo) comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
La norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), perché, in determinati casi, condurrebbe «ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale enormemente diverso»: il recidivo reiterato implicato nel grande traffico di stupefacenti (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990) al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche è punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di uno «spaccio di strada» di minime quantità, al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e la circostanza prevista dal quinto comma dell’art. 73, con la conseguenza che «l’enorme differenza oggettiva, naturalistica, criminologica delle due condotte viene completamente obliterata in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore».
Inoltre, la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di offensività (art. 25, secondo comma, Cost.), che, con il suo espresso richiamo al «fatto commesso», riconoscerebbe rilievo fondamentale all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatologica di pericolosità sociale, implicando pertanto «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo».
Infine, la norma censurata violerebbe «il principio di proporzionalità della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa)» (art. 27, terzo comma, Cost.), «perché una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice»: la condanna a sei anni di reclusione per la cessione di una singola e modesta dose di sostanza stupefacente non potrebbe essere considerata, chiunque ne sia l’autore, una risposta sanzionatoria proporzionata.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione, rilevando che «il giudice a quo non chiarisce perché la doverosa (…) considerazione della natura oggettiva del fatto non consenta, nei casi di particolare levità, di non applicare, appunto, la recidiva; in tal modo lasciando al giudice la possibilità di riconoscere le attenuanti». Nulla infatti, secondo l’Avvocatura, «impedisce al giudice di tenere conto della natura del fatto al fine di escludere l’aggravante e, nel momento successivo, così ricondotto il fatto alla figura base, considerare nuovamente quella natura al fine di riconoscere o meno l’attenuante». Ciò posto, la questione sarebbe «insufficientemente motivata in punto di rilevanza».
L’eccezione non è fondata.
Il giudice rimettente ha spiegato che «la possibilità di escludere discrezionalmente la recidiva (…) non è praticabile nel presente processo» perché le condanne già riportate dall’imputato sono tutte relative alla disciplina degli stupefacenti e sono state pronunciate in un arco di tempo che va dal 2006 fino al 2010. Secondo quel giudice, è chiaro che il reato per cui sta procedendo «è espressione della medesima “devianza” già denotata in occasione dei precedenti reati, ed è perciò sicura manifestazione di maggior colpevolezza e pericolosità dell’imputato».
Considerata questa motivazione, non si può ritenere, come pretende l’Avvocatura, che il giudice, ai fini dell’esclusione della recidiva, abbia negato la possibilità di tenere conto anche della «levità del fatto». È vero invece che, impregiudicato questo aspetto, il tribunale rimettente ha spiegato perché, nell’esercizio del proprio potere discrezionale, ha ritenuto di non poter escludere la recidiva e di dover quindi procedere al giudizio di bilanciamento, e a siffatta conclusione il tribunale è pervenuto in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il giudice è tenuto ad applicare la recidiva, quando, considerando la natura e il tempo di commissione dei precedenti, ritiene «il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo (…) sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 257 del 2008, n. 193 del 2008, n. 90 del 2008, n. 33 del 2008 e n. 409 del 2007).
Perciò, sia in punto di diritto, sia sotto il profilo della rilevanza, l’eccezione di inammissibilità risulta priva di fondamento.
3.– Nel merito la questione è fondata.
4.– L’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen., sul giudizio di bilanciamento delle circostanze, stabilendo, tra l’altro, un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., e il giudice a quo prospetta l’illegittimità costituzionale di tale norma «nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata», con la precisazione che «la questione si appunta sulla sola circostanza attenuante specificamente indicata, senza carattere di generalità», perché in altri casi il divieto può trovare giustificazione.
Per effetto della norma impugnata, ove secondo la valutazione del giudice debba essere applicata la recidiva reiterata, le violazioni «di lieve entità» della disciplina degli stupefacenti, per le quali l’art. 73, comma 5, prevede la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000, devono essere invece punite con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.
Nell’attuale formulazione, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole. L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base, come nel caso regolato dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
È rispetto a questo tipo di circostanze che il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della «finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico» (art. 1, decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante «Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, nella legge 6 febbraio 1980, n. 15) e, in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata.
Come è stato sottolineato da questa Corte, il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di «valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono» (sentenza n. 38 del 1985). Deroghe al bilanciamento però sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili da questa Corte «soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale; alterazione che, come si vedrà, emerge per più aspetti nella situazione normativa in questione.
5.– La manifesta irragionevolezza delle conseguenze sul piano sanzionatorio del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata è resa evidente dall’enorme divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per il reato circostanziato e per la fattispecie base prevista dal primo comma della disposizione citata e dagli effetti determinati dal convergere della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dallo stesso art. 73: nel caso di recidiva reiterata equivalente all’attenuante, il massimo edittale previsto dal quinto comma per il fatto di “lieve entità” (sei anni di reclusione) diventa il minimo della pena da irrogare; ciò significa che il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di “lieve entità” (un anno di reclusione) viene moltiplicato per sei nei confronti del recidivo reiterato, che subisce così di fatto un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata, che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.
In altre parole, ove si potessero applicare i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. prima della modificazione operata dall’art. 6 del d.l. n. 99 del 1974, la pena da irrogare in un caso come quello in esame sarebbe, a seconda del tipo di recidiva, di un anno e sei mesi o di un anno e otto mesi, cioè di un anno per il reato attenuato previsto dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, aumentato, a seconda dei casi, di sei mesi o di otto mesi per la recidiva, mentre il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, determina un aumento di cinque anni.
Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali del primo e del quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 rispecchiano, d’altra parte, le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio decisamente più mite assicurato al fatto di “lieve entità”, la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di «minima offensività penale» (Cass. pen., sezioni unite, 24 giugno 2010, n. 35737), esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato. Due fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e ciò «determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale» (sentenza n. 249 del 2010).
La recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità.
È da aggiungere che, come ha rilevato il rimettente, la norma censurata dà luogo anche a una violazione del principio di uguaglianza perché il recidivo reiterato, cui siano riconosciute le attenuanti generiche, autore di un fatto “non lieve” da punire con il minimo edittale della pena stabilita dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, riceve lo stesso trattamento sanzionatorio – quest’ultimo irragionevolmente più severo – spettante al recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di “lieve entità”. Del resto, che si tratti di fatti sostanzialmente diversi, e quindi tali da non poter essere assoggettati alla stessa pena, emerge anche dalla considerazione che, come hanno ritenuto le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 23 giugno 2011, n. 34475), l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti «costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell’art. 73», che forma oggetto della previsione dell’art. 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990, costituisce un reato diverso da quello oggetto del primo comma dello stesso articolo 74, relativo a un reato associativo analogo ma punito assai più gravemente perché concerne fatti di non “lieve entità”.
6.– È fondata anche la censura formulata dal giudice a quo in relazione al principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).
La disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza, come è stato già rilevato da questa Corte con riferimento ad altra fattispecie, «una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze» (sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di “lieve entità”.
L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012).
Questa conclusione non può essere confutata dal rilievo dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la previsione di trattamenti sanzionatori più severi per i recidivi reiterati non potrebbe condurre a un trattamento sanzionatorio di per sé sproporzionato. Invero, la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per «un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale» (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni, e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (sentenza n. 341 del 1994).
7.– Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 novembre 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI