Tribunale di Roma Sezione XII Civile MILANO 15 dicembre 2010
"E’ noto che la nuova normativa sopra citata ha fortemente innovato rispetto a quanto disposto dall’art. 22 legge n. 990\69 rafforzando i rispettivi oneri di correttezza e buona fede da parte sia del danneggiato sia dell’ente assicuratore la responsabilità civile obbligatoria auto procedimentalizzando la fase del contatto stragiudiziale in vista dell’auspicato raggiungimento di un accordo tra le parti che eviti il ricorso all’autorità giudiziaria. L’art. 148 cod. assicurazioni richiede al danneggiato di fornire all’assicuratore tutta una serie di dati e di informazioni a pena di “improponibilità” della domanda giudiziale. Improponibilità posta a presidio della migliore e corretta gestione da parte degli enti assicuratori della gran massa di sinistri ma funzionale anche al raggiungimento dell’interesse pubblico a che non vengano instaurati processi civili che le parti, comportandosi con lealtà e correttezza nella fase stragiudiziale, ben potrebbero evitare; ed il contrappeso alla improponibilità sta nella possibilità per il giudice di inviare copia della sentenza all’ISVAP nel caso in cui ravvisi che l’assicuratore nella fase stragiudiziale abbia tenuto un comportamento meramente dilatorio\ostruzionistico (comma decimo dell’art. 148)."
Tribunale di Roma
Sezione XII Civile
Sentenza 15 luglio 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI ROMA
SEZIONE 12 CIVILE
in composizione monocratica nella persona del Giudice dott. Francesco Ranieri,
ha emesso la presente
SENTENZA
nella causa civile di primo grado iscritta al n. 13486\08 del r.g.a.c. vertente
TRA
C. G.
rapprs. e difeso dall’Avvocato Gianluca Sposato
presso il studio elettivamente domicilia in Roma
ricorrente
E
F. G.
resistente contumace
E
soc. ASSITALIA assicurazioni quale impresa designata per il Fondo Garanzia Vittime della Strada
rapprs. e difesa dall’Avvocata Simonetta de Julio
presso il cui studio elettivamente domicilia in Roma
resistente
OGGETTO: responsabilità civile
visti gli artt. 429 e 430 c.p.c.
uditi i procuratori delle parti ed all’esito della discussione tenutasi all’udienza del 15.7.2010 ha dato lettura in data odierna del dispositivo e della motivazione della seguente sentenza previo ritiro in Camera di Consiglio
PROCESSO
Con ricorso rito lavoro depositato nel 2008 – con prima udienza tenutasi nel giugno – c. G. chiedeva il risarcimento dei danni non patrimoniali e patrimoniali derivati dal sinistro stradale avvenuto il 31.3.2007. Allegava in particolare che mentre in ora pomeridiana percorreva strada statale conducendo la propria moto era venuto in collisione con altra moto condotta dal F. e che provenendo dal senso opposto di marcia aveva in corso manovra di sorpasso nonostante la doppia striscia di mezzeria invadendo la sua semicarreggiata. Detta moto aveva proseguito la marcia collidendo anche con altra moto e con altre auto finendo poi per incendiarsi. Erano intervenuti i C.C. Aveva riportato gravi ferite con postumi permanenti del 20%; aveva anche perso il lavoro dopo i sei mesi di comporto essendo stato licenziato, e previa decurtazione di euro 100 al mese sullo stipendio usualmente percepito. La moto antagonista era risultata priva di assicurazione per la r.c.a. e la soc. Assitalia quale impresa designata per il FGVS nulla gli aveva corrisposto.
F. sceglieva la contumacia essendogli stato notificato l’atto a mezzo posta in data 21.4.2008 per l’udienza del 26.6.2008.
Il resistente costituito contestava la domanda sotto tutti i profili con articolata ed argomentata difesa. Deduceva in primo luogo la improponibilità della domanda ex art. 148 cod. ass. in quanto con la richiesta di risarcimento inoltrata 18 giorni dopo il sinistro non era stata allegata alcuna documentazione sanitaria. Contestava comunque in via generale il fatto che i documenti prodotti erano solo in copia e non già in originale.
Nel merito della domanda deduceva che dal rapporto dei C.C. emergeva che entrambe le moto procedevano in prossimità della linea di mezzeria sicchè andava riconosciuta una pari corresponsabilità nella causazione del sinistro stradale. Contestava poi i danni nella misura richiesta, sia quelli alla moto sia quelli alla persona, e deduceva in particolare che il licenziamento era stato dovuto ad una cattiva interpretazione del contratto di lavoro e non già per la durata della malattia che era terminata dopo 150 giorni. Contestava le altre voci di danno non patrimoniale richieste in quanto duplicatorie o eccessive.
In via gradata svolgeva domanda di “regresso” nei confronti del F. non assicurato ex artt. 29 legge n. 990\69 e 292 cod. ass.
L’atto contenente il regresso veniva notificato al F. a mani proprie a mezzo del servizio postale in data 9.7.2008.
All’esito dell’istruttoria espletata secondo il rito lavoro ex art. 3 della legge n. 102\06 la causa viene ora all’esame di questo giudice investito della sola fase decisoria della presente causa nel 2010 stante la sostituzione rispetto all’originario giudice assegnatario della causa.
MOTIVI
1.1. La domanda va dichiarata improponibile.
1.1.2. E’ noto che la nuova normativa sopra citata ha fortemente innovato rispetto a quanto disposto dall’art. 22 legge n. 990\69 rafforzando i rispettivi oneri di correttezza e buona fede da parte sia del danneggiato sia dell’ente assicuratore la responsabilità civile obbligatoria auto procedimentalizzando la fase del contatto stragiudiziale in vista dell’auspicato raggiungimento di un accordo tra le parti che eviti il ricorso all’autorità giudiziaria. L’art. 148 cod. assicurazioni richiede al danneggiato di fornire all’assicuratore tutta una serie di dati e di informazioni a pena di “improponibilità” della domanda giudiziale. Improponibilità posta a presidio della migliore e corretta gestione da parte degli enti assicuratori della gran massa di sinistri ma funzionale anche al raggiungimento dell’interesse pubblico a che non vengano instaurati processi civili che le parti, comportandosi con lealtà e correttezza nella fase stragiudiziale, ben potrebbero evitare; ed il contrappeso alla improponibilità sta nella possibilità per il giudice di inviare copia della sentenza all’ISVAP nel caso in cui ravvisi che l’assicuratore nella fase stragiudiziale abbia tenuto un comportamento meramente dilatorio\ostruzionistico (comma decimo dell’art. 148).
L’interpretazione della portata innovativa dei dati richiesti a pena di “improponibilità” se da un lato deve essere compiuta in senso costituzionalmente orientato allo scopo di evitare che omissioni o incompletezze meramente formali o di mero dettaglio conducano alla violazione del diritto di agire in giudizio – art. 24 Cost. – (da più parti si sottolinea ad esempio come la sola mancata indicazione del codice fiscale non dovrebbe condurre ad un giudizio di improponibilità) dall’altro deve tener conto, in termini generali, anche del nuovo disposto dell’art. 111 Costituzione sul giusto processo e sulla sua durata ragionevole (con la correlata c.d. legge Pinto n. 57\2001 prevedente il risarcimento del danno nel caso di durata irragionevole) che se da un lato impone allo Stato ed all’apparato giurisdizionale di finalizzare ogni azione al raggiungimento dello scopo predetto anche evitando ritardi od omissioni non giustificabili dall’altro impone, come suo risvolto, una sempre maggiore responsabilizzazione delle parti in lite non solo nel corso del processo civile una volta instaurato ma anche nella decisione stessa di adire l’autorità giudiziaria (ovvero di resistere in giudizio) richiedendo – nel caso in esame nella forma della “improponibilità” della domanda, in un settore dove è noto che vengono instaurati nel nostro Paese decine di migliaia di processi civili ogni anno) – espressamente l’ordinamento di farlo solo laddove esse parti abbiano compiuto ogni leale e diligente passo per giungere ad una soluzione stragiudiziale della controversia.
E l’importanza giuridica della fase pre-processuale tra danneggiato ed ente assicurativo è stata posta in luce da Cass. Sez. 3^ con sentenza n. 11606\05 del 31 maggio, edita anche su www.giustizia.it; la Corte ha riconosciuto la rilevanza della specifica attività legale stragiudiziale svolta dall’avvocato a partire dall’inoltro della missiva all’ente assicurativo ex art. 22 legge n. 990\69 per conto del danneggiato – ora artt. 145 e 148 D.Lgs. n. 209\05 codice delle assicurazioni - in quanto da un lato trattasi di attività pre-processuale necessaria e propedeutica alla possibile successiva attività giudiziale ove non si raggiunga accordo bonario: il procedimento pre-processuale, osserva la Corte, è condizione di proponibilità della domanda giudiziale e dunque trattasi, in casi del genere, di assicurare il diritto di difesa costituzionalmente previsto dall’art. 24 Cost. in una fase anteriore al processo ma necessaria e propedeutica ad esso; dall’altro la particolare e complessa procedura di liquidazione del danno rende legittimo il ricorso ad un esperto giuridico e pertanto le spese e le attività sostenute sono rimborsabili, se richieste, anche quando la trattativa con l’ente assicurativo si conclude positivamente senza dunque sfociare in una lite giudiziaria. Soccorre ancora quanto statuito da Corte di Cassazione SS.UU. n. 26973\08 che ha riconosciuto il rimborso della spesa per assistenza stragiudiziale prestata da agenzia di infortunistica stradale.
Approfondendo vieppiù la questione giuridica dell’interpretazione della norma di cui all’art. 148 cod. assic. va rilevato, in termini generali, che la Corte di Cassazione sta sempre più valorizzando il profilo della interpretazione costituzionalmente orientata; ad esempio in occasione della sentenza a SS.UU. n. 20604 del 30.7.2008 (ove ha risolto un annoso contrasto giurisprudenziale in tema di tempestività dell’appello secondo il rito lavoro nell’ipotesi di inesistenza giuridica della notifica del ricorso e del decreto) ha colto l’occasione per statuire, in termini generali, riprendendo altre precedenti pronunce anche a Sezioni unite, che la interpretazione delle norme processuali civili deve tener conto del principio della ragionevole durata del processo fissato nell’art. 111 Cost. così come novellato nel 1999. Si riporta il seguente passo della sentenza: “Per concludere sul punto va ribadito che l'orientamento che queste Sezioni Unite intendono seguire, oltre a trovare un ulteriore conforto in una scissione degli effetti tra fase di deposito dell'atto di impugnazione (o dell'opposizione al decreto ingiuntivo) e fase di notificazione del ricorso-decreto - che ricalca, in qualche misura e con le dovute differenze stante le fattispecie a confronto, la scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il suo destinatario, correlata dal giudice delle leggi al principio di ragionevolezza ed al rispetto dei rispettivi interessi (cfr. Corte Cost. 26 novembre 2002 n. 477) - risulta obbligato, è bene ribadirlo ancora una volta, in ragione di una doverosa interpretazione "costituzionalmente orientata del dato normativo", in applicazione del dictum di queste stesse Sezioni Unite, secondo cui la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo impone all'interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo per cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo, "deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico-concettuale ma anche, e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione di detto obiettivo costituzionale" (cfr. sul punto in motivazione: Cass., Sez. Un., 28 febbraio 2007 n. 4636 cit.)”.
Ciò posto, seguendo i canoni interpretativi sopra evidenziati, può esaminarsi in fatto il caso sottoposto all’esame e va allora osservato che la missiva datata 18 aprile 2007 e ricevuta il 26.4.2007 è insufficiente rispetto ai tanti specifici elementi normativamente richiesti dall’art. 148 cod. assicurazioni; detta missiva di fatto ricalca il tipo di missiva raccomandata che veniva inviata al tempo della vigenza dell’art. 22 cit. (norma abrogata a decorrere dal 1.1.2006) e che veniva ritenuta per inveterata costante giurisprudenza di merito e di legittimità sufficiente ai fini della proponibilità della domanda giudiziale. E’ vero che essa contiene la analitica ricostruzione del sinistro in questione ed il rapporto di dell’intervento dei Carabinieri ma è anche vero che se da un lato indica le varie fratture riportate dall’infortunato dall’altro non è in grado di specificare se vi sia stata o meno guarigione oppure quali postumi permanenti siano residuati essendo il danneggiato ancora degente in ospedale alla data della richiesta medesima, così come ivi indicato; non sono allegate certificazioni mediche (tranne la indicazione del referto di P.S.) né, soprattutto, la “attestazione medica comprovante l’avvenuta guarigione con o senza postumi permanenti” così come richiesto innovativamente dalla nuova norma in esame. E del resto, così come rilevato dal convenuto, detta missiva è stata inviata a soli diciotto giorni di distanza dal sinistro stradale, quando cioè il Carrara era ancora in piena fase di cure e terapie mediche.
Le osservazioni in fatto e le argomentazioni in diritto più sopra svolte conducono inevitabilmente per la declaratoria di improponibilità della domanda giudiziale. E del resto, alla prima missiva non sono seguite altre missive di aggiornamento della situazione fattuale del danneggiato.
Va però a questo punto approfondita la questione della esatta portata della norma di cui al quinto comma dell’art. 148 cit. che fa obbligo all’ente assicuratore, nel caso di richiesta “incompleta”, di richiedere entro trenta giorni al danneggiato “le necessarie integrazioni” (ed in tal caso i termini per la proponibilità decorrono “nuovamente” dalla data della ricezione dei “dati o dei documenti integrativi”).
Ad avviso di questo Giudice la norma in questione non si applica ai casi in cui la prima richiesta del danneggiato sia generica e carente, in radice, degli elementi e dei dati indicati dal secondo comma 148; vi osta una lettura sistematica, logica e non contraddittoria dell’intero art. 148 che non potrebbe da un lato sanzionare con la improponibilità una richiesta gravemente carente e subito dopo prevedere che anche in tale ipotesi l’onere si sposta sull’assicuratore il quale dovrebbe anche in tal caso rispondere al danneggiato segnalandogli le carenze della prima missiva; di fatto si tornerebbe, inammissibilmente, alla più blanda disciplina procedimentale di cui all’art. 22 legge n. 990\69 che l’attuale legislatore ha voluto – anche in esecuzione di direttive comunitarie in materia – chiaramente superare.
In tale prospettiva la norma di cui al comma quinto va allora propriamente riferita alle ben diverse ipotesi in cui “l’incompletezza” riguarda alcuni “dati” o documenti “integrativi” specifici la cui necessità di acquisizione sorga per l’assicuratore sulla base della cornice conoscitiva già “completa” rappresentagli dal danneggiato. Ad esempio, dalla lettura di una cartella clinica emerge che il danneggiato ha effettuato un esame radiografico oppure una rnm oppure emerge che in essa si fa riferimento ad altre cartelle cliniche o ad esami diagnostici non trasmessi all’ente assicurativo (i casi possono essere i più vari); e la conoscenza di tali “dati” o “integrazioni” di tipo tecnico è utile od opportuna – secondo canoni di correttezza e buona fede - per l’assicuratore al fine dei necessari approfondimenti e valutazioni in ordine alla sussistenza, al tipo ed al grado di danno biologico risarcibile al danneggiato. In definitiva, per poter formulare consapevolmente e correttamente l’offerta di risarcimento (oppure per respingere in toto la richiesta).
1.1.3. Approfondendo vieppiù la questione non può non essere rilevato che la giurisprudenza di merito che va formandosi – nella misura in cui è stata reperita dal giudicante - è univocamente orientata nel ritenere l’improponibilità della domanda in casi similari. In tal senso, con argomentazioni in positivo ovvero desumibili a contrario rispetto al caso deciso v. Tribunale Nola 4.12.2007 nonché Tribunale Torino 17.10.2007 (sentenze reperite sui siti www.altalex.it e www.lexform.it) ed ancora Tribunale Torino 9.4.2008 n. 2640 – giudice Salvetti e Tribunale Nola 10.1.2008 – giudice Scermino (reperite sui siti www.personaedanno.it e www.iussit.eu).
In dette sentenze si parla in relazione al disposto di cui all’art. 148 cod. assicur. di “atto specifico di messa in mora” ovvero di “atto formale tipico contemplato dall’ordinamento quale condizione di proponibilità della domanda e che in quanto tale si sottrae alla disciplina dell’art. 156 comma 2 e 3 c.p.c. riguardante i soli atti processuali”; si esclude la sanzione della improponibilità sia pure in presenza di una richiesta incompleta qualora l’ente assicurativo abbia comunque comunicato “i motivi per cui non ritiene di formulare offerta” (con ciò manifestando di ritenere conclusa la fase procedimentale in questione, ad esempio comunicando che il proprio assicurato è esente da qualsivoglia colpa nella causazione del sinistro stradale sicchè è inutile approfondire qualunque aspetto relativo alla esistenza ed alla entità del danno patrimoniale e non patrimoniale richiesto); al contrario, si ritiene improponibile la domanda contro il FGVS per sinistro causato da veicolo rimasto sconosciuto nell’ipotesi in cui la lettera raccomandata non sia stata inviata ad uno soltanto dei due soggetti indicati dall’art. 283 comma 1 lett. a), b) e d) codice assicurazioni (impresa territorialmente designata e Consap).
1.1.4. Per completezza di indagine giuridica va rilevato che il ricorrente, in ipotesi, avrebbe potuto prospettare l’applicazione del disposto di cui all’art. 412 bis c.p.c. secondo cui il processo rito lavoro – reso applicabile dalla legge n. 102\06 ai sinistri stradali con lesioni o morte (abrogato peraltro a far data dal 4.7.2009) – va sospeso nel caso in cui non sia stato promosso il tentativo di conciliazione ordinando nel contempo detto esperimento con onere di riassunzione all’esito dello stesso.
L’argomentazione sarebbe suggestiva ma non fondata. Ed invero è noto nella cultura giuridica che: a) in modo del tutto prevalente si ritiene in dottrina ed anche in giurisprudenza che il riferimento fatto dalla legge del 2006 al “rito lavoro” per i sinistri stradali con lesioni o morte non riguarda tutte le norme previste dal Capo I Titolo IV del c.p.c. ma solo quelle concernenti strettamente il “processo” da seguire; b) la conciliazione in tema di lavoro è indicata dalla legge processuale art. 412 bis c.p.c. come condizione di “procedibilità” della domanda e non già come condizione di “proponibilità”; è palese che i due istituti processuali in esame sono diversi; c) l’ “applicazione analogica” invocata è in ogni caso inammissibile in quanto la normativa di cui al codice delle assicurazioni del 2005 è all’evidenza specifica in relazione alla particolare materia regolata ed espressamente è stata qualificata come a pena di “improponibilità della domanda” sicchè non vi è spazio giuridico, in radice, per ipotizzare una “medesima finalità” che faccia da ponte tra la normativa processuale tipicamente dettata per il lavoro subordinato e la normativa – specifica e diversa – tipicamente dettata per consentire l’instaurazione dell’azione di risarcimento danni da sinistro stradale (analogamente avviene in materia agraria laddove l’art. 46 della legge n. 203\2002 richiede il preventivo esperimento del tentativo di conciliazione presso l’ispettorato agrario). Anche Tribunale di Torino 2007 più sopra citato ha escluso detta applicazione analogica.
Da ultimo va osservato, per completezza conoscitiva e ricognitiva, che tutta l’attività istruttoria espletata nel presente processo (testi, CTU) ben potrà essere utilizzata, in mancanza di futuro accordo conciliativo stragiudiziale, in un futuro processo civile, potendo integrare la fattispecie delle c.d. “prove atipiche” enucleata da tempo dalla dottrina giusprocessualistica e dalla migliore giurisprudenza di merito e di legittimità.
2. Le spese di lite possono essere compensate per giusti motivi di equità in ragione della novità delle questioni giuridiche trattate rispetto al tempo della proposizione della domanda giudiziale e dell’assenza, ad oggi, sul punto di definitive statuizioni da parte della Corte di Cassazione.
P.Q.M.
il TRIBUNALE di ROMA, definitivamente pronunciando in primo grado, così provvede:
dichiara improponibile la domanda svolta da c. G. nei confronti di F. G. e della soc. ASSITALIA assicurazioni quale impresa designata per il Fondo Garanzia Vittime della Strada. Dichiara compensate le spese di lite e pone a definitivo carico del ricorrente l’esborso della CTU medico-legale già liquidata con decreto esecutivo nella fase istruttoria.
Dispositivo e motivazione letti all’udienza del 15 luglio 2010.
Il Giudice
dott. cons. Francesco Ranieri
Libero Professionista, esercente la professione forense nel Foro di Brindisi, distretto Corte d'Appello di Lecce (Italy)- già Magistrato, abilitato innanzi alle Giurisdizioni Superiori (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale)
sabato 30 ottobre 2010
giovedì 14 ottobre 2010
Reddito in nero, capacità economica desumibile dalla spesa
CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE VI PENALE Sentenza 9 aprile - 23 settembre 2010, n. 34336
"la capacità economica dell’obbligato che, all’epoca dei fatti, svolgeva regolare attività lavorativa retribuita ed aveva inoltre contratto un mutuo per l’acquisto di un immobile, circostanza questa sintomatica di tale capacità, poteva verosimilmente provenire anche da altre fonti di reddito in nero”
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 9 aprile - 23 settembre 2010, n. 34336
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1 - Il Tribunale di Firenze, con sentenza 23/5/2007, dichiarava B.A. colpevole del reato di cui all'art. 570 c.p., comma 1 - 2, n. 2 - per essere venuto meno ai suoi obblighi di assistenza morale verso i figli minori F. e A. e per avere fatto mancare a costoro e alla moglie separata, S.A., i mezzi di sussistenza dal **** - e lo condannava alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 900,00 di multa, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
2 - A seguito di gravame dell'imputato, la Corte d'Appello di Firenze, con sentenza 23/6/2009, riformando in parte la decisione di primo grado, che confermava nel resto, concedeva all'imputato i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione.
Riteneva il Giudice distrettuale che la prova a carico dell'imputato era integrata dalle precise e attendibili testimonianze della S. e dei suoi parenti (S.E., S. P. e R.S.), non smentite da quelle a discarico:
nel lungo periodo oggetto di contestazione, il B. non aveva assicurato alla moglie separata e ai figli minori a questa affidati i mezzi economici necessari per fronteggiare le primarie esigenze di vita, essendosi limitato solo a sporadici versamenti di somme modeste di denaro, tanto che la moglie aveva dovuto fare ricorso all'aiuto dei propri genitori; non erano emersi elementi per dubitare della capacità reddituale dell'obbligato, che, pur godendo formalmente di uno stipendio mensile d'importo contenuto, certamente aveva potuto fare affidamento su altre fonti di reddito in nero, tanto da avere contratto un mutuo per l'acquisto di un immobile.
3 - Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l'imputato, deducendo la violazione della legge penale, con riferimento all'art. 570 c.p., la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione sotto più aspetti: a) non erano state trattate le tematiche relative allo stato di bisogno degli aventi diritto e alla capacità di adempiere dell'obbligato; b) contraddittoriamente, per un verso, si era affermato che l'imputato certamente aveva versato periodicamente, in adempimento del proprio obbligo, denaro contante alla moglie e, per altro verso, si era allegata attendibilità al racconto di costei; c) si era ritenuto, in modo del tutto congetturale, che l'imputato disponeva, al di là del modesto stipendio, anche di altre fonti di reddito; d) in ogni caso, anche a volere ritenere il mancato versamento dell'assegno mensile nella misura fissata in sede di separazione dei coniugi, ciò non integrava automaticamente il reato di cui all'art. 570 c.p., ma un mero inadempimento civile.
4 - La difesa della parte civile ha depositato in data 7/4/2010 memoria con la quale ha sollecitato l'inammissibilità o il rigetto del ricorso.
5 – il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.
La sentenza impugnata, che si integra con quella di primo grado, fa buon governo della legge penale, riposa su un apparato argomentativo che da conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene e resiste alle censure mossele.
Preliminarmente, devesi rilevare che il ricorrente non censura la sentenza di merito nella parte in cui gli addebita la violazione degli obblighi di assistenza familiare anche sotto il profilo del totale disinteresse per la salute e per l'educazione dei figli, con i quali non aveva avuto alcun rapporto significativo per lunghi periodi di tempo, durante i quali si era reso irreperibile.
Le doglianze del ricorrente hanno ad oggetto soltanto l'addebito di avere fatto mancare alla moglie separata e ai figli minori i necessari mezzi di sussistenza.
Tale ipotesi di reato, prevista dall'art. 570 c.p., comma 2, n. 2 pacificamene si realizza solo nel caso in cui sussistano, da una parte, lo stato di bisogno degli aventi diritto a un adeguato contributo economico per soddisfare le primarie esigenze di vita e, dall'altra, la concreta capacità economica dell'obbligato a versare tale contributo. Quanto al primo presupposto, la Corte territoriale ne accerta implicitamente la sussistenza, evidenziando in punto di fatto, sulla base delle emergenze istruttorie acquisite, che S.A. era stata costretta a fare ricorso all'aiuto economico dei propri genitori, per fronteggiare le primarie esigenze di vita del nucleo familiare affidato alla sua responsabilità, al di là della considerazione che lo stato di bisogno dei figli minori, in quanto privi di capacità lavorativa o di una qualche rendita di posizione, non è oggettivamente contestabile. L'intervento surrogatorio di terzi non esclude lo stato di bisogno degli aventi diritto ai mezzi di sussistenza e, quindi, la configurabilità del reato in esame, a nulla rilevando l'eventuale convincimento contrario del soggetto inadempiente di non essere tenuto, in tale situazione, all'assolvimento del suo primario dovere, traducendosi lo stesso convincimento in errore sulla legge penale, non determinato da ignoranza scusabile (art. 5 c.p.) di una norma, che corrisponde - tra l'altro - ad un'esigenza morale universalmente avvertita.
Anche il secondo presupposto è ritenuto sussistente dalla Corte di merito, che, con motivazione immune da vizi logici, sottolinea la capacità economica dell'obbligato, che - all'epoca dei fatti - svolgeva regolare attività lavorativa retribuita ed aveva, inoltre, contratto un mutuo per l'acquisto di un immobile, circostanza quest'ultima sintomatica di tale capacita, riveniente verosimilmente anche da altre fonti di reddito in nero.
Il percorso argomentativo seguito dalla sentenza impugnata, nella sua lucida articolazione, non evidenzia, come si sostiene in ricorso, passaggi di manifesta illogicità: i giudici di merito sostanzialmente, pur dando atto che l'imputato aveva effettuato alcuni versamenti di denaro in favore della moglie, peraltro da costei mai contestati, ritengono tali versamenti assolutamente inidonei, per la loro sporadicità e per la loro modesta entità, ad assicurare agli aventi diritto i mezzi di sussistenza, conclusione questa che da ragione, altresì, della infondatezza della tesi, pure prospettata dal ricorrente, del mero inadempimento di natura civile.
6 - Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione in favore della parte civile, S.A., delle spese sostenute in questo grado e liquidate nella misura in dispositivo indicata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e a rifondere alla parte civile S.A. le spese del grado, che liquida in Euro 2.500,00 oltre spese generali, iva e cpa.
"la capacità economica dell’obbligato che, all’epoca dei fatti, svolgeva regolare attività lavorativa retribuita ed aveva inoltre contratto un mutuo per l’acquisto di un immobile, circostanza questa sintomatica di tale capacità, poteva verosimilmente provenire anche da altre fonti di reddito in nero”
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 9 aprile - 23 settembre 2010, n. 34336
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1 - Il Tribunale di Firenze, con sentenza 23/5/2007, dichiarava B.A. colpevole del reato di cui all'art. 570 c.p., comma 1 - 2, n. 2 - per essere venuto meno ai suoi obblighi di assistenza morale verso i figli minori F. e A. e per avere fatto mancare a costoro e alla moglie separata, S.A., i mezzi di sussistenza dal **** - e lo condannava alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 900,00 di multa, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
2 - A seguito di gravame dell'imputato, la Corte d'Appello di Firenze, con sentenza 23/6/2009, riformando in parte la decisione di primo grado, che confermava nel resto, concedeva all'imputato i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione.
Riteneva il Giudice distrettuale che la prova a carico dell'imputato era integrata dalle precise e attendibili testimonianze della S. e dei suoi parenti (S.E., S. P. e R.S.), non smentite da quelle a discarico:
nel lungo periodo oggetto di contestazione, il B. non aveva assicurato alla moglie separata e ai figli minori a questa affidati i mezzi economici necessari per fronteggiare le primarie esigenze di vita, essendosi limitato solo a sporadici versamenti di somme modeste di denaro, tanto che la moglie aveva dovuto fare ricorso all'aiuto dei propri genitori; non erano emersi elementi per dubitare della capacità reddituale dell'obbligato, che, pur godendo formalmente di uno stipendio mensile d'importo contenuto, certamente aveva potuto fare affidamento su altre fonti di reddito in nero, tanto da avere contratto un mutuo per l'acquisto di un immobile.
3 - Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l'imputato, deducendo la violazione della legge penale, con riferimento all'art. 570 c.p., la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione sotto più aspetti: a) non erano state trattate le tematiche relative allo stato di bisogno degli aventi diritto e alla capacità di adempiere dell'obbligato; b) contraddittoriamente, per un verso, si era affermato che l'imputato certamente aveva versato periodicamente, in adempimento del proprio obbligo, denaro contante alla moglie e, per altro verso, si era allegata attendibilità al racconto di costei; c) si era ritenuto, in modo del tutto congetturale, che l'imputato disponeva, al di là del modesto stipendio, anche di altre fonti di reddito; d) in ogni caso, anche a volere ritenere il mancato versamento dell'assegno mensile nella misura fissata in sede di separazione dei coniugi, ciò non integrava automaticamente il reato di cui all'art. 570 c.p., ma un mero inadempimento civile.
4 - La difesa della parte civile ha depositato in data 7/4/2010 memoria con la quale ha sollecitato l'inammissibilità o il rigetto del ricorso.
5 – il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.
La sentenza impugnata, che si integra con quella di primo grado, fa buon governo della legge penale, riposa su un apparato argomentativo che da conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene e resiste alle censure mossele.
Preliminarmente, devesi rilevare che il ricorrente non censura la sentenza di merito nella parte in cui gli addebita la violazione degli obblighi di assistenza familiare anche sotto il profilo del totale disinteresse per la salute e per l'educazione dei figli, con i quali non aveva avuto alcun rapporto significativo per lunghi periodi di tempo, durante i quali si era reso irreperibile.
Le doglianze del ricorrente hanno ad oggetto soltanto l'addebito di avere fatto mancare alla moglie separata e ai figli minori i necessari mezzi di sussistenza.
Tale ipotesi di reato, prevista dall'art. 570 c.p., comma 2, n. 2 pacificamene si realizza solo nel caso in cui sussistano, da una parte, lo stato di bisogno degli aventi diritto a un adeguato contributo economico per soddisfare le primarie esigenze di vita e, dall'altra, la concreta capacità economica dell'obbligato a versare tale contributo. Quanto al primo presupposto, la Corte territoriale ne accerta implicitamente la sussistenza, evidenziando in punto di fatto, sulla base delle emergenze istruttorie acquisite, che S.A. era stata costretta a fare ricorso all'aiuto economico dei propri genitori, per fronteggiare le primarie esigenze di vita del nucleo familiare affidato alla sua responsabilità, al di là della considerazione che lo stato di bisogno dei figli minori, in quanto privi di capacità lavorativa o di una qualche rendita di posizione, non è oggettivamente contestabile. L'intervento surrogatorio di terzi non esclude lo stato di bisogno degli aventi diritto ai mezzi di sussistenza e, quindi, la configurabilità del reato in esame, a nulla rilevando l'eventuale convincimento contrario del soggetto inadempiente di non essere tenuto, in tale situazione, all'assolvimento del suo primario dovere, traducendosi lo stesso convincimento in errore sulla legge penale, non determinato da ignoranza scusabile (art. 5 c.p.) di una norma, che corrisponde - tra l'altro - ad un'esigenza morale universalmente avvertita.
Anche il secondo presupposto è ritenuto sussistente dalla Corte di merito, che, con motivazione immune da vizi logici, sottolinea la capacità economica dell'obbligato, che - all'epoca dei fatti - svolgeva regolare attività lavorativa retribuita ed aveva, inoltre, contratto un mutuo per l'acquisto di un immobile, circostanza quest'ultima sintomatica di tale capacita, riveniente verosimilmente anche da altre fonti di reddito in nero.
Il percorso argomentativo seguito dalla sentenza impugnata, nella sua lucida articolazione, non evidenzia, come si sostiene in ricorso, passaggi di manifesta illogicità: i giudici di merito sostanzialmente, pur dando atto che l'imputato aveva effettuato alcuni versamenti di denaro in favore della moglie, peraltro da costei mai contestati, ritengono tali versamenti assolutamente inidonei, per la loro sporadicità e per la loro modesta entità, ad assicurare agli aventi diritto i mezzi di sussistenza, conclusione questa che da ragione, altresì, della infondatezza della tesi, pure prospettata dal ricorrente, del mero inadempimento di natura civile.
6 - Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione in favore della parte civile, S.A., delle spese sostenute in questo grado e liquidate nella misura in dispositivo indicata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e a rifondere alla parte civile S.A. le spese del grado, che liquida in Euro 2.500,00 oltre spese generali, iva e cpa.
mercoledì 13 ottobre 2010
Avvocato, procura alle liti inesistente, può essere condannato alle spese del giudizio
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA 6 aprile-10 maggio 2006, n. 10706
" è da considerare il principio per cui, in materia di disciplina delle spese processuali, nel caso di azione o impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (sulla base dunque di una procura inesistente o, ad esempio, falsa, o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quello cui l’atto è speso), l’attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio"
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA 6 aprile-10 maggio 2006, n. 10706
(Presidente Carbone – Relatore Morelli)
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 30 marzo 1999, l’Avv. L. - agendo in forza di procura rilasciata nella comparsa di risposta del giudizio di primo grado e ricomprendente la facoltà di proporre appello – proponeva, in nome e per conto di Gaetano Z., appello avverso la sentenza 84/1998 del Tribunale di Pordenone, nei confronti di C. Srl, Impresa Edile D. e Condominio L.. Nel periodo compreso tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione dell’appello lo Z. decedeva.
La Corte d’appello di Trieste - ritenendo non operante la ultrattività della procura su eccezione degli appellati - dichiarava inammissibile l’appello, per essere stato proposto da difensore privo di idonea procura, e condannava il difensore alle spese del giudizio.
Avverso la suddetta sentenza l’avvocato L. propone ricorso per cassazione limitatamente al capo della condanna alle spese, con tre motivi intimamente connessi.
Resistono con controricorso l’Impresa Edile D. che eccepisce l’inammissibilità del ricorso per cassazione per mancanza di procura speciale allo stesso, sussistendo solo a margine della prima facciata la “delega”, senza espresso riferimento al giudizio di cassazione, conferita nella stessa data del ricorso, con conseguente incertezza sulla circostanza se sia stata conferita prima o dopo la sottoscrizione del ricorso - e il Condominio L..
Con ordinanza interlocutoria della Sezione prima, la causa è stata rimessa a queste Sezioni unite relativamente al rilevato contrasto di giurisprudenza sul punto delle conseguenze derivanti dalla mancanza di procura ad litem del difensore che abbia comunque svolto attività in giudizio, per il profilo in particolare della riferibilità, o meno, allo stesso della condanna al pagamento delle spese di lite correlative.
In ordine alla quale questione, tutte le parti hanno anche depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. È pregiudiziale l’esame della eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla Impresa D..
Eccezione, questa, che è manifestamente, però, infondata alla luce della consolidata esegesi giurisprudenziale per cui la stessa collocazione topografica - a margine, come nella specie, del ricorso p r cassazione, del quale costituisce, cosi, parte integrante - oggettivamente realizza e concreta il requisito di specificità della procura, anche in carenza, nella stessa, di testuali riferimenti al giudizio di legittimità (cfr. 5168, 26233, 28227/05, per tutte).
Dal che l’insussistenza, appunto, del preteso profilo di invalidità del mandato difensivo, dal quale la resistente vanamente pretende di desumere l’inammissibilità della odierna impugnazione.
2. È logicamente ancora preliminare, all’esame della questione oggetto di contrasto, sulla ammissibilità o meno di una condanna del difensore alle spese di lite ex articolo 91, 92 Cpc, la soluzione del quesito, negativamente risolto in premessa dalla Corte di merito, in ordine alla eventuale ultrattività del mandato comprendente il potere di impugnazione, rilasciato dalla parte poi defunta, come in questo caso, nel periodo compreso tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione del gravame.
Evidente essendo che, ove in ipotesi ammessa una tale ultrattività, verrebbe meno la statuizione di inammissibilità dell’appello (per difetto appunto di procura), in correlazione alla quale si pone il problema di individuazione del soggetto soccombente agli effetti del regolamento i elle spese.
Sul punto va condivisa, comunque, la soluzione adottata dalla Corte triestina.
La quale risulta in linea con l’indirizzo di recente espresso da queste Sezioni unite, con sentenza 15783/05, per cui, in assenza di specifica regolamentazione del mandato ad litem, deve trovare applicazione, anche con riguardo allo stesso, la normativa codicistica sulla rappresentanza e sul mandato, avente carattere generale rispetto a quella processualistica, e quindi - per quel che qui interessa - i1 principio dettato dall’articolo 1722 n. 4, secondo il quale la morte del mandante estingue il mandato. Con la conseguenza che la regola dettata dall’articolo 300, commi 1 e 2, Cpc, che attribuisce al procuratore la facoltà di continuare a rappresentare in giudizio la parte che gli abbia conferito il mandato ancorchè defunta dopo la costituzione in giudizio - come pure la regola, di cui all’ultimo comma della stessa norma, che cristallizza il giudizio tra le parti originarie in caso di morte di una di queste verificatasi dopo la chiusura della discussione davanti al Collegio - in quanto costituiscono deroga al su riferito principio generale, vanno contenute entro Il rigoroso ambito, ivi previsto, della fase processuale, appunto, in cui l’evento si è verificato, e pon possono dunque espandersi nella successiva fase di quiescenza e di riattivazione del rapporto processuale.
3. Rimanendo cosi ferma la statuizione di inammissibilità dell’appello dello Z. per difetto di procura, viene ora appunto in rilievo la statuizione conseguenziale di condanna alle spese del gravame, quale adottata dalla Corte triestina nei confronti dell’avv. L. - sul rilievo che il rapporto processuale si sarebbe “instaurato direttamente fra tale procuratore” (appellante senza mandato) e le controparti - e quale qui ora censurata dal L. con denuncia di plurime violazioni di legge (articoli 83, 91, 92 Cpc; 1218, 2043 Cc; 110 Cpc) e vizi di motivazione.
4. Come esattamente rilevato con la su riferita ordinanza interlocutoria, 5447/05, della Sezione prima, sulla questione sottesa agli odierni motivi impugnatori i precedenti di questa Corte di legittimità effettivamente evidenziano un palese contrasto giurisprudenziale, in quanto secondo un primo indirizzo giurisprudenziale (invocato dal ricorrente) l’avvocato non potrebbe mai assumere la qualità di parte del processo e non potrebbe di conseguenza essere destinatario, in base agli articoli 91 e 92 Cpc, di una pronunzia sulle spese; mentre, secondo altro opposto orientamento (cui si è evidentemente uniformata la sentenza impugnata) ciò sarebbe, invece, possibile, per essere il difensore che ha agito senza valido mandato l’unico contraddittore, nel processo, delle controparti da lui, in questo, evocate.
4.1. In particolare, con le sentenza 3510/1969, 11689/00 e 13898/03 si è, rispettivamente, affermato che:
a) ritenuta l’invalidità della procura ad litem nel rapporto tra parte e procuratore, il giudice deve ritenere non costituita la parte con gli effetti della contumacia o della improcedibilità dell’appello ex articoli 171, 291, 347 e 348 Cpc, ma «non può derivare l’inverosimile finto effetto di dover considerare parte il procuratore munito del mandato invalido» né tanto meno giustificare la condanna dello stesso in proprio alle spese del giudizio, non potendo in alcun modo riferirsi a lui il concetto di soccombenza;
h) poiché, ai sensi dell’articolo 82, comma 3 Cpc le parti (salvo che nel giudizi innanzi al Giudice di Pace) devono stare in giudizio con il ministero di un avvocato regolarmente esercente (condizione questa che si realizza quando il difensore è munito di valida procura), la mancanza di procura ad litem (situazione che comprende sia l’ipotesi della procura invalida, sia l’ipotesi della mancanza di prova che una procura sia stata rilasciata) produce la nullità dell’attività processuale compiuta, da considerare tuttavia pur sempre quale attività posta in essere da una parte (costituita in giudizio senza il ministero del difensore) e le relative sanzioni processuali, quali la nullità o l’inammissibilità dell’impugnazione e cosi via, sono conseguenti alla mancanza dell’atto che assicura alla parte il necessario patrocinio del difensore tecnico e non sono certamente previste per il fatto che, fuori dalle ipotesi consentite dalla legge, sia stato fatto valere nel processo un diritto altrui in nome proprio. Si aggiunge che è principio generale dell’ordinamento quello secondo ‘cui non può mai assumere la qualità di parte di un atto il soggetto che agisce nella veste di rappresentante pur non avendone i poteri. Pertanto, in base agli articoli 91 e 92 Cpc, il de5tinatario della pronuncia sulle spese, nell’ipotesi considerata, non può essere l’avvocato che, appunto, non assume la qualità di parte del processo;
c) in tema di condanna alle spese processuali, premesso che, ai sensi dell’articolo 91 Cpc, la stessa va pronunciata nei confronti della parte soccombente, deve ritenersi consentita la condanna alle spese nel confronti di chi ha agito quale rappresentante processuale di un altro soggetto senza essere investito del relativo potere, in base al principio per cui un soggetto che agisce in giudizio quale rappresentante di un terzo, pur non essendogli stati conferiti i relativi poteri, assume la qualità di parte, ai fini della pronunzia sulle spese; viceversa, non è possibile la condanna dei suoi difensori, che non hanno assunto, né potevano assumere, veste di parte.
4.2. Con argomentazione a contrario, rispetto a quelle svolte nelle su riferite pronunzie, le sentenze 1780/94, 4462/95; 5955/96, 9561/97 pervengono, invece, alla opposta conclusione che, nella ipotesi considerata, di difetto di valida procura alle liti, parte del giudizio non possa essere altri che il difensore che l’ha instaurato, poiché - in ragione appunto di una siffatta carenza del mandato difensivo,
«l’attività processuale del difensore non può spiegare effetti nella sfera giuridica, della parte, essendo l’atto di conferimento della cosiddetta rappresentanza tecnica - o di designazione del difensore elemento indispensabile della fattispecie legale in forza della quale l’esercizio dello ius postulandi da parte del legale diviene attività della parte» (Così testualmente 1780/94).
Conclusione, questa, in prosieguo ribadita anche nella forma più limitata della attribuibilità di una qualità di parte al difensore (solo) con specifico e circoscritto riferimento alla “questione pregiudiziale relativa alla presenza - validità della procura”. Nel senso che, nella ipotesi in esame, «il giudice si trova di fronte ad una questione, rilevabile di ufficio, di natura pregiudiziale (idonea a definire il giudizio) che consiste nel vedere se è vero che l’avvocato è munito di procura speciale per il giudizio di cassazione; se si accerta che ciò non è vero, è evidente che a soccombere sulla questione pregiudiziale, che è l’unica questione in base alla quale sarà definito il procedimento (con la declaratoria di inammissibilità del ricorso) è proprio e soltanto l’avvocato che ha sottoscritto e fatto notificare il ricorso ...» (Così 5955/96; 9561/97).
4.3. In due pronunzie del 2003, è stata, per altro, anche prospettata una soluzione intermedia, ammettendosi la condanna alle spese del difensore in caso di inesistenza e non anche in ipotesi di invalidità della procura (sentenze 1115 e 6521). E ciò nella condivisione della tesi, affermata in dottrina, secondo la quale «l’attività processuale svolta sulla base di una procura nulla sia provvisoriamente efficace e perciò riconducibile alla parte sino a quando la nullità non venga dichiarata, dato che in virtù della procura si è comunque instaurato un rapporto processuale con il getto che la procura ha conferito».
5. Ritiene ora questo Collegio che proprio da detto ultimo indirizzo possa utilmente muoversi per risolvere il quesito oggetto di contrasto, ancorandosi, per altro, più propriamente il discrimine tra le due situazioni, non identicamente rilevanti ai fini della statuizione sulle spese, alla circostanza che sia stata, o non, conferita al difensore, che dichiari di agire in rappresentanza di un dato soggetto, procura da parte del medesimo per il processo o la fase del processo cui quell’atto si riferisce.
5.1. Ove manchi, infatti, un siffatto conferimento (come nel caso, ad esempio, di procura inesistente, di una procura falsa, ovvero rilasciata da soggetto diverso da quello che il difensore dichiari di rappresentare o per giudizio, o fase di giudizio, diversa da quelli in cui la rappresentanza è spesa) deve escludersi, in primo luogo, che il processo cosi instaurato possa considerarsi, per ciò stesso, tamquam non esset.
Se cosi fosse neppure sorgerebbe, infatti, nel giudice obbligo alcuno di provvedere, mentre vero è viceversa il contrario, poiché sia pur su iniziativa del falsus procurator un processo è stato comunque attivato, e nei confronti della controparte o delle controparti cosi in esso evocate, il giudice è tenuto a decidere, adottando le statuizioni conseguenziali, appunto, al difetto di procura dell’agente.
E, per altro, deve anche escludersi che, ai suddetti effetti, l’instaurazione del giudizio possa imputarsi al soggetto che non abbia conferito apposito mandato al difensore che abbia, ciò non ostante, dichiarato di rappresentarlo.
Come esattamente, infatti, puntualizzato dalla citata sentenza 1780/94, allorchè manchi la procura, l’attività processuale del difensore non può spiegare effetti nella sfera giuridica della parte, essendo l’atto di conferimento della c.d. rappresentanza tecnica elemento indispensabile della fattispecie legale in forza della quale l’esercizio dello ius postulandi da parte del legale diviene attività della parte.
Con la conseguenza che l’attività del difensore senza procurar se non può riverberare alcun effetto sulla parte, resta attività processuale di cui egli solo assume la responsabilità anche in ordine alle spese.
A tal riguardo, esattamente è stato, ben vero, osservato che quando il difensore agisce in giudizio, e
il fatto stesso che agisce, anche se dichiara di per farlo in nome altrui, il rapporto processuale si costituisce, per intanto in capo a lui ed egli ne diventa (per tal profilo e per tal momento) automaticamente parte, salvo a determinare in seguito quale sia la effettiva realtà del potere di rappresentanza e del diritto sostanziale della parte rappresentata.
Per cui può ben dirsi che, attraverso la domanda sottoscritta dal difensore, prima ancora di quel diritto, viene coinvolta nel giudizio la stessa questione di rappresentanza.
Il che equivale a dire che, nell’ipotesi considerata, il giudice si trova di fronte ad una questione rilevabile di ufficio di natura pregiudiziale (idonea cioè a definirlo) che consiste nel verificare se è vero che l’avvocato è munito di procura, per quel giudizio, come egli afferma nella parte introduttiva dell’atto di impulso processuale e come la legge, del resto, gli impone (articolo 83 Cpc).
Con la conseguenza, appunto, che se si accerta che ciò non è v o, è evidente che a soccombere sulla questione pregiudiziale,, che è l’unica questione in base alla quale sarà definito U procedimento (con la declaratoria di correlativa inammissibilità) è proprio e soltanto l’avvocato che ha sottoscritto e fatto notificare l’atto introduttivo del giudizio - e che, nei confronti del giudice e delle controparti, afferma di essere munito di procura -; e non certo il soggetto da lui nominato (che, se non ha conferito la procura, nulla può avere affermato in proposito).
5.2. Diversamente, ove una procura alla lite sia stata di fatto conferita al difensore dalla parte in nome della quale egli dichiari di agire e tale procura risulti per qualche ragione invalida o non più efficace (come nel caso appunto, di cui retro sub n. 2, di mandato rilasciato anche per l’eventuale appello, con l’atto introduttivo del giudizio, da soggetto non più però in vita alla data di proposizione del gravame da parte del difensore) è il soggetto che ha conferito la procura nulla (o, in caso di sopravvenuto suo decesso, l’erede di lui) che assume la qualità di “parte” – ai sensi degli articoli 83 ss Cpc, che riferiscono tale qualità al soggetto che ‘sta in giudizio che è quello che deve conferire al difensore la procura.
Ed è tale soggetto, appunto, e non il suo difensore, che, in tal caso, in base al principio della causalità deve (salvo compensazione) essere condannato alle spese che la controparte ha dovuto affrontare per fare
accertare il vizio di un atto indispensabile alla ritualità del rapporto processuale. Rapporto che, fino
all’accertamento della invalidità o inefficacia della procura, si è di fatto, comunque, instaurato con il soggetto che quella procura ha conferito.
6. La questione oggetto di contrasto va pertanto risolta con l’affermazione del principio per cui, in materia di disciplina delle spese processuali, nel caso di azione o impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (sulla base dunque di una procura inesistente o, ad esempio, falsa, o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quello cui l’atto è speso), l’attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio; diversamente, invece, nel caso di invalidità o sopravvenuta inefficacia della procura ad litem non è ammissibile la condanna del difensore alle spese del giudizio, in quanto l’attività processuale è provvisoriamente efficace e la procura, benché sia nulla o invalida, è tuttavia idonea a determinare l’instaurazione di un rapporto processuale con la parte rappresentata, che assume la veste di potenziale destinataria delle situazioni derivanti dal processo.
7. Nella specie, il difensore ha appellato la sentenza di primo grado non in mancanza di apposita procura ma sulla base di un mandato a suo tempo conferitogli dalla parte dichiaratamente da lui rappresentata e solo in prosieguo divenuto inefficace per la sopravvenuta morte di questa. Pertanto, alla luce dell’enunciato principio, mentre risulta corretta la statuizione di inammissibilità della impugnazione, per vizio della procura spesa con l’atto di appello, non corretta è, invece, la condanna alle spese di lite pronunciata nei diretti confronti del difensore della parte soccombente.
Dal che la fondatezza, in questi limiti, dell’odierno ricorso per cassazione.
8. La sentenza impugnata va, per questa parte, pertanto cassata, con rinvio della causa alla stessa Corte di appello, in diversa composizione, perché pronunci sulle spese attenendosi al principio di cui sopra.
9. Possono compensarsi tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione, in ragione appunto del contrasto di giurisprudenza in ordine alla questione tra le stesse dibattuta.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata nei limiti della censura accolta e rinvia la causa alla Corte di Trieste in diversa composizione. Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Roma, 6 aprile 2006.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 10 MAGGIO 2006
SENTENZA 6 aprile-10 maggio 2006, n. 10706
" è da considerare il principio per cui, in materia di disciplina delle spese processuali, nel caso di azione o impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (sulla base dunque di una procura inesistente o, ad esempio, falsa, o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quello cui l’atto è speso), l’attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio"
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA 6 aprile-10 maggio 2006, n. 10706
(Presidente Carbone – Relatore Morelli)
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 30 marzo 1999, l’Avv. L. - agendo in forza di procura rilasciata nella comparsa di risposta del giudizio di primo grado e ricomprendente la facoltà di proporre appello – proponeva, in nome e per conto di Gaetano Z., appello avverso la sentenza 84/1998 del Tribunale di Pordenone, nei confronti di C. Srl, Impresa Edile D. e Condominio L.. Nel periodo compreso tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione dell’appello lo Z. decedeva.
La Corte d’appello di Trieste - ritenendo non operante la ultrattività della procura su eccezione degli appellati - dichiarava inammissibile l’appello, per essere stato proposto da difensore privo di idonea procura, e condannava il difensore alle spese del giudizio.
Avverso la suddetta sentenza l’avvocato L. propone ricorso per cassazione limitatamente al capo della condanna alle spese, con tre motivi intimamente connessi.
Resistono con controricorso l’Impresa Edile D. che eccepisce l’inammissibilità del ricorso per cassazione per mancanza di procura speciale allo stesso, sussistendo solo a margine della prima facciata la “delega”, senza espresso riferimento al giudizio di cassazione, conferita nella stessa data del ricorso, con conseguente incertezza sulla circostanza se sia stata conferita prima o dopo la sottoscrizione del ricorso - e il Condominio L..
Con ordinanza interlocutoria della Sezione prima, la causa è stata rimessa a queste Sezioni unite relativamente al rilevato contrasto di giurisprudenza sul punto delle conseguenze derivanti dalla mancanza di procura ad litem del difensore che abbia comunque svolto attività in giudizio, per il profilo in particolare della riferibilità, o meno, allo stesso della condanna al pagamento delle spese di lite correlative.
In ordine alla quale questione, tutte le parti hanno anche depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. È pregiudiziale l’esame della eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla Impresa D..
Eccezione, questa, che è manifestamente, però, infondata alla luce della consolidata esegesi giurisprudenziale per cui la stessa collocazione topografica - a margine, come nella specie, del ricorso p r cassazione, del quale costituisce, cosi, parte integrante - oggettivamente realizza e concreta il requisito di specificità della procura, anche in carenza, nella stessa, di testuali riferimenti al giudizio di legittimità (cfr. 5168, 26233, 28227/05, per tutte).
Dal che l’insussistenza, appunto, del preteso profilo di invalidità del mandato difensivo, dal quale la resistente vanamente pretende di desumere l’inammissibilità della odierna impugnazione.
2. È logicamente ancora preliminare, all’esame della questione oggetto di contrasto, sulla ammissibilità o meno di una condanna del difensore alle spese di lite ex articolo 91, 92 Cpc, la soluzione del quesito, negativamente risolto in premessa dalla Corte di merito, in ordine alla eventuale ultrattività del mandato comprendente il potere di impugnazione, rilasciato dalla parte poi defunta, come in questo caso, nel periodo compreso tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione del gravame.
Evidente essendo che, ove in ipotesi ammessa una tale ultrattività, verrebbe meno la statuizione di inammissibilità dell’appello (per difetto appunto di procura), in correlazione alla quale si pone il problema di individuazione del soggetto soccombente agli effetti del regolamento i elle spese.
Sul punto va condivisa, comunque, la soluzione adottata dalla Corte triestina.
La quale risulta in linea con l’indirizzo di recente espresso da queste Sezioni unite, con sentenza 15783/05, per cui, in assenza di specifica regolamentazione del mandato ad litem, deve trovare applicazione, anche con riguardo allo stesso, la normativa codicistica sulla rappresentanza e sul mandato, avente carattere generale rispetto a quella processualistica, e quindi - per quel che qui interessa - i1 principio dettato dall’articolo 1722 n. 4, secondo il quale la morte del mandante estingue il mandato. Con la conseguenza che la regola dettata dall’articolo 300, commi 1 e 2, Cpc, che attribuisce al procuratore la facoltà di continuare a rappresentare in giudizio la parte che gli abbia conferito il mandato ancorchè defunta dopo la costituzione in giudizio - come pure la regola, di cui all’ultimo comma della stessa norma, che cristallizza il giudizio tra le parti originarie in caso di morte di una di queste verificatasi dopo la chiusura della discussione davanti al Collegio - in quanto costituiscono deroga al su riferito principio generale, vanno contenute entro Il rigoroso ambito, ivi previsto, della fase processuale, appunto, in cui l’evento si è verificato, e pon possono dunque espandersi nella successiva fase di quiescenza e di riattivazione del rapporto processuale.
3. Rimanendo cosi ferma la statuizione di inammissibilità dell’appello dello Z. per difetto di procura, viene ora appunto in rilievo la statuizione conseguenziale di condanna alle spese del gravame, quale adottata dalla Corte triestina nei confronti dell’avv. L. - sul rilievo che il rapporto processuale si sarebbe “instaurato direttamente fra tale procuratore” (appellante senza mandato) e le controparti - e quale qui ora censurata dal L. con denuncia di plurime violazioni di legge (articoli 83, 91, 92 Cpc; 1218, 2043 Cc; 110 Cpc) e vizi di motivazione.
4. Come esattamente rilevato con la su riferita ordinanza interlocutoria, 5447/05, della Sezione prima, sulla questione sottesa agli odierni motivi impugnatori i precedenti di questa Corte di legittimità effettivamente evidenziano un palese contrasto giurisprudenziale, in quanto secondo un primo indirizzo giurisprudenziale (invocato dal ricorrente) l’avvocato non potrebbe mai assumere la qualità di parte del processo e non potrebbe di conseguenza essere destinatario, in base agli articoli 91 e 92 Cpc, di una pronunzia sulle spese; mentre, secondo altro opposto orientamento (cui si è evidentemente uniformata la sentenza impugnata) ciò sarebbe, invece, possibile, per essere il difensore che ha agito senza valido mandato l’unico contraddittore, nel processo, delle controparti da lui, in questo, evocate.
4.1. In particolare, con le sentenza 3510/1969, 11689/00 e 13898/03 si è, rispettivamente, affermato che:
a) ritenuta l’invalidità della procura ad litem nel rapporto tra parte e procuratore, il giudice deve ritenere non costituita la parte con gli effetti della contumacia o della improcedibilità dell’appello ex articoli 171, 291, 347 e 348 Cpc, ma «non può derivare l’inverosimile finto effetto di dover considerare parte il procuratore munito del mandato invalido» né tanto meno giustificare la condanna dello stesso in proprio alle spese del giudizio, non potendo in alcun modo riferirsi a lui il concetto di soccombenza;
h) poiché, ai sensi dell’articolo 82, comma 3 Cpc le parti (salvo che nel giudizi innanzi al Giudice di Pace) devono stare in giudizio con il ministero di un avvocato regolarmente esercente (condizione questa che si realizza quando il difensore è munito di valida procura), la mancanza di procura ad litem (situazione che comprende sia l’ipotesi della procura invalida, sia l’ipotesi della mancanza di prova che una procura sia stata rilasciata) produce la nullità dell’attività processuale compiuta, da considerare tuttavia pur sempre quale attività posta in essere da una parte (costituita in giudizio senza il ministero del difensore) e le relative sanzioni processuali, quali la nullità o l’inammissibilità dell’impugnazione e cosi via, sono conseguenti alla mancanza dell’atto che assicura alla parte il necessario patrocinio del difensore tecnico e non sono certamente previste per il fatto che, fuori dalle ipotesi consentite dalla legge, sia stato fatto valere nel processo un diritto altrui in nome proprio. Si aggiunge che è principio generale dell’ordinamento quello secondo ‘cui non può mai assumere la qualità di parte di un atto il soggetto che agisce nella veste di rappresentante pur non avendone i poteri. Pertanto, in base agli articoli 91 e 92 Cpc, il de5tinatario della pronuncia sulle spese, nell’ipotesi considerata, non può essere l’avvocato che, appunto, non assume la qualità di parte del processo;
c) in tema di condanna alle spese processuali, premesso che, ai sensi dell’articolo 91 Cpc, la stessa va pronunciata nei confronti della parte soccombente, deve ritenersi consentita la condanna alle spese nel confronti di chi ha agito quale rappresentante processuale di un altro soggetto senza essere investito del relativo potere, in base al principio per cui un soggetto che agisce in giudizio quale rappresentante di un terzo, pur non essendogli stati conferiti i relativi poteri, assume la qualità di parte, ai fini della pronunzia sulle spese; viceversa, non è possibile la condanna dei suoi difensori, che non hanno assunto, né potevano assumere, veste di parte.
4.2. Con argomentazione a contrario, rispetto a quelle svolte nelle su riferite pronunzie, le sentenze 1780/94, 4462/95; 5955/96, 9561/97 pervengono, invece, alla opposta conclusione che, nella ipotesi considerata, di difetto di valida procura alle liti, parte del giudizio non possa essere altri che il difensore che l’ha instaurato, poiché - in ragione appunto di una siffatta carenza del mandato difensivo,
«l’attività processuale del difensore non può spiegare effetti nella sfera giuridica, della parte, essendo l’atto di conferimento della cosiddetta rappresentanza tecnica - o di designazione del difensore elemento indispensabile della fattispecie legale in forza della quale l’esercizio dello ius postulandi da parte del legale diviene attività della parte» (Così testualmente 1780/94).
Conclusione, questa, in prosieguo ribadita anche nella forma più limitata della attribuibilità di una qualità di parte al difensore (solo) con specifico e circoscritto riferimento alla “questione pregiudiziale relativa alla presenza - validità della procura”. Nel senso che, nella ipotesi in esame, «il giudice si trova di fronte ad una questione, rilevabile di ufficio, di natura pregiudiziale (idonea a definire il giudizio) che consiste nel vedere se è vero che l’avvocato è munito di procura speciale per il giudizio di cassazione; se si accerta che ciò non è vero, è evidente che a soccombere sulla questione pregiudiziale, che è l’unica questione in base alla quale sarà definito il procedimento (con la declaratoria di inammissibilità del ricorso) è proprio e soltanto l’avvocato che ha sottoscritto e fatto notificare il ricorso ...» (Così 5955/96; 9561/97).
4.3. In due pronunzie del 2003, è stata, per altro, anche prospettata una soluzione intermedia, ammettendosi la condanna alle spese del difensore in caso di inesistenza e non anche in ipotesi di invalidità della procura (sentenze 1115 e 6521). E ciò nella condivisione della tesi, affermata in dottrina, secondo la quale «l’attività processuale svolta sulla base di una procura nulla sia provvisoriamente efficace e perciò riconducibile alla parte sino a quando la nullità non venga dichiarata, dato che in virtù della procura si è comunque instaurato un rapporto processuale con il getto che la procura ha conferito».
5. Ritiene ora questo Collegio che proprio da detto ultimo indirizzo possa utilmente muoversi per risolvere il quesito oggetto di contrasto, ancorandosi, per altro, più propriamente il discrimine tra le due situazioni, non identicamente rilevanti ai fini della statuizione sulle spese, alla circostanza che sia stata, o non, conferita al difensore, che dichiari di agire in rappresentanza di un dato soggetto, procura da parte del medesimo per il processo o la fase del processo cui quell’atto si riferisce.
5.1. Ove manchi, infatti, un siffatto conferimento (come nel caso, ad esempio, di procura inesistente, di una procura falsa, ovvero rilasciata da soggetto diverso da quello che il difensore dichiari di rappresentare o per giudizio, o fase di giudizio, diversa da quelli in cui la rappresentanza è spesa) deve escludersi, in primo luogo, che il processo cosi instaurato possa considerarsi, per ciò stesso, tamquam non esset.
Se cosi fosse neppure sorgerebbe, infatti, nel giudice obbligo alcuno di provvedere, mentre vero è viceversa il contrario, poiché sia pur su iniziativa del falsus procurator un processo è stato comunque attivato, e nei confronti della controparte o delle controparti cosi in esso evocate, il giudice è tenuto a decidere, adottando le statuizioni conseguenziali, appunto, al difetto di procura dell’agente.
E, per altro, deve anche escludersi che, ai suddetti effetti, l’instaurazione del giudizio possa imputarsi al soggetto che non abbia conferito apposito mandato al difensore che abbia, ciò non ostante, dichiarato di rappresentarlo.
Come esattamente, infatti, puntualizzato dalla citata sentenza 1780/94, allorchè manchi la procura, l’attività processuale del difensore non può spiegare effetti nella sfera giuridica della parte, essendo l’atto di conferimento della c.d. rappresentanza tecnica elemento indispensabile della fattispecie legale in forza della quale l’esercizio dello ius postulandi da parte del legale diviene attività della parte.
Con la conseguenza che l’attività del difensore senza procurar se non può riverberare alcun effetto sulla parte, resta attività processuale di cui egli solo assume la responsabilità anche in ordine alle spese.
A tal riguardo, esattamente è stato, ben vero, osservato che quando il difensore agisce in giudizio, e
il fatto stesso che agisce, anche se dichiara di per farlo in nome altrui, il rapporto processuale si costituisce, per intanto in capo a lui ed egli ne diventa (per tal profilo e per tal momento) automaticamente parte, salvo a determinare in seguito quale sia la effettiva realtà del potere di rappresentanza e del diritto sostanziale della parte rappresentata.
Per cui può ben dirsi che, attraverso la domanda sottoscritta dal difensore, prima ancora di quel diritto, viene coinvolta nel giudizio la stessa questione di rappresentanza.
Il che equivale a dire che, nell’ipotesi considerata, il giudice si trova di fronte ad una questione rilevabile di ufficio di natura pregiudiziale (idonea cioè a definirlo) che consiste nel verificare se è vero che l’avvocato è munito di procura, per quel giudizio, come egli afferma nella parte introduttiva dell’atto di impulso processuale e come la legge, del resto, gli impone (articolo 83 Cpc).
Con la conseguenza, appunto, che se si accerta che ciò non è v o, è evidente che a soccombere sulla questione pregiudiziale,, che è l’unica questione in base alla quale sarà definito U procedimento (con la declaratoria di correlativa inammissibilità) è proprio e soltanto l’avvocato che ha sottoscritto e fatto notificare l’atto introduttivo del giudizio - e che, nei confronti del giudice e delle controparti, afferma di essere munito di procura -; e non certo il soggetto da lui nominato (che, se non ha conferito la procura, nulla può avere affermato in proposito).
5.2. Diversamente, ove una procura alla lite sia stata di fatto conferita al difensore dalla parte in nome della quale egli dichiari di agire e tale procura risulti per qualche ragione invalida o non più efficace (come nel caso appunto, di cui retro sub n. 2, di mandato rilasciato anche per l’eventuale appello, con l’atto introduttivo del giudizio, da soggetto non più però in vita alla data di proposizione del gravame da parte del difensore) è il soggetto che ha conferito la procura nulla (o, in caso di sopravvenuto suo decesso, l’erede di lui) che assume la qualità di “parte” – ai sensi degli articoli 83 ss Cpc, che riferiscono tale qualità al soggetto che ‘sta in giudizio che è quello che deve conferire al difensore la procura.
Ed è tale soggetto, appunto, e non il suo difensore, che, in tal caso, in base al principio della causalità deve (salvo compensazione) essere condannato alle spese che la controparte ha dovuto affrontare per fare
accertare il vizio di un atto indispensabile alla ritualità del rapporto processuale. Rapporto che, fino
all’accertamento della invalidità o inefficacia della procura, si è di fatto, comunque, instaurato con il soggetto che quella procura ha conferito.
6. La questione oggetto di contrasto va pertanto risolta con l’affermazione del principio per cui, in materia di disciplina delle spese processuali, nel caso di azione o impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (sulla base dunque di una procura inesistente o, ad esempio, falsa, o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quello cui l’atto è speso), l’attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio; diversamente, invece, nel caso di invalidità o sopravvenuta inefficacia della procura ad litem non è ammissibile la condanna del difensore alle spese del giudizio, in quanto l’attività processuale è provvisoriamente efficace e la procura, benché sia nulla o invalida, è tuttavia idonea a determinare l’instaurazione di un rapporto processuale con la parte rappresentata, che assume la veste di potenziale destinataria delle situazioni derivanti dal processo.
7. Nella specie, il difensore ha appellato la sentenza di primo grado non in mancanza di apposita procura ma sulla base di un mandato a suo tempo conferitogli dalla parte dichiaratamente da lui rappresentata e solo in prosieguo divenuto inefficace per la sopravvenuta morte di questa. Pertanto, alla luce dell’enunciato principio, mentre risulta corretta la statuizione di inammissibilità della impugnazione, per vizio della procura spesa con l’atto di appello, non corretta è, invece, la condanna alle spese di lite pronunciata nei diretti confronti del difensore della parte soccombente.
Dal che la fondatezza, in questi limiti, dell’odierno ricorso per cassazione.
8. La sentenza impugnata va, per questa parte, pertanto cassata, con rinvio della causa alla stessa Corte di appello, in diversa composizione, perché pronunci sulle spese attenendosi al principio di cui sopra.
9. Possono compensarsi tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione, in ragione appunto del contrasto di giurisprudenza in ordine alla questione tra le stesse dibattuta.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata nei limiti della censura accolta e rinvia la causa alla Corte di Trieste in diversa composizione. Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Roma, 6 aprile 2006.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 10 MAGGIO 2006
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